Europa, nuovi Stati, nomos del mondo, di Pierluigi Fagan

IL “CHE FARE?” DI CARL SCHMITT. Europa, nuovi Stati, nomos del mondo (1/2).

A cominciare da questo scritto, tratteremo una materia aggrovigliata che comprende l’attualità e la crisi del concetto di Stato, la risposta data con l’Unione europea e l’euro, questi due argomenti in relazione al divenire multipolare del Mondo, quale altra possibile strada si potrebbe percorrere riconoscendo l’esistenza di un problema-Stato ma non riconoscendosi nelle attuali soluzioni date. Lo faremo “con” e “contro” C. Schmitt che ci aiuterà anche a sviluppare -in seguito- una riflessione sulla geofilosofia. Questa è la prima parte di due di un primo approccio al non semplice tema.

Ci sono pensatori politici di due tipi, quelli che rimangono teorici e quelli che bordeggiando contingenze pratiche, finiscono con l’addomesticare la propria teoria alla contingenza. Il “bordeggiamento” citato è in qualche modo fisiologico visto che la destinazione della filosofia politica è la ragion pratica ma un conto è prevederla nel pensiero, altra cosa è piegare il pensiero alle occasioni della partecipazione della contingenza pratica. La linea del pensiero politico -diciamo così- “puro” la possiamo rappresentare con Aristotele, Machiavelli, Hobbes, Rousseau, Kant, Marx; la linea teorica che ha avuto contatti con la pratica la possiamo rinvenire in Platone, Bodin, Locke, Montesquieu, Hegel, Lenin-Mao. Ognuno di essi fa coppia con il corrispettivo dell’altra linea che gli è a volte coevo, a volte di poco successivo o comunque connesso per ispirazione od opposizione ideologica[1]. La prima linea ha il suo problema detto “problema teoria-prassi”, la seconda linea ha il problema di come la prassi, che essendo storica è sempre contingente, ha piegato la teoria. Carl Schmitt, il cui pensiero ha rilievo sul concetto del politico soprattutto in senso  giuridico, si inserisce in questa seconda linea ed ha in Hans Kelsen il suo corrispettivo inverso. Qui ci occuperemo solo del suo pensiero di politica internazionale per i rilievi critici mossi al modello anglosassone e la riflessione sulla crisi del concetto di Stato a cui diede soluzione con le idee di impero e grande spazio (Grossraum).

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L’idea di Schmitt, in politica internazionale,  era quella di collocare un termine medio tra lo Stato la cui logica e potenza vedeva in via di superamento già dai primi del Novecento e la posizione universalista-liberale basata su mercato e diritti individuali che sfociava nell’utopico (ma invero distopico) “One World”. Questo termine medio che egli basava sulla coppia “impero-grande spazio”, rivela concretamente  l’ intreccio di teoria ed opportunità pratica e contingente di cui dicevamo. Il concetto di impero, supererebbe lo Stato ma cosa sia l’impero per Schmitt non è facile da definire. Si tratterebbe specificatamente del Reich tedesco -o meglio- dei “tedeschi”, un soggetto politico-giuridico basato su una entità-identità etnica o come lui dice “nazional-popolare”. Per lo Schmitt nazional-socialista, sarebbe la nazione a determinare lo Stato e non viceversa. Schmitt non solo è un giurista ma è anche tedesco e conseguentemente, di solito, lucido e preciso nelle definizioni, come possa ritenere di fondare un diritto internazionale spostando il concetto della varietà a base del sistema da Stato a nazione in quanto popolo, non è però del tutto chiaro. Più chiaro diventa se ambientiamo la sua trattazione del 29 Marzo 1939 “L’ordinamento dei grandi spazi nel diritto internazionale. Con divieto di intervento per potenze straniere[2], all’attualità dell’istituzione del Protettorato di Boemia e Moravia  che datava -guarda il caso-, due settimane prima, il  15 Marzo 1939 e la precedente annessione dell’Austria. Il blitzkrieg della Campagna di Polonia invece, sarà del settembre dello stesso anno, previo patto di spartizione Molotov-Ribbentrop di Agosto.

Lo scritto quindi cercava di dare forma e dignità giuridica all’idea  della diade impero-grande spazio, per porla come principio di un nuovo diritto internazionale che modificava la struttura di quello dominante, quale i francesi e gli anglosassoni avevano ratificato ed imposto a Versailles nel 1919. L ‘impero dei tedeschi, la terza versione del  Deutsches Reich, doveva diventare il baricentro di un nuovo grande spazio,  stante che non tutti i popoli erano in grado di svolgere questa funzione ordinatrice, funzione che ora -diceva lui- con la guida del Fuhrer, i tedeschi erano in grado di svolgere riscattando una secolare debolezza politica che aveva fatto dell’Europa centro-orientale, un ventre molle, pulviscolare e disaggregato la cui funzione era stata quella di tenere in equilibrio il gioco della grandi potenze europee (Francia, Inghilterra, Russia). S’era imposta quindi una unificazione dei tedeschi che diventavano il popolo a base del concetto di impero che superava quello di Stato, che a loro volta imponevano la propria versione tedesca dell’americana dottrina Monroe rivista nel concetto di grande spazio, prefigurando un nuovo ordine internazionale di equilibrio e bilanciamento di potenza mondiale, basato appunto sulla logica degli imperi-grandi spazi, essenzialmente multipolare. Questa nuova unità metodologica, che riscriveva i parametri del diritto internazionale, “s’imponeva” nel senso che era frutto del decisionismo tedesco, stante che il “decisionismo” era la tipologia del diritto che Schmitt aveva già teoricamente perorato in opposizione al normativismo positivista di Kelsen,  mentre il grande spazio, era l’area amica del nuovo impero da interdire ai nemici secondo la partizione amico-nemico che Schmitt dava come definizione stessa del “politico”. Nel suo contingente, l’impero-grande spazio dei tedeschi, era la resistenza alla doppia -minacciosa- pressione dei due universalismi, quello a guida anglosassone del mercato con diritti individuali ad ovest e quello sovietico del comunismo dei diritti sociali ad est. Per Schmitt, parafrasando la Thatcher, non c’erano né individui, né classi ma solo il popolo etnicamente omogeneo che si fa Stato. In seguito sarà il caso di tornare su questa tripartizione dell’unità metodologica che divide liberali, comunisti e nazionalisti ovvero se c’è davvero un primato dell’individuo, delle classi o del popolo-nazione e soprattutto se ciò che si sceglie come primato, escluda gli altri due concetti o li metta in gerarchia, stante che -a prima vista- le tre unità sembrano tutte legittime in quanto esistenti e non si capisce bene quali sono le ragioni per sceglierne una sola che tende ad escludere le altre due. Nel grande spazio, un’area circondante l’impero a cui veniva impedito l’accesso militare dall’esterno, rimaneva l’apertura al commercio mondiale ed alla pacifica interrelazione inter-nazionale. Il concetto di impero, si doveva fondare sulla omogeneità interna, ovvero sull’esistenza di una comune sostanza spirituale, culturale, storica, delle tradizioni e dei modi di vita di un dato “popolo”[3]. Gli Stati dei grandi spazi invece, ancorché tutelati dalle minacce esterne dal loro baricentro imperiale, dovevano rimanere politicamente, giuridicamente ed economicamente indipendenti e per tutti i versi, autonomi.

Distillando l’idea dalla contingenza, il puro dal pratico, Schmitt vedeva un mondo in cui il piccolo-medio Stato europeo non era più idoneo al nuovo ambiente politico mondiale, già da tempo.  Con la prima guerra mondiale era terminata la lunga modernità a baricentro europeo, e quindi era terminata la logica di quell’equilibrio concertato nel quale le potenze europee, con l’accaparramento coloniale,  avevano tutte trasferito il conato espansivo fuori del sub-continente. Avevano colonie nell’oltremare: Portogallo, Spagna, Inghilterra, Francia ed Olanda mentre gli Asburgo si erano espansi a danno degli ottomani ed i russi verso Asia Orientale e Centrale e la Siberia. Il Reich che rappresentava la rinascita e l’affermazione dei tedeschi e occupava ora quel territorio centrale prima camera di compensazione dei conati espansivi degli altri, non aveva possibilità di trasferire il proprio conato espansivo fuori d’Europa. Impedito per condizione geografica terranea (al pari dell’Austria-Ungheria e della Russia) e non -anche o solo- marina, ma anche perché era arrivato tardi alla spartizione essendo ormai gli appezzamenti coloniali saturati dagli altri. In più, alla prima fase moderna monopolizzata dagli europei ora subentrava la fase mondiale in cui oltre agli europei si presentavano alla contesa mondiale anche gli Stati Uniti ed il Giappone, nonché i russi in versione sovietica, ognuno a suo modo impero con i suoi conati di espansione ed egemonia su un loro grande spazio. Più tardi e già nel 1952, (L’Unità del mondo), intuisce che l’allora dualità americo-sovietica si sarebbe risolta in un nuovo mondo multipolare di cui però vede tracce già prima della seconda guerra mondiale. Oltreché per vocazione teutonica quindi, l’idea di impero in quanto Stato più grande, s’imponeva per ragioni storiche e di differente struttura della competizione che da europea, si era fatta mondiale.

La successiva spartizione polacca del ’39, rientrava ancora nei diritti di “riappropriazione dei tedeschi” che facendosi popolo unito e concedendo pari diritto di grande spazio in regime di reciprocità ai russo-sovietici, provavano ad imporre nei fatti la nuova logica del nuovo diritto internazionale. L’inizio della seconda guerra mondiale, ovvero la reazione anglo-francese proprio in occasione della spartizione della Polonia, altresì precedentemente silenti su Austria e Boemia-Moravia, si potrebbe quindi leggere come l’inammissibilità di questo nuovo diritto da parte dei detentori dello standard.  In ogni epoca l’idea dominante è quella delle potenze dominanti e chi muove guerra lo fa sul piano della potenza quanto su quello delle idee fondate su un qualche principio di legittimità. Schmitt, come molti teorici tedeschi con visione geopolitica, non era in favore della successiva esplosione imperialista nazista, a cominciare dalla disgraziata campagna di Russia. Il suo impero era uno Stato grande ed omogeneo etnicamente, una volta raggiunta la sua “naturale” espansione includente tutti i “tedeschi”, doveva rimanere in sé, pacifico a meno di non essere attaccato nel suo “grande spazio” di cui -per altro- Schmitt non dettagliò mai con precisione i confini. Tale potenza imperiale ma non imperialista, avrebbe esercitato la sua tutorship sul suo grande spazio non diversamente da quanto era nella logica iniziale (1823) della americana dottrina Monroe.

Schmitt si richiama positivamente e più volte nei suoi scritti del tempo alla dottrina Monroe, sia perché concettualmente concorde, sia per fondare il suo impianto su un atto di decisionismo già posto dal “nemico”, riconoscendo la logica del nemico si sarebbe potuto convenire un nuovo diritto internazionale comune. Ma la dottrina Monroe era intesa nella sua “logica iniziale” difensiva e non offensiva come poi gli americani più volte la reinterpretarono allargando tra l’altro l’area del loro unilaterale diritto prima all’intero emisfero occidentale (Americhe più i due oceani antistanti), poi oltre avendo in obiettivo l’egemonia sull’intero mondo. Secondo Schmitt, gli americani ereditavano la logica base del loro ordinatore di mercato dagli inglesi e tendevano per forza di questo a diventare una talassocrazia commerciale senza limiti e confini perché -in effetti- è nella logica stessa del “mercato” non avere limiti e confini, così come adottare l’ordinatore del mercato è proprio di tutti coloro che sono fisicamente isole e non risentono della logica del nomos della terra. Nei fatti però, né gli americani, né i sovietici, né Hitler seguivano la logica pura del diritto che seguiva Schmitt. La sua cattedrale giuridica fondata sul sistema impero-grande spazio, avrebbe -nei suoi auspici-, rappresentato il nuovo ordine mondiale in un sostanziale equilibrio di potenza multipolare nel quale le potenze imperiali rimanevano in dialogo economico, politico, giuridico, astenendosi dalla guerra nel riconoscimento del diritto reciproco tra nemici, pacifici quindi non per astratto “pacifismo” ma per reciprocità nello stato d’equilibrio. Ma la contesa delle posizioni in questo primo accenno di situazione multipolare, non era ancora pronta per la via giuridica, come sembra non lo sia ancora oggi. La divergenza tra pensatore e realtà nasce sempre dal fatto che il pensatore, vincolato al suo sguardo specialistico, non pensa assieme tutte le variabili del sistema e del suo contesto, la sua teoria può spesso essere in anticipo sulla realtà (non è sempre l’hegeliana “nottola di Minerva”), in più, la realtà è sempre sovradimensionata in complessità rispetto alla teoria che ne è immancabilmente una “riduzione”.

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Questa parte pura del ragionamento di Schmitt ha -oggi- innegabili ed inquietanti aspetti forti di attualità. La sua percezione sulla crisi e superamento dello Stato (europeo) di allora, e ci riferiamo addirittura a gli anni ’20,  sembra del tutto esente da considerazioni demografiche, economiche, culturali e religiose, è una percezione del tutto polarizzata da fatti politici, giuridici e militari. Ma se era a suo tempo attuale (e condivisa da coevi scritti francesi ed inglesi) questa sensazione di inadeguatezza dello Stato europeo, oggi che sommiamo a gli aspetti politici, giuridici e militari tra l’altro viepiù vincolanti e limitanti, quelli economici e finanziari ma anche culturali della globalizzazione, nonché l’esuberanza del mondo islamico e le asimmetriche demografie, nonché i problemi planetari quali quelli ambientali, tale attualità  è da rilevarsi addirittura in misura maggiore. Colpisce però questa sicurezza nella diagnosi di insostenibilità del formato di Stato europeo proveniente da lunghe durate precedenti, nella letteratura di un secolo fa, colpisce il fatto che forse -oggi- monopolizzati da immagini di mondo economiciste, noi si faccia diagnosi superficiali di problemi che affondano radici nella lunga durata ed in fenomenologie più complesse.

Se il Deutsche Reich, il grande Stato dei tedeschi in forma di impero, lo soddisfaceva come potenza europea continentale di prima grandezza, è per noi altresì evidente, nella nostra attualità, che la Germania riunificata è fuori standard rispetto al livello dell’Italia, della Francia e per quanto non prettamente “europea” anche della Gran Bretagna, oggi -rispetto ad allora- ben più ridimensionata. Altresì, sebbene interpretato per via economica-monetaria oltreché giuridica con l’Unione europea e l’euro, dobbiamo rilevare attuale anche l’idea del grande spazio di cui lo Stato potente si circonda ma gli stati non tedeschi di questo grande spazio, invece che avere piena sovranità com’era nella teoria, in pratica, oggi sono tutti politicamente, economicamente-monetariamente e giuridicamente subordinati alla potenza tedesca. Schmitt non dettagliò mai la composizione del suo grande spazio ma a noi -oggi-, l’idea di fare da grande spazio ai tedeschi, non credo quadri.

In più, invece che essere i tedeschi militarmente potenti e tutor della difesa europea, siamo tutti noi e tedeschi inclusi, grande spazio degli Stati Uniti d’America. Non più solo come nella guerra fredda in via difensiva (Art. 5 della NATO) ma complici e partecipi di un sostanziale allargamento del grande spazio americano che offende il grande spazio russo (Ucraina, Georgia-Caucaso, Balcani, Baltico). Questa condizione subalterna, aggiunge a noi la privazione della sovranità nella politica estera, privazione che si somma a quelle inflitte dal dominio dell’”impero” di Berlino sul piano monetario-economico-giuridico. Poiché dire “impero” di Berlino è concedersi una semplificazione polemica che non spiega di come si sia venuta a creare questo dominio che di solito spieghiamo con la cooperativa degli interessi cosmopolitici delle élite neoliberali europee e non, occorre specificare che senza Parigi, Berlino non sarebbe stata in grado di imporre la sua visione dell’UE e neanche l’euro in quanto tale. Quando diciamo che l’UE e l’euro si basano sull’asse Parigi-Berlino descriviamo un fatto ma non ne ricaviamo una teoria. Sarebbe invece interessante sviluppare la teoria che oltre ai criteri economici e monetari delle élite dominanti potenziate dall’ideologia neo-liberista e del ruolo tutelare svolto da Washington, osservi anche quelli geopolitici che legano tra loro i due soggetti ingombranti. Europa, euro, globalizzazione, ancorché sistemi che hanno fini a promotori economici, sono pur sempre figli di una deliberazione giuridica, deliberazione che in qualche modo deve pur sempre far capo ad uno o più Stati.

Se ci si immerge nella mentalità dell’altro, dei francesi e dei tedeschi, nel loro “inconscio storico” segnato da Napoleone che esonda in Germania, la Crisi del Reno, il conflitto franco – prussiano del 1871 che portò i tedeschi a Parigi a terminare la Comune, la prima guerra mondiale e la lunga contrapposizione nell’orrore delle  trincee, a cui fa seguito Versailles con l’annessione francese dell’Alsazia-Lorena, l’umiliazione della Renania e l’occupazione della Ruhr, a cui fa seguito il disordine di Weimar e la reazione orgogliosa dei tedeschi versione nazisti che poi sfocia nella seconda guerra mondiale in un altro mattatoio e nuova occupazione di Parigi, non si può non considerare il fatto che tedeschi e francesi abbiano avuto -ed abbiano- forte il senso della problematicità del loro vicinato[4].

Ed è la cronologia dei fatti storici del dopoguerra a dirci che tra le tre diverse forme europee post-belliche di comunità (del carbone e dell’acciaio, atomica, economica) tutte degli anni’50 e la successiva fusione unificante del ’67, si colloca quel trattato dell’Eliseo tra De Gaulle ed Adenauer (1963) che, trasformando la storica inimicizia in promessa di amicizia, sancisce la diade politica direttiva egemone sull’intero processo unionista, diade tutt’oggi agente e proprio oggi richiamata in campo dal nuovo progetto Macron-Merkel.  Ed è la storia del processo di istituzione dell’euro a dirci quale fu il ruolo dell’intesa tedesco-francese, intesa basata sul diritto tedesco di imporre i suoi parametri a tutti meno che alla Francia la quale ha goduto in questi anni di molte esenzioni nel mentre occupava ruoli direttivi non sempre proporzionati alla sua effettiva potenza e reale brillantezza economica[5]. L’UE e l’euro hanno ovviamente molte cause e ragioni ma in buona sostanza, potrebbero ben definirsi il trattato di pace franco-tedesco il cui prezzo viene pagato da tutta l’Europa. Ogni volta che ci ricordano che queste istituzioni, “evitano la guerra”, è a questa problematica convivenza franco-tedesca, a questo antico motore della guerra sub-continentale  che si allude. Non si può spiegare quindi l’”impero” di Berlino se non considerando il ruolo di garante e legittimante offertogli da Parigi, “poliziotto buono” della coppia[6] in cambio del ruolo di co-leadership, con loro comune beneficio finale di aver scaricato le tensioni reciproche sul resto d’Europa, rimescolando in un minestrone mal digerito, il “sogno di una cosa” dei francesi Abate di Saint-Pierre e Rousseau da una parte e del tedesco Kant dall’altra. Ed anche il repertorio mitico, visto che non c’è una Costituzione politica europea effettiva, ha riesumato quel Carlo Magno che in quanto franco è l’unico antenato comune tanto dei francese che dei tedeschi.

Il sistema EU-euro, sembrerebbe quindi pensabile come una risposta alle contraddizioni interne del sub continente travagliato dalla conflittuale convivenza dei due pesi massimi, che scarica i costi di mediazione su tutti gli altri e concede ai due diarchi pace, potenza relativa e vari tipi di egemonia, per affrontare l’impegnativo gioco multipolare. La Francia, nella modernità, avrebbe preso il ruolo che nel Medioevo aveva il papa, quello di legittimante. Forse nelle nostre critiche all’europeismo, ci concentriamo troppo su Berlino ed osserviamo tropo poco Parigi, forse guardiamo troppo i fatti economici e troppo poco quelli geopolitici, le classi e non le nazioni, i mercati e non gli Stati.

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[1] Mentre Platone, nell’Accademia, formava veri e propri consulenti di governo che ebbero poi altrettante esperienze pratiche e lui stesso con Dionigi di Siracusa (e come cambia il pensiero politico attribuito a Platone tra Repubblica, Politico e Leggi, forse proprio in ragione di quelle esperienze), Aristotele nel Liceo, colleziona costituzioni e per ragioni politiche dovette addirittura scappare da Atene. Mentre Machiavelli perde la sua posizione di Segretario e scrive appassionato tutto quello che avrebbe detto al suo Principe se solo gliene fosse data l’occasione, Bodin fa  da Consigliere a Enrico III, è egli stesso parlamentare. Mentre Hobbes scrive il Leviatano stando in Francia ed osservando da lontano la Guerra civile di Cromwell, Locke è segretario del Lord cancelliere Shasftsbury e con i Due trattati sul governo, deve giustificare ex post la Gloriosa rivoluzione. Il nobile di toga Montesquieu è senz’altro più inserito del Rousseau che vaga per l’Europa ospitato da amici, coltivando sempre più un senso paranoide di solitudine. Mentre Hegel elabora la dottrina dello Stato etico prussiano ricavandone la cattedra di Berlino, Kant si auto imbavaglia per non polemizzare oltre il dovuto con Federico Guglielmo II. Così mentre Marx teorizza la fine dello Stato e la sua definitiva estinzione, Lenin ci pensa su e scrive Stato e rivoluzione e Mao fa la rivoluzione con la Lunga marcia che in realtà era una lotta di liberazione nazionale dall’invasione Giapponese, una riappropriazione dello Stato cinese (da sempre un impero) che ancora oggi non ci pensa minimamente di estinguersi.

[2] Lo scritto è contenuto in: C. Schmitt, Stato, Grande Spazio e Nomos, Adelphi, 2015. Questo volume è ricco di molti altri spunti nei suoi altri dodici saggi che lo compongono. Per evitare note ipertrofiche, abbiamo omesso i successivi, precisi, riferimenti.

[3] E. Hobsbawm, notò -a ragione- che l’idea dei popoli (diritto all’autodeterminazione) come unità base del politico, venne introdotta nel diritto internazionale da W. Wilson nel Trattato di Versailles. E. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismo dal 1780, Einaudi, 1991. Peraltro, prima di lui, lo aveva notato anche lo stesso Schmitt sempre a caccia di principi di legittimità presi dal “nemico”.

[4] I fatti brevemente ricordati che in sede storica sono addirittura categorizzati nell’espressione “ostilità franco – tedesca” o “inimicizia franco – tedesca ereditaria”, vennero declinati in quella franco – prussiana, franco – asburgica, in quella, continua, del Rinascimento e del Medioevo -indietro- fino alla spartizione ereditaria dell’unità carolingia dalla quale partono anche le prime formazioni delle rispettive lingue nazionali.

[5] Di contro, si noti l’asimmetria militare per la quale la Francia, pur scivolando nel tempo a rango di media potenza per ragioni internazionali, ha a lungo mantenuto una sua autonomia militare, inclusa l’atomica ed il seggio di rappresentanza nel Consiglio di sicurezza dell’ONU, mentre la Germania è rimasta praticamente disarmata. Chi ha l’arma non ha la moneta, chi ha la moneta non ha l’arma.

[6] Si torni alla crisi greca del Luglio 2015 e si ricordi il ruolo mediatore giocato da Hollande o la sorridente umanità dei burocrati francesi di Bruxelles che sembra tanto preferibile -nella forma- rispetto ai prestanome tedeschi (in genere olandesi e finlandesi), quando non differisce da questi -nella sostanza- di una virgola.

UN MONDO SENZA EUROPA, intervista a Marcello Foa (tratta da ticinolive.ch)

Marcello Foa:”L’Europa non ha più una Politica Internazionale”|Panoramica sulla Politica Mondiale

NOTA DEL REDATTORE_ Marcello Foa è un giornalista-intellettuale, esperto di mass-media e tecniche di comunicazione (da segnalare il suo libro “”Gli stregoni della notizia_ed GUERINI E ASSOCIATI), figura riconosciuta di quel mondo liberale ormai sempre più attratto dalle chiavi interpretative del realismo politico. Chiavi utilizzate da più punti di vista i quali a volte partono “dal basso” dei fondamenti popolari, democratici, meglio del cittadino, a volte “dall’alto” dell’azione delle élites. E’ il terreno d’incontro, quello dell’azione dei  centri strategici, sul quale le varie culture politiche che hanno conformato l’azione politica nel ‘800 e nel ‘900 ma che sono attualmente in crisi profonda, possono individuare nuovi fondamenti sui quali poggiare l’azione politica. Qui sotto l’interessante intervista_Germinario Giuseppe http://www.ticinolive.ch/2017/11/02/marcello-foaleuropa-non-piu-politica-internazionalepanoramica-sulla-politica-mondiale/
Marcello Foa, in un’intensa intervista, densa di contenuti, racconta a Ticinolive la sua visione in merito ai leader mondiali d’Europa, America, Russia Turchia e Medio Oriente

Marcello Foa, scrittore e giornalista

Europa. Macron il candidato europeista getta la precedente maschera del cambiamento. Cosa ne pensa?
«Bisogna innanzitutto capire chi sia davvero Macron: già il fatto che stia calando nei sondaggi è emblematico. Ha conquistato l’Eliseo sulla base di promesse che, una volta eletto, ha smentito quasi subito.  Come avevano intuito solo pochi osservatori, la sua elezione è in realtà frutto di un’operazione di Marketing politico. Jacques Attali, il guru della politica francese aveva profetizzato, un anno prima del voto, che a vincere le elezioni sarebbe stato uno sconosciuto, capace di cavalcare l’onda della voglia di cambiamento del popolo. In un’intervista televisiva Attali aveva ipotizzato proprio i nomi di Macron e di Le Maire. (quest’ultimo è comunque diventato ministro dell’economia). Tutto ciò dimostra come dietro l’elezione di Macron vi fosse un disegno ben definito. Macron non è l’interprete di un vero cambiamento, è piuttosto il rappresentante dell’establishment e ora getta la maschera; è in continuità con Hollande. Il suo disegno è di rafforzare l’Europa e scongiurare possibili uscite dall’UE.»
Si dice che Macron abbia vinto anche per questo, ovvero per il timore di uscire dall’UE nel caso di vittoria dell’avversaria Le Pen
«Tematiche vecchie. Personalmente ritengo che per qualunque popolo sia legittimo voler uscire dall’Unione Europea e difendere la propria sovranità. Anche in Germania, ad esempio, nonostante il successo di Angela Merkel, ci sono segnali di disaffezione. Con l’elezione di Macron l’obiettivo di prolungare la stabilità dell’Unione dopo lo choc della Brexit è stato raggiunto, ma di sicuro l’Unione Europea continuerà a non dormire sonni tranquilli, come dimostrano i recenti risultati in Austria e nella Repubblica Ceka.»
Angela Merkel viene rieletta con uno scarso successo. Cosa ne pensa? Ritiene che la spinta di AfD avrà ripercussioni sull’Europa oppure sia irrilevante?
«La Merkel, nonostante la sua straordinaria passata lungimiranza politica, è uscita decisamente ridimensionata dalle ultime elezioni e la coalizione Jamaica stenta a decollare. È una Merkel meno forte di prima che deve contare ora su due alleati, anziché su uno solo. Il successo di AfD si basa soprattutto su due fattori: anzitutto i cosiddetti Mini Jobs, pagati pochissimo (4-500 euro mensili), che danno lavoro a oltre 7 milioni di tedeschi; in secondo luogo l’immigrazione incontrollata, permessa per un certo periodo di tempo, ha provocato reazioni di rigetto molto forti. Inoltre l’ex Germania dell’Est non è risorta come ci si poteva aspettare. Tutto ciò per dire come la Germania, benché sia il primo Paese europeo, debba affrontare problemi interni che la Merkel non ha risolto e davanti ai quali non può continuare a chiudere gli occhi. Inoltre, sino a quando i paesi d’Europa accetteranno l’egemonia della Germania? La Francia di Macron ha bisogno di Berlino per spingere la propria agenda europeista, però i liberali tedeschi, probabili alleati della Cdu, sono molto più freddi al riguardo. molto meno convinti di riporre la loro fiducia nella Cancelliera. E sino a che punto la Merkel stessa potrà permettersi di sostenere l’agenda di Macron?»
L’Europa chiude gli occhi di fronte ai problemi, anche alla Questione Catalana…
«L’UE si è schierata con Rajoy, poiché altrimenti, se avesse sostenuto la causa catalana avrebbe rischiato di incoraggiare altri movimenti indipendentisti aspiranti alla secessione in altre regioni europee. E’ interessante notare come i Catalani non siano antieuropeisti, ma, al contrario, abbiano sempre progettato una secessione restando un paese all’interno dell’UE stessa. Ma questo non è bastato a convincere Bruxelles che ora teme qualunque forma di instabilità.»
Trova un parallelismo con la Lega Nord degli anni ’90 di Bossi, la cui Secessione prevedeva una Padania nell’orbita europea e non al di fuori di essa?
«Anche se Bossi non aveva il consenso che ha tutt’ora Puigdemont, il paragone è plausibile. Tuttavia non riguarda la Lega di oggi che non mette più questi temi al centro del proprio progetto politico.»
Proprio in merito a Puigdemont, un leader politico in esilio, cosa pensa?
«La Catalogna è un paradigma: è giusto concedere l’indipendenza a un popolo che la reclama? In Kosovo la risposta occidentale fu sì, in Catalogna è no… D’altra parte la questione, una volta portata all’estremo, non doveva essere abbandonata: Puigdemont, fuggendo in Belgio, ha dimostrato che non era pronto a condurre gli eventi, né a gestire una sfida così grande. La Catalogna è una lezione per tutti coloro che sognano grandi cambiamenti, come l’abbandono dell’euro: si può fare ma con un livello di preparazione altissimo e un leader davvero all’altezza. Puigdemont chiaramente non lo era e non lo è.»
America. Trump è stato eletto contro la maggior parte dei pronostici. Come vede la sua figura?
«Trump ha interpretato con successo il disagio dell’America profonda; raccogliendo consensi anche tra l’elettorato che aveva creduto alle promesse di cambiamento di Obama. La furibonda opposizione a Trump nasce dal fatto che egli non appartiene all’establishment, a cui invece aderiscono i leader democratici e repubblicani. Ma l’establishment non poteva permettersi di perdere la Casa Bianca, da qui la reazione. Trump si è fatto “normalizzare”, soprattutto sul piano della politica internazionale: per esempio aveva promesso una politica molto meno interventista in Medio Oriente e invece ha continuato sulla stessa linea in Siria; chiaramente non ci sarà la distensione con la Russia e, ancora, in politica economica non ha ancora limitato le politiche globaliste a favore di programmi di tutela nazionale. Trump continua ed essere imprevedibile solo sul fronte mediatico, ma nella sostanza ha fatto molti passi indietro; eppure, nonostante ciò, l’establishment non lo accetta, e cerca di estrometterlo con ogni pretesto.»
Russia. Cosa pensa riguardo ai rapporti tra Russia, Europa e Stati Uniti?
«L’Europa avrebbe tutto l’interesse ad avere rapporti distesi con Putin, ma si è accodata all’America accettando di sanzionare Mosca. L’Europa di oggi non ha più una politica internazionale, come dimostra l’emblematico caso in cui Biden, ex vice di Obama, preso da slancio durante una sua conferenza in un’università, ammise: “Abbiamo costretto i nostri amici europei a imporre le sanzioni alla Russia”. Le logiche sono esclusivamente americane, per gli europei di dubbio beneficio. A mio giudizio mirano a un cambio di regime a Mosca, con un leader amico al posto di Putin, il quale però è molto scaltro e ancora oggi molto popolare.»
Putin, a differenza dei leader sovracitati è al potere da quasi vent’anni. Come giudica il suo operato?
«Continuerà ancora per molto a stare al potere, e a governare abilmente il suo Paese. Personalmente conosco la realtà della Russia, Paese che ho seguito da inviato speciale dagli anni ’90 sino al 2008. In questo lasso di tempo la Russia è cresciuta, anche nelle classi sociali più basse la povertà è diminuita. La popolarità di Putin è autentica e le logiche russe sono, all’Occidente, sconosciute. Il successo economico è attribuibile al petrolio e Putin negli anni di prosperità ha commesso un errore: quello di non aver spinto la conversione e la diversificazione dell’economia russa; lo sta facendo ora, dopo le sanzioni ma, se lo avesse fatto prima, oggi la Russia sarebbe più forte. Per quanto riguarda la politica estera, la sua capacità di prendere in contropiede gli Usa, ad esempio in Siria, è stata notevole, grazie anche all’intelligenza dei suoi collaboratori.»
Oriente. Proprio riguardo la suddetta Siria, cosa pensa del paese e del suo governatore, Assad?
«La guerra in Siria si combatte ormai da alcuni anni, la cosiddetta Rivoluzione Colorata altro non è stata che una maschera di una rivoluzione in realtà violenta. La novità è che non si è conclusa con la caduta del regime come invece era accaduto per la Tunisia, l’Egitto e, in modo assai violento, in Libia, nel 2011. Certamente la Siria non tornerà il Paese di prima e il prezzo pagato in termini umanitari sarà davvero spaventoso.»
Turchia. Come giudica Erdogan, tra la maschera di una politica moderata e la contemporanea missione di islamizzazione?
«Sono sempre stato molto scettico su Erdogan. Già dieci anni fa, in controtendenza rispetto all’opinione di allora, scrivevo che l’allora premier fosse tutt’altro che un moderato, e che perseguisse un’agenda nascosta di matrice fondamentalista. Erdogan è un integralista, e si considera l’erede non di Ataturk ma del Califfato ottomano. Ciò ha delle implicazioni molto forti, perché sposta gli interessi strategici turchi verso i Paesi del Golfo. La questione della Turchia dovrebbe esser presa seriamente in considerazione da parte dell’Occidente, tenendo anche conto che è un paese membro della NATO. L’Occidente si dovrebbe porre delle domande chiedendosi, ad esempio, se sia giusto chiudere gli occhi di fronte agli arresti dei giornalisti e alle innumerevoli volte in cui in Turchia sono stati calpestati i diritti umani. Come dire: possiamo davvero fidarci della Turchia di Erdogan?»

Intervista di Chantal Fantuzzi

DEUTSCHLAND ÜBER ALLES?, di Giuseppe Germinario (versione integrale)

trump-merkelI DUE PROTAGONISTI

Di Donald Trump temo che continueremo ancora per mesi se non anni a sorbirci soprattutto i resoconti dettagliati dei suoi difetti o sedicenti tali; dalla maldestra improvvisazione alla ruvidità di modi, dall’affettata eleganza alla volubilità di giudizi, alla rozza ignoranza. Con il nobile intento di salvaguardare l’umanità da questo flagello, i campioni dell’informazione democratica, in particolare il NYT (New York Times) e il WP (Washington Post), dimentichi delle restanti cose del mondo, stanno da tempo concentrando la totalità degli sforzi in questa missione piegando ad essa fatti, realtà e soprattutto deontologia professionale. Con la stessa dedizione, ma con evidente minore fatica, gli innumerevoli corifei dell’informazione europea, pervasi da certezze assolute, non fanno altro che spandere a cuor leggero veline e veleni propinati dai capostipiti. Eppure almeno una caratteristica del Presidente Americano dovrebbe accomunare il giudizio dei pochi fautori e dei tanti detrattori del suo prominente impegno: la capacità di scatenare l’aperto spirito bellicoso anche nelle personalità più prudenti e discrete; tra queste, senza dubbio il Cancelliere tedesco.

Di Angela Merkel, nella vicenda delle intercettazioni americane delle sue conversazioni telefoniche, abbiamo apprezzato la capacità di accettare dal versante amico le peggiori intrusioni e umiliazioni senza alcun pregiudizio dei rapporti, in particolare quelli con Obama e senza apparenti sussulti di orgoglio; nella vicenda del milione di profughi siriani, invece il suo spirito di accoglienza talmente ecumenico da equivocare sulle profferte amorose del branco senza autorizzazione delle interessate, salvo cercare di rifilare con discrezione gran parte degli ospiti ai paesi vicini una volta constatata la loro difficoltà di inserimento e la loro preparazione professionale evidentemente non all’altezza delle aspettative; nella vicenda delle contraffazioni dei dati di emissione degli scarichi delle auto tedesche, abbiamo apprezzato la difesa pur tardiva dello spirito puritano a scapito forse dell’immagine di efficienza del sistema industriale e dei sistemi di controllo tedeschi. Il meglio della sua valenza di amministratrice, almeno sino a pochi mesi fa, è emerso nella vicenda del collasso della Grecia quando con mirabile quadratura è riuscita a conciliare l’aura puritana del rigore contabile con il trasferimento sui bilanci pubblici degli stati europei di gran parte delle esposizioni bancarie tedesche verso quel paese, con il consolidamento dei profitti finanziari delle stesse sul debito restante, con l’acquisizione di buona parte della rete logistica greca e, ciliegina sulla torta, con la vendita a caro prezzo all’esercito ellenico di residuati bellici presenti nei depositi della Bundeswehr. Si sa che le trattative politiche riservano come corollario quasi sempre il lato oscuro della meschinità. Nella graduatoria degli inperturbabili la statista tedesca non detiene certo l’esclusiva, di sicuro è in posizione di ascesa. Tra gli innumerevoli esempi, gli allora Generale Wesley Clark e Segretaria di Stato Madeleine Albright si concessero come bottino della missione umanitaria in Jugoslavja una partecipazione azionaria delle società minerarie del Kosovo; la stessa pletora di funzionari, accademici ed economisti americani e tedeschi accorsi al capezzale della moritura URSS e della nascitura Russia di Boris Eltsin ottenne di scambiare le proprie disinteressate consulenze con una partecipazione attiva al saccheggio di quel paese; per non parlare delle cointeressenze in Ucraina. Anghela, come un re Mida dei nobili principi, è riuscita a trasformare anche la meschinità in rigore risanatorio, sempre però con un profilo dimesso e discreto; da pudico comportamento collaterale a qualità volta al bene pubblico.

UN CONFRONTO PREMATURO

Durante il G7/G20 avviene inopinatamente la sua metamorfosi e la consacrazione da Maria Maddalena del cenacolo europeo ad angelo giustiziere dell’attentatore all’ordine mondiale.

Sono bastati pochi mesi dal gelido saluto al non ancora insediato Presidente Americano, alla imbarazzata visita a Washington per finire con la contrapposizione al G7 per passare da una immagine di capo di governo in verità un po’ dimesso, tutt’al più abile ad agire nell’ombra, a quella di statista orgoglioso in grado di contrapporsi apertamente al neopresidente e, aspetto ben più rilevante, di trasformare la Germania da paese in grado di approfittare in maniera surrettizia delle opportunità della globalizzazione a nazione paladina di questa virtù o in alternativa, secondo le interpretazioni, in grado di contrapporsi, assieme alla Cina, alla prepotenza e all’unilateralismo americano.

Da allora è tutto un fiorire di letteratura e di tesi sul destino manifesto di un paese, inesorabilmente portato a scontrarsi con la nazione egemone; quello che divide i sostenitori riguarda il probabile esito finale dello scontro, ma confronto comunque dovrà essere.

La redazione di Limes, autrice di una per altro pregevole monografia sull’argomento, è la portabandiera più autorevole di questa tesi.

Sono sufficienti pochi atti politici pubblici, concentrati in poche settimane, in aggiunta magari al proposito proclamato di costruzione di un sistema diplomatico e di difesa europei autonomo dagli USA, per promuovere l’attendibilità di una svolta politica così straordinaria?

Già la dinamica e la successione dei recenti eventi da adito a parecchi dubbi.

Intanto il tampinamento postpresidenziale di Obama e l’accoglienza trionfale a lui riservata a Berlino, all’esponente quindi che, assieme a Hillary Clinton, suo successore designato, ha cercato ostinatamente di arginare la tendenza al multipolarismo e di destrutturare gli stati viziati da proprie ambizioni autonome, svelano i legami inestricabili di dipendenza e compromissione con il vecchio establishment nonché le aspettative di ripristino dello “statu quo ante” del cancelliere tedesco. Il veemente appello alla crociata in difesa dell’accordo sul clima di Parigi e del libero mercato globalizzato sventolato al G7 di Taormina, ha mostrato per altro subito la corda al G20 di appena due mesi dopo lasciando in mano alla Merkel un vessillo ridotto ad un cerino consunto con alle spalle truppe scarse e poco convinte a difenderlo. Si potrebbe interpretare come un modo spregiudicato di condurre una danza del quale si possiede il filo conduttore della musica. Più che una condottiera dotata di forza propria in realtà si è rivelata lo strumento di uno schema più grande e complesso giocato per lo più Oltreatlantico. Lo stesso pulpito si è rivelato poco attendibile vista la recente propensione della Germania a limitare le acquisizioni cinesi in Europa rivelando così una evidenza chiara ancora a pochi eletti: il confronto sul libero mercato è una battaglia per determinare regole commerciali più favorevoli ad una o l’altra delle formazioni socieconomiche e ai loro centri dominanti all’interno di logiche geopolitiche operanti all’interno ma non riducibili ad un mero o assolutamente prevalente confronto economico. Una riduttivismo invece che ancora prevale oppure tende a riaffiorare surrettiziamente in gran parte delle tesi, anche nella monografia di Limes.

UN APPROCCIO EVENEMENZIALE

L’approccio evenemenziale presente in gran parte degli studi e soprattutto nella divulgazione mediatica tende a focalizzare e spettacolarizzare un particolare duello a discapito degli altri e dello sguardo d’insieme. Il tentativo stesso di Trump di reimpostare in maniera bilaterale i rapporti e le relazioni tra gli stati può indurre ad accentuare tale interpretazione particolaristica. Un tentativo che se inteso come strategia può trascinare alla rovina gli Stati Uniti e favorire uno sviluppo caotico e gravido di incognite del multipolarismo, ma con qualche possibilità in più, per le potenze intermedie, di assumere una propria peculiare fisionomia. In realtà l’adozione del modello di relazioni bilaterali è del tutto irrealistico e fuorviante perché prescinde dal naturale gioco di alleanze che si dipana nel conflitto politico e il cui successo presuppone proprio ciò che l’attuale svolta politica sta sentenziando inappellabilmente: l’inesistenza di un centro dominante indiscusso. Esso conduce in pratica alla stessa sterilità di chiavi interpretative del concetto di globalizzazione fondato sul movimento atomistico dei singoli agenti sul mercato e sul declino inesorabile del ruolo degli stati nazionali. Se adottato altrimenti come espediente tattico, come da probabile intendimento di Trump, può servire ad una destrutturazione del sistema attuale di relazioni in vista di una ricostruzione più controllata delle sfere di influenza, ma a determinate condizioni: che gli attori in grado di condurre il gioco siano limitati, che riconoscano una reciproca legittimazione e che abbiano un’idea sufficientemente precisa della delimitazione delle sfere di influenza. In un modo o nell’altro si tratta di un processo ormai irreversibile rispetto al quale la classe dirigente dominante tedesca sembra molto più temere le incognite ed apprezzare le attuali rendite di posizione che cogliere le incerte opportunità.

Profetizzare, come prevede la redazione di Limes, uno scontro aperto tra Stati Uniti e Germania pare quantomeno prematuro se non azzardato. E infatti, ad eccezione dei contributi esterni in realtà molto più cauti, gli articoli dei redattori suffragano la tesi sulla base di stereotipi ormai consunti.

Da una parte cerca di fondare l’ineluttabilità del conflitto sulla base dell’incompatibilità tra le due culture. In realtà la storia offre innumerevoli esempi di conflitti atroci e di durature alleanze tra paesi e centri strategici dalle culture difficilmente compatibili. Gli stessi Stati Uniti hanno combattuto almeno tre guerre aperte con il paese a loro culturalmente più affine, il Regno Unito. Negli Stati Uniti, lo rivela la stessa rivista, la componente più numerosa è appunto quella di origine tedesca e la sua cultura ha impregnato pervasivamente la formazione politica e sociale americana, pur affermando in esse una scarsa capacità lobbistica. Paradossalmente, secondo i redattori, una stessa identità culturale avrebbe quindi contribuito decisivamente a determinare la costruzione di una nazione e della sua classe dirigente e nel contempo l’ineluttabile conflitto con il paese di origine di quel ceppo, costituitosi in stato nazionale. Una tesi, quindi, fuorviante, versione edulcorata del più famoso ed altisonante conflitto di civiltà teorizzato da Huntington.

Dall’altra cerca di spiegare la dinamica inesorabile di questo conflitto attraverso il confronto asimmetrico tra il peso e la forza economica crescente del paese europeo e la pervasività e la forza politica di quello americano. Una dinamica che tenta di spiegare non solo le modalità del conflitto tra i due paesi ma anche la natura del dilemma che dovranno risolvere le classi dirigenti degli altri paesi, in particolare quello dell’Italia, di fronte alla alternativa posta della alleanza strategica con uno o l’altro dei contendenti. Un confronto quindi tra il peso militare, la capacità diplomatica e la pervasività dei servizi di intelligence da una parte e la solidità finanziaria, la capacità produttiva e la potenza commerciale dall’altra.

Una chiave esplicativa più sofisticata della prima, ma altrettanto fuorviante e non priva di evidenti punti oscuri e vere e proprie omissioni.

8maggio1945germania-770x300LA RIMOZIONE DI UN EVENTO EPOCALE

Entrambi i limiti interpretativi pagano lo scotto di una rimozione o, nel migliore dei casi, di una valutazione del tutto parziale delle implicazioni di un evento politico epocale cruciale: la sconfitta militare, l’occupazione territoriale, la distruzione di un regime istituzionale, per altro odioso, la riduzione e lo smembramento territoriale della Germania.

La dimensione catastrofica di quella resa consentì ai due vincitori, l’URSS e gli USA, di decidere delle sorti di quel paese. Per quel che ci riguarda più direttamente, in quanto forza di occupazione gli Stati Uniti determinarono il carattere federale oltre che parlamentare del regime nella sua parte sud-occidentale, il suo carattere antisovietico, la limitazione drastica delle forze armate, in particolare quelle terrestri e l’infiltrazione e l’organizzazione delle principali istituzioni e sistemi.

Il carattere di occupazione di quella presenza non ancora risolto definitivamente nemmeno dagli accordi che hanno sancito negli anni ‘90 l’unificazione tedesca.

Una modalità di dominio non risolvibile con il controllo di una parte limitata delle élites dominanti del paese sconfitto e con azioni complottistiche tese a determinare direttamente le azioni dei vertici politici; piuttosto una azione altamente sofisticata e persuasiva tesa soprattutto ad orientare ed indurre, addirittura a creare delle dinamiche inerziali capace di attirare e integrare progressivamente in un sistema occidentale le varie formazioni sociali e i vari stati nazionali caduti nella rete dei liberatori. Un sistema fortemente attrattivo, capace nel rispetto delle gerarchie fondamentali, di offrire sviluppo ed una relativa libertà di azione, ma proprio per questo ancora più pervasivo. In questa trama la Germania Federale ha assunto un ruolo importante, superiore alle stesse aspettative delle élites tedesche emerse dalla sconfitta militare, in parte per merito proprio, soprattutto per scelta del vincitore. Accantonate rapidamente le tentazioni, vellicate soprattutto da Francia e Regno Unito, di ridurre il paese ad una condizione preindustriale, senza nulla cedere sulla capacità di controllo, si optò per un rapido sviluppo che stabilizzasse un paese alleato ai confini cruciali della propria zona di influenza, contribuisse economicamente e produttivamente al sostegno della macchina bellica e neutralizzasse le residue ambizioni egemoniche di Francia e Gran Bretagna. Il pegno da pagare in termini di sovranità fu estremamente pesante con un sistema di controllo e infiltrazione particolarmente intricato e insindacabile, per altro sancito, che riguardava non solo l’intelligence e le forze armate, ma anche il sistema politico, amministrativo e comprendente anche, un aspetto del tutto ignorato dai redattori di Limes come da gran parte dei giornalisti e studiosi, gli organi di informazione e le strutture economiche.

In settant’anni le cose possono cambiare; ma non è questo, sostanzialmente, il caso della Germania.

Le tentazioni e qualche timido e sporadico tentativo di affrancamento non sono certo mancati. Durante la guerra fredda il tentativo più coerente fu portato avanti negli anni ‘70 con l’ “oestpolitik”. Si trattò in realtà di una “interpretazione” troppo estensiva del processo di distensione, più che altro un riconoscimento meno precario delle rispettive zone di influenza, inaugurato dalle due superpotenze. Per ricondurre alla mansuetudine nell’ovile della pecorella inquieta, agli americani fu allora sufficiente assecondare i timori francesi di un rigurgito delle ambizioni tedesche e la loro conseguente improvvisa conversione all’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità Europea e innescare una politica di riarmo missilistico. Con la crisi e la caduta del blocco sovietico si presentò un contesto apparentemente più favorevole a vellicare ambizioni più audaci.

SUSSULTI DI EGEMONIA

Il tentativo più organico e strutturato avvenne nella seconda metà degli anni ‘80 quando, percepita la crisi imminente del blocco sovietico e forte dei legami più o meno circospetti stretti con quella parte della loro classe dirigente legata al commercio e al finanziamento del debito estero, una parte dell’establishment tedesco tentò per alcuni anni di organizzare e sostenere il sistema bancario dei paesi dell’Est-Europa per favorire la ristrutturazione economica e salvaguardare buona parte di quella classe dirigente. Fu l’atto e il momento che suscitò, nei confronti dell’élite tedesca, le stesse premure dedicate a quella italiana. Il luogo di raccolta degli accoliti fu diverso; con gli uni si scelse il Panfilo di Sua Maestà, al largo di Roma; con gli altri un più modesto albergo bavarese. Anche il numero di convitati differiva; ben più numeroso sulla prestigiosa imbarcazione, limitato a meno di dieci persone nel gasthof. Non si è trattato, probabilmente, di un mero omaggio alla italica convivialità rispetto alla proverbiale essenzialità teutonica; deve aver influito la diversa funzione che i comprimari, inglesi nell’una e francesi nell’altra, hanno assunto nell’iniziativa; soprattutto, è stata la perdurante e progressiva frammentazione politica ed istituzionale dell’Italia rispetto alla Germania a determinare le diverse caratteristiche dell’iniziativa, i diversi sviluppi e gli esiti opposti pur in una comune riconfigurazione della subordinazione politica all’alleato d’oltreatlantico.

Il tentativo più intraprendente fu posto in atto durante la guerra civile in Jugoslavia conclusasi, al momento, con la frammentazione di quel paese e con una conflittualità latente pronta a riemergere. L’iniziale spinta propulsiva alla divisione fu data soprattutto dalla Germania sino ad essere rapidamente assorbita pur con qualche attrito significativo da quella americana. L’evento bellico rappresenta comunque una svolta significativa che vede il gruppo dirigente egemone in Germania passare da una politica di cooptazione e sostegno delle vecchie classi dirigenti riformate dei paesi del blocco sovietico ad una di progressiva aperta ostilità verso la Russia e tesa a favorire la liquidazione delle stesse nei paesi dell’Europa Orientale e nei Balcani. Una scelta indubbiamente vantaggiosa nell’immediato perché ha consentito di riprendere e perseguire una politica di influenza ed integrazione economica esattamente lungo i corridoi tracciati dai colonizzatori tedeschi nel corso dei secoli sino alla metà del ‘800 senza dover contestare i legami di subordinazione con lo stato egemone americano e indebolendo vistosamente la posizione politica ed economica dei due altri grandi paesi fondatori della UE, la Francia e l’Italia. Una scelta deleteria dal punto di vista strategico nel caso la Germania dovesse aspirare ad una maggiore e decisiva autonomia politica che richiedesse un avvicinamento duraturo e stabile alla Russia di Putin proprio perché troverebbe nei più importanti paesi dell’Europa Orientale e della penisola scandinava i più fieri oppositori a tale svolta con scarse possibilità di un loro ricambio con centri politici più duttili.

I messaggeri in quell’albergo bavarese devono evidentemente essere stati particolarmente persuasivi anche se assecondati dalle circostanze propizie della morte violenta dei due nuovi paladini della ostpolitik, Herrhausen di Deutsche Bank e Rohwedder di Treuhandanstalt.

Da questi due eventi a cavallo della riunificazione si è dipanata la condizione di un paese ormai al centro di attenzioni e sospetti, ma incapace di una politica assertiva capace di aggregare forze e in grado tutt’al più di neutralizzare e fiaccare le forze di potenziali rivali nel campo “amico” europeo.

Negli ultimi venti anni i pochi atti politici autonomi di quella classe dirigente sono consistiti nella non partecipazione ufficiale alle avventure militari, in particolare Libia ed Iraq, salvo garantire efficacemente, ma in modo discreto, i propri servizi logistici e di intelligence come avvenuto in Libia. Per il resto si è rifugiata in annunci velleitari, quali la creazione di una forza militare congiunta e integrata con i francesi, miseramente fallita o nel perseguimento classico di una politica di influenza a rimorchio nel vicinato, come avvenuto in Ucraina, con grave pregiudizio delle relazioni con i russi o nel supporto opportunistico e lucrativo alla destabilizzazione specie nel Grande Medio Oriente. La Germania, infatti, lemme lemme risulta costantemente tra i primi fornitori ufficiali di armi e munizioni dei Sauditi, impegnati in Yemen, dei Giordani e della pletora di governi a supporto delle primavere.

I LIMITI STRUTTURALI

Una fondata e non frettolosa elezione della Germania a protagonista geopolitico e antagonista naturale degli Stati Uniti non può prescindere da una analisi della condizione strutturale del paese.

La particolare struttura federale già dibattuta nelle università americane a partire dagli anni ‘30 e imposta nel regime di occupazione assegna importanti competenze di politica estera ai laender in cooperazione e spesso in conflitto tra loro e con lo stato centrale, indebolendone di fatto coerenza e incisività. Un esempio significativo si può trarre dal ruolo decisivo assunto dal Governo Bavarese nella fomentazione della guerra civile in Jugoslavja e nella capacità di trascinare altre regioni di stati confinanti su questo indirizzo in opposizione alle direttive dei rispettivi stati nazionali. Una organizzazione istituzionale che riesce comunque a mantenere una propria operatività grazie al ruolo unificante delle grandi associazioni verticali entro le quali si compongono gli interessi lobbistici e gli indirizzi di buona parte dei centri decisionali.

A garantire, più che la coerenza, l’incisività di una struttura così articolata fa difetto però l’estrema permeabilità delle strutture di intelligence e degli apparati coercitivi e di controllo, il retaggio più pesante della disfatta militare e del conseguente regime di occupazione. La vicenda delle intercettazioni americane ai danni della Cancelliera ha semplicemente rivelato il livello di integrazione ed infiltrazione dei servizi tedeschi con quelli americani; la susseguente rimozione del responsabile, più che la volontà una riorganizzazione e una depurazione delle strutture, ha rivelato la stizza di un capo politico per la pubblicità imbarazzante di quei segnali di attenzione. Per il carattere di riservatezza insito, i Servizi di Sicurezza sono particolarmente vulnerabili; la permeabilità, comunque, investe un po’ tutti gli apparati coercitivi e sanzionatori dello stato germanico, compreso quello militare ancora particolarmente debole.

Una chiosa a parte merita il sistema di informazione, quasi del tutto allineato all’ortodossia atlantica. Con l’eccezione di alcune testate nazionali a tiratura limitata ed alcune testate locali il livello di controllo del sistema mediatico è impressionante. Una capacità di indirizzo delle testate e di legame diretto con singoli giornalisti. È del resto notoria la meticolosità con cui i vari centri strategici americani curano le relazioni con i media istituzionali. Le campagne giornalistiche e la manipolazione dell’opinione pubblica sono sempre stati strumenti propedeutici al conflitto politico, al condizionamento dei centri e all’eliminazione degli avversari, anche se la diffusione dei network on line ha in parte facilitato la possibilità di centri politici alternativi e ridefinito le modalità di manipolazione dell’informazione. In Germania, nella fattispecie, colpisce il fatto che la componente più orientata ad una politica autonoma con la Russia, un tempo significativa, trovi sempre meno spazio mediatico e non riesca ormai da anni a creare una opinione pubblica favorevole a sostegno delle proprie scelte.

La chiave di lettura determinante per individuare il peso reale della Germania e la sua collocazione nelle dinamiche geopolitiche riguarda però il ruolo dell’economia nello stabilire il peso strategico e la condizione conflittuale di un paese.

Chi attribuisce alla Germania un ruolo di protagonista assoluto, di competitore e di antagonista di prim’ordine tende ad attribuire più o meno esplicitamente all’economia, nel migliore dei casi ai rapporti sociali economici, il ruolo preponderante e sovradeterminante gli altri ambiti delle attività umane, compresa quella politica, solitamente assumendo il seguente canovaccio.

UNO SCHEMA INTERPRETATIVO LIMITANTE E FUORVIANTE

La capacità di potenza si esprimerebbe soprattutto attraverso il peso economico; il campo preponderante di esercizio della competizione sarebbe il mercato; l’esercizio della potenza si realizzerebbe soprattutto attraverso la capacità commerciale; la sua misura si pondererebbe attraverso i dati macroeconomici del PIL, del saldo commerciale, degli attivi finanziari, nel migliore dei casi anche della presenza preponderante nel settore dei beni di consumo di massa più evoluti e durevoli. Scelte politiche non corrispondenti alla condizione economica sono considerate illogiche, sbagliate o semplicemente degli accidenti della storia destinati a rientrare o a determinare la sconfitta dei soggetti promotori.

Uno schema fuorviante sia in termini generali che affrontando una analisi della condizione della particolare economia tedesca.

Si può partire dalla constatazione che i mercati tengono conto e tendono a conformarsi progressivamente alle sfere di influenza politiche in via di formazione proprio perché gli attori economici privilegiano le condizioni di maggiore stabilità; le stesse grandi aziende, ormai da alcuni anni, tendono a riassumere il controllo diretto della verticale delle filiere produttive seguendo le condizioni di sicurezza politica. In una fase nella quale la leva economica, sotto forma di condizioni di finanziamento ed investimento e di apertura del mercato, di controllo tecnologico, addirittura dei prezzi in numerosi settori specie strategici, viene utilizzata non solo per condizionare, ma come strumento diretto di sanzione e conflitto, la funzione della politica emerge dalla maschera della competizione puramente economica tra gli attori.

Ma il politico, nella sua accezione di essenza, di caratteristica intrinseca, trova il modo di agire in maniera ancora più “subdola” nell’ambito economico; un esempio può essere l’invenzione, l’adozione, l’applicazione su base industriale e la padronanza delle tecnologie.

In Cina, ad esempio, il tentativo imponente di assumere la creazione e la padronanza delle tecnologie, uno dei fondamenti utili a garantire l’autonomia, l’autorevolezza e l’indipendenza delle decisioni della classe dirigente di un paese, passa anche attraverso lo scontro tra i sostenitori dei grandi colossi industriali, eredi delle imprese statali del periodo “socialista”, di fatto ancora sotto controllo politico diretto, e l’ampio settore di medie e piccole aziende, presenti nel sudest del paese molto più dipendenti dalle tecnologie e dai moduli organizzativi occidentali. Nel recente passato è sufficiente rispolverare alcuni casi, l’Olivetti in Italia e il sistema di motore a reazione Arrow in Canada tra i tanti, per constatare che la capacità tecnologica ed organizzativa di una azienda possono determinare gli standard di un mercato solo all’interno di contesti conformati politicamente.

Il mercato, infatti, rappresenta un’area, un campo di azione governato da un insieme di regole di natura politica, frutto di imposizioni e mediazioni, entro il quale agiscono gli attori economici; la rottura e la modifica di queste ultime comporta inevitabilmente ed intrinsecamente atti politici.

L’immagine che ancora si offre del mercato è invece troppo spesso fuorviante e semplicistica.

Il mercato globale viene rappresentato come una rete con un centro regolatorio indefinito e indefinibile; il suo innegabile sviluppo è però artificiosamente amplificato dalla frammentazione politica degli stati che ha trasformato in commercio estero gran parte degli scambi interni degli stati nazionali antecedenti il crollo del blocco sovietico; la sua rappresentazione glissa sull’esistenza e il rafforzamento al suo interno di aree, settori e blocchi attraverso i quali, tra l’altro si veicolano le influenze politiche.

La stessa raffigurazione degli organismi internazionali preposti alla regolazione di esso nasconde il fatto che tali regole non sono affatto neutrali e soddisfacenti in egual misura i vari attori, ma anche, più prosaicamente, che ammettono innumerevoli deroghe, omissioni, clausole particolari e comportamenti discriminatori che lasciano sospettare il peso politico differente dei paesi nella conduzione.

Gli esempi più clamorosi riguardano probabilmente il diverso trattamento riservato a Russia e Cina nei tempi di adesione agli organismi nonché nelle modalità e nella qualità dei trasferimenti di tecnologia occidentale; come pure il diverso trattamento riservato alle cosiddette Tigri Asiatiche e alla Corea del Sud rispetto ad alcuni paesi del Sud-America.

UNA RAPPRESENTAZIONE PIU’ ESAUSTIVA

Questo schema consente, probabilmente, una valutazione più realistica e meno enfatica del peso economico sia intrinseco che rispetto agli altri ambiti dell’azione politica nel determinare la forza geopolitica della Germania e, soprattutto, nel determinare i passi e le condizioni necessari a garantire la sua emersione come attore politico più autonomo.

 hermannsdenkmalLa Germania, a partire dalla fine degli anni ‘80, al pari di tutti i paesi, ha avviato un processo di profonda trasformazione economica concomitante e favorito dalla sua nuova collocazione geopolitica determinata dall’unificazione seguendo però proprie peculiarità.

Ha salvaguardato ed accentuato il carattere dualistico del suo sistema finanziario trasformando, dopo l’uccisione di Herrhausen, la Deutschbank nella quinta banca di investimento al mondo dedita a servizi di consulenza e alla gestione dei nuovi e più speculativi prodotti finanziari e tutelando dalle intromissioni comunitarie il sistema di banche territoriali a tutela dei sistemi locali economici e sociali.

La difesa ostinata della sua politica restrittiva in ambito europeo non serve soltanto a indebolire i suoi concorrenti economici prossimi, l’Italia e la Francia, ma a difenderla dalle loro debolezze e, sinché possibile, dalle implicazioni più rischiose della sua esposizione nei circuiti finanziari dominati dal sistema angloamericano.

Ha governato con lungimiranza il processo di precarizzazione di larghi settori dell’economia industriale e dei servizi, analogo a quello di altri paesi, compensando parzialmente con il welfare pubblico la regressione socioeconomica di vaste aree sociali.

Ha saputo tutelare e sviluppare alcuni settori di produzione di beni di consumi di massa tradizionali ma relativamente più complessi (automobile, agroalimentare, meccanica) mantenendo il pieno controllo della catena produttiva e di valore e decentrando sapientemente la componentistica nei paesi dell’hinterland più affine non garantendo più la quasi esclusiva del settore all’Italia.

germania_economia_apL’attivo commerciale imponente che ne deriva è il frutto non solo di queste politiche, ma anche di un misconosciuto basso livello di investimenti sia pubblici, in particolare delle infrastrutture del paese, che, con sorpresa, privati rispetto ai più importanti paesi dello scacchiere mondiale. Un livello, specie in quelli pubblici che, protrattosi nel tempo analogamente alla condizione dell’Italia, rischia di pregiudicare le stesse capacità tecniche e tecnologiche di ricostruzione. Un attento esame del campione di immagine tedesco, la Volkswagen, rivela sorprendentemente i punti deboli, sopperiti sino ad ora da una indubbia capacità commerciale, del suo settore privato.

L’economia tedesca, tra l’altro, è pervasa, più degli altri paesi europei dagli investimenti statunitensi in importanti settori così come dipende maggiormente dalle esportazioni in America.

La Germania è senz’altro presente in maniera significativa in alcuni settori importanti come quello dei beni industriali, della meccatronica, della chimica, del software applicato; ma è quasi del tutto assente, al pari degli altri paesi europei, nel settore del controllo e della gestione on line dei dati, fondamentale per il controllo dei flussi e dei comandi operativi nell’industria 4.0.

E’ in difficoltà in altri ambiti strategici, tra i quali l’avionica, l’aeronautica, il gps (Galileo) oggetto di ingenti investimenti soprattutto pubblici, frutto soprattutto di ricerche nell’ambito militare francese, ma pregiudicati dai dissidi di gestione tra i paesi cooperanti o dalle limitazioni nell’uso in ambito militare, frutto a loro volta delle imposizioni e delle premure americane.

Il progetto AIRBUS, gestito da Germania, Francia e Spagna, conosce così una fase di crisi acuta ed improvvisa, alimentata anche dai dissidi di gestione, la quale sta rinfocolando le ambizioni di una direzione avulsa dal controllo azionario e le voci di una possibile acquisizione da parte dell’americana General Electric; il progetto Galileo, invece, dopo anni di faticosa gestazione, avversato dalla stessa Commissione Europea al pari di Airbus, vede intaccato il proprio primato tecnologico dalla inibizione della possibilità di applicazione nell’ambito militare.

Sono solo due degli episodi, questi ultimi, rivelatori della dipendenza politica di quel paese in tutti gli ambiti, a partire ancora una volta da quelli prioritari istituzionali e mediatici.

Ci sarebbe anche da aggiungere le considerazioni sugli effetti della politica comunitaria tesa ad impedire sistematicamente la formazione di colossi industriali paragonabili con quelli americani e ultimamente cinesi, ma solo per constatare che la stessa Unione Europea è propedeutica al mantenimento di questa subordinazione dei paesi dell’intero continente.

LE INTENZIONI E LE POSSIBILITA’ DI AFFRANCAMENTO

Ogni atto politico, compresi quelli di politica economica, della classe dirigente germanica va valutato, quindi, secondo l’intenzione e la capacità di affrancamento da tale situazione.

A tutt’oggi non risultano passi decisivi in questa direzione.

Intanto l’aspirazione ad ottenere un vero e proprio trattato di pace apertamente riconosciuto dagli Stati Uniti e da Francia e Gran Bretagna risulta ancora inevasa a distanza di settant’anni, con tutto quello che implica nei diritti e nella discrezionalità di forze militari ancora di occupazione; dal punto di vista istituzionale del ripristino del controllo effettivo su settori chiave dell’apparato statale lo sforzo appare più di immagine che effettivo; da quello invece del sistema di informazione e di formazione dell’opinione pubblica la situazione risulta ancora peggiorata visto il progressivo declino e l’incapacità persuasiva della residua classe dirigente ancora legata alla Oestpolitik.

La stessa crisi del Partito Socialdemocratico non fa che accentuare questa parabola; le lamentele e le rimostranze recenti della classe imprenditoriale tedesca riguardante l’esposizione eccessiva della Merkel contro la Presidenza di Trump sono per di più legate ai rischi di sanzioni commerciali legate al surplus commerciale.

Le tentazioni per una politica più autonoma ed indipendente certamente non mancano. Più che per forza propria potranno trovare ulteriore alimento dalle evidenti forzature che la politica estera americana, attualmente in fibrillazione, sta operando. Queste ultime, in particolare, ultimamente si stanno esercitando sugli ostacoli alla costruzione vitale del secondo gasdotto Northstream tra Russia e Germania in grado di rafforzare il ruolo di hub europeo e di controllore essenziale delle forniture nel continente e sulle pressioni per un aumento dei bilanci di spesa militare. Un loro significativo incremento potrebbe indurre al rafforzamento di un proprio complesso industriale militare propedeutico alla nascita di una struttura di difesa autonoma; una eventualità, però, in controtendenza con le attuali pulsioni autodistruttive operanti sia in Germania che nella stessa Francia.

Lo stesso progetto di cooperazione militare rafforzata portato avanti ultimamente e strombazzato dalla Germania presenta numerosi aspetti di ambiguità:

  • nasce sulle ceneri dell’ipotesi di integrazione delle forze armate tedesche e francesi fallita ad inizio secolo;

  • punta all’integrazione di paesi (Olanda, Romania, Rep. Ceka) appartenenti all’area di influenza tedesca ma particolarmente legati, in funzione antirussa, all’establishment statunitense;

  • si tratta ancora di forze limitate tese, probabilmente, più a compensare la debolezza delle forze operative tedesche e il timore di affrontare le conseguenze esterne di un più pesante riarmo diretto;

  • il debole coinvolgimento della Francia e l’assenza dell’Italia lascia intravedere una funzione di contenimento di questi paesi piuttosto che di affrancamento dalla tutela americana;

  • negli ultimi anni, il carattere antirusso della politica estera tedesca si è ulteriormente accentuato e rischia di diventare irreversibile, non ostante le relazioni economiche non corrispondano esattamente ai proclami sanzionatori; questo comporta dei riflessi diretti nelle opzioni militari.

hermannsdenkmalCONSUNTIVO

In realtà l’attuale classe dirigente tedesca, rispetto al quale non risultano emergere forze alternative credibili, tende inesorabilmente a cacciarsi in una situazione analoga a quella che la hanno trascinata nelle due ultime rovinose guerre mondiali.

Non ha la forza e le caratteristiche per diventare, da sola, l’artefice di un polo politico comparabile con quelli in via di formazione, in competizione con gli Stati Uniti; per ambire a tale condizione dovrebbe puntare razionalmente a stringere un sodalizio meno squilibrato e su basi più paritarie in via prioritaria con la Francia e l’Italia e su questo costruire un rapporto costruttivo con la Russia. Questo implica una ridefinizione dei rapporti e un’azione verso la maggior parte dei paesi dell’Europa Orientale e quelli scandinavi che agevoli un ricambio di quelle classi dirigenti così oltranziste, impegnate ad affermare la propria identità e rafforzare la loro circoscritta influenza regionale a scapito della Russia, scegliendo la via apparentemente più comoda ed immediata: una alleanza politica sempre più stretta con gli Stati Uniti attualmente praticabile soprattutto grazie alla garanzia del retroterra tedesco, ma resa certamente più fragile da una sua defezione. Non si può dire certo che gli ingombranti vicini, Italia e Francia, concedano più di tanto qualche chance a questa eventualità. Una svolta quindi tanto più improbabile per l’azione ricorrente di Francia e Italia di “utilizzo” del potente d’oltreatlantico per regolare le controversie di vicinato in un processo di integrazione atlantista che sta coinvolgendo pesantemente, ormai anche la Francia, anche se non ancora, probabilmente, in maniera irreversibile. Si tratterebbe di rimettere in discussione le modalità di costruzione di un sistema di relazioni costruito negli ultimi trenta anni, laddove la posizione di vassallo privilegiato ha consentito di costruire una formazione sociale sufficientemente solida da garantire un largo consenso e discreti margini di azione.

Più che una subordinazione riottosa sembra per tanto, quello della Germania, un sodalizio consenziente per quanto prono. Una condizione che difficilmente può essere superata senza la formazione di poli alternativi che impediscano di continuare a lucrare sui saldi commerciali e senza un significativo indebolimento della potenza egemone ancora in gran parte da compiersi. L’alternativa, in mancanza di un recupero del controllo pieno delle leve di potere, potrebbe essere una fuga velleitaria in avanti, magari vellicata dalla stessa potenza egemone, propedeutica ad una terza pesante lezione storica.

E L’ITALIA?

In tale contesto inquadrare la collocazione dell’Italia come un paese dibattuto nella scelta tra il contendente tedesco e quello americano con una propensione iniziale per quella teutonica, appare una indicazione fuorviante; del tutto fuori luogo se, come statuisce la redazione di Limes, a questo dilemma corrisponde la formazione sul suolo italico di due blocchi in tenzone tra loro; quello economico sensibile alle sirene germaniche, quello istituzionale, degli apparati di sicurezza legato a quelle americane. Una contrapposizione che non offre una sintesi credibile semplicemente perché uno dei pilastri e ambiti del contenzioso, quello economico, non è assolutamente una prerogativa assoluta e nemmeno prevalente della Germania. La struttura economica italiana, negli ultimi trenta anni ha subito una drammatica perdita di controllo dei propri assetti strategici più importanti, superiore alla stesa distruzione dell’apparato produttivo. La gran parte di quelle attività sono finite in mano americana e poi francese, più che tedesca. È sufficiente scorrere i destini dell’industria aeronautica, dei generatori, della ceramica, della siderurgia specializzata, della meccanica, oltre che dei marchi alimentari, della moda e soprattutto della rete di telecomunicazioni per rivelare una penetrazione ben più articolata e preoccupante. I commensali del banchetto sono numerosi. È sufficiente orientare i propri padiglioni verso la voce dei corifei, tra i tanti Calenda, tutti impegnati ad identificare la globalizzazione con il mercato americano, per individuare le priorità stabilite dalla maggior parte della classe dirigente. L’impegno tedesco si è concentrato, piuttosto, sulla gestione del drenaggio del risparmio, sull’acquisizione di alcuni poli logistici necessari ai flussi dell’industria tedesca, sul controllo parziale ma indiretto della componentistica e sul ridimensionamento della capacità produttiva di un importante competitore.

DIFFICILMENTE

In realtà, sino a quando l’attuale classe dirigente tedesca riuscirà a mantenere in qualche maniera il controllo della costruzione europea per conto terzi, difficilmente la propensione tutta italica a costituire fazioni autodistruttive per conto di podestà stranieri potrà essere soddisfatta e la disputa occuperà inevitabilmente temi più rarefatti, come difficilmente il sodalizio tedesco-americano potrà incrinarsi significativamente, specie in una fase di restaurazione della politica americana ormai vincente.

Difficilmente, però, l’approccio offerto dalla redazione potrà offrire un contributo ad uno sforzo consapevole e proficuo di individuazione di un interesse nazionale capace di raccogliere il consenso delle parti più dinamiche e dignitose della comunità; come pure diventa alquanto arduo individuare, in Europa, nei vari paesi, le forze suscettibili di essere coinvolte.

Quanto alla Germania, se resurrezione dovrà essere, richiederà la realizzazione di numerose condizioni; i timidi vagiti richiederanno tempo per arrivare ad espressioni più articolate e razionali. La stessa formazione sociale tedesca inizia a conoscere importanti crepe nella sua proverbiale coesione con la erosione dei punti di garanzia e stabilità, ma anche di immobilismo. Si sta cominciando dal ruolo dei sindacati; ben presto toccherà anche il sistema periferico di promozione ed assistenza sociale. Bisognerà vedere se gli eventi, ormai incalzanti, concederanno il tempo necessario a compiere le svolte.

DEUTSCHLAND ÜBER ALLES?, di Giuseppe Germinario (3a ed ultima parte)

1a parte http://italiaeilmondo.com/2017/08/07/deutschland-uber-alles-di-giuseppe-germinario-1a-parte/

2a    parte     http://italiaeilmondo.com/2017/08/12/deutschland-uber-alles-di-giuseppe-germinario-2a-parte/

Così si conclude la seconda parte dell’articolo:

La chiave di lettura determinante per individuare il peso reale della Germania e la sua collocazione nelle dinamiche geopolitiche riguarda però il ruolo dell’economia nello stabilire il peso strategico e la condizione conflittuale di un paese.

Chi attribuisce alla Germania un ruolo di protagonista assoluto, di competitore e di antagonista di prim’ordine tende ad attribuire più o meno esplicitamente all’economia, nel migliore dei casi ai rapporti sociali economici, il ruolo preponderante e sovradeterminante gli altri ambiti delle attività umane, compresa quella politica, solitamente assumendo il seguente canovaccio.

UNO SCHEMA INTERPRETATIVO LIMITANTE E FUORVIANTE

La capacità di potenza si esprimerebbe soprattutto attraverso il peso economico; il campo preponderante di esercizio della competizione sarebbe il mercato; l’esercizio della potenza si realizzerebbe soprattutto attraverso la capacità commerciale; la sua misura si pondererebbe attraverso i dati macroeconomici del PIL, del saldo commerciale, degli attivi finanziari, nel migliore dei casi anche della presenza preponderante nel settore dei beni di consumo di massa più evoluti e durevoli. Scelte politiche non corrispondenti alla condizione economica sono considerate illogiche, sbagliate o semplicemente degli accidenti della storia destinati a rientrare o a determinare la sconfitta dei soggetti promotori.

Uno schema fuorviante sia in termini generali che affrontando una analisi della condizione della particolare economia tedesca.

Si può partire dalla constatazione che i mercati tengono conto e tendono a conformarsi progressivamente alle sfere di influenza politiche in via di formazione proprio perché gli attori economici privilegiano le condizioni di maggiore stabilità; le stesse grandi aziende, ormai da alcuni anni, tendono a riassumere il controllo diretto della verticale delle filiere produttive seguendo le condizioni di sicurezza politica. In una fase nella quale la leva economica, sotto forma di condizioni di finanziamento ed investimento e di apertura del mercato, di controllo tecnologico, addirittura dei prezzi in numerosi settori specie strategici, viene utilizzata non solo per condizionare, ma come strumento diretto di sanzione e conflitto, la funzione della politica emerge dalla maschera della competizione puramente economica tra gli attori.

Ma il politico, nella sua accezione di essenza, di caratteristica intrinseca, trova il modo di agire in maniera ancora più “subdola” nell’ambito economico; un esempio può essere l’invenzione, l’adozione, l’applicazione su base industriale e la padronanza delle tecnologie.

In Cina, ad esempio, il tentativo imponente di assumere la creazione e la padronanza delle tecnologie, uno dei fondamenti utili a garantire l’autonomia, l’autorevolezza e l’indipendenza delle decisioni della classe dirigente di un paese, passa anche attraverso lo scontro tra i sostenitori dei grandi colossi industriali, eredi delle imprese statali del periodo “socialista”, di fatto ancora sotto controllo politico diretto, e l’ampio settore di medie e piccole aziende, presenti nel sudest del paese molto più dipendenti dalle tecnologie e dai moduli organizzativi occidentali. Nel recente passato è sufficiente rispolverare alcuni casi, l’Olivetti in Italia e il sistema di motore a reazione Arrow in Canada tra i tanti, per constatare che la capacità tecnologica ed organizzativa di una azienda possono determinare gli standard di un mercato solo all’interno di contesti conformati politicamente.

Il mercato, infatti, rappresenta un’area, un campo di azione governato da un insieme di regole di natura politica, frutto di imposizioni e mediazioni, entro il quale agiscono gli attori economici; la rottura e la modifica di queste ultime comporta inevitabilmente ed intrinsecamente atti politici.

L’immagine che ancora si offre del mercato è invece troppo spesso fuorviante e semplicistica.

Il mercato globale viene rappresentato come una rete con un centro regolatorio indefinito e indefinibile; il suo innegabile sviluppo è però artificiosamente amplificato dalla frammentazione politica degli stati che ha trasformato in commercio estero gran parte degli scambi interni degli stati nazionali antecedenti il crollo del blocco sovietico; la sua rappresentazione glissa sull’esistenza e il rafforzamento al suo interno di aree, settori e blocchi attraverso i quali, tra l’altro si veicolano le influenze politiche.

La stessa raffigurazione degli organismi internazionali preposti alla regolazione di esso nasconde il fatto che tali regole non sono affatto neutrali e soddisfacenti in egual misura i vari attori, ma anche, più prosaicamente, che ammettono innumerevoli deroghe, omissioni, clausole particolari e comportamenti discriminatori che lasciano sospettare il peso politico differente dei paesi nella conduzione.

Gli esempi più clamorosi riguardano probabilmente il diverso trattamento riservato a Russia e Cina nei tempi di adesione agli organismi nonché nelle modalità e nella qualità dei trasferimenti di tecnologia occidentale; come pure il diverso trattamento riservato alle cosiddette Tigri Asiatiche e alla Corea del Sud rispetto ad alcuni paesi del Sud-America.

UNA RAPPRESENTAZIONE PIU’ ESAUSTIVA

Questo schema consente, probabilmente, una valutazione più realistica e meno enfatica del peso economico sia intrinseco che rispetto agli altri ambiti dell’azione politica nel determinare la forza geopolitica della Germania e, soprattutto, nel determinare i passi e le condizioni necessari a garantire la sua emersione come attore politico più autonomo.

 hermannsdenkmalLa Germania, a partire dalla fine degli anni ‘80, al pari di tutti i paesi, ha avviato un processo di profonda trasformazione economica concomitante e favorito dalla sua nuova collocazione geopolitica determinata dall’unificazione seguendo però proprie peculiarità.

Ha salvaguardato ed accentuato il carattere dualistico del suo sistema finanziario trasformando, dopo l’uccisione di Herrhausen, la Deutschbank nella quinta banca di investimento al mondo dedita a servizi di consulenza e alla gestione dei nuovi e più speculativi prodotti finanziari e tutelando dalle intromissioni comunitarie il sistema di banche territoriali a tutela dei sistemi locali economici e sociali.

La difesa ostinata della sua politica restrittiva in ambito europeo non serve soltanto a indebolire i suoi concorrenti economici prossimi, l’Italia e la Francia, ma a difenderla dalle loro debolezze e, sinché possibile, dalle implicazioni più rischiose della sua esposizione nei circuiti finanziari dominati dal sistema angloamericano.

Ha governato con lungimiranza il processo di precarizzazione di larghi settori dell’economia industriale e dei servizi, analogo a quello di altri paesi, compensando parzialmente con il welfare pubblico la regressione socioeconomica di vaste aree sociali.

Ha saputo tutelare e sviluppare alcuni settori di produzione di beni di consumi di massa tradizionali ma relativamente più complessi (automobile, agroalimentare, meccanica) mantenendo il pieno controllo della catena produttiva e di valore e decentrando sapientemente la componentistica nei paesi dell’hinterland più affine non garantendo più la quasi esclusiva del settore all’Italia.

germania_economia_apL’attivo commerciale imponente che ne deriva è il frutto non solo di queste politiche, ma anche di un misconosciuto basso livello di investimenti sia pubblici, in particolare delle infrastrutture del paese, che, con sorpresa, privati rispetto ai più importanti paesi dello scacchiere mondiale. Un livello, specie in quelli pubblici che, protrattosi nel tempo analogamente alla condizione dell’Italia, rischia di pregiudicare le stesse capacità tecniche e tecnologiche di ricostruzione. Un attento esame del campione di immagine tedesco, la Volkswagen, rivela sorprendentemente i punti deboli, sopperiti sino ad ora da una indubbia capacità commerciale, del suo settore privato.

L’economia tedesca, tra l’altro, è pervasa, più degli altri paesi europei dagli investimenti statunitensi in importanti settori così come dipende maggiormente dalle esportazioni in America.

La Germania è senz’altro presente in maniera significativa in alcuni settori importanti come quello dei beni industriali, della meccatronica, della chimica, del software applicato; ma è quasi del tutto assente, al pari degli altri paesi europei, nel settore del controllo e della gestione on line dei dati, fondamentale per il controllo dei flussi e dei comandi operativi nell’industria 4.0.

E’ in difficoltà in altri ambiti strategici, tra i quali l’avionica, l’aeronautica, il gps (Galileo) oggetto di ingenti investimenti soprattutto pubblici, frutto soprattutto di ricerche nell’ambito militare francese, ma pregiudicati dai dissidi di gestione tra i paesi cooperanti o dalle limitazioni nell’uso in ambito militare, frutto a loro volta delle imposizioni e delle premure americane.

Il progetto AIRBUS, gestito da Germania, Francia e Spagna, conosce così una fase di crisi acuta ed improvvisa, alimentata anche dai dissidi di gestione, la quale sta rinfocolando le ambizioni di una direzione avulsa dal controllo azionario e le voci di una possibile acquisizione da parte dell’americana General Electric; il progetto Galileo, invece, dopo anni di faticosa gestazione, avversato dalla stessa Commissione Europea al pari di Airbus, vede intaccato il proprio primato tecnologico dalla inibizione della possibilità di applicazione nell’ambito militare.

Sono solo due degli episodi, questi ultimi, rivelatori della dipendenza politica di quel paese in tutti gli ambiti, a partire ancora una volta da quelli prioritari istituzionali e mediatici.

Ci sarebbe anche da aggiungere le considerazioni sugli effetti della politica comunitaria tesa ad impedire sistematicamente la formazione di colossi industriali paragonabili con quelli americani e ultimamente cinesi, ma solo per constatare che la stessa Unione Europea è propedeutica al mantenimento di questa subordinazione dei paesi dell’intero continente.

LE INTENZIONI E LE POSSIBILITA’ DI AFFRANCAMENTO

Ogni atto politico, compresi quelli di politica economica, della classe dirigente germanica va valutato, quindi, secondo l’intenzione e la capacità di affrancamento da tale situazione.

A tutt’oggi non risultano passi decisivi in questa direzione.

Intanto l’aspirazione ad ottenere un vero e proprio trattato di pace apertamente riconosciuto dagli Stati Uniti e da Francia e Gran Bretagna risulta ancora inevasa a distanza di settant’anni, con tutto quello che implica nei diritti e nella discrezionalità di forze militari ancora di occupazione; dal punto di vista istituzionale del ripristino del controllo effettivo su settori chiave dell’apparato statale lo sforzo appare più di immagine che effettivo; da quello invece del sistema di informazione e di formazione dell’opinione pubblica la situazione risulta ancora peggiorata visto il progressivo declino e l’incapacità persuasiva della residua classe dirigente ancora legata alla Oestpolitik.

La stessa crisi del Partito Socialdemocratico non fa che accentuare questa parabola; le lamentele e le rimostranze recenti della classe imprenditoriale tedesca riguardante l’esposizione eccessiva della Merkel contro la Presidenza di Trump sono per di più legate ai rischi di sanzioni commerciali legate al surplus commerciale.

Le tentazioni per una politica più autonoma ed indipendente certamente non mancano. Più che per forza propria potranno trovare ulteriore alimento dalle evidenti forzature che la politica estera americana, attualmente in fibrillazione, sta operando. Queste ultime, in particolare, ultimamente si stanno esercitando sugli ostacoli alla costruzione vitale del secondo gasdotto Northstream tra Russia e Germania in grado di rafforzare il ruolo di hub europeo e di controllore essenziale delle forniture nel continente e sulle pressioni per un aumento dei bilanci di spesa militare. Un loro significativo incremento potrebbe indurre al rafforzamento di un proprio complesso industriale militare propedeutico alla nascita di una struttura di difesa autonoma; una eventualità, però, in controtendenza con le attuali pulsioni autodistruttive operanti sia in Germania che nella stessa Francia.

Lo stesso progetto di cooperazione militare rafforzata portato avanti ultimamente e strombazzato dalla Germania presenta numerosi aspetti di ambiguità:

  • nasce sulle ceneri dell’ipotesi di integrazione delle forze armate tedesche e francesi fallita ad inizio secolo;

  • punta all’integrazione di paesi (Olanda, Romania, Rep. Ceka) appartenenti all’area di influenza tedesca ma particolarmente legati, in funzione antirussa, all’establishment statunitense;

  • si tratta ancora di forze limitate tese, probabilmente, più a compensare la debolezza delle forze operative tedesche e il timore di affrontare le conseguenze esterne di un più pesante riarmo diretto;

  • il debole coinvolgimento della Francia e l’assenza dell’Italia lascia intravedere una funzione di contenimento di questi paesi piuttosto che di affrancamento dalla tutela americana;

  • negli ultimi anni, il carattere antirusso della politica estera tedesca si è ulteriormente accentuato e rischia di diventare irreversibile, non ostante le relazioni economiche non corrispondano esattamente ai proclami sanzionatori; questo comporta dei riflessi diretti nelle opzioni militari.

hermannsdenkmalCONSUNTIVO

In realtà l’attuale classe dirigente tedesca, rispetto al quale non risultano emergere forze alternative credibili, tende inesorabilmente a cacciarsi in una situazione analoga a quella che la hanno trascinata nelle due ultime rovinose guerre mondiali.

Non ha la forza e le caratteristiche per diventare, da sola, l’artefice di un polo politico comparabile con quelli in via di formazione, in competizione con gli Stati Uniti; per ambire a tale condizione dovrebbe puntare razionalmente a stringere un sodalizio meno squilibrato e su basi più paritarie in via prioritaria con la Francia e l’Italia e su questo costruire un rapporto costruttivo con la Russia. Questo implica una ridefinizione dei rapporti e un’azione verso la maggior parte dei paesi dell’Europa Orientale e quelli scandinavi che agevoli un ricambio di quelle classi dirigenti così oltranziste, impegnate ad affermare la propria identità e rafforzare la loro circoscritta influenza regionale a scapito della Russia, scegliendo la via apparentemente più comoda ed immediata: una alleanza politica sempre più stretta con gli Stati Uniti attualmente praticabile soprattutto grazie alla garanzia del retroterra tedesco, ma resa certamente più fragile da una sua defezione. Non si può dire certo che gli ingombranti vicini, Italia e Francia, concedano più di tanto qualche chance a questa eventualità. Una svolta quindi tanto più improbabile per l’azione ricorrente di Francia e Italia di “utilizzo” del potente d’oltreatlantico per regolare le controversie di vicinato in un processo di integrazione atlantista che sta coinvolgendo pesantemente, ormai anche la Francia, anche se non ancora, probabilmente, in maniera irreversibile. Si tratterebbe di rimettere in discussione le modalità di costruzione di un sistema di relazioni costruito negli ultimi trenta anni, laddove la posizione di vassallo privilegiato ha consentito di costruire una formazione sociale sufficientemente solida da garantire un largo consenso e discreti margini di azione.

Più che una subordinazione riottosa sembra per tanto, quello della Germania, un sodalizio consenziente per quanto prono. Una condizione che difficilmente può essere superata senza la formazione di poli alternativi che impediscano di continuare a lucrare sui saldi commerciali e senza un significativo indebolimento della potenza egemone ancora in gran parte da compiersi. L’alternativa, in mancanza di un recupero del controllo pieno delle leve di potere, potrebbe essere una fuga velleitaria in avanti, magari vellicata dalla stessa potenza egemone, propedeutica ad una terza pesante lezione storica.

E L’ITALIA?

In tale contesto inquadrare la collocazione dell’Italia come un paese dibattuto nella scelta tra il contendente tedesco e quello americano con una propensione iniziale per quella teutonica, appare una indicazione fuorviante; del tutto fuori luogo se, come statuisce la redazione di Limes, a questo dilemma corrisponde la formazione sul suolo italico di due blocchi in tenzone tra loro; quello economico sensibile alle sirene germaniche, quello istituzionale, degli apparati di sicurezza legato a quelle americane. Una contrapposizione che non offre una sintesi credibile semplicemente perché uno dei pilastri e ambiti del contenzioso, quello economico, non è assolutamente una prerogativa assoluta e nemmeno prevalente della Germania. La struttura economica italiana, negli ultimi trenta anni ha subito una drammatica perdita di controllo dei propri assetti strategici più importanti, superiore alla stesa distruzione dell’apparato produttivo. La gran parte di quelle attività sono finite in mano americana e poi francese, più che tedesca. È sufficiente scorrere i destini dell’industria aeronautica, dei generatori, della ceramica, della siderurgia specializzata, della meccanica, oltre che dei marchi alimentari, della moda e soprattutto della rete di telecomunicazioni per rivelare una penetrazione ben più articolata e preoccupante. I commensali del banchetto sono numerosi. È sufficiente orientare i propri padiglioni verso la voce dei corifei, tra i tanti Calenda, tutti impegnati ad identificare la globalizzazione con il mercato americano, per individuare le priorità stabilite dalla maggior parte della classe dirigente. L’impegno tedesco si è concentrato, piuttosto, sulla gestione del drenaggio del risparmio, sull’acquisizione di alcuni poli logistici necessari ai flussi dell’industria tedesca, sul controllo parziale ma indiretto della componentistica e sul ridimensionamento della capacità produttiva di un importante competitore.

DIFFICILMENTE

In realtà, sino a quando l’attuale classe dirigente tedesca riuscirà a mantenere in qualche maniera il controllo della costruzione europea per conto terzi, difficilmente la propensione tutta italica a costituire fazioni autodistruttive per conto di podestà stranieri potrà essere soddisfatta e la disputa occuperà inevitabilmente temi più rarefatti, come difficilmente il sodalizio tedesco-americano potrà incrinarsi significativamente, specie in una fase di restaurazione della politica americana ormai vincente.

Difficilmente, però, l’approccio offerto dalla redazione potrà offrire un contributo ad uno sforzo consapevole e proficuo di individuazione di un interesse nazionale capace di raccogliere il consenso delle parti più dinamiche e dignitose della comunità; come pure diventa alquanto arduo individuare, in Europa, nei vari paesi, le forze suscettibili di essere coinvolte.

Quanto alla Germania, se resurrezione dovrà essere, richiederà la realizzazione di numerose condizioni; i timidi vagiti richiederanno tempo per arrivare ad espressioni più articolate e razionali. La stessa formazione sociale tedesca inizia a conoscere importanti crepe nella sua proverbiale coesione con la erosione dei punti di garanzia e stabilità, ma anche di immobilismo. Si sta cominciando dal ruolo dei sindacati; ben presto toccherà anche il sistema periferico di promozione ed assistenza sociale. Bisognerà vedere se gli eventi, ormai incalzanti, concederanno il tempo necessario a compiere le svolte.

DEUTSCHLAND ÜBER ALLES?, di Giuseppe Germinario (2a parte)

DEUTSCHLAND ÜBER ALLES?, di Giuseppe Germinario (1a parte)

LA RIMOZIONE DI UN EVENTO EPOCALE

Entrambi i limiti interpretativi pagano lo scotto di una rimozione o, nel migliore dei casi, di una valutazione del tutto parziale delle implicazioni di un evento politico epocale cruciale: la sconfitta militare, l’occupazione territoriale, la distruzione di un regime istituzionale, per altro odioso, la riduzione e lo smembramento territoriale della Germania.

La dimensione catastrofica di quella resa consentì ai due vincitori, l’URSS e gli USA, di decidere delle sorti di quel paese. Per quel che ci riguarda più direttamente, in quanto forza di occupazione gli Stati Uniti determinarono il carattere federale oltre che parlamentare del regime nella sua parte sud-occidentale, il suo carattere antisovietico, la limitazione drastica delle forze armate, in particolare quelle terrestri e l’infiltrazione e l’organizzazione delle principali istituzioni e sistemi.

Il carattere di occupazione di quella presenza non ancora risolto definitivamente nemmeno dagli accordi che hanno sancito negli anni ‘90 l’unificazione tedesca.

Una modalità di dominio non risolvibile con il controllo di una parte limitata delle élites dominanti del paese sconfitto e con azioni complottistiche tese a determinare direttamente le azioni dei vertici politici; piuttosto una azione altamente sofisticata e persuasiva tesa soprattutto ad orientare ed indurre, addirittura a creare delle dinamiche inerziali capace di attirare e integrare progressivamente in un sistema occidentale le varie formazioni sociali e i vari stati nazionali caduti nella rete dei liberatori. Un sistema fortemente attrattivo, capace nel rispetto delle gerarchie fondamentali, di offrire sviluppo ed una relativa libertà di azione, ma proprio per questo ancora più pervasivo. In questa trama la Germania Federale ha assunto un ruolo importante, superiore alle stesse aspettative delle élites tedesche emerse dalla sconfitta militare, in parte per merito proprio, soprattutto per scelta del vincitore. Accantonate rapidamente le tentazioni, vellicate soprattutto da Francia e Regno Unito, di ridurre il paese ad una condizione preindustriale, senza nulla cedere sulla capacità di controllo, si optò per un rapido sviluppo che stabilizzasse un paese alleato ai confini cruciali della propria zona di influenza, contribuisse economicamente e produttivamente al sostegno della macchina bellica e neutralizzasse le residue ambizioni egemoniche di Francia e Gran Bretagna. Il pegno da pagare in termini di sovranità fu estremamente pesante con un sistema di controllo e infiltrazione particolarmente intricato e insindacabile, per altro sancito, che riguardava non solo l’intelligence e le forze armate, ma anche il sistema politico, amministrativo e comprendente anche, un aspetto del tutto ignorato dai redattori di Limes come da gran parte dei giornalisti e studiosi, gli organi di informazione e le strutture economiche.

In settant’anni le cose possono cambiare; ma non è questo, sostanzialmente, il caso della Germania.

Le tentazioni e qualche timido e sporadico tentativo di affrancamento non sono certo mancati. Durante la guerra fredda il tentativo più coerente fu portato avanti negli anni ‘70 con l’ “oestpolitik”. Si trattò in realtà di una “interpretazione” troppo estensiva del processo di distensione, più che altro un riconoscimento meno precario delle rispettive zone di influenza, inaugurato dalle due superpotenze. Per ricondurre alla mansuetudine nell’ovile della pecorella inquieta, agli americani fu allora sufficiente assecondare i timori francesi di un rigurgito delle ambizioni tedesche e la loro conseguente improvvisa conversione all’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità Europea e innescare una politica di riarmo missilistico. Con la crisi e la caduta del blocco sovietico si presentò un contesto apparentemente più favorevole a vellicare ambizioni più audaci.

SUSSULTI DI EGEMONIA

Il tentativo più organico e strutturato avvenne nella seconda metà degli anni ‘80 quando, percepita la crisi imminente del blocco sovietico e forte dei legami più o meno circospetti stretti con quella parte della loro classe dirigente legata al commercio e al finanziamento del debito estero, una parte dell’establishment tedesco tentò per alcuni anni di organizzare e sostenere il sistema bancario dei paesi dell’Est-Europa per favorire la ristrutturazione economica e salvaguardare buona parte di quella classe dirigente. Fu l’atto e il momento che suscitò, nei confronti dell’élite tedesca, le stesse premure dedicate a quella italiana. Il luogo di raccolta degli accoliti fu diverso; con gli uni si scelse il Panfilo di Sua Maestà, al largo di Roma; con gli altri un più modesto albergo bavarese. Anche il numero di convitati differiva; ben più numeroso sulla prestigiosa imbarcazione, limitato a meno di dieci persone nel gasthof. Non si è trattato, probabilmente, di un mero omaggio alla italica convivialità rispetto alla proverbiale essenzialità teutonica; deve aver influito la diversa funzione che i comprimari, inglesi nell’una e francesi nell’altra, hanno assunto nell’iniziativa; soprattutto, è stata la perdurante e progressiva frammentazione politica ed istituzionale dell’Italia rispetto alla Germania a determinare le diverse caratteristiche dell’iniziativa, i diversi sviluppi e gli esiti opposti pur in una comune riconfigurazione della subordinazione politica all’alleato d’oltreatlantico.

Il tentativo più intraprendente fu posto in atto durante la guerra civile in Jugoslavia conclusasi, al momento, con la frammentazione di quel paese e con una conflittualità latente pronta a riemergere. L’iniziale spinta propulsiva alla divisione fu data soprattutto dalla Germania sino ad essere rapidamente assorbita pur con qualche attrito significativo da quella americana. L’evento bellico rappresenta comunque una svolta significativa che vede il gruppo dirigente egemone in Germania passare da una politica di cooptazione e sostegno delle vecchie classi dirigenti riformate dei paesi del blocco sovietico ad una di progressiva aperta ostilità verso la Russia e tesa a favorire la liquidazione delle stesse nei paesi dell’Europa Orientale e nei Balcani. Una scelta indubbiamente vantaggiosa nell’immediato perché ha consentito di riprendere e perseguire una politica di influenza ed integrazione economica esattamente lungo i corridoi tracciati dai colonizzatori tedeschi nel corso dei secoli sino alla metà del ‘800 senza dover contestare i legami di subordinazione con lo stato egemone americano e indebolendo vistosamente la posizione politica ed economica dei due altri grandi paesi fondatori della UE, la Francia e l’Italia. Una scelta deleteria dal punto di vista strategico nel caso la Germania dovesse aspirare ad una maggiore e decisiva autonomia politica che richiedesse un avvicinamento duraturo e stabile alla Russia di Putin proprio perché troverebbe nei più importanti paesi dell’Europa Orientale e della penisola scandinava i più fieri oppositori a tale svolta con scarse possibilità di un loro ricambio con centri politici più duttili.

I messaggeri in quell’albergo bavarese devono evidentemente essere stati particolarmente persuasivi anche se assecondati dalle circostanze propizie della morte violenta dei due nuovi paladini della ostpolitik, Herrhausen di Deutsche Bank e Rohwedder di Treuhandanstalt.

Da questi due eventi a cavallo della riunificazione si è dipanata la condizione di un paese ormai al centro di attenzioni e sospetti, ma incapace di una politica assertiva capace di aggregare forze e in grado tutt’al più di neutralizzare e fiaccare le forze di potenziali rivali nel campo “amico” europeo.

Negli ultimi venti anni i pochi atti politici autonomi di quella classe dirigente sono consistiti nella non partecipazione ufficiale alle avventure militari, in particolare Libia ed Iraq, salvo garantire efficacemente, ma in modo discreto, i propri servizi logistici e di intelligence come avvenuto in Libia. Per il resto si è rifugiata in annunci velleitari, quali la creazione di una forza militare congiunta e integrata con i francesi, miseramente fallita o nel perseguimento classico di una politica di influenza a rimorchio nel vicinato, come avvenuto in Ucraina, con grave pregiudizio delle relazioni con i russi o nel supporto opportunistico e lucrativo alla destabilizzazione specie nel Grande Medio Oriente. La Germania, infatti, lemme lemme risulta costantemente tra i primi fornitori ufficiali di armi e munizioni dei Sauditi, impegnati in Yemen, dei Giordani e della pletora di governi a supporto delle primavere.

I LIMITI STRUTTURALI

Una fondata e non frettolosa elezione della Germania a protagonista geopolitico e antagonista naturale degli Stati Uniti non può prescindere da una analisi della condizione strutturale del paese.

La particolare struttura federale già dibattuta nelle università americane a partire dagli anni ‘30 e imposta nel regime di occupazione assegna importanti competenze di politica estera ai laender in cooperazione e spesso in conflitto tra loro e con lo stato centrale, indebolendone di fatto coerenza e incisività. Un esempio significativo si può trarre dal ruolo decisivo assunto dal Governo Bavarese nella fomentazione della guerra civile in Jugoslavja e nella capacità di trascinare altre regioni di stati confinanti su questo indirizzo in opposizione alle direttive dei rispettivi stati nazionali. Una organizzazione istituzionale che riesce comunque a mantenere una propria operatività grazie al ruolo unificante delle grandi associazioni verticali entro le quali si compongono gli interessi lobbistici e gli indirizzi di buona parte dei centri decisionali.

A garantire, più che la coerenza, l’incisività di una struttura così articolata fa difetto però l’estrema permeabilità delle strutture di intelligence e degli apparati coercitivi e di controllo, il retaggio più pesante della disfatta militare e del conseguente regime di occupazione. La vicenda delle intercettazioni americane ai danni della Cancelliera ha semplicemente rivelato il livello di integrazione ed infiltrazione dei servizi tedeschi con quelli americani; la susseguente rimozione del responsabile, più che la volontà una riorganizzazione e una depurazione delle strutture, ha rivelato la stizza di un capo politico per la pubblicità imbarazzante di quei segnali di attenzione. Per il carattere di riservatezza insito, i Servizi di Sicurezza sono particolarmente vulnerabili; la permeabilità, comunque, investe un po’ tutti gli apparati coercitivi e sanzionatori dello stato germanico, compreso quello militare ancora particolarmente debole.

Una chiosa a parte merita il sistema di informazione, quasi del tutto allineato all’ortodossia atlantica. Con l’eccezione di alcune testate nazionali a tiratura limitata ed alcune testate locali il livello di controllo del sistema mediatico è impressionante. Una capacità di indirizzo delle testate e di legame diretto con singoli giornalisti. È del resto notoria la meticolosità con cui i vari centri strategici americani curano le relazioni con i media istituzionali. Le campagne giornalistiche e la manipolazione dell’opinione pubblica sono sempre stati strumenti propedeutici al conflitto politico, al condizionamento dei centri e all’eliminazione degli avversari, anche se la diffusione dei network on line ha in parte facilitato la possibilità di centri politici alternativi e ridefinito le modalità di manipolazione dell’informazione. In Germania, nella fattispecie, colpisce il fatto che la componente più orientata ad una politica autonoma con la Russia, un tempo significativa, trovi sempre meno spazio mediatico e non riesca ormai da anni a creare una opinione pubblica favorevole a sostegno delle proprie scelte.

La chiave di lettura determinante per individuare il peso reale della Germania e la sua collocazione nelle dinamiche geopolitiche riguarda però il ruolo dell’economia nello stabilire il peso strategico e la condizione conflittuale di un paese.

DEUTSCHLAND ÜBER ALLES?, di Giuseppe Germinario (1a parte)

I DUE PROTAGONISTI

Di Donald Trump temo che continueremo ancora per mesi se non anni a sorbirci soprattutto i resoconti dettagliati dei suoi difetti o sedicenti tali; dalla maldestra improvvisazione alla ruvidità di modi, dall’affettata eleganza alla volubilità di giudizi, alla rozza ignoranza. Con il nobile intento di salvaguardare l’umanità da questo flagello, i campioni dell’informazione democratica, in particolare il NYT (New York Times) e il WP (Washington Post), dimentichi delle restanti cose del mondo, stanno da tempo concentrando la totalità degli sforzi in questa missione piegando ad essa fatti, realtà e soprattutto deontologia professionale. Con la stessa dedizione, ma con evidente minore fatica, gli innumerevoli corifei dell’informazione europea, pervasi da certezze assolute, non fanno altro che spandere a cuor leggero veline e veleni propinati dai capostipiti. Eppure almeno una caratteristica del Presidente Americano dovrebbe accomunare il giudizio dei pochi fautori e dei tanti detrattori del suo prominente impegno: la capacità di scatenare l’aperto spirito bellicoso anche nelle personalità più prudenti e discrete; tra queste, senza dubbio il Cancelliere tedesco.

Di Angela Merkel, nella vicenda delle intercettazioni americane delle sue conversazioni telefoniche, abbiamo apprezzato la capacità di accettare dal versante amico le peggiori intrusioni e umiliazioni senza alcun pregiudizio dei rapporti, in particolare quelli con Obama e senza apparenti sussulti di orgoglio; nella vicenda del milione di profughi siriani, invece il suo spirito di accoglienza talmente ecumenico da equivocare sulle profferte amorose del branco senza autorizzazione delle interessate, salvo cercare di rifilare con discrezione gran parte degli ospiti ai paesi vicini una volta constatata la loro difficoltà di inserimento e la loro preparazione professionale evidentemente non all’altezza delle aspettative; nella vicenda delle contraffazioni dei dati di emissione degli scarichi delle auto tedesche, abbiamo apprezzato la difesa pur tardiva dello spirito puritano a scapito forse dell’immagine di efficienza del sistema industriale e dei sistemi di controllo tedeschi. Il meglio della sua valenza di amministratrice, almeno sino a pochi mesi fa, è emerso nella vicenda del collasso della Grecia quando con mirabile quadratura è riuscita a conciliare l’aura puritana del rigore contabile con il trasferimento sui bilanci pubblici degli stati europei di gran parte delle esposizioni bancarie tedesche verso quel paese, con il consolidamento dei profitti finanziari delle stesse sul debito restante, con l’acquisizione di buona parte della rete logistica greca e, ciliegina sulla torta, con la vendita a caro prezzo all’esercito ellenico di residuati bellici presenti nei depositi della Bundeswehr. Si sa che le trattative politiche riservano come corollario quasi sempre il lato oscuro della meschinità. Nella graduatoria degli inperturbabili la statista tedesca non detiene certo l’esclusiva, di sicuro è in posizione di ascesa. Tra gli innumerevoli esempi, gli allora Generale Wesley Clark e Segretaria di Stato Madeleine Albright si concessero come bottino della missione umanitaria in Jugoslavja una partecipazione azionaria delle società minerarie del Kosovo; la stessa pletora di funzionari, accademici ed economisti americani e tedeschi accorsi al capezzale della moritura URSS e della nascitura Russia di Boris Eltsin ottenne di scambiare le proprie disinteressate consulenze con una partecipazione attiva al saccheggio di quel paese; per non parlare delle cointeressenze in Ucraina. Anghela, come un re Mida dei nobili principi, è riuscita a trasformare anche la meschinità in rigore risanatorio, sempre però con un profilo dimesso e discreto; da pudico comportamento collaterale a qualità volta al bene pubblico.

UN CONFRONTO PREMATURO

Durante il G7/G20 avviene inopinatamente la sua metamorfosi e la consacrazione da Maria Maddalena del cenacolo europeo ad angelo giustiziere dell’attentatore all’ordine mondiale.

Sono bastati pochi mesi dal gelido saluto al non ancora insediato Presidente Americano, alla imbarazzata visita a Washington per finire con la contrapposizione al G7 per passare da una immagine di capo di governo in verità un po’ dimesso, tutt’al più abile ad agire nell’ombra, a quella di statista orgoglioso in grado di contrapporsi apertamente al neopresidente e, aspetto ben più rilevante, di trasformare la Germania da paese in grado di approfittare in maniera surrettizia delle opportunità della globalizzazione a nazione paladina di questa virtù o in alternativa, secondo le interpretazioni, in grado di contrapporsi, assieme alla Cina, alla prepotenza e all’unilateralismo americano.

Da allora è tutto un fiorire di letteratura e di tesi sul destino manifesto di un paese, inesorabilmente portato a scontrarsi con la nazione egemone; quello che divide i sostenitori riguarda il probabile esito finale dello scontro, ma confronto comunque dovrà essere.

La redazione di Limes, autrice di una per altro pregevole monografia sull’argomento, è la portabandiera più autorevole di questa tesi.

Sono sufficienti pochi atti politici pubblici, concentrati in poche settimane, in aggiunta magari al proposito proclamato di costruzione di un sistema diplomatico e di difesa europei autonomo dagli USA, per promuovere l’attendibilità di una svolta politica così straordinaria?

Già la dinamica e la successione dei recenti eventi da adito a parecchi dubbi.

Intanto il tampinamento postpresidenziale di Obama e l’accoglienza trionfale a lui riservata a Berlino, all’esponente quindi che, assieme a Hillary Clinton, suo successore designato, ha cercato ostinatamente di arginare la tendenza al multipolarismo e di destrutturare gli stati viziati da proprie ambizioni autonome, svelano i legami inestricabili di dipendenza e compromissione con il vecchio establishment nonché le aspettative di ripristino dello “statu quo ante” del cancelliere tedesco. Il veemente appello alla crociata in difesa dell’accordo sul clima di Parigi e del libero mercato globalizzato sventolato al G7 di Taormina, ha mostrato per altro subito la corda al G20 di appena due mesi dopo lasciando in mano alla Merkel un vessillo ridotto ad un cerino consunto con alle spalle truppe scarse e poco convinte a difenderlo. Si potrebbe interpretare come un modo spregiudicato di condurre una danza del quale si possiede il filo conduttore della musica. Più che una condottiera dotata di forza propria in realtà si è rivelata lo strumento di uno schema più grande e complesso giocato per lo più Oltreatlantico. Lo stesso pulpito si è rivelato poco attendibile vista la recente propensione della Germania a limitare le acquisizioni cinesi in Europa rivelando così una evidenza chiara ancora a pochi eletti: il confronto sul libero mercato è una battaglia per determinare regole commerciali più favorevoli ad una o l’altra delle formazioni socieconomiche e ai loro centri dominanti all’interno di logiche geopolitiche operanti all’interno ma non riducibili ad un mero o assolutamente prevalente confronto economico. Una riduttivismo invece che ancora prevale oppure tende a riaffiorare surrettiziamente in gran parte delle tesi, anche nella monografia di Limes.

UN APPROCCIO EVENEMENZIALE

L’approccio evenemenziale presente in gran parte degli studi e soprattutto nella divulgazione mediatica tende a focalizzare e spettacolarizzare un particolare duello a discapito degli altri e dello sguardo d’insieme. Il tentativo stesso di Trump di reimpostare in maniera bilaterale i rapporti e le relazioni tra gli stati può indurre ad accentuare tale interpretazione particolaristica. Un tentativo che se inteso come strategia può trascinare alla rovina gli Stati Uniti e favorire uno sviluppo caotico e gravido di incognite del multipolarismo, ma con qualche possibilità in più, per le potenze intermedie, di assumere una propria peculiare fisionomia. In realtà l’adozione del modello di relazioni bilaterali è del tutto irrealistico e fuorviante perché prescinde dal naturale gioco di alleanze che si dipana nel conflitto politico e il cui successo presuppone proprio ciò che l’attuale svolta politica sta sentenziando inappellabilmente: l’inesistenza di un centro dominante indiscusso. Esso conduce in pratica alla stessa sterilità di chiavi interpretative del concetto di globalizzazione fondato sul movimento atomistico dei singoli agenti sul mercato e sul declino inesorabile del ruolo degli stati nazionali. Se adottato altrimenti come espediente tattico, come da probabile intendimento di Trump, può servire ad una destrutturazione del sistema attuale di relazioni in vista di una ricostruzione più controllata delle sfere di influenza, ma a determinate condizioni: che gli attori in grado di condurre il gioco siano limitati, che riconoscano una reciproca legittimazione e che abbiano un’idea sufficientemente precisa della delimitazione delle sfere di influenza. In un modo o nell’altro si tratta di un processo ormai irreversibile rispetto al quale la classe dirigente dominante tedesca sembra molto più temere le incognite ed apprezzare le attuali rendite di posizione che cogliere le incerte opportunità.

Profetizzare, come prevede la redazione di Limes, uno scontro aperto tra Stati Uniti e Germania pare quantomeno prematuro se non azzardato. E infatti, ad eccezione dei contributi esterni in realtà molto più cauti, gli articoli dei redattori suffragano la tesi sulla base di stereotipi ormai consunti.

Da una parte cerca di fondare l’ineluttabilità del conflitto sulla base dell’incompatibilità tra le due culture. In realtà la storia offre innumerevoli esempi di conflitti atroci e di durature alleanze tra paesi e centri strategici dalle culture difficilmente compatibili. Gli stessi Stati Uniti hanno combattuto almeno tre guerre aperte con il paese a loro culturalmente più affine, il Regno Unito. Negli Stati Uniti, lo rivela la stessa rivista, la componente più numerosa è appunto quella di origine tedesca e la sua cultura ha impregnato pervasivamente la formazione politica e sociale americana, pur affermando in esse una scarsa capacità lobbistica. Paradossalmente, secondo i redattori, una stessa identità culturale avrebbe quindi contribuito decisivamente a determinare la costruzione di una nazione e della sua classe dirigente e nel contempo l’ineluttabile conflitto con il paese di origine di quel ceppo, costituitosi in stato nazionale. Una tesi, quindi, fuorviante, versione edulcorata del più famoso ed altisonante conflitto di civiltà teorizzato da Huntington.

Dall’altra cerca di spiegare la dinamica inesorabile di questo conflitto attraverso il confronto asimmetrico tra il peso e la forza economica crescente del paese europeo e la pervasività e la forza politica di quello americano. Una dinamica che tenta di spiegare non solo le modalità del conflitto tra i due paesi ma anche la natura del dilemma che dovranno risolvere le classi dirigenti degli altri paesi, in particolare quello dell’Italia, di fronte alla alternativa posta della alleanza strategica con uno o l’altro dei contendenti. Un confronto quindi tra il peso militare, la capacità diplomatica e la pervasività dei servizi di intelligence da una parte e la solidità finanziaria, la capacità produttiva e la potenza commerciale dall’altra.

Una chiave esplicativa più sofisticata della prima, ma altrettanto fuorviante e non priva di evidenti punti oscuri e vere e proprie omissioni.

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