CONSIDERAZIONI A MARGINE DI “Lettura sul dramma di Macerata: lo scontro delle secolarizzazioni”_ DI MASSIMO MORIGI

 Francesco Hayez, La Meditazione, 1850, olio su tela, 90 x 70 cm, Galleria d’Arte moderna Achille Forti, Verona.
La figura femminile malinconica fu un tema caro a Francesco Hayez, che ne realizzò diverse versioni. Il tema era tradizionalmente legato alla rappresentazione delle sofferenze amorose, ma dopo l’insuccesso della Prima guerra d’indipendenza, questa iconografia si caricò di nuovi significati. La figura della Malinconia (o Meditazione) diventò la personificazione allegorica dell’Italia che riflette sul fallimento degli eventi del 1848, come confermano la scritta sul
dorso del libro (Storia d‘Italia) e le date in rosso delle Cinque Giornate di Milano sulla croce (simbolo del martirio patriottico)

 

Considerazioni dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico a margine a “Lettura sul dramma di Macerata: lo scontro delle secolarizzazioni” di Alessandro Visalli (originariamente pubblicata all’URL https://tempofertile.blogspot.it/2018/02/letture-sul-dramma-di-macerata-lo.html    e ora all’URL http://italiaeilmondo.com/2018/02/20/letture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli/  –  WebCite: http://www.webcitation.org/6xPpiXVOA e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F02%2F20%2Fletture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli%2F&date=2018-02-22)

 

 

Di Massimo Morigi

 

Nell’anno in cui si iscrisse al PCI, il 1948, Delio Cantimori pubblicò sulla “Nuova Rivista di diritto Commerciale, Diritto dell’Economia, Diritto sociale”, anno I, fasc. 9-12, 1948, “Idee di riforma sociale in Italia”, il cui testo era l’elaborazione a scopo di pubblicazione di  due lezioni che lo storico romagnolo aveva tenuto nell’estate del  1946 per l’Istituto per la Riforma Sociale di Pisa. Queste “Lezioni”, oltre a costituire una impeccabile ricostruzione storica delle idee e dell’agire dei riformatori sociali che si confrontarono e scontrarono nel Risorgimento italiano, sottintendeva, attraverso questa ricostruzione, la direzione verso la quale un’Italia uscita a pezzi dal secondo conflitto mondiale avrebbe dovuto imboccare e questo nuovo inizio, per Cantimori, avrebbe dovuto evidentemente prendere le mosse ispirandosi alla figura di Giuseppe Mazzini, al quale è dedicata la parte più significativa e pregnante delle “Lezioni”. Ed è anche altrettanto evidente che nelle “Lezioni”  Mazzini, o meglio il movimento storico che egli seppe creare, non è per Cantimori solo il momento imprescindibile e fondante nella costruzione dell’unità ed identità italiana, ma costituiva anche la proposta politico-culturale avanzata dallo storico romagnolo al  Partito comunista –  nel quale Cantimori intendeva svolgere il suo operato di intellettuale –  di un personaggio che aveva presieduto alla sua personale Bildung politico-culturale, il quale partendo da un ambiente romagnolo e da una famiglia profondamente intrisi di mazzinianesimo, aveva cercato, senza successo, di far vivere questa formazione prima nel PNF e ora nel PCI di Togliatti. Molto è stato scritto riguardo alla fuoruscita di Cantimori dal PCI avvenuta nel ’56, fuoruscita generalmente attribuita ad una forma di protesta per l’invasione da parte dell’Unione Sovietica dell’Ungheria e alla denuncia  di Chruščëv al XX congresso del PCUS, tramite il cosiddetto rapporto segreto intitolato “Sul culto della personalità e le sue conseguenze”, del culto della personalità di Stalin, con i conseguenti terribili eccessi che ne erano derivati. Molto più verosimilmente, invece, Cantimori uscì dal PCI non perché questo partito non si fosse schierato contro l’Unione sovietica e perché all’interno di questo partito sarebbero sempre stati all’ordine del giorno sistemi “staliniani”, seppur in sedicesimo, e che avrebbero denotato, tramite il rapporto segreto, una specie di male diffuso anche negli altri partiti comunisti, ma perché già allora era evidente che sia sul versante culturale che su quello politico il PCI non era in grado di implementare quella rivoluzione sociale di tipo mazziniano che aveva costituito il “perno psicologico” dell’attività scientifica di Cantimori (i principali studi di Cantimori, pur non occupandosi mai direttamente di Mazzini, furono sempre incentrati dallo sforzo di far affiorare il contributo italiano al processo di modernizzazione politica europea: vedi per tutti i suoi “Eretici italiani del Cinquecento”) e della vita pubblica di Cantimori (il Cantimori fascista apparteneva all’ala sinistra del PNF, quella parte del partito, per dirla in due parole, che vedeva la gerarchia in funzione della missione sociale del fascismo e non viceversa, come invece i fascisti di destra e reazionari). Citiamo allora la parte di questo articolo di Cantimori riguardante Mazzini, non tanto per rievocare un tentativo fallito di far germinare all’interno del PCI guidato da Palmiro Togliatti la tradizione sociale mazziniana, ma perché queste parole di Cantimori su Mazzini possono essere considerate la migliore risposta al pur pregevole articolo di Alessandro Visalli “Letture sul dramma di Macerata: lo scontro delle secolarizzazioni”, eccellente sì per sincerità di sforzo di analisi (ed anche per il risultato della stessa, specialmente quando afferma che i flussi migratori sono funzionali alla costituzione di un esercito industriale di riserva) ma  che anche deve però pagare pesanti pedaggi al politically correct ed ad una visione ancora ideologica e insufficientemente strategica del problema dell’immigrazione. Facciamo quindi parlare Cantimori: «Su questo sfondo di dottrinari risalta il profondo realismo rivoluzionario di Giuseppe Mazzini.   Egli non concilia o unisce (o sovrappone astrattamente, come meglio si dovrebbe dire) le nuove dottrine, i nuovi principî, il  «verbo della nuova età» all’istanza politica nazionale unitaria, ma tiene sempre fermo ad essa, non tanto subordinando le dottrine all’azione, anzi facendo sorgere le dottrine (o la polemica contro le dottrine) dall’azione stessa, dalle situazioni, dalle possibilità stesse dell’azione. Non che manovri la bandiera della riforma sociale come il Cavour manovrava elegantemente lo spauracchio della rivoluzione socialista: non si tratta di abilità politica, nel senso tecnico della parola; Mazzini coglie genialmente e spontaneamente lo stato degli animi, coglie i sentimenti, le aspirazioni, le vaghe idee, i bisogni, i timori, le speranze, e li convoglia, li rielabora in funzione della rigenerazione della patria attraverso l’unità e l’indipendenza. Perciò non si può né si deve considerare Mazzini – neanche il Mazzini scrittore – coi metodi della storia delle dottrine e delle ideologie: le sue posizioni dottrinali e ideali sono in funzione diretta dell’azione politica a lunga scadenza e di grande portata, e perciò non si esauriscono in semplici programmi e progetti o in pure considerazioni teoriche, anche quando l’azione non è coronata da successo immediato. Il Salvemini e il Mondolfo hanno già rilevato come negli scritti di Mazzini si trovino pagine di tipo socialista, e di tipo socialista moderno, tanto polemiche e critiche,  da poter giustificare a loro giudizio l’avvicinamento (puramente teorico) a Marx, al di là delle cattive relazioni personali che fanno la delizia di coloro i quali, nel migliore dei casi, non sanno fare distinzione fra giudizio politico e giudizio storico; e hanno rilevato però anche le infinite pagine di polemica antisocialista e anticomunista che si trovano negli stessi scritti, tali da annullare quasi, l’interesse che presentano le altre. Questi due studiosi hanno anche osservato che le prime si trovano soprattutto negli scritti precedenti il 1852, le seconde nel periodo posteriore, dopo il consolidamento della reazione in Francia e in Europa, quando sembrò  al Mazzini che le dottrine socialiste avrebbero allontanato, col solo nome, e anche se moderate assai come quelle del Montanelli, la borghesia italiana dal programma unitario e repubblicano. O. Vossler ha anche notato acutamente come Mazzini, oltre la polemica contro i caratteri edonistici e materialistici dei «sistemi socialisti», rifiuti sempre di accettare in astratto la negazione della proprietà privata e combatta anche l’idea che il socialismo sia il principio o il «verbo» della nuova età, informatore di ogni altra idea e di ogni altra azione. Non è dunque il caso di specificare con citazioni, perché non c’è molto da aggiungere a quanto hanno detto questi studiosi, soprattutto il Salvemini e il Mondolfo, per lo meno dal punto di vista della storia dottrinale e ideologica. Va rilevato invece che l’azione del Mazzini, proprio sul terreno sociale, va molto al di là delle teorie (anche arditissime come quelle del suo omonimo, ma pure e astratte teorie) proposte dai «socialisti» italiani suoi contemporanei; e, in un certo senso, in quanto azione lungimirante, organizzata, almeno tendenzialmente, su largo piano, va molto al di là anche dell’azione diretta di Pisacane. Intendo riferirmi al fatto che Mazzini e i suoi seguaci hanno dato vita, si può ben dire, a tutto o a quasi tutto quanto è  esistito di movimento operaio (artigiano) fra gli italiani, in esilio o in patria, durante il Risorgimento. Anche dopo la venuta del Bakunin e durante i primi anni di attività dell’Internazionale in Italia si può ben dire che il movimento operaio (artigiano) italiano è prevalentemente, quasi unicamente mazziniano. Aveva ben ragione Mazzini, in sostanza, quando nel 1871 affermava: «Dal primo impianto della Giovine Italia fino alle nostre ultime manifestazioni la causa degli operai fu nostra e la immedesimammo col moto nazionale italiano… Aiutammo come era in noi… l’impianto delle società di Mutuo soccorso, … preludio a quelle di cooperazione… Tentammo di far intendere alle classi medie che il moto operaio non era sommossa sterile e passeggera…» Questa azione del Mazzini è più importante fra noi in quel periodo delle dottrine anche più ardite, ed è anche più importante delle varie insurrezioni di tipo «guerra ai palazzi, pace alle capanne», di cui abbiamo notizia qua e là prima, dopo, e durante il 1848-49, come sono state studiate, per esempio, per la Toscana, dall’Andriani, seguendo le indicazioni del Salvemini.» (citato da Delio Cantimori, “Studi di storia”, Torino, Einuadi, 1969, pp. 596-598). Cosa  ci dice quindi a chiarissime lettere Cantimori su Mazzini (e, di riflesso, su quello che avrebbe dovuto essere e l’azione del PCI nella società italiana e la sua stessa azione all’interno del PCI, e sia detto per inciso ma anche fondamentale per comprendere l’assoluta originalità, ed anche temerarietà, dell’azione che Cantimori voleva svolgere all’interno del PCI: è solarmente evidente dal passo citato che il Mazzini di Cantimori è un Mazzini in cui è determinante la griglia interpretativa dell’attualismo di Giovanni Gentile). In poche parole Cantimori ci dice che Mazzini non fu quell’acchiappanuvole idealista, e persino intimamente reazionario, sempre votato al fallimento, tramandatoci da una superficiale storiografia e stereotipo assorbito anche a livello popolare, ma, al contrario, afferma con vigore che Mazzini è il perfetto compendio del politico realista, un politico che, proprio per l’intrinseca serietà del suo agire, rifiuta di farsi ingabbiare in facili e rigidi schemi ideologici che privilegiano o le riforme sociali o l’irrobustimento (o creazione) di un’identità nazionale ma sviluppa il suo operato a seconda delle necessità reali o percepite tali dal popolo (che di volta in volta possono essere identitarie o di maggiore giustizia sociale, e ancor più sovente inestricabilmente legate assieme) ma questo non può essere definita demagogia   per ottenere facili successi immediati (l’azione di Mazzini fu sempre mirata ad ottenere il massimo risultato ma proiettato nel lungo periodo: per Mazzini l’insuccesso di un’insurrezione innescava un eroico processo di emulazione attraverso il quale, alla fine di un lungo e doloroso percorso di fallimenti e di schiere di  martiri, avrebbe trionfato la rivoluzione italiana) ma aveva il nobilissimo e strategico  scopo di ottenere nel popolo un armonioso sviluppo fra istanze culturali ed identitarie e le istanze di giustizia sociale, che per il Mazzini sono inscindibili e che solo per ragioni tattiche possono essere momentaneamente disgiunte. Per Mazzini la sintesi finale fra questi due momenti era l’istituzione della Repubblica ma quello che qui preme sottolineare, al di là del tristo santino repubblicano che di lui ci ha consegnato una tradizione politica assolutamente non degna della grandezza del personaggio, è  che per Mazzini la Repubblica era, insomma, l’obiettivo finale ed anche il momento simbolico di un grandioso sforzo strategico che il rivoluzionario di Genova intendeva svolgere sul (e a favore del) popolo italiano. Il popolo italiano era quindi per Mazzini e il centro strategico della sua azione e il precipitato finale di questa azione, e questo non perché disdegnasse le impostazioni socialistiche della rivoluzione ma perché aveva assolutamente chiaro che una rivoluzione su base unicamente economicista o, peggio, astrattamente universalistica era un autentico non senso. Mazzini, insomma, non era un astratto ed esaltato acchiappanuvole ma lo potremo definire il Lenin italiano – o, ancor meglio, il Lenin degli italiani o dell’Italia –  che se anche non disse mai “analisi concreta della situazione concreta” costantemente ispirò la sua azione a questa massima. Vengo rapidamente alla conclusione. Ottimo l’articolo di Vissalli, fatta però una fondamentale osservazione. In “Lettura sul dramma di Macerata: lo scontro delle secolarizzazioni” (risposta all’articolo di Roberto Buffagni “Intorno ai fatti di Macerata – Non c’è più religione? Dipende”, all’URL http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/ – WebCite: http://www.webcitation.org/6xJAwBIIo), il momento strategico  è concentrato e limitato sull’analisi del fenomeno migratorio come funzionale alla costituzione di un esercito industriale di riserva; del tutto però insufficiente riguardo le problematiche identitarie del popolo italiano; problematiche fatte emergere violentemente dai fenomeni migratori ma in cui questi fenomeni sono solo una parte del problema, iniziando questa crisi identitaria dalla sconfitta nel secondo conflitto mondiale (e massima e tragica espressione politica di questa crisi identitaria è l’ideologia antifascista – cioè non l’antifascismo sorto come logica, naturale e legittima reazione al regime fascista ma l’antifascismo foglia di fico per qualificarsi come democratici verso le potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale e braghettone ideologico per nascondere la guerra civile latente fra i partiti che erano subentrati alla apparente guida dell’Italia dopo il 25 aprile ma in cui il vero comando era riservato alle potenze angloamericane che avevano conquistato l’Italia –,  vero e proprio virus, questo antifascismo a regime fascista morto, geneticamente modificato e creato per  parassitare e alla fine a distruggere il DNA della tradizione storico-culturale italiana) e rincrudita ed accelerata dallo sviluppo economico capitalista del secondo dopoguerra. Cantimori uscì dal PCI per l’indifferenza che suscitò nel partito la sua linea culturale, e nella quale il mazzinianesimo (l’autentico mazzinianesimo – quel mazzinianesimo che ebbe il suo migliore studioso in Giovanni Gentile –, il mazzinianesimo fedele alle idee e all’operato del grande genovese, e che noi oggi definiamo ‘mazzinianesimo strategico’, non certo l’odierno caricaturale e deformato mazzinianesimo dei suoi indegni epigoni) costituiva la spina dorsale,  ma l’impostazione che voleva dare alla soluzione  del problema italiano (se soluzione si può parlare per i fatti storico-sociali) era, come è tuttora, quella corretta: una chiara visione strategica di pretto stampo mazziniano che partendo dai problemi sociali e culturali del nostro popolo sappia (ri)costruire e rafforzare una identità nazionale che permetta al nostro paese di rimandare al mittente tutte le spinte disgregative (di cui l’immigrazione è una di questa) che ci giungono da questa disgraziata modernità di un mondo sempre più multipolare. Per Mazzini il nemico storico da dissolvere ed annientare era l’Impero Austroungarico. Oggi il nemico da dissolvere ed annientare non è un impero ma un’impostazione mentale “politically correct” che vorrebbe privilegiare l’impero turbo-capitalistico della globalizzazione e le cui povere truppe d’assalto, al posto dei croati Austroungarici, sono le disgregate, vaganti e disperate popolazioni del sud del mondo. E come i nostri padri del Risorgimento, prima fra tutti Mazzini, non odiavano i croati (che costituivano il grosso delle truppe di occupazione dell’impero Austroungarico) ma anzi provavano per loro compassione  ma, nonostante questa compassione li volevano cacciare (Vedi poesia “Sant’Ambrogio” di Giuseppe Giusti: «Entro, e ti trovo un pieno di soldati,/Di que’ soldati settentrïonali,/Come sarebbe Boemi e Croati,/Messi qui nella vigna a far da pali:/  Difatto, se ne stavano impalati,/ Come sogliono in faccia a’ Generali,/Co’ baffi di capecchio e con que’ musi,/Davanti a Dio diritti come fusi.//Mi tenni indietro; chè piovuto in mezzo/ Di quella maramaglia, io non lo nego/ D’aver provato un senso di ribrezzo/Che lei non prova in grazia dell’impiego./Sentiva un’afa, un alito di lezzo;/Scusi, Eccellenza, mi parean di sego,/ In quella bella casa del Signore,/Fin le candele dell’altar maggiore […] Povera gente! lontana da’ suoi,/In un paese qui che le vuol male,/Chi sa che in fondo all’anima po’ poi/Non mandi a quel paese il principale!/ Gioco che l’hanno in tasca come noi. —/Qui, se non fuggo, abbraccio un Caporale,/  Colla su’ brava mazza di nocciolo,/Duro e piantato lì come un piolo.»), così anche noi ci dobbiamo atteggiare e comportare verso i flussi immigratori incontrollati. E questa risoluzione non viene da qualche lunatico sparacchiatore ma dalla più pura tradizione strategica del nostro Risorgimento. Anche se in forme veramente inedite ed inaspettate, alla fine veramente tutto torna, e questo è veramente una grande lezione strategica che evidenziata nel nostro Risorgimento, è anche alla base della nascita, sempre italiana, del pensiero storicista che si sviluppa attorno al vichiano ‘Verum et factum convertuntur’ del “De antiquissima italorum sapientiae” (e che si pone in antitesi al pensiero illuministico ed astrattamente razionalistico ed antistorico, da cui trae origine la mistica dei diritti umani, grande responsabile  e giustificatrice sul piano ideologico degli incontrollati flussi migratori). Machiavelli, Vico, Mazzini, Giovanni Gentile, Gramsci, Cantimori (cioè la grande tradizione del realismo e dello storicismo italiani, che non si traduce,  però, nella  esaltazione di una tetra ed amorale realpolitik o Machtpolitik calata dall’alto ma, mazzinianamente, nella  creazione di una politica espressiva dei più profondi ed intimi bisogni del popolo, insomma un progetto teso nella sua più ultima e rivoluzionaria espressione – che, partendo da Giovanni Gentile per arrivare ad Antonio Gramsci,  va sotto il nome di filosofia della prassi – alla definizione di quella gramsciana cultura nazionalpopolare, il cui mancato conseguimento fu anche, come ben si vede oggi sia nella società che nel partito che pretende essere l’erede di quello fondato da Antonio Gramsci, anche il grande fallimento del PCI togliattiano), pensati attentamente i quali paiono  veramente bizzarre la considerazioni, riguardo i fatti di Macerata,  che «L’unica cosa certa di questa vicenda è che una ragazza è morta, alcuni immigrati hanno tentato di occultare il cadavere, dissezionandolo, e un italiano in preda ad esaltazione ha tentato di fare giustizia sommaria su altri innocenti scelti a caso» o  che «Ci sono associazioni, tra cui la ALCR […], attiva in Gabon, che denunciano coraggiosamente gli omicidi rituali, spesso condotti per banali ragioni di successo economico in un contesto di elevata frammentazione etnica (circa 40 gruppi) e di religioni animiste (20% della popolazione) o sincretiche come il Bwiti, anche se il 75% della popolazione è identificata come cristiana. Si tratta comunque di poche centinaia di casi, [sic!] spesso ricondotti a non meglio precisati “cultisti” […], ma sono spia del disagio di una troppo rapida, e subalterna, trasformazione.» Mazzini, intriso di spirito umanitario ma anche (o proprio per questo) pensatore ed uomo d’azione profondamente strategico non inneggiò mai all’odio contro nessuno ma non si sognò mai neppure di dire: «L’unica cosa certa è che i soldati croati sono dei semplici fantocci in mano all’impero austroungarico e per questo non devono essere combattuti ma accompagnati, piuttosto, gentilmente alla porta.» Le cose non andarono così e, se si vuole dare una speranza a questo paese, non dovranno andare così neppure per gli immigrati irregolari. E questo con buona pace – pur dandogli credito delle migliori intenzioni – delle pur generose esortazioni (ed anche in parte penetranti analisi) di Alessandro Visalli, il cui difetto di fondo è l’essere impregnate di quello spirito universalistico di matrice illuministica che Mazzini – e sulla sua scia il Repubblicanesimo Geopolitico –  sempre e con tutte le sue energie avversò, e questo non perché fosse un reazionario ma perché aveva capito benissimo che se si vuole essere veramente universali la prima cosa che necessita è possedere una visione strategica il cui centro focale è la creazione di una propria distinta ed unica identità, lasciando agli ideologi la discussione in merito all’universalità di questo o quell’altro sacro principio (che, come Mazzini aveva ben compreso, sempre nasconde l’interesse di qualcuno che con questi giochi di parole – ai tempi di Mazzini la Francia col suo monopolio  e volontà di imposizione dei sacri principi dell’ ’89, oggi la liberale e liberistica globalizzazione turbocapitalistica col mito del diritto e dell’inevitabilità all’immigrazione incontrollata –  intende perseguire nascostamente e con l’appoggio di masse ignoranti, vaganti, disperate e senza identità i propri inconfessabili interessi di annichilimento culturale dei popoli  e di  disgregazione ed atomizzazione delle società che questi popoli, attraverso lacrime, sangue,  battaglie e guerre si sono costruite nel corso della storia ).

Massimo Morigi – 22 febbraio 2018

 

 

 

 

 

 

 

LA PARTICOLARE GESTIONE POLITICA DEI FATTI DI MACERATA, di Giuseppe Germinario

C’ è un limite alla capacità di orientamento dell’opinione pubblica per quanto sofisticate possano essere le tecniche di comunicazione e di manipolazione delle informazioni; è il crescente e reiterato stridore tra la rappresentazione offerta e il concreto evolversi degli eventi e delle situazioni. Lo si è visto durante le elezioni presidenziali americane e, nel nostro piccolo, nella rapida parabola che sta segnando i destini di tanti uomini politici nostrani, compreso il ruspante Matteo Renzi.

I fatti di Macerata, nella loro banale tragica casualità, rappresentano uno di quei momenti cruciali che possono innescare il collasso irreversibile di una classe dirigente inadeguata, ormai avulsa da gran parte del paese e, nel migliore e auspicabile dei casi all’affermazione di una nuova classe dirigente, nel peggiore a una condizione di degrado e instabilità endemica attorno alle cittadelle assediate dei centri di potere.

Una ricostruzione degli eventi e dei conseguenti comportamenti dei politici a partire dalla tragica uccisione di Pamela Mastropietro, avvenuta il 30 gennaio e della rappresaglia, fortunosamente meno tragica di Luca Traini del 3 febbraio, per quanto soggettiva può servire a fornire i primi elementi di giudizio.

  • Al rinvenimento del corpo meticolosamente sezionato e privo di alcune parti la prima imputazione dei giudici inquirenti è stata, al momento, la sottrazione e vilipendio di cadavere.
  • Il 3 febbraio scatta la rappresaglia xenofoba di Traini, con il ferimento di immigrati neri e l’ostentata consegna alle forze dell’ordine dell’autore dell’atto terroristico, avvolto nel tricolore davanti al monumento ai caduti della prima guerra mondiale.
  • Il sindaco e soprattutto il questore, la figura istituzionale abilitata, propendono per il divieto temporaneo di ogni manifestazione.
  • Dal Ministero degli Interni arriva a Macerata un funzionario di alto livello il quale spinge ad autorizzare la sola manifestazione antifascista.
  • Si fa strada l’ipotesi, in qualche maniera suffragata dalle dichiarazioni del medico legale incaricato dell’autopsia che il sezionamento del cadavere non fosse dovuto alla necessità di nascondere o far sparire il cadavere, ma fosse legato alla pratica, ancora in uso in numerose comunità tribali africane e riprese dalle organizzazioni mafiose nigeriane operanti in Italia, di riti sacrificali. Una tesi esplosiva in grado di compromettere definitivamente la residua credibilità delle attuali politiche migratorie e dell’intera classe dirigente di esse responsabile; contestualmente la Procura locale denuncia le enormi pressioni cui è sottoposta.
  • Il questore di Macerata viene rimosso improvvisamente e sostituito da un funzionario del Ministero vicino al Ministro Minniti. Non è il solo avvicendamento legato agli avvenimenti; viene sostituito il responsabile del Dipartimento Persone Scomparse. In contemporanea viene lanciata su stampa e telegiornali la notizia che in Italia scompaiono circa ottocento italiani e cinquantasettemila stranieri.

Avrebbe potuto essere una importante occasione per assurgere alla statura di uomini di Governo e ancor più di Stato, sia per il ceto politico attualmente al governo sia per quello che ambisce a sostituirlo.

Avrebbe dovuto essere il momento per affermare solennemente e praticare un principio fondante, basilare della convivenza civile e del confronto politico: lo Stato deve essere il detentore unico dell’uso della forza e non può accettare forme individuali e collettive di rappresaglia e l’esistenza di strutture di controllo politico e militare alternative ad esso come le organizzazioni mafiose e di malavita organizzata, tra esse quella nigeriana, secondo propri codici di comportamento e repertori di sanzioni.

Sin da subito le reazioni, nella quasi totalità dei casi, seguono invece il cliché naturale proprio di politicanti intenti a salvaguardare la propria fazione e intaccare la credibilità delle altre.

Già il giorno dopo il ritrovamento dei resti di Pamela, con grande enfasi mediatica, si assiste alla richiesta di perdono, probabilmente indotta se non orchestrata, rivolta ad una madre, imbarazzata e ignara del senso dell’iniziativa, ad opera di un nigeriano a nome dell’intera sua comunità di appartenenza. Una contraddizione enorme per una società fondata sul principio della responsabilità e della colpa individuale del cittadino e che ha spinto il punto di vista liberale sino all’estremo del disconoscimento o della incomprensione dei legami culturali, religiosi e ideologici propri di una comunità.  Una funzione disperatamente cacciata dalla porta della casa liberale, ma pronta pervicacemente a rientrare ad ogni occasione dalla finestra.

La campagna, però, inizia subito ad utilizzare argomenti più sofisticati e variegati quanto vario è il campo dei paladini dirittoumanitaristi.

Parte a spron battuto l’onorevole Boldrini la quale adombra il fatto che l’assassinio contemporaneo della ragazza di Milano ad opera di un ferrotranviere depravato rappresenta un atto di per sé equivalente se non più grave, perché legato apertamente ad un abuso sessuale quando invece il delitto di Macerata, enfatizzato, rischia invece di alimentare il razzismo.

Prosegue l’opera di imbonimento Giuliano Amato,https://www.youtube.com/watch?v=kciBzASA6Og  il “dottor sottile” il quale a furia di sottilizzare ci illumina sul corso dei secoli pontificando che l’Europa, le popolazioni europee sono la sintesi di una mescolanza di etnie e di culture più o meno aperte al confronto, le quali popolazioni hanno cominciato a rimarcare le differenze e le estraneità, le aperte ostilità sino al male assoluto dei genocidi a sfondo razziale, con l’avvento degli stati-nazione. La sottigliezza degli argomenti gli consente il margine necessario per qualche giravolta opportunistica tipica del personaggio; il senso rimane comunque quello del superamento degli stati nazionali e dell’appello ad un intenso processo di integrazione a scapito dell’evidenza storica delle macellerie che hanno interessato l’epoca moderna, quanto quella medioevale e le precedenti. Eppure il colto e raffinato Giuliano Amato saprà benissimo che sino a qualche secolo fa, in Europa, si riteneva che i vari organi del corpo umano fossero le sedi rispettivamente delle varie virtù umane; la tentazione di conseguenza di nutrirsene doveva essere forte. Concediamogli pure la misconoscenza che tale apprezzamento sia ancora in atto in larghe parti del pianeta, non troppo lontane da noi.

Conclude l’opera di imbonimento e sviamento il vescovo di Macerata, Monsignor Zamboni, http://www.famigliacristiana.it/articolo/il-vescovo-di-macerata-l-italia-e-davanti-al-fallimento-educativo-non-le-servono-miracoli-elettorali.aspxl il quale smarrisce la sua funzione di prelato e di pastore per assumere quella del sociologo attribuendo alla mancanza di senso della vita, al materialismo dell’arricchimento senza scrupoli, alla assenza di concrete politiche di integrazione l’origine del male. Uno smarrimento che spinge il prelato a dimenticare che l’idea di bene e di sacrificio offerta dal cristianesimo, in particolare dalla componente cattolica, si contrappone non solo ai problemi sociali ma ad idee di bene e di sacrificio, di rituali propri di società e comunità tribali; comunità dalle quali stiamo bellamente traendo “risorse” ignorandone completamente i retaggi culturali e le effettive possibilità di reale integrazione. Succede quando si riduce il problema dell’integrazione ad un mero aspetto economico, di dialogo e di giustapposizione multiculturale.

La rappresaglia di Traini rappresenta la classica ciliegina a conferma della costruzione di questo immaginario. Offre l’occasione inaspettata per nascondere sotto il vessillo consunto dell’antifascismo di maniera la polvere dei tanti problemi lasciati a marcire. Grazie ai quali e all’inesistenza di alternative politiche, soffocate queste ultime continuamente per decenni da questo manierismo, si finisce più o meno inconsapevolmente per rilegittimare e dare occasioni di rilancio proprio alle componenti fascistoidi, in quanto uniche potenziali forze di opposizione radicale. La strumentalizzano apertamente le forze sinistrorse più radicali sino alla aperta chiamata di correità di coloro che puntano a regolamentare e ridurre drasticamente i processi di immigrazione. In questo Boldrini e Grasso, ma anche Bersani e d’Alema quando tentano di ridurre a fascismo il sovranismo, sono le punte di lancia. Ma il resto degli iscritti “all’anagrafe antifascista” non sono da meno tranne che nella cautela di vedersi associati all’azione “militante” delle “guardie plebee” (cit. di Preve) dei centri sociali.

Da qui la fretta di celebrare il “sacrificio” di Traini e la tentazione di evitare o rinviare quello degli assassini di Pamela. Se finiranno male, questi ultimi saranno additati come mostri; in realtà non sono nient’affatto avulsi dalla loro comunità; non sono nemmeno troppo lontani dai rituali previsti da nostre comunità. L’aspetto più mefitico di queste dinamiche per il nostro paese rischia di essere proprio quello di una commistione e di una fusione. I segnali, andando in giro per la penisola, di certo non mancano. Dall’altro la riduzione e rimozione a “mostri” è funzionale alla sopravvivenza delle priorità di ordine pubblico e di politica giudiziaria stabilite dai pasdaran dei diritti umani: la persecuzione delle donne, la recrudescenza del fascismo e poi si vedrà. Un modo paradossale di relegare un problema di criminalità organizzata e di rituali annessi, anche se praticamente sconosciuto, in second’ordine rispetto ad un problema sociale in gran parte sovrastimato e comunque riguardante comportamenti individuali quale quello della persecuzione della donna e a un problema circoscritto, più politico in senso stretto che giudiziario, quale quello del fascismo.

Di fronte a questi strattonamenti si comprendono meglio lo smarrimento, i tentennamenti e le oscillazioni della magistratura inquirente.

L’inquietudine che si legge nei comportamenti del ceto politico al governo soggiace a motivi precisi e a retaggi inamovibili.

  • La retorica dell’accoglienza rappresenta un velo che nasconde la completa ignoranza della radicalità delle differenze culturali di gran parte degli immigrati sino all’ingresso di comunità di natura tribale. Una retorica che nasconde l’ambizione reale di gran parte delle schiere più recenti di immigrati; ambizioni che vanno al di là di una dignitosa esistenza in un contesto produttivo.
  • L’entità dei flussi e la condizione di crisi e di radicale riorganizzazione economica in un paese in evidente declino rende impossibile un assorbimento ed una integrazione economica propedeutica a quella culturale
  • La massiccia presenza dell’economia informale e di organizzazioni e sistemi malavitosi e mafiosi alternativi e compenetrati allo Stato offrono lo spazio all’importazione massiccia di strutture analoghe presenti all’estero. Forse uno dei pochi esempi riusciti di integrazione; con essi la mutualizzazione e l’ingresso di rituali largamente presenti e denunciati in quei paesi, ivi compresa la Nigeria. Del resto sono scene e rituali che non sono prerogative esclusive di quell’area. Li abbiamo visti in Siria, con i guerriglieri della libertà dediti ad assorbire le energie vitali del nemico mangiandone cuore e fegato. Anche da quelle parti stiamo attingendo a man bassa, con l’aggiunta dell’esperienza guerriera. Gran parte degli immigrati di quelle aree sicuramente hanno superato questi modelli di vita e ambiscono a qualcosa di meglio. La riproduzione di quelle comunità e di quelle strutture, in una situazione così precaria, rischia di ricacciarli inesorabilmente alle origini. Una precarietà, se proprio la si vuole legare ad una condizione sociale, legata molto più alla economia informale che alla condizione di clandestino. Un processo di regressione riscontrabile purtroppo anche nelle comunità di immigrati meno recenti. Un processo, per altro, che ha intaccato pesantemente la coesione di paesi ben più solidi come la Svezia, la Francia e la Germania. http://italiaeilmondo.com/2017/12/08/svezia-un-paese-sempre-piu-allineato-in-tanti-aspetti-intervista-a-max-bonelli/
  • Gran parte dei flussi sono legati a precisi disegni di destabilizzazione dei paesi fonte di emigrazione e di precarizzazione di gran parte delle economie occidentali, specie quelle in declino. Una destabilizzazione alla quale ha partecipato con ogni evidenza passivamente e senza sussulti l’intera classe dirigente nazionale. Lo stesso interventismo che si sta affermando nell’Africa Subsahariana rischierà di alimentare questa immagine nella misura in cui si offre lo stendardo di una crociata all’integralismo ad un conflitto al momento di tutt’altra natura, in particolare di origine etnica e di sistemi socioeconomici antitetici costretti in uno stesso stato

Sono ingombranti scheletri negli armadi che rischiano di uscire proprio nel momento delle elezioni a discredito definitivo di ciò che rimane della credibilità dei governanti.

Sarebbe stata l’occasione per la sedicente opposizione radicale di proporsi come classe dirigente alternativa credibile.

Lascio perdere per carità di patria i grillini.

Anche Salvini ha però di fatto scelto il silenzio e la speculazione strumentale.

Sarà stato senz’altro il timore, con l’esclusione dall’anagrafe antifascista, di vedersi assegnato nel girone dei reietti.

Molto probabilmente peserà soprattutto la sua inadeguatezza ad affrontare un tema così delicato in termini di sicurezza e di coesione sufficiente del paese e della formazione sociale.

Due atteggiamenti complementari che rischiano di far scivolare il problema della gestione compatibile dell’immigrazione in un problema di etnie, di bianchi e di neri. Da qui ad una rappresentazione razzista più o meno latente del processo il passaggio rischia di essere impercettibile quanto funesto http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/

GEORGE SOROS, LA PARABOLA DI UN FILANTROPO_ di Gianfranco Campa e Giuseppe Germinario

Anche quest’anno George Soros ha avuto a disposizione, probabilmente si è concesso, a Davos oltre un’ora di vaticinio. Un privilegio di minuti concesso solo a numero selezionatissimo di astanti. Ad ascoltarlo e vederlo viene in mente questa frase di Melville:  «Dal cuore dell’Inferno, io ti trafiggo! In nome dell’odio, sputo il mio ultimo respiro su di te, maledetta bestia!» Ha avuto modo di prendersela con il carattere monopolistico di Google e Facebook, con la loro capacità di manipolazione, controllo e selezione dei flussi di dati e di formazione degli orientamenti personali e delle società. Un pericolo estremo soprattutto se tale propensione dovesse trovare sostegno e accondiscendenza in regimi autoritari come Russia e Cina. Giudica i Bitcoin, buon per lui, un prodotto troppo speculativo. Soros è però fiducioso: « E’ solo questione di tempo prima che il loro monopolio sia interrotto. La loro fine verrà con le regole e le tasse. E la loro nemesi sarà la commissaria Ue alla concorrenza, Margrethe Vestager» L’Unione Europea, con essa i vecchi e nuovi leader dell’Europa Occidentale, ha quindi per il momento sostituito gli Stati Uniti nel ruolo di paladina della libertà . Cosa intendano per tutela della libertà i novelli templari lo lasciano intuire la composizione e le intenzioni dei vari Comitati di Salute Pubblica in procinto di essere costituiti. Strano, perché la campagna contro la disinformazione è comunque partita dagli “ambienti più politicamente corretti” statunitensi i quali più si sono distinti nella partigianeria ossessiva. In mancanza di una sponda istituzionale solida e sicura a casa propria non resta che affidarsi, al momento, agli epigoni di qua dell’Atlantico. Non che il problema sia irrilevante. Sia Facebook che soprattutto Google, ma anche sempre più i gestori della rete stanno assumendo uno straordinario e crescente potere di manipolazione non solo dei comportamenti individuali, civili e politici, ma anche, attraverso il controllo dei flussi di dati e dei comandi, dello stesso sistema produttivo e di comunicazione. Un controllo che potrebbe limitare la libertà di movimento e di azione di altri manipolatori, come Soros, adusi ad altre e ben più diversificate pratiche, anche le più prosaiche. Le varie “primavere” sparse nel mondo sono lì a ricordarcelo. Per questo “Padre del Globalismo”, tra i tanti, si tratta però di una contingenza, di un accidente destinati ad esaurirsi rapidamente nell’onda lunga della storia “Reputo chiaramente l’amministrazione Trump un pericolo per il mondo, ma lo considero puramente un evento transitorio che scomparira` nel 2020, se non prima. Do al presidente Trump credito per il modo brillante di motivare la sua base, ma per ogni numero di sostenitori c’è un numero egualmente motivato di oppositori. Per questo mi aspetto una valanga democratica nelle elezioni di medio termine 2018″ Con i diciotto miliardi di dollari ( http://italiaeilmondo.com/2017/10/22/un-torrido-inverno-di-giuseppe-germinario/ ) attualmente messi a disposizione dalla sua Open Society, George Soros saprà dare sicuramente il suo personale contributo, con le buone o le cattive, alla “motivazione” e all’afflato ideale dei novelli fustigatori. Dovesse richiedere il sacrificio di qualche martire, tanto meglio; ogni libertà, specie la propria, richiede un tributo e un sacrificio, meglio se di altri. Da parte sua il portafogli, da altri in mancanza di questo o di altro può essere sufficiente la vita. Anche in Italia, negli ambienti più insospettabili, gli adepti non mancano e dopo le elezioni numerosi usciranno allo scoperto. Qualcuno, addirittura, trepida per le sue condizioni di salute; vedi la “Stampa” di oggi.

Qui sotto i link relativi all’intervento di George Soros_ Gianfranco Campa-Giuseppe Germinario

Tutto finisce a questo mondo, anche gli imperi_ di Roberto Buffagni

 

Italiaeilmondo ha appena pubblicato, qui: http://italiaeilmondo.com/2018/01/08/il-piano-a-il-piano-b-il-piano-c_-le-attenzioni-su-trump-a-cura-di-giuseppe-germinario/  un’ interessante e preoccupante intervista a Roger Stone, che ci permette di sbirciare dal buco della serratura uno scorcio della violenta lotta di potere in corso a Washington. Alla radice di questo scontro c’è un nodo di importanza storica: l’Impero americano ha superato il culmine della sua parabola ascendente, è overextended, incerta la sua egemonia mondiale, in crisi il suo sistema di alleanze e la sua coesione interna; e la sua potenza militare, per quanto tuttora insuperata, colleziona da decenni vittorie operative e sconfitte strategiche. Le risposte possibili alla sfida sono due: un rilancio di potenza espansiva, o un ripiegamento strategico. La prima risposta può rivelarsi una fuga in avanti dalle conseguenze imprevedibili e potenzialmente rovinose, la seconda un consolidamento in apparenza saggio, ma in realtà più pericoloso della fuga in avanti, perché di fatto irrealizzabile.

I due campi non coincidono al millimetro con i due grandi partiti americani, anche se nel Partito Democratico la vocazione mondialista è maggioritaria e consolidata, e la tradizione nazional-conservatrice, per quanto minoritaria, non è del tutto spenta nel Partito Repubblicano. Gli interpreti più autentici della risposta “rilancio di potenza” sono i neoconservatori, un gruppo di potere “mondialista” ideologicamente coeso ma politicamente bipartisan. I sostenitori della risposta “ripiegamento strategico” sono un gruppo di potere grosso modo “nazionalista”, ideologicamente frammentato, politicamente radicato nell’ala dissenziente del Partito Repubblicano e nella galassia apartititica della Alt-Right.

L’urgenza di dare una risposta al problema storico dell’Impero si è manifestata nell’ascesa alla Presidenza di Trump, un uomo estraneo all’establishment imperiale; la violenta reazione dell’establishment illustra quanto alta sia la posta in gioco, e gareggiando in avventatezza con la sconclusionata direzione politica di Trump, rischia di scassare e delegittimare le istituzioni statunitensi.

Che una decisa sterzata alle strategie imperiali americane sia necessaria, sembra chiaro. Il problema è che la politica, come in generale la vita umana, è tragica perché non si fa con il senno di poi, ma nell’angoscia dell’ignoranza e dell’incertezza, e sotto il gravame delle scelte, degli errori e delle colpe del passato. Ad esempio: è possibile cambiare non solo direzione, ma natura dell’Impero americano? Perché un consolidamento difensivo imperiale, come quello proposto da E. Luttwak nel suo recente libro La grande strategia dell’impero bizantino[1], sembra sì una scelta prudente e quasi obbligata: ma non è affatto detto che sia una scelta possibile. Sin dalla loro nascita, gli Stati Uniti d’America si trovano di fronte due vie possibili: repubblica (confederale, aristocratica, centripeta) o impero (federale, democratico, centrifugo). Il bivio è così profondamente inciso nell’immaginazione americana che lo ritroviamo, tale e quale tolto il nodo della schiavitù, nella saga di maggior successo di tutta la storia del cinema, Guerre stellari. Per ottant’anni gli USA sono riusciti a rinviare la scelta della via da imboccare, ma il 12 aprile 1861 il momento della scelta è arrivato, ed è costato circa 750.000 caduti sul campo, più la morte di un numero imprecisato di civili e uno strascico di divisioni e rancori non ancora riconciliati. Stime recenti valutano le sole perdite sul campo in un 10% di tutti i maschi in età militare  (20-45 anni) al Nord, 30% al Sud.

La vittoria dell’opzione federale ha deciso anche la natura sui generis dell’Impero americano: un impero democratico e ideocratico (vi si appartiene per adesione ideologica, non per radicamento territoriale, etnico, storico), e dunque costantemente espansivo, non ecumenico (centro di un mondo) ma tendenzialmente universale: il simbolo immaginale più profondamente impresso nella psiche americana, da allora in poi, sarà la Frontiera, che sempre va inseguita e sempre si allontana, come l’orizzonte dominato dallo sguardo dell’animale totemico degli USA, l’aquila marina incisa sul Grande Sigillo del Governo Federale americano[2].

In estrema sintesi e sul piano strettamente politico, il dubbio è questo: è possibile all’Impero sui generis americano rinunciare all’espansione illimitata, riconvertirsi e consolidarsi in una repubblica nazionale che si limita a dominare il Continente e a intervenire nel mondo solo quando sono in gioco i suoi interessi vitali? Perché dalla fine della Guerra di Secessione in poi, le molteplici e profonde linee di frattura politica interne alla madrepatria imperiale – fra Stati e governo federale, fra Stati del Nord e del Sud, fra etnie, lingue e razze, fra centri e periferie, fra confessioni religiose, fra confessioni religiose e laicismo politically correct, etc.  –  non hanno innescato conflitti incomponibili perché tutte le mille frizioni latenti sono state deviate e risolte nell’espansione imperiale: ideologica, militare, economica, e last but not least psichica; perché gli USA sono un impero euforico e geneticamente ottimista: il tono del suo umore è maniaco-depressivo, e la fine della fase maniacale lo precipita in una depressione psichica che innesca una crisi politica profonda, come dimostra l’altra crisi che, dopo la Guerra di Secessione, ha messo a rischio l’esistenza simbolica degli USA: la Grande Crisi del 1929.

L’Impero statunitense può essere distrutto soltanto dall’interno, come sapeva bene il suo fondatore Abraham Lincoln: “Dovremmo temere che qualche gigantesca potenza militare d’oltreoceano lo attraversi e ci schiacci in un colpo? Mai! Tutti gli eserciti di Europa, Asia e Africa congiunti, con tutti i tesori della terra (escluso il nostro) a finanziarli, con un Bonaparte a comandarli, mai riuscirebbero con la forza a bere un sorso del fiume Ohio o a tracciare un sentiero sul Blue Ridge, neanche se ci provassero per mille anni. Da dove dobbiamo temere che venga, allora, il pericolo? Rispondo. Se mai il pericolo ci raggiungerà, esso dovrà scaturire in mezzo a noi; non può venirci da fuori. Se la distruzione è il nostro destino, dovremo noi stessi esserne autori e responsabili. Dovremo per sempre vivere come nazione di uomini liberi, o morire suicidi.”[3]

La situazione odierna degli USA di Trump, insomma, richiama alla mente per analogia la situazione dell’URSS di Gorbacev, un altro impero sui generis perché (in parte) ideocratico, scosso da una crisi profonda. Per ricordare quanto grave fosse la crisi dell’URSS, ecco alcune testimonianze in diretta di membri della sua classe dirigente dell’epoca:

L’ottusità del paese ha raggiunto un picco: dopo, c’è solo la morte. Nulla è fatto con cura. Rubiamo a noi stessi, prendiamo e diamo mazzette, mentiamo nei nostri rapporti, sui giornali, dal podio, ci rivoltoliamo nelle nostre menzogne e intanto ci conferiamo medaglie a vicenda. Tutto questo dall’alto in basso, e dal basso in alto.” N.I. Ryzkov, segretario e capo del Dipartimento economico del Comitato centrale con Ju. I. Andropov, e K.U. Cernenko, poi primo ministro con M.S. Gorbacev.

Sono anni che tradisco me stesso, dubito e mi indigno tacitamente, cerco ogni tipo di scuse per addormentare la mia coscienza. Tutti noi, soprattutto la classe dirigente, conduciamo una vita doppia se non tripla: pensiamo una cosa, ne esprimiamo un’altra e ne realizziamo un’altra ancora.” E. V. Jakovlev, giornalista, ambasciatore dell’URSS in Canada, collaboratore di M.S. Gorbacev.

Nessun nemico avrebbe potuto conseguire quello che abbiamo conseguito noi con la nostra incompetenza, ignoranza e autoincensamento, con il nostro separarci dai pensieri e dai sentimenti della gente comune.” Generale Markus Wolff (“Mischa”), capo dei servizi segreti della D.D.R.[4]

E’ a questa crisi caotica e dissolutiva che Gorbacev tentò di rispondere. Ora sappiamo com’è andata, cioè molto male: ma non tentare una risposta, continuare come prima era impossibile. Era possibile rispondere alla crisi consolidando anziché dissolvendo? Quanta parte di responsabilità hanno avuto i limiti personali di Gorbacev e della sua cerchia nell’esito infausto della riforma imperiale? Sarebbe bastato che al timone dello Stato ci fosse un uomo migliore? Per concludere l’analogia: Trump è forse il Gorbacev americano?

Altri imperi, prima del sovietico e dell’americano, hanno tentato di rispondere alle crisi storiche che li hanno colpiti, di solito all’inizio della parabola discendente, dopo aver superato il culmine della potenza e dell’espansione. All’Impero romano riuscì, con Adriano, il consolidamento difensivo, che garantì secoli di equilibrio; ma la crisi interna, economica e politica, non si arrestò, e con i Severi giunse al punto di non ritorno: il segno fatale fu l’emigrazione di percentuali significative di cittadini romani dalle zone amministrate dai funzionari imperiali alle zone amministrate dai barbari, le cui pretese fiscali erano assai più miti di quelle degli esattori romani:[5] se ne angosciava sul letto di morte l’imperatore Settimio Severo. L’impero spagnolo entrò nella sua crisi storica, economica e politica, pochi decenni dopo aver raggiunto la sua massima espansione con le conquiste americane. E’ un monito istruttivo rileggere le proposte di riforma economica e politica degli gli arbitristas della Scuola di Salamanca[6], diverse delle quali, esaminate con il senno di poi, sembrano diagnosticare con precisione i problemi di fondo e proporre soluzioni brillanti: eppure, sempre col senno di poi, sappiamo come andò.

Oggi, come allora i sudditi dell’Impero romano o spagnolo, non sappiamo come andrà. Vedremo, e per la verità non vedremo soltanto, perché purtroppo non siamo seduti nelle poltrone di un cinema per assistere all’emozionante kolossal La crisi dell’Impero americano, ma ci troviamo in una periferia non troppo lontana dal centro imperiale e per nulla esente dalle conseguenze delle sue scelte, giuste o sbagliate che siano.

L’unica cosa che sappiamo, come già allora sapevano i romani e gli spagnoli, è che tutto finisce, a questo mondo: anche gli imperi, e anche noi.

[1] V. qui una buona recensione: http://www.imperobizantino.it/la-grande-strategia-dellimpero-bizantino-di-edward-n-luttwak/

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Stemma_degli_Stati_Uniti_d%27America

[3] Abraham Lincoln, 27 gennaio 1838, discorso agli studenti dello Young Men’s Lyceum di Springfield, Illinois:  “The Perpetuation of Our Political Institutions”. Qui il testo originale: “Shall we expect some transatlantic military giant to step the ocean and crush us at a blow? Never! All the armies of Europe, Asia, and Africa combined, with all the treasure of the earth (our own excepted) in their military chest, with a Bonaparte for a commander, could not by force take a drink from the Ohio or make a track on the Blue Ridge in a trial of a thousand years. At what point then is the approach of danger to be expected? I answer. If it ever reach us it must spring up amongst us; it cannot come from abroad. If destruction be our lot we must ourselves be its author and finisher. As a nation of freemen we must live through all time or die by suicide.”.

[4] Citazioni tratte da Andrea Graziosi, L’Urss dal trionfo al degrado, Il Mulino, Bologna 2008.

[5] . Salviano di Marsiglia, De Gubernatione Dei, V, 5, 22. V. anche gli storici citati da S. Mazzarino ne La fine del mondo antico, Milano 1988, da Orosio a Prisco.

[6]  V. qui un riassunto ben fatto: http://spainillustrated.blogspot.it/2012/01/arbitrismo-politico-economico.html

TACCUINO FRANCESE! Che cosa ci insegna la crisi del Front National?, di Roberto Buffagni

Avevo appena iniziato a scrivere questo foglio di taccuino francese quando è giunta la notizia dell’espulsione di Florian Philippot dal Front National.

Non è soltanto la conclusione prevedibile di una crisi interna al FN, che si è manifestata dopo la conclusione deludente delle elezioni presidenziali francesi, e anzi sin dalla sera stessa del catastrofico dibattito televisivo tra Marine Le Pen ed Emmanuel Macron (qui il mio commento/analisi a caldo: http://ilblogdilameduck.blogspot.it/2017/05/la-parola-di-catrambronne.html ).

L’espulsione di Florian Philippot dal FN segna l’apertura di una crisi strategica delle opposizioni alla UE e al mondialismo, europee e non solo europee. A mio avviso, la ragione fondamentale di questa crisi strategica è culturale e metapolitica. Volendo fare un’analogia storica, le opposizioni alla UE e al mondialismo si trovano nella situazione delle opposizioni francesi, di destra e di sinistra, alla borghesia liberale rappresentata da Luigi Filippo d’Orléans, “re dei francesi”, negli anni tra il 1830 e il 1848. L’analogia è calzante anche per l’avversario: il governo Macron e il settore di classe dirigente che lo sostiene somigliano davvero tanto, con i dovuti aggiornamenti, ai borghesi che elevarono al trono il “roi poire” di Honoré Daumier (https://www.histoire-image.org/etudes/louis-philippe-daumier ), anche se Macron è giovane e bello e Luigi Filippo no. Tipicamente louis-philippard (haute banque, mandarinato amministrativo, accademia) il curriculum di Macron e di molti suoi collaboratori: i due primi governi di Luigi Filippo furono diretti da grandi banchieri, Laffite e Casimir-Perier; un altro suo primo ministro, Guizot, pronunciò la celeberrima frase “Enrichissez-vous par le travail et par l’épargne et vous deviendrez électeurs”; Thiers, grande storico della Rivoluzione, da ministro fece sparare sul popolo parigino senza pensarci due volte (https://www.histoire-image.org/etudes/rue-transnonain-15-avril-1834 ); e il suffragio censitario della Monarchia di Luglio è il sogno neanche tanto inconfessato di Macron e dei suoi.

Le opposizioni alla Monarchia di Luglio si dividono, come le attuali, tra opposizioni di destra (legittimista e bonapartista) e opposizioni di sinistra (repubblicana e socialista). C’è un’altra analogia interessante: che le opposizioni di destra si informano a due correnti ideologiche, una delle quali è coerente, radicale e filosoficamente ben fondata ma politicamente inservibile e impraticabile (la reazione maistriana, controrivoluzionaria, antilluminista dei legittimisti); e l’altra filosoficamente incoerente, eclettica, giacobino-romantica ma politicamente vitale e praticabile (il bonapartismo). Le opposizioni di sinistra si ispirano anch’esse a due ideologie: la repubblicana di ascendenza diretta giacobina, e la socialista non “scientifica”, pre-marxiana. Nonostante i molti tentativi coevi e successivi, le opposizioni di destra e di sinistra non riusciranno mai a unificarsi in un fronte comune contro un comune avversario che, invece, come oggi il governo Macron, governa e detiene l’egemonia politico-culturale grazie di un’alleanza-convergenza al centro politico fra ceti dirigenti provenienti da opposte sponde. Dopo il 1848, riusciranno invece ad allearsi intorno al nome del Principe-Presidente Luigi Bonaparte le opposizioni di destra bonapartista e di sinistra repubblicana, mentre le destre legittimiste e le sinistre socialiste vengono sospinte verso le estreme, dove resteranno confinate e impotenti per decenni.

Ma ritorniamo all’oggi, e a quel che ci insegna la vicenda del Front National. Naturalmente, dopo la delusione elettorale si è aperto il dibattito sul perché: perché siamo giunti a un passo da un’affermazione storica delle opposizioni alla UE e al mondialismo, e a un passo dalla meta abbiamo perso; perso, anzitutto, la fiducia in noi stessi e la capacità di ispirare fiducia ai cittadini e al popolo che vogliamo rappresentare.

Le letture della sconfitta che vengono dall’interno del campo antimondialista sono fondamentalmente due, una di sinistra e una di destra. Ne riassumo i punti essenziali.

1) Lettura di sinistra. La espone molto bene Jacques Sapir in questa intervista in due parti: https://cerclepatriotesdisparus.wordpress.com/2017/09/16/jacques-sapir-1/ https://cerclepatriotesdisparus.wordpress.com/2017/09/19/2/

In sintesi estrema: la linea vincente per il FN, e in generale per le opposizioni antimondialiste, era e continua ad essere quella, incarnata da Florian Philippot, di dédiabolisation e di apertura a sinistra sui temi sociali, che ha portato all’incremento di consensi non solo elettorali degli ultimi anni, e ha trasformato il FN nel primo partito operaio di Francia. La ragione della sconfitta è duplice: incertezza e presentazione confusa dei temi economici, anzitutto del tema dell’euro, risultante sia dall’alleanza all’ultimo minuto con Dupont-Aignan che su questo tema ha posizioni più sfumate, sia da incapacità personale di Marine, che nel dibattito è dunque parsa meno convincente di Macron; una Marine che, al secondo turno, ha rivolto agli elettori di Mélenchon (ai quali il loro leader non aveva proibito di votare FN, pur rifiutandosi di appoggiarlo apertamente) un appello poco persuaso e psicologicamente maldestro.

Senza dirlo apertamente, Sapir implica (salvo mio errore) che il FN dovrebbe insistere nella ricerca di un’alleanza con le forze sociali e politiche oggi rappresentate da Mélenchon, e a privilegiare il tema economico e sociale, integrandovi, ma in secondo piano e senza fare appello all’identità culturale, il tema dell’immigrazione.

2) Lettura di destra. Compendiata con chiarezza da Bruno Mégret, protagonista di una passata scissione del FN: https://www.polemia.com/lechec-dune-strategie/ e da questi altri interventi: https://www.polemia.com/marine-le-pen-pas-au-niveau/ , https://www.polemia.com/quelques-remarques-sur-le-front-national-apres-la-presidentielle-de-2017/

Sintetizzando al massimo: la linea “sociale” ed “economica” di Marine Le Pen/Philippot si è dimostrata perdente, numeri alla mano (v. qui: https://www.polemia.com/la-performance-electorale-du-fn-a-lepreuve-des-chiffres/ ). Sperare di sfondare a sinistra, tra gli elettori reali o potenziali di Mélenchon, è pura utopia: il tetto massimo di elettorato proveniente dalla cultura politica di sinistra è già stato raggiunto, insistervi significa soltanto allontanare, oltre ai simpatizzanti tradizionali del FN, artigiani, partite IVA, PMI e tutti i ceti che avversano lo statalismo tassatore. Il FN deve concentrare la sua azione e la sua propaganda su due temi essenziali: l’immigrazione, e dunque, la difesa e la riaffermazione dell’identità culturale francese ed europea, con la battaglia contro i diritti “sociétales”, o “cosmetici”, come si usa dire in Italia; e il recupero della sovranità intesa nel suo significato politico di “legittimità e potenza”, con quel che ne discende: recupero di una politica realistica, basata su interesse nazionale e riaffermazione dei poteri “régaliens” dello Stato (anzitutto difesa dall’esterno e sicurezza all’interno). Il tema dell’euro viene giudicato secondario (“dipende da come lo si usa”) oppure – ma di rado – se ne riconosce la decisività anche politica ma si sottolinea che è divisivo in termini di consenso elettorale (“anche i piccoli risparmiatori culturalmente affini al FN, ad es. gli elettori che al primo turno votarono Fillon, temono l’uscita dall’euro”) e tecnicamente complicato, non spendibile sul piano della propaganda (“troppo facile per gli esperti alzare un polverone in cui l’elettore medio non si raccapezza più”).

Sul piano direttamente politico-elettorale, la prospettiva caldeggiata è la seguente: sostituzione di Marine Le Pen con sua nipote Marion, o in caso di sua indisponibilità con un altro personaggio politico, e alleanza tra il FN (eventualmente sciolto e ribattezzato), la dissidenza dei Républicains, Début la France! di Nicolas Dupont-Aignan e altre formazioni minori della destra. In altre parole, la replica a destra della manovra politica (geniale) del florentin Francois Mitterrand: allearsi con l’estrema sinistra – allora il Partito Comunista Francese – andare al potere, restarci e vampirizzare l’alleato.

Semplificando al massimo, le due letture della crisi si possono commentare così:

1) Il punto debole della lettura di sinistra è questo: sorvola, sia a cagione del suo tradizionale economicismo, sia in omaggio a un wishful thinking, su quanto sia tuttora profonda la frattura culturale e metapolitica che divide destra e sinistra, anche all’interno del campo antimondialista. Sul piano direttamente politico, e usando il caso francese come caso di scuola: i militanti e gli elettori di Mélenchon (o di un politico a lui analogo) non si alleeranno mai con una forza politica che nasce da una cultura politica di destra identitaria e nazionalista, anche se il suo programma sociale rispecchia i loro interessi materiali e propone una riedizione dello Stato sociale keynesiano. Potranno verificarsi adesioni individuali o di piccoli gruppi, non un’alleanza politica vera e propria tra formazioni autonome. Non si tratta soltanto dell’effetto inerziale della contrapposizione fascismo/antifascismo, anche se sul piano degli slogan e dei riflessi condizionati emotivi verrà usata questa etichetta. La frattura metapolitica è profondissima, perché è sul concetto di eguaglianza tra gli uomini, e dunque sull’universalismo, culturale e soprattutto politico.

2) Il punto debole della lettura di destra è che a) sottovaluta, a cagione della sua tradizionale cultura antieconomicista, il valore e l’efficacia politica dell’euro e del liberismo b) sottovaluta la corrispondenza non congiunturale ma strutturale tra liberismo, “diritti cosmetici”, erosione della famiglia e dei valori tradizionali, immigrazione incontrollata e le parole d’ordine della rivoluzione francese: “libertà, eguaglianza e fraternità”, cioè a dire con la cultura illuminista e progressista, della quale la cultura politica di destra antimondialista non sa elaborare una critica coerente, che non si limiti alla pura negazione o al biasimo dei suoi effetti peggiori e più visibili, e che sia insomma propositiva e praticabile, capace di informare anche l’azione politica, costruendo un nuovo senso comune.

Sul piano direttamente politico, la lettura di destra è oggi (sottolineo oggi) l’unica che dà luogo a un progetto praticabile: fallito lo sfondamento a sinistra, diventa una scelta obbligata tentare lo sfondamento a destra. Impossibile prevederne le probabilità di successo: le variabili da cui dipende sono troppe.

E’ invece possibile cominciare a ragionare e a dibattere sul punto metapolitico della questione, perché si ripresenterà costantemente, nei prossimi anni, a prescindere dalle sorti politiche ed elettorali delle opposizioni antimondialiste e dei loro avversari. Si ripresenterà costantemente, perché c’è un tema ineludibile e durevole del dibattito e del conflitto politico che lo imporrà a tutti: l’immigrazione straniera in Europa.

Il punto metapolitico della questione è definibile, in sintesi estrema, come segue:

  1. Il mondialismo è la manifestazione storica della dialettica dell’illuminismo e del progressismo, e dell’universalismo, culturale e politico, che li accompagna.
  2. Illuminismo e universalismo sono trascrizioni secolarizzate – amputate della dimensione metafisica e propriamente religiosa – del cristianesimo.
  3. L’opposizione al mondialismo è costretta ad essere, volens nolens, opposizione all’illuminismo e all’universalismo.
  4. Questa opposizione può diventare, e in parte già è, opposizione “antitetico-polare” all’illuminismo e all’universalismo non solo politico ma filosofico e culturale, nella forma di una negazione anzitutto dell’eguaglianza tra gli uomini (e dunque di un’opposizione frontale a tutta la cultura europea, nelle sue profonde radici cristiane).
  5. Oppure, questa opposizione può diventare (ma ancora non è) una “critica-superamento” dell’illuminismo e dell’universalismo, che ritrovi nella cultura europea, e nelle sue radici cristiane, le ragioni di un universalismo filosofico e culturale, ma non politico, capace di riaffermare e giustificare, insieme all’eguaglianza tra gli uomini, la dimensione permanente della diversità di individui, popoli, culture; una diversità che legittima il perdurare di popoli, nazioni, culture diverse, che storicamente possono, di volta in volta, collaborare o confliggere.

Può sembrare che questi temi di riflessione siano lontanissimi dalle gravi e pressanti preoccupazioni politiche del campo antimondialista. Non è così. Un grande studioso contemporaneo dell’arte militare, il col. John Boyd, USAF, ci ricorda che in guerra i piani del conflitto sono tre, in ordine decrescente d’importanza: morale, mentale e fisico1. Se il campo antimondialista vuole conquistare il centro della scacchiera politica (e chi conquista il centro della scacchiera è a un passo dalla vittoria) deve costruire una cultura politica persuasiva, il più possibile inclusiva e capace di egemonia, e capace di scalzare la superiorità morale dell’avversario.

La “superiorità morale” (cioè la capacità di persuadere ed egemonizzare il senso comune) dell’avversario mondialista deriva tutta intera dal fatto che rappresenta la manifestazione storica odierna e vincente dell’universalismo, cioè a dire dell’affermazione anche politica e istituzionale dell’eguaglianza tra gli uomini. Se il campo antimondialista vuole conquistare la superiorità morale, è su questo punto che deve criticare e attaccare l’avversario. Il modo in cui lo farà deciderà senz’altro la forma, e probabilmente anche l’ esito del conflitto.

1 • Guerra morale: distruggere la volontà di vincere del nemico, con disarticolazione delle sue alleanze (o allontanamento di potenziali alleati), e induzione della frammentazione al suo interno. Idealmente, risulta nella “dissoluzione dei vincoli morali che consentono a un’organizzazione di esistere come insieme organico.”

Guerra mentale: distorcere la percezione della realtà da parte del nemico, a mezzo disinformazione, atteggiamento ambiguo, e/o interruzione dell’infrastruttura di comunicazione/informazione.

Guerra fisica: la capacità di utilizzare risorse fisiche quali armi, persone, e strumenti della logistica.

Naturalmente, a questi metodi per indebolire il campo avverso, corrispondono simmetricamente i metodi per rafforzare il proprio: rinvigorire la volontà di vincere allargando le alleanze e accrescendo la coesione interna, correggere e mettere a fuoco la propria percezione della realtà, etc.

Vedi: https://en.wikipedia.org/wiki/John_Boyd_(military_strategist)#Foundation_of_theories

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