REPLICA    DI MASSIMO MORIGI A “CIRCA IDENTITÀ E UNIVERSALISMO: DIALOGHI REPUBBLICANI” DI ALESSANDRO VISALLI

REPLICA DI MASSIMO MORIGI A “CIRCA IDENTITÀ E UNIVERSALISMO: DIALOGHI REPUBBLICANI” DI ALESSANDRO VISALLI

(AGLI URL http://italiaeilmondo.com/2018/03/20/circa-identita-e-universalismo-dialoghi-repubblicani-di-alessandro-visalli/ E https://tempofertile.blogspot.it/2018/03/circa-identita-e-universalismo-dialoghi.htmlWebCite: http://www.webcitation.org/6y9MwYd6S E http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F03%2F20%2Fcirca-identita-e-universalismo-dialoghi-repubblicani-di-alessandro-visalli%2F&date=2018-03-24)

Caro Visalli, in questa mia ulteriore  replica alle tue ultime stimolanti considerazioni sul problema identitario mi permetto di citarti iniziando dal finale del tuo articolo dove vi si afferma: «l’idea di libertà come egoismo non limitato, spesso connessa internamente con lo scientismo, è strutturalmente e geneticamente connessa con l’inibizione dell’azione collettiva e milita contro quella che Taylor chiama la “libertà pubblica”. La “libertà privata” atomistica impedisce l’affermazione della “libertà pubblica”, l’autorealizzazione individualista con la lealtà collettiva. La questione è dunque politica.» Sono d’accordo in tutto e per tutto, specialmente nell’ultima frase dove si dice che il problema dell’identità ruota totalmente intorno alla politica. Ma, come si dice, “il diavolo è nei dettagli” ed è quindi necessario chiarire molto bene cosa si intende per ‘politica’ e come si intende la natura della ‘politica’. Ora la mia forte impressione è che per politica nel tuo ultimo contributo s’intenda un’attività culturale  che si contrappone alla naturalità dell’uomo, la quale naturalità umana, sovente agonistica e violenta, se ben diretta da una “buona politica” riesce a mettere la sordina agli spiriti belluini dell’uomo (fra i quali primeggia l’autoriconoscersi dei gruppi umani con specifiche identità); se invece eccitata da una “cattiva politica” funge da tragico moltiplicatore di queste tendenze violente e distruttive. Su questo punto dissento radicalmente. Non è questa la sede per ripercorrere partitamente l’epistemologia che sotto la definizione di ‘Repubblicanesimo Geopolitico’ è stata sviluppata per contestare alla radice la suddivisione, originata in primo luogo dalla rivoluzione scientifica galileana, fra natura e cultura, due punti di vista di conoscenza della realtà che possono venire unificati alla luce del modello dell’azione dialettico-conflittuale-strategica (modello dell’azione dialettico-conflittuale-strategica per il quale si rimanda, per chi ne voglia  per sommi capi ripercorrere la teoria,  a Repubblicanesimo Geopolitico Anticipating  Future Threats. Dialogo sulla moralità del Repubblicanesimo Geopolitico più breve nota all’intervista del CSEPI a La Grassa (di Massimo Morigi), agli URL https://archive.org/details/MARXISMO_345  e https://ia601909.us.archive.org/4/items/MARXISMO_345/MARXISMO.pdf ; WebCite:    http://www.webcitation.org/6o8vF7WLt  e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601909.us.archive.org%2F4%2Fitems%2FMARXISMO_345%2FMARXISMO.pdf&date=2017-02-09; ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/309427489_Repubblicanesimo_Geopolitico_Anticipating_Future_Threats_Dialogo_sulla_Moralita_del_Repubblicanesimo_Geopolitico_piu_Breve_Nota_all%27Intervista_del_CSEPI_a_La_Grassa_di_Massimo_Morigipdf: DOI: 10.13140/RG.2.2.11532.72320  e  a Dialecticvs Nvncivs. Il punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico attraverso i Quaderni del Carcere e Storia e Coscienza di Classe per il rovesciamento della gerarchia della spiegazione meccanicistico-causale e dialettico-conflittuale, per il rinnovamento degli studi marxiani e marxisti e per l’Aufhebung della gramsciana   e   lukacsiana   Filosofia   della  Praxis, agli URL https://archive.org/details/DialecticvsNvncivs_201701  e https://ia801509.us.archive.org/26/items/DialecticvsNvncivs_201701/Dialecticvs%20Nvncivs.pdf; WebCite:  http://www.webcitation.org/6o8wW4znJ e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia801509.us.archive.org%2F26%2Fitems%2FDialecticvsNvncivs_201701%2FDialecticvs%2520Nvncivs.pdf&date=2017-02-09; ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/313278043_Dialecticvs_Nvncivs_Il_punto_di_vista_del_Repubblicanesimo_Geopolitico_attraverso_i_Quaderni_del_Carcere_e_Storia_e_Coscienza_di_Classe_per_il_rovesciamento_della_gerarchia_della_spiegazione_meccanici: DOI: 10.13140/RG.2.2.29749.47842. Dialecticvs Nvncivs è stato inoltre pubblicato anche sul presente  blog  “L’Italia e il Mondo”,  agli URL   http://italiaeilmondo.com/2016/12/13/dialecticus-nuncius-di-massimo-morigi/ e http://italiaeilmondo.com/category/agora/; WebCite: rispettivamente http://www.webcitation.org/6oBwn5kXP e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2016%2F12%2F13%2Fdialecticus-nuncius-di-massimo-morigi%2F&date=2017-02-11 e http://www.webcitation.org/6oBx5xZNt e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2Fcategory%2Fagora%2F&date=2017-02-11), e non è nemmeno la sede per argomentare che non solo la cultura politica ma anche la cosiddetta cultura scientifico-naturalistica devono ripartire dallo Zoòn Politikòn  aristotelico dove, almeno per rimanere alle scienze umane, è di tutta evidenza che per lo stagirita il ‘politico’ (o il sociale a seconda dalla traduzione, ma è altrettanto chiaro che si tratta di un problema di traduzione tutto nostro, perché per Aristotele evidentemente tale distinzione non avrebbe avuto senso) è tutto fuorché non naturale e non costitutivo della naturalità (e quindi della politicità e/o della socialità) dell’uomo, ma forse non è inutile sottolineare che a modesto giudizio dello scrivente questa artificiosa suddivisione fra natura e cultura (e quindi, per diretto riflesso, fra natura e politica), è responsabile della discutibile affermazione che «Quel che possiamo provare a nominare come ‘i popoli’ (che poi a grandi linee sono solo le loro élite e le clientele ad esse connesse in vario modo, e quindi facenti parte del ‘modo di produzione’ tributario ad esse) hanno sempre sviluppato una loro specificità, e quindi ciò che oggi chiamiamo una loro ‘identità’, ma quanto ad avvertirla il passo non è sempre automatico», dove l’elemento discutibile non è tanto la giusta sottolineatura del fatto che «le élite e le clientele», detto in parole povere, “ci marciano” sul sentimento identitario dei gruppi umani ma quello che sembra sottintendere il passaggio testé citato, e cioè che il senso – e il bisogno – di identità dei gruppi umani sia un prodotto di pretta natura  “culturale” ed essendo come tale politico, cioè frutto di una “cattiva politica”, può essere curato e domato da una “buona politica” che ponga ai vari gruppi umani altri obiettivi che non siano identitari, vale a dire la ricerca all’interno di questi gruppi di una maggiore giustizia. Ora su questo punto occorre essere molto chiari. Non c’è bisogno di ricorrere ad esempi storici per mostrare che le élite sul bisogno identitario ci abbiano “marciato” ma è un terribile errore prospettico affermare che le élite abbiano ad arte creato questo bisogno del quale, mi scuso per il gioco di parole, non c’era alcun bisogno e che in natura sarebbe addirittura inesistente. Non è qui il caso di fare un corso di antropologia culturale in sessantottesimo ma è di tutta evidenza non solo che l’evoluzione dell’homo sapiens (per limitarci alla specie che per ovvie ragioni conosciamo meglio ma il discorso è per lo meno estendibile anche ad altre specie animali che hanno sviluppato strategie di sopravvivenza di gruppo, cioè in pratica tutte, e non escludiamo le specie vegetali) sia dal punto di vista biologico che culturale è avvenuta all’interno di gruppi che avevano sviluppato linguaggi specifici e quindi identità escludenti gruppi concorrenti dotati di altre espressioni linguistiche e/o di trasmissione di informazioni ma è anche altrettanto evidente che senza questo presa di coscienza di alterità rispetto agli altri gruppi umani (coscienza di alterità culturale e naturale al tempo stesso) non ci sarebbe stata alcuna evoluzione umana (sull’inestricabile nesso fra l’evoluzione culturale, la sua trasmissione di generazione in generazione e su come questa  evoluzione-trasmissione culturale abbia fortissime ricadute anche nella modificazione del genotipo non solo della specie umana ma anche delle altre specie animali, in uno schema che riprende,  integra e sviluppa dialetticamente sul modello darwiniano di pura selezione meccanica il precedente schema lamarkiano dove l’organismo ed il gruppo in cui questo organismo è collocato svolgono un ruolo attivo e culturalmente mediato e non solo passivo come nel darwinismo, si consigliano, oltre al Dialectical Biologist di Richard Lewins e Richard Lewontin – Richard Lewins, Richard Lewontin, The Dialectical Biologist, Harvard University Press, 1985 –  i fondamentali lavori di Eva Jablonka sull’epigenetica, in particolare Eva Jablonka, Marion J. Lamb,  Evolution in Four Dimensions: Genetic, Epigenetic, Behavioral, and Symbolic Variation in the History of Life, Bradford Books/The MIT Press. 2005). Concludo  con Hannah Arendt citando il suo  Sulla rivoluzione dove la filosofa politica tedesca esule negli Stati uniti per ragioni razziali e assunta  poi la cittadinanza statunitense, parlandoci del   miracolo non miracolo dell’azione (non miracolo perché evento totalmente terreno, miracolo perché l’azione consente all’uomo di vincere la sua mortalità sia attraverso il lustro che gli può conferire una grande e gloriosa azione ma, soprattutto, perché l’agire dà inizio ad una catena infinita di eventi che va oltre la vita dell’uomo), lega quest’azione al principio naturale della generazione vitale e della  crescita, generazione vitale e crescita  che a loro volta sono hic et nunc possibili solamente qualora si instauri, di generazione in generazione, una  consapevole  tradizione di passaggio  di queste possibilità creative e di azione. In questo discorso Hannah Arendt sovrapponeva il paradigma culturale dell’antica Roma all’azione dei padri fondatori degli Stati uniti, e in questa sorta di anacronismo non si fa molta fatica ad intravedere il problema identitario di un’ebrea tedesca che aveva perso la sua patria e doveva trovarsene e crearsene un’altra. Ma nonostante l’anacronismo di paragonare in On Revolution (Hannah Arendt, On Revolution, The Viking Press, 1963) Roma antica agli Stati unti, queste parole  di Hannah Arendt, volendo andare al di là delle peculiari  situazioni storiche  che vi vengono trattate  e comparate, la tradizione culturale-religiosa della Roma antica e  la rivoluzione americana, costituiscono uno dei più grandi contributi in merito alle dinamiche identitarie (indubbiamente autoperformative, quindi culturali, ma non per questo innaturali, anzi esattamente il suo contrario) e all’errore che si  commette qualora queste dinamiche vengano considerate come una sorta di epifenomeno culturale trattabile con giuste politiche piuttosto che come un bisogno naturale e culturale dell’uomo e indispensabile non solo per la sua evoluzione ma anche perché la sua natura rimanga una natura umana e quindi in grado di crescere, generare e creare, contrapponendosi quindi alla meccanizzazione della sua cultura e della sua psiche; una meccanizzazione che, sia detto per inciso, non è iniziata con la rivoluzione industriale ma è l’inevitabile portato, verificatosi in tutte le epoche dell’uomo, dell’azione delle elite, ma non in quanto queste intendono “marciare” sui problemi indentitari ma quando questi gruppi ristretti, in nome di astratti principi, intendono annullare e gettare nel bidone della storia il naturale e culturale bisogno identitario  dei gruppi umani: «Nella persona dei senatori romani continuavano ad essere presenti i fondatori di Roma, e con loro era presente lo spirito della fondazione, il cominciamento, il principium e il principio di quelle res gestae che da quel momento in poi formeranno la storia del popolo romano, giacché l’auctoritas, la cui radice etimologica è augere, accrescere e aumentare, dipendeva dalla vitalità dello spirito di fondazione, in virtù della quale era possibile aumentare, accrescere ed ampliare le fondamenta che erano state gettate dai progenitori. L’ininterrotta  continuità di questo accrescimento e l’autorità insito in esso potevano realizzarsi solo attraverso la tradizione, ossia attraverso la trasmissione, lungo la linea ininterrotta di successori, del principio stabilito all’inizio. Essere in questa ininterrotta linea di successori significa a Roma possedere autorità; e restare legati al principio dei progenitori in pio ricordo e con spirito conservatore significava avere pietas romana; essere “religioso” ovverossia “legato” alle proprie radici.» (Hannah Arendt, Sulla rivoluzione, Torino, Einuadi , 2006, pp. 230-231). Se si vuole uscire  da una visione meccanicista dell’uomo e della politica (espressione politico-ideologica della quale, il liberalismo-liberismo che vede la possibilità dell’espressione della creatività dell’uomo solo entro uno pseudo libero mercato dove operano liberamente  pseudo individualità: individualismo metodologico, ed espressione scientista della stessa nella c.d.  sociobiologia  che chiude gli occhi di fronte al legame dialettico fra organismo, gruppi di organismi e l’ambiente che viene modificato, oltre a modificare, dagli organismi stessi ) e, nel contempo, non ricadere nella “pappa del cuore” del politicamente corretto dei “sacri” principi politici universalistici nati dalla rivoluzione dell’ ’89 del Secolo decimo ottavo ma senza per questo rifugiarsi stolidamente in un reazionarismo da alleanza fra trono e altare e degli allegri compagni del pensiero controrivoluzionario (e sui rischi di una frequentazione troppo entusiasta dei quali, Joseph-Marie de Maistre, Louis de Bonald, Juan Donoso Cortés,  la paradigmatica vicenda politica ed umana  del giuspubblicista fascista Carl Schmitt ha molto da insegnarci), penso che queste parole di Hannah Arendt costituiscano un perfetto viatico e, perché no? non per mettere irenicamente d’accordo ma per fornire una medesima “fusione d’orizzonti” fra le posizioni espresse dal sottoscritto  e quelle magistralmente illustrate dall’amico Alessandro Visalli.

 

P.S.  Per completezza di comprensione di questa mia ultima risposta ad Alessandro Visalli, non è forse inutile ripercorrere i primi passi di questo dibattito teorico sul problemi identitari avvenuto sull’ “Italia e il mondo”. Ovviamente, per brevità e per non iniziare un altro intervento, si tratta di un andare a ritroso solamente bibliografico, lasciando i commenti e le riflessioni ai lettori. Tutto è iniziato con l’ottimo contributo di Roberto Buffagni sui tragici fatti di Macerata per poi continuare fra commenti e risposte del sottoscritto e di altri lettori dell’ “Italia e il mondo” – che hanno toccato anche il tema del malefico mito identitario che va sotto il nome di antifascismo –  sino all’odierna mia risposta ad Alessandro Visalli (non si danno i titoli dei vari interventi e contributi ma solo gli URL e i “congelamenti” su WebCite): http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/; http://www.webcitation.org/6x87pr86F; http://www.webcitation.org/6x886y1nC;http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/; http://www.webcitation.org/6x9EFQqT4;http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/; http://www.webcitation.org/6xCnA0lmK; http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/; http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/#comments; http://www.webcitation.org/6xInS3p6S; http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F02%2F07%2Fintorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni%2F%23comments&date=2018-02-17; http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/; http://www.webcitation.org/6xJAwBIIo;http://www.webcitation.org/6xJBK3kDc;http://italiaeilmondo.com/2018/02/20/letture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli/;http://www.webcitation.org/6xQLEqyD5;http://italiaeilmondo.com/2018/02/20/letture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli/#comments; http://italiaeilmondo.com/2018/02/20/letture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli/#comments;http://www.webcitation.org/6xWZB8SPD;http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F02%2F20%2Fletture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli%2F%23comments&date=2018-02-26; http://italiaeilmondo.com/2018/02/23/considerazioni-a-margine-di-lettura-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni_-di-massimo-morigi/; http://www.webcitation.org/6xcbBIQNN;http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F02%2F23%2Fconsiderazioni-a-margine-di-lettura-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni_-di-massimo-morigi%2F&date=2018-03-02; http://italiaeilmondo.com/2018/03/01/identita-e-universalismo-un-dialogo-di-alessandro-visalli/; http://www.webcitation.org/6xcaJuM6L; http://italiaeilmondo.com/2018/03/04/replica-a-identita-e-universalismoun-dialogo-dal-punto-di-vista-del-repubblicanesimo-geopolitico-di-massimo-morigi/; http://www.webcitation.org/6xfajD50m;http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F03%2F04%2Freplica-a-identita-e-universalismoun-dialogo-dal-punto-di-vista-del-repubblicanesimo-geopolitico-di-massimo-morigi%2F&date=2018-03-04;http://italiaeilmondo.com/2018/03/10/a-proposito-delle-elezioni-del-4-marzo-di-massimo-morigi/; http://www.webcitation.org/6xqFvZtVo;http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F03%2F10%2Fa-proposito-delle-elezioni-del-4-marzo-di-massimo-morigi%2F&date=2018-03-11;http://italiaeilmondo.com/2018/03/18/dal-xxi-podcast-di-gianfranco-campa-suggestioni-sullodierna-natura-della-democrazia-e-sul-mito-dellantifascismo-di-massimo-morigi/;http://www.webcitation.org/6y1nzhUck;http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F03%2F18%2Fdal-xxi-podcast-di-gianfranco-campa-suggestioni-sullodierna-natura-della-democrazia-e-sul-mito-dellantifascismo-di-massimo-morigi%2F&date=2018-03-19.

 

 

Massimo Morigi – 24 marzo 2018

 

 

 

 

 

NOTE SU DIPENDENZA DEGLI STATI E GLOBALIZZAZIONE, di Teodoro Klitsche de la Grange

NOTE SU DIPENDENZA DEGLI STATI E GLOBALIZZAZIONE

Indice:

1) Posizione del problema; 2) Dipendenza giuridica e politica; 3) Forme e regolarità politiche; 4) Sovranità e indipendenza: Bodin 5) Transizione di epoche e idee della globalizzazione; 6) Loro inconvenienti; 7)  Fini della politica; 8) Conclusione.

1.0 Il pianeta è diviso tra tanti Stati sovrani, i quali formalmente – ossia sul piano giuridico – sono uguali, ma la cui differenza di potere reale ne riduce – correlativamente – la possibilità di esercitare (parzialmente) prerogative e diritti, in applicazione del detto di Spinoza per cui tantum juris quantum potentiae.

Santi Romano (tra i tanti) scriveva che «essendo la comunità internazionale, di regola, paritaria, nel senso che i suoi membri non dipendono l’uno dall’altro, ciascuno di essi… si dice che ha una sovranità perché non è in una posizione subordinata verso altri soggetti»[1]. Tuttavia, proseguiva, tale regola non è assoluta[2]; ma derogarne è sicuramente un’eccezione[3]. Ed occorre distinguere «l’appartenenza ad un’unione amministrativa o alla Società delle nazioni, tanto meno una semplice alleanza, non significa da per sé perdita della sovranità. Viceversa, gli Stati soggetti a protettorato o alla tutela della Società delle nazioni sono eccezionalmente degli Stati internazionalmente non sovrani, cioè subordinati agli Stati protettori o alla Società medesima, che, rispetto ad essi, sono quindi sovrani». Secondo il giurista siciliano, contrariamente all’opinione di altri «la verità è invece che lo Stato protetto, come quello tutelato, non assume solo obbligazioni singole e determinate, ma entra in un complesso “status subiectionis”, si sottomette ad altri soggetti per una sfera più o meno ampia della sua personalità, e tutto ciò riguarda non la sua libertà nel campo dei rapporti veramente obbligatorii, ma la sua posizione d’indipendenza, la sua sovranità e, come conseguenza, anche la sua capacità».

Effetto della mancanza di sovranità è «la limitazione della capacità internazionale degli Stati protetti o tutelati: limitazione che si ha anche…. verso i terzi, il che conferma (trattarsi)… di una posizione personale»[4].

Tale limitazione di capacità non è incompatibile con la personalità internazionale[5]; come conferma, scrive Santi Romano, la condizione degli Stati vassalli (dell’Impero ottomano).

Diverso era il regime giuridico delle colonie, in particolare perché la presenza dello Stato colonizzatore si estendeva anche all’amministrazione interna e diffusa dei territori coloniali.

Tutte tali classificazioni hanno il connotato comune di essere giuridiche – e non solo politiche – e di tradursi in modificazioni degli ordinamenti (e dei collegamenti tra questi) e della normativa conseguente.

Tuttavia, vi sono altre forme di dipendenza assai note, che rispettano formalmente il carattere sovrano dello Stato dipendente[6].

Così ad esempio all’epoca della Guerra Fredda si parlava di «Stati-satellite» in relazione agli Stati dell’Est europeo a regime comunista, quali nazioni egemonizzate da una grande potenza, ma formalmente sovrane (tale carattere era, di rimando, attribuito da oltre cortina a Stati facenti parte della Nato, come Italia e Germania Ovest). Tenuto conto che il dominio politico della potenza egemone nell’Est europeo era esercitato attraverso «partiti fratelli» (comunisti) più che regolamentato in istituti giuridici (i quali comunque, non mancavano) il termine era adeguato alla realtà politica. Com’era naturale, il crollo del comunismo fu anticipato dalla de-comunistizzazione di alcuni di tali Stati e la regolamentazione giuridica dello stato di «satellite», seguì la fine politica dei partiti comunisti.

Stato-fantoccio è un concetto assai prossimo a quello di Stato-satellite. Per lo più l’espressione è usata per Stati – o regimi politici – che devono la loro esistenza a un soggetto più potente, quasi sempre un altro Stato. Spesso è un modo per esercitare l’occupazione militare: in altri casi, anche se il rapporto di «filiazione» tra Stato fantoccio e sconfitta – occupazione militare è (quasi) una regolarità, lo Stato-fantoccio subentra all’occupazione. Non è detto tuttavia che tale carattere implichi una subordinazione giuridica (anzi in genere non esiste) ma è dovuto a motivi politici e militari. Stati-fantoccio hanno ottenuto spesso anche il riconoscimento non solo delle potenze occupanti (o ex-occupanti) ma anche di Stati terzi.

2.0 La distinzione tra l’una e l’altra categoria di Stati per così dire «a sovranità limitata»  (o a indipendenza relativa) consiste sotto il profilo giuridico, dalla assenza, nel primo caso (protettorati, colonie) di una (completa) capacità internazionale, e sul piano interno dalla presenza di organi di «controllo»            (in effetti di governo o meglio – secondo i casi – di sorveglianza del governo) nominati dallo Stato protettore (ovvero dominante); nella seconda invece la capacità internazionale è piena e l’intromissione nelle attività di governo interne è esercitata (quasi) sempre per influenza politica sull’attività e spesso sulla nomina delle cariche di governo e/o di (alta) rilevanza politica.

Ovviamente in tale ultima classe, vale quanto scriveva Santi Romano per il protettorato (v. sopra): la forma e gli istituti concreti che il dominio politico può assumere non consente di tracciare confini netti; in astratto la differenza degli uni e degli altri è distinguibile agevolmente, in concreto no. Questo soprattutto perché il concetto di dipendenza politica è più ampio e determinante, ovvero è difficile che una dipendenza giuridica non si traduca in politica; nonché – e anche come conseguenza, perché le forme che il dominio assume possono cambiare senza che ne muti la sostanza. L’Egitto moderno ad esempio fu giuridicamente un protettorato della Gran Bretagna solo per pochi anni durante il primo conflitto mondiale, e poi fino al 1922. Ciò non toglie che prima e dopo la Gran Bretagna ne condizionava la politica in modo determinante, di guisa che l’Egitto «indipendente» fu teatro di battaglie tra potenze dell’Asse ed alleati nella seconda guerra mondiale, a quasi vent’anni dalla concessa «indipendenza».

3.0 Le forme (giuridiche) di dipendenza tra gli Stati (o tra Stati ed altri territori) costituiscono un reperto archeologico dopo la fine della seconda guerra mondiale e la decolonizzazione. È difficile trovare un trattato di diritto internazionale, di recente pubblicazione, che li prenda in esame. In qualche modo è comprensibile, atteso che di Stati protetti e di colonie (in senso giuridico, ben s’intende) non risulta che ne esista uno.

Peraltro l’esistenza di unità politiche «dipendenti» si riscontra costantemente nella storia. Lo erano la Giudea, l’Arabia Nabatea, l’Armenia (e altri) ai tempi dell’Impero romano. La Cipro dei Lusignano dipendeva da Venezia, la Transilvania dall’Ungheria nel Medioevo. Le repubbliche rivoluzionarie e poi i regni napoleonici dopo la rivoluzione francese dalla Francia. E così fino alla seconda guerra mondiale (ed oltre).

Tuttavia tale (apparente) assenza – a noi contemporanea – non significa che il rapporto di dominio sia venuto meno. Vale pur sempre la regolarità del politico esposta da Tucidide nel famoso dialogo tra gli ambasciatori ateniesi e i maggiorenti di Melo[7]. Pertanto il dominio (e la differenza tra rapporti di forza che presuppone) si esercita in modo diverso. Ciò per varie ragioni.

In primo luogo perché così viene occultato: non traducendo in istituti giuridici il rapporto di comando-obbedienza, questo è meglio nascosto. Si ubbidisce meglio e con minor resistenza a chi non comanda palesemente e con frastuono di «grida». Inoltre così è attenuata anche la responsabilità: uno Stato sovrano – anche se satellite o fantoccio – è responsabile pienamente dei propri atti (e omissioni), una colonia o un protettorato no (o non pienamente).

4.0 I giuristi, come Santi Romano, pongono il problema in termini giuridici (capacità-personalità); a un pensiero politico realista occorre qualcosa di diverso: più sein che sollen. Si può definire – com’è stato fatto – la sovranità come «competenza sulle competenze»; la si può denotare in un elenco di attività e funzioni (le vraies marques di Bodin); o come decisione sull’idea di diritto che debba valere nella comunità, o semplicemente negandola come fa Kelsen.

Ma, a basarla sul dato reale e concreto, la migliore definizione la si ricava da Sieyés, nelle sue considerazioni sulla Nazione, applicabili alla sovranità «La Nazione esiste prima di ogni cosa, essa è l’origine di tutto. La sua volontà è sempre conforme alla legge, essa è la legge stessa. Prima di essa e al di sopra di essa non c’è che il diritto naturale… una nazione non può né alienare né interdire a se stessa la facoltà di volere; e qualunque sia la sua volontà, non può perdere il diritto di mutarla qualora il suo interesse lo esiga»[8]. È il volere libero, il connotato sostanziale del sovrano.

La stessa impostazione che dava Bodin della sovranità ruota intorno alla volontà del sovrano ed ai suoi limiti, ovvero se sia obbligato dai trattati con gli Stati esteri; o dalla legge; o dalla costituzione; o dal diritto naturale[9].

Bodin si pone anche il problema se possa dirsi sovrano un principe che sia feudatario o tributario e inizia affermando «Abbiamo detto poc’anzi che si può dire sovrano solamente chi non dipende, eccezione fatta per Dio, altro che dalla sua spada. Se uno dipende da altri non è più sovrano»[10].

Nel capitolo successivo, dopo aver dato una soluzione così semplice (sovranità = non dipendenza da altri) Bodin espone quali sono le vraies marques de la souveraineté. E scrive: «Infatti, chi non riterrebbe sovrano colui che possa dettar legge a tutti i suoi sudditi, decidere la guerra e la pace, nominare tutti gli ufficiali e magistrati del paese, levare taglie e affrancare chi meglio creda, dar la grazia a chi abbia meritato la morte? Che altro ancora si può richiedere per considerare sovrano un principe?»[11]; ma subito dopo ritorna sullo stretto rapporto sovranità/indipendenza «come potrebbe essere sovrano chi riconosca la giurisdizione di un superiore il quale possa annullare i suoi giudizi, modificare le sue leggi, castigarlo se commette abusi?»[12] e aggiunge, in sostanza, che il tutto è un principio d’ordine[13].

Anche quando scrive della prima marque (cioè del potere di dare, modificare, abrogare le leggi) specifica «Perciò possiamo concludere che la prima prerogativa sovrana è il potere di dare la legge a tutti in generale e a ciascuno come singolo; ma ancora questo non è sufficiente, se non si aggiunge: “senza il bisogno del consenso di nessuno”. Se il principe dovesse attendere e osservare il consenso di un superiore, non sarebbe che un suddito; se di un uguale, avrebbe un compagno di potere; se dei sudditi, del senato o del popolo, non sarebbe sovrano».

Quando poi scrive di un’altra marque, quella di nominare gli alti magistrati, afferma: «Ma ho parlato di ufficiali più alti o di primi magistrati, perché in realtà non vi è Stato ove non sia permesso ai più alti magistrati e a certi corpi e collegi di eleggere qualche ufficiale minore»[14]; così quando tratta del potere di giudicare in ultima istanza (cioè – anche – di annullare le sentenze) sostiene «Ma, al contrario, quando il principe sovrano lascia il suo suddito o vassallo il potere del diritto di giudizio in ultima istanza, o addirittura delle prerogative sovrane che apparterrebbero a lui, egli fa del suddito un principe sovrano»[15].

Bodin doveva cercare di ricondurre alla propria teoria dello Stato (moderno) proiettata nell’avvenire, istituti e rapporti giuridici esistenti in un’età di transizione tra il vecchio ordine feudale (policratico) e il nuovo ordinamento statale; peraltro, forse perché era un giurista, finiva in qualche misura, anche nel cadere in un eccesso di giuridificazione della sovranità[16].

5.0 La teoria di Bodin elaborata, come scritto, in un’epoca di transizione (Hauriou chiamava epoche le diverse fasi di una civiltà o «era»; così l’epoca medievale o quella del rinascimento[17]), può essere rivisitata per valutare la situazione contemporanea anch’essa di transizione (assai avanzata) tra l’ordine westphaliano e uno futuro di cui si percepiscono i contorni.

All’uopo le maggiori differenze tra il vecchio e nuovo ordine sono:

1) Il carattere della globalizzazione. Ovviamente questa non è nata con la fine dell’ordine di Yalta (o con internet), come spesso creduto. Va avanti almeno dalle gradi «scoperte» dei navigatori europei dell’inizio dell’età moderna. La differenza tra il tempo di Filippo II e Elisabetta I e l’attuale è che, fino a qualche decennio fa la globalizzazione era «gestita» o meglio «regolata» e «limitata» dagli Stati (dalla politica): tutela cui si sta sottraendo (o meglio si è già in notevole misura) sottratta.

Il primato dell’economia nella politica si sviluppa riducendo la capacità ordinatrice della seconda e quindi degli Stati.

2) La diffusione dei soggetti «politici».  Non sono solo partiti e movimenti partigiani, ma anche lobbies e centri di potere economico e finanziario, sette e chiese. Qualcuno potrebbe obiettare: nulla di nuovo. E in effetti una situazione del genere ha più punti di contatto con l’assetto policratico dei feudatari, delle gilde e degli ordini monastico-militari che con l’età moderna.

3) Le ideologie pacifiste e la diffusione di forme di guerra «alternativa». Ossia non violente o comunque a «bassa intensità».

Il lavoro che ne tratta è l’ormai «classico» «Guerra senza limiti» dei colonnelli cinesi Quiao Liang e Wang Xiangsui. Quel che ne consegue è che simili forme di guerra rientrano facilmente nella disponibilità di soggetti non-politici (nel senso sopra precisato). Come scrivono i colonnelli suddetti «Quando la gente comincia ad entusiasmarsi e a gioire proponendo per la riduzione di forze militari come mezzo per la risoluzione dei conflitti, la guerra è destinata a rinascere in altre forme e su di un altro scenario, trasformandosi in uno strumento di enorme potere nelle mani di tutti coloro che ambiscono ad assumere il controllo di altri paesi o aree. In tal senso esistono fondate ragioni per sostenere che l’attacco finanziario di George Soros all’Asia Orientale, l’attacco terroristico di Osama Bin Laden all’ambasciata militare in Sudan, l’attentato chimico alla metropolitana di Tokyo da parte dei discepoli  di Aum Shiri Kyo e i disastri perpetrati ai danni della rete da personaggi come Morris Jr., il cui livello di distruzione non è certo secondario a quello di una guerra, rappresentano una “semi-guerra”, una “quasi-guerra” e una “sotto-guerra”, vale a dire la forma embrionale di un altro genere di guerra»[18].

4) Il potere indiretto. Diversamente dagli imperi europei dell’era moderna dove la potenza colonizzatrice (e dominante) aveva responsabilità per la gestione dei territori soggetti, nel caso delle forme di dominio contemporanee, proprio perché esercitato più con strumenti politici che formalizzate giuridicamente, la responsabilità della potenza (o del potere) egemone non è giuridicamente configurabile. Anche se poi è chiaro che dietro a certi belligeranti e a certe guerre, vi sono potenze che «tirano i fili». Ma è una situazione estremamente comoda quella di uno Stato (o altro soggetto) che esercita un potere senza assumerne la responsabilità. Per questo è molto ricercata e sviluppata in questo tempo di pacifismo imperante (e d’ipocrisia diffusa), anche se non sconosciuta nei secoli passati.

5) Il consenso di terzi nell’esercizio di prerogative sovrane. È questo, come scrive Bodin che de-sovranizza il principe (v. sopra citato rif. nota 11). Nella realtà la dipendenza politica di uno Stato da un altro si è sviluppata, nel corso del XX secolo, in forme diverse, prima sconosciute o comunque meno frequentate.

Tipica è la dipendenza «ideologica» (a partire dalle repubbliche giacobine), dopo la pausa del XIX secolo, è aumentata nel secolo passato; il fattore d’incremento principale è stato il partito (e quindi lo Stato) totale, in effetti anche transnazionale. Com’è evidente nel comunismo «organizzato» prima nel Comintern e poi nel Cominform, ma anche nella diffusione, già nel secondo anteguerra, di partiti fascisti, giunti per lo più al potere nei rispettivi Stati a seguito dell’occupazione militare delle potenze dell’Asse.

La stessa dipendenza economica è incrementata (ideologicamente). Se si reputa ottimale un assetto libero-scambista, questo, in generale è preferibile: ma se si vuole negare che uno Stato abbia il diritto d’imporre limitazioni alla circolazione di merci, servizi e persone, anche nei casi di necessità estrema (eccezione), non lo è. Al contrario: il tutto riduce drasticamente la legittimità del  potere politico, il quale istituito per il conseguimento del bene comune, trova in questo la propria regola di comportamento.

Altri tipi di dipendenza – spesso correlativi alla «permeabilità» degli Stati, si possono sviluppare attraverso il progresso tecnologico: se i due bravi colonnelli sopra citati configurano un atto di guerra con attacchi informatici, il relativo mezzo può essere utilizzato come strumento d’influenza e quindi di dipendenza.

Il potere mediatico può ottenere lo stesso risultato: anche in tal caso la corrispondente forma di guerra, ossia la guerra psicologica può convertirsi, in periodo di pace, in un’influenza/dominio sull’opinione pubblica di un popolo, determinandone scelte e orientamenti.

6) La negazione del nemico. L’aspirazione diffusa alla pace, convertita in «dottrina» dalle ideologie pacifiste che hanno come connotato comune di aver trovato l’elisir per eliminare la lotta (i mezzi sono diversi secondo l’una o l’altra)[19] comporta anche la negazione del nemico; ma la lotta è una condizione generale della politica, e l’ostilità (attuale o potenziale) ne è il corollario (e il presupposto).

La negazione del nemico è l’altra faccia di quella della guerra (convenzionale o meglio, tradizionale): solo assai più radicale. Per cui si crede che evitando la prima venga meno anche il secondo; nella realtà anche mancando quella la competizione per il potere tra diversi gruppi umani rivali continua ad esistere, e a generare altre forme di lotta per il potere: quelle, sopra ricordate, dei «bravi colonnelli» cinesi.

7) Pluralismo e responsabilità. Il pluralismo e le creazioni di aree – per lo più riferibili al diritto privato (quello che Hauriou chiamava droit commun – internazionale per natura) – attraverso Tribunali internazionali, costituiscono altre occasioni appetibili di rendere permeabili gli Stati. Ancor di più quando norme e decisioni internazionali divengono vincolanti attraverso meccanismi appositi, previsti anche per disposizione costituzionale (come l’art. 10 della nostra Costituzione). La responsabilità del sovrano è così dispersa – come il potere – nell’organizzazione policratica e nelle riserve di competenza correlate. Un’esigenza e assetto condivisibile ma che crea delle ghiotte opportunità di influenza.

Nella realtà il diritto, sia che consista in trattati che in decisioni di Corti interne o internazionali, secondo il pensiero politico (e giuridico) classico non poteva prevalere sulla politica e sulla necessità di protezione della comunità che la connota. Vale in generale ciò che diceva Bismarck dei trattati «Nessuna grande nazione potrà essere indotta a sacrificare la propria esistenza sull’altare della fede nei patti».

8) L’economia cosmopolitica e l’economia politica. Scriveva Friedrich List che i primi economisti come «Quesnay, che fece sorgere per primo l’idea della libertà universale del commercio, fu il primo ad allargare le ricerche su tutto il genere umano, senza però tener conto del concetto di nazione»[20].

In realtà List capiva assai bene come tra economia «cosmopolitica» e «politica» il fundamentum distinctionis era proprio l’insopprimibilità della politica come essenza (à la Freund) e come protezione dell’esistenza e conseguimento del bonum commune. Se le idee di Adam Smith sono astrattamente fondate, sono del tutto applicabili solo in un contesto senza guerra e senza volontà di dominio (cioè nel collodiano paese dei balocchi o qualche utopia del genere). Infatti scrive di Smith «Anche se, qua e là, parla della guerra, succede solo di passaggio e assai raramente. Tutti i suoi argomenti si basano sulla pace eterna…Evidentemente Adam Smith ha concepito la pace come pace eterna al modo dell’abate di St. Pierre». E lo stesso J. B. Say, il quale «chiede esplicitamente, per poter concepire l’idea della libertà di commercio, che si ammetta l’esistenza di una Repubblica Universale»[21]; e che se avesse scritto di economia politica (e non cosmopolitica) «difficilmente avrebbe potuto fare a meno di partire dal concetto e dalla natura della nazione e di dimostrare quali cambiamenti essenziali l’economia del genere umano deve subire per il solo fatto che il genere umano è suddiviso in nazionalità distinte, formanti un fascio di forze e di interessi, e poste, nella loro libertà naturale, di fronte ad altre società simili a loro»[22].

E List sostiene che «Tutti gli scrittori teorici hanno ripetuto questo errore. Anche Sismondi chiama l’economia politica “la science qui se charge du bonheur de l’espèce humaine”». Differente è la politica. Questa ha il compito di proteggere l’esistenza (particolare) di una comunità umana e come conseguire il bene comune della stessa[23].

Ed è perciò concettualmente e (spesso) oggettivamente contrapposta al principio cosmopolitico. List ricorda che Thomas Cooper «nega perfino l’esistenza della nazionalità. Egli chiama la nazione “una invenzione grammaticale fatta solo per evitare perifrasi, una cosa inesistente (a non entity) che esiste solo nelle teste degli uomini politici”»[24] affermazione che l’economista tedesco considera coerente «perché è chiaro che se si ammette l’esistenza della nazione, con la sua natura ed i suoi interessi, si presenta anche la necessità di modificare l’economia della società umana in relazione a questi interessi speciali»[25].

E proseguiva insistendo sugli inconvenienti, per l’economia di una nazione, che possono derivare dal differente grado di sviluppo con le altre; onde per beneficiare realmente di un sistema di libero scambio internazionale occorre che le comunità nazionali raggiungano «un uguale grado di civiltà, di formazione politica e di potenza»[26]; per cui «Perché la libertà di commercio possa agire liberamente e naturalmente, occorre prima di tutto che i popoli meno progrediti vengano portati, mediante interventi  di vario genere, allo stesso livello di sviluppo al quale è pervenuta l’Inghilterra»[27].

List, che è considerato spesso un avversario del laissez-faire, appare più esattamente come un realista difensore delle insopprimibili esigenze e presupposti della politica (e del politico).

9) I diritti umani. Che dei diritti umani e delle loro violazioni si sia fatto un uso improprio (per l’intervento negli affari – un tempo interni – degli Stati sovrani) è cosa spesso affermata e nota. Già Hobson stigmatizzava l’analogo uso, da parte della Gran Bretagna nel XIX secolo dell’affermazione che «la nostra politica imperiale e coloniale è animata dalla volontà di diffondere in tutto il mondo le arti del libero autogoverno di cui godiamo in patria» e la contestava affermando che «alla vasta maggioranza dei popoli del nostro impero noi non abbiamo attribuito alcun vero potere di autogoverno, né abbiamo alcuna seria intenzione di farlo, né d’altra parte crediamo seriamente che sia possibile farlo» dato che «dei trecentosessantasette milioni di sudditi che vivono fuori dalle isole britanniche, non più di undici milioni, ossia uno su trentaquattro, hanno una qualche forma di autogoverno per quanto riguarda la legislazione e l’amministrazione»[28] e che «da quando le prime luci del nuovo imperialismo negli anni settanta hanno dato piena coscienza politica all’impero, è divenuto un vero luogo comune del pensiero liberale sostenere che la missione imperiale dell’Inghilterra è quella di diffondere l’arte del libero governo»[29].

Un giudizio simile mutatis mutandis, merita l’uso strumentale dei diritti umani.

  1. Le idee sopra elencate sono le principali giustificazioni ideologiche di una globalizzazione che cerca di eliminare (o ridurre) i limiti che la politica e gli Stati possono porle.

In effetti le controindicazioni che una situazione del genere possa provocare sono già indicate nel pensiero politico (ed economico) di cui gli autori sopra ricordati costituiscono una (quantitativamente) piccola parte.

Il primo di tali inconvenienti è che l’ordine mondiale globalizzato non si pone – o non lo fa adeguatamente – il presupposto e la conseguenza che si accompagnano a quello: ossia il potere e la responsabilità.

Maurice Hauriou sosteneva che «il potere è una libera energia della volontà che si fa carico d’intraprendere il governo di un gruppo umano attraverso l’ordine ed il diritto»[30]. In tale definizione, proseguiva, vi sono tre elementi essenziali: 1) che il potere è una libera energia della volontà; 2) che il potere è un imprenditore di governo; 3) e che lo fa con la creazione dell’ordine e del diritto. Nelle concezioni globalizzatrici, a parte il richiamo all’idea d’impero, d’altra parte non meglio precisata, questa è soprattutto di assai dubbia praticabilità. Infatti in primo luogo si pone il problema di chi è lo Stato imperiale. Forse gli USA? E allora perché, malgrado guerre umanitarie e interventi di peace-keeping, non riescono a «normalizzare» i popoli (e gli Stati) occupati dalla NATO (o da coalizioni di Stati membri della NATO)[31]. E Cina e Russia che fanno?

Per cui l’idea d’impero – data la scarsa probabilità che la «testa» ne siano gli USA, diventa evanescente, ma più realistica. Così nel notissimo saggio di A. Negri e M. Handt, «Impero» in cui la forma di governo dell’Impero è una galassia formata da organizzazioni di Stati, Banca             mondiale, clubs vari e multinazionali[32]. È chiaro che un sistema siffatto, in effetti policratico, è «governabile» solo a prezzo di guerre, talvolta «tradizionali» (anche se mascherate da «operazioni di polizia internazionale»), più spesso asimmetriche (nel senso dei colonnelli cinesi più volte ricordati): a regolarlo sono assai più i rapporti di forza che il diritto.

Per cui come un governo siffatto possa garantire un’impresa di governo attraverso l’ordine e il diritto è difficile da immaginare. Di fatto non c’è un governo nel senso di un centro di riferimento in fatto e in diritto irresistibile; non c’è neppure una volontà, che richiede di essere personale (o pluripersonale) di un organo deputato a decidere (parlamento, consiglio dei ministri, Capo dello Stato), ma solo procedure informali riconducibili ad accordi, evidentemente fondati sui rapporti di forza; non c’è neanche un ordine, intesto nel senso di ordine sotto un’autorità (e una gerarchia) riconosciuta[33]; ne è configurabile un diritto – almeno completamente – perché questo va comunque distinto – come scriveva Hauriou – in droit disciplinaire (quello emanato dall’istituzione e basato sul rapporto di comando-obbedienza) e droit commun (quello fondato sulla socievolezza umana e quindi internationale)[34]. E il droit disciplinaire qui  manca (il che non significa che non vi sia il rapporto comando-obbedienza).

  1. Scrive Freund peraltro che il bene comune – scopo dell’azione politica – si distingue, secondo il presupposto dell’amico/nemico (e del comando/obbedienza) nei due aspetti della sicurezza esterna e della concordia interna. Ma, in una società globalizzata la prima ha un senso depotenziato, almeno se la globalizzazione è intesa, come generalmente ritenuto, quale percorso per eliminare guerra e ostilità. Una volta che si fantastica di toglierle di mezzo, il problema (si immagina) è risolto. Quindi niente Stati (in senso westphaliano) né «politica» in un mondo globalizzato.

Quanto alla concordia interna, fondata più sul presupposto del comando-obbedienza, che su quello dell’amico-nemico, questo appare un obiettivo ancor più difficile da conseguire per un potere globalizzatore. Alla base di quella c’è il romano idem sentire de re publica, cioè la condivisione in un gruppo umano della fiducia in istituzioni, valori, interessi nonché la consapevolezza di una comune appartenenza (per lingua, tradizione, religione). Ovviamente tutti tali elementi determinano la particolarità e la specificità del gruppo politico, come tale già contrapposto ad un potere che si pretende universale[35].

Peraltro, nel processo di formazione delle unità politiche è l’idem sentire, o per dirla alla Payne, il common sense comunitario che favorisce e determina il costituirsi dell’unità politica e non viceversa (o per lo meno è questo il percorso normale e maggiormente praticato).

Questo in una società planetaria manca o è carente e inidoneo a costituire una base di consenso e condivisione a un potere universale, mentre fondamentalisti, nazionalisti, gruppi etnici (e così via) tuttora hanno la capacità di costituire sintesi politiche. Finché le identità delle varie comunità saranno così diverse è bizzarro pensare che, nella modestia di un sentire comune «universalista» si possa costituire (qualcosa che somigli a) una unità politica.

In Europa le ultime costituite, cioè Italia e Germania, a parte i fattori unificanti (lingua, territorio, «razza», consuetudini, e per l’Italia la religione cattolica), hanno richiesto un’opera di convinzione dello spirito pubblico durata oltre mezzo secolo (almeno: dall’età napoleonica a oltre metà dell’800); e comunque diverse guerre. Pretendere di costruirne anche solo un surrogato a tavolino e con la collaborazione di banche e burocrazie è frutto di aspirazioni scambiate per realtà possibili.

  1. Senza le condizioni possibili per realizzare l’unità politica, come può fondarsi un ordine internazionale «globalizzato»?

Machiavelli nel Principe scriveva che «Dovete adunque sapere come e’ sono dua generazioni di combattere: l’uno, con le legge; l’altro, con la forza. Quel primo è proprio dello uomo; quel secondo, delle bestie. Ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo: pertanto ad uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo»[36]. Tale passo è stato interpretato in più modi e d’altra parte il pensiero denso e la scrittura efficace e concisa del Segretario fiorentino esprimono spesso meno parole che giudizi: uno dei quali è quello, ripreso secoli dopo da de Maistre che dove non c’è sentenza c’è lotta. Istituzioni (politiche) leggi, sentenze e ciò che presuppongono (cioè consenso, idem sentire, tradizione e così via) sono sistemi per produrre ordine e decisioni alternativi alla lotta. Giudizio che anche nei tempi presenti appare confermato. Dopo la caduta dell’ordine di Yalta – che era un ordine di sistemi politici «regionali» (occidente, comunismo, e – al massimo – «terzo mondo») le guerre convenzionali e «innovative» appaiono aumentate, ed estese a regioni del pianeta prima risparmiate, come l’Europa orientale, il Caucaso e parte del Medio Oriente. Dei soggetti «guerreggianti» oltre agli Stati e ai movimenti di liberazione nazionale, abbiamo un po’ di tutto.

D’altra parte la stessa invocazione alla «pace» e alla riduzione degli armamenti appare diventata uno strumento di guerra. Se la deterrenza della guerra consiste nel fatto che i contendenti possono arrecarsi danno reciproco, il limitare giuridicamente la possibilità di reazione è il tentativo di usare del diritto per impedire – nella maggior parte dei casi – la resistenza alla forza, e così cristallizzare i rapporti di potere, mantenendone le ineguaglianze.

Il che è soprattutto temibile nel caso di guerre condotte con mezzi non violenti, come quelle descritte dai «bravi colonnelli». Il tutto finisce col somigliare ad una rivisitazione attualizzata alla situazione contemporanea dei Trattati ineguali tra potenze europee ed asiatiche dell’800.

Con in più due caratteri specifici: che – per lo più, ciò serve a ridurre i rischi dell’aggressore, il quale, se sa di non dover subire una reazione violenta, può tranquillamente esercitare l’azione non violenta. E la seconda, usuale, che il tutto più che nei trattati è sancito attraverso la persuasione dell’opinione pubblica. La pace (intesa come non-violenza) è così mezzo di dominio.

Che «forza» e «legge» siano modi di combattere, come scrive Machiavelli, ossia d’imporre la propria volontà, è spesso dimenticato; così del pari, è – anche se in misura minore – trascurato che forza e legge sono anche modi di governare, non (totalmente) alternativi, ma piuttosto complementari. La «legge» senza forza è inutile: la forza senza legge è arbitrio violento.

Nella realtà occorrono entrambi. Se la combinazione di forza e regola è la normalità del governo dei gruppi umani, così come il potere responsabile è l’ordinatore ideale, quello che si profila nel mondo globalizzato appare tra i meno preferibili. Perché si risolve nell’affidare prevalentemente alla forza e all’astuzia (del potere esistente) il massimo della potenza disponibile senza la prospettiva che possa riuscire a creare un ordine che sia veramente tale.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

 

[1] V. Corso di diritto internazionale, Padova 1933, p. 115.

[2] V. «poiché la regola dell’indipendenza internazionale dei soggetti, non è assoluta, ma ha delle eccezioni, ne viene che un soggetto può assumere una posizione di superiorità verso un altro, in base allo stesso diritto internazionale, e quindi si possono avere degli Stati che sono titolari di una potestà sovrana di mero diritto internazionale su Stati che, per la loro posizione sempre internazionale, sono subordinati ai primi e per ciò non sovrani. Così, p. es., nel protettorato» op. loc. cit.

[3] V. «Come si è visto, che un soggetto sia per diritto internazionale sovrano rispetto ad un altro non sovrano, nel senso che su questo eserciti una potestà, non è la regola, ma l’eccezione» op. cit.

[4] Op.cit., p. 117; e conclude «data la grande varietà che il protettorato può assumere, è difficile formulare principii generali, ma si può affermare che essi implicano sempre una limitazione della capacità di diritto e inoltre la perdita in taluni casi, o la diminuzione in altri, della capacità di agire».

[5] Op. cit., p. 118

[6] Anche giuridicamente, ma solo fino a un certo punto. Diversamente dallo «status» dei protettorati, le limitazioni vi sono, ma a parte la minore entità, non si traducono in una condizione stabile e regolata da dipendenza, ma a modifiche secondarie, ma talvolta significative, dei diritti degli stessi. Così le collaborazioni tra amministrazioni civili e militari.

[7] «Le nostre opinioni sugli Dei, la nostra sicura scienza degli uomini ci insegnano che da sempre, per invincibile impulso naturale, ove essi, uomini o Dei, sono più forti, dominano» v. La guerra del Peloponneso trad. it. di P. Sgroj V, 105/110.

[8] Qu’est-ce le tiérs État trad. it. di G. Troisi Spagnoli, in Opere Tomo I, Milano 1993, pp. 255-257.

[9] Scrive Bodin «Se dunque il principe sovrano è per legge esente dalle leggi dei predecessori, ancor meno egli sarà obbligato a osservare le leggi e le ordinanze fatte da lui stesso: si può ben ricevere la legge da altri, ma non è possibile comandare a se stesso, così come non ci si può imporre da sé una cosa che dipende dalla propria volontà, come dice la legge: nulla obligatio consistere potest, quae a voluntate promittentis statum capit; ragione necessaria, che dimostra in maniera evidente come il re non possa essere soggetto alle leggi» Six livres de la République, trad. it. di M. Isnardi Parenti, Torino 1988, p. 360.

[10] Op. cit., p. 407 (il corsivo è nostro).

[11] Op. cit., p. 480.

[12] Op. cit., p. 481.

[13] «E in breve abbiamo dimostrato le assurdità intollerabili che conseguirebbero se i vassalli fossero sovrani, anche nel caso che non abbiano nulla che non dipenda da altri; e che cosa avverrebbe se si considerassero uguali il padrone e il servitore, il signore e il suddito, chi presta giuramento di fedeltà e chi lo riceve, chi comanda e chi è obbligato all’obbedienza» (il corsivo è nostro) op. loc. cit.

[14] Op. cit., p. 503.

[15] Op. cit., p. 511 (il corsivo è nostro).

[16] V. J. Freund secondo cui «i giuristi, seguiti da certi filosofi della politica, hanno cercato di spogliare della sovranità il comando. E Bodin è in parte responsabile di questa opera» L’essence du politique, Paris 1965, p. 117.

[17] V. La science sociale traditionnelle, rist. in Ecrits sociologiques, Dalloz, Paris 2008, p. 233 ss.

[18] Guerra senza limiti, L.E.G., Gorizia 2001, p. 39 e i colonnelli aggiungono «Comunque si scelga di definirla, questa nuova realtà non può renderci più ottimisti che in passato. Ciò perché la riduzione delle funzioni della guerra in senso stretto non implica affatto che quella guerra abbia cessato di esistere. Anche nella cosiddetta era postmoderna e post-industriale la guerra non sarà mai eliminata del tutto. E’ solo tornata a invadere la società in modi più complessi, più estesi, più nascosti e sottili», op. loc. cit. (il corsivo è nostro).

[19] V. Sul pacifismo e sulla pace le considerazioni di Freund, op. cit., pp. 620 ss; v. A. Salvatore, Il pacifismo, Roma 2010. In genere sull’incompatibilità tra sovranità dei popoli e globalizzazione v. l’attento studio di Alain de Benoist, Oltre la sovranità, Arianna Editrice, Bologna 2012, in particolare pp. 97-106.

[20] Das nationale system der Politischen Ökonomie, trad. it. Di H. Avi e P. Tinti Milano 1972, p.149 (il corsivo è nostro); e prosegue «Quesnay tratta evidentemente dell’economia cosmopolitica, cioè di quella scienza che insegna come tutto il genere umano può raggiungere il benessere, mentre per contro l’economia politica ed altre scienze si limitano ad insegnare come solo una data nazione possa raggiungere il benessere, la civiltà e la potenza, nelle condizioni mondiali date e per mezzo della sua agricoltura, industria e commercio. Adamo Smith diede alla sua dottrina la medesima estensione, ponendosi il compito di giustificare l’idea cosmopolitica dell’assoluta libertà del commercio mondiale… Adamo Smith non si pose il compito di trattare dell’oggetto dell’economia politica, vale a dire della politica che ogni paese deve seguire per fare dei progressi nelle sue condizioni economiche. Egli intitola la sua opera: Della natura e delle cause della ricchezza delle nazioni, cioè di tutte le nazioni delle quale si compone il genere umano. In una parte speciale della sua opera egli parla dei diversi sistemi dell’economia politica, ma solo con l’intenzione di dimostrare la loro vanità e per provare che al posto dell’economia politica o nazionale deve subentrare l’economia universale».

[21] E prosegue «Quei principi, però, che riguardano gli interessi di nazioni intere come tali ed in rapporto alle altre nazioni, formano invece l’economia pubblica (économie publique). Mentre l’economia politica tratta gli interessi di tutte le nazioni, di tutta la società umana in generale», op.cit., p. 50 (i corsivi sono nostri).

[22] Op. loc. cit. (il corsivo è nostro).

[23] Come scrive Freund: «qual è il bene specifico dell’attività politica… come Hobbes non cessa di ripetere il bene comune dello Stato e quello del popolo che formano insieme una collettività politica. In effetti se gli uomini continuano a vivere in collettività politiche, è perché vi trovano un interesse. Ci sono forti probabilità che se la natura umana non trovasse alcuna soddisfazione (bien) in tale genere di vita nessuna unità politica potrebbe essere stabile e durevole», v. Qu’est ce-que la politique, Paris 1965,p. 38.

[24] Op. cit., p. 151.

[25] Op. loc. cit..

[26] Op. cit., p. 155.

[27] Op. cit., p. 159.

[28] V. Imperialism. A study, trad. it., di L. Meldolesi, Milano 1974, p. 102.

[29] Op. cit., p. 105.

[30] Précis de droit constitutionnel, Sirey, Paris 1929, p. 14.

[31] Volutamente ho rispolverato il termine di «normalizzazione» di bresneviana memoria, perché, malgrado tutto, l’intervento del 1968 in Cecoslovacchia del patto di Varsavia (cioè di un vero impero regionale) riuscì a ricondurre all’«obbedienza» una nazione riottosa, senza che ciò degenerasse in guerre civili o partigiane: fu un intervento di successo, come, in passato, molti del XIX secolo. Che poi il comunismo sia imploso è un fatto che trascende la dimensione politica e strategica dell’ordine nell’impero sovietico: il crollo del comunismo è dovuto all’incompatibilità del sistema con i presupposti del politico e, più in generale, con le innate tendenze dell’uomo.

[32] Il carattere informale e non strutturato del potere globalizzatore è stato notato da molti. Tra i quali ricordiamo F. Cardini, La Globalizzazione, Rimini 2004; G. Ferrara, Derubati di sovranità, Vicenza 2014.

[33] Che è poi il senso agostiniano di ordine e di pace «la pace della città è l’ordinata concordia dei suoi cittadini nel comandare e nell’obbedire; la pace della città celeste è la più perfetta e armoniosa concordia nel gioire di Dio e nel godere vicendevolmente in Dio; la pace di tutte le cose è la tranquillità dell’ordine. E l’ordine è la disposizione degli esseri uguali e disuguali che assegna a ciascuno il posto che gli conviene» v. De civitate Dei, trad. it., Roma 1979, p. 1161.

[34] V. M. Hauriou, op. cit., p. 97 ss.

[35] Come scrive M. Veneziani Comunitari o liberali, Laterza, Bari 2006,p. 105 «Da una parte la globalizzazione congiunta all’internazionalismo porta a superare i confini territoriali; ma può esistere una comunità illimitata, che coincide alla fine con l’umanità? Puoò esistere cioè una comunità che non riconosce tratti specifici, provenienze condivise, tradizioni comuni ma solo la comune appartenenza al genere umano? Più giusto in questo caso è parlare di cosmopolitismo e non di democrazia comunitaria»; il che pone il problema del politico e della sua pretesa estinguibilità.

[36] Principe XVIII (il corsivo è nostro).

Circa identità e universalismo: dialoghi repubblicani, di Alessandro Visalli

Prosegue il dibattito tra identità e universalismo con tutte le sue implicazioni riguardanti le scelte politiche strategiche di questi ultimi decenni. Un confronto che ha coinvolto in particolare, oltre all’autore dello scritto in calce e indirettamente il professor de la Grange, Roberto Buffagni e Massimo Morigi. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Circa identità e universalismo: dialoghi repubblicani.

https://tempofertile.blogspot.it/2018/03/circa-identita-e-universalismo-dialoghi.html

Su Italiaeilmondo, un dialogo con Roberto Buffagni, prima, e dopo con Massimo Morigi si sta sviluppando sulla linea del confronto tra tradizioni culturali e punti di vista diversi ma capaci di reciproco riconoscimento. La cosa era partita da un commento ai fatti di Macerata di Roberto Buffagni che avevo riletto nella mia tradizione come “scontro di secolarizzazioni”, dal quale è nata un’altra linea di dibattito interessante sulle pagine di Sinistrainrete (l’ultima puntata è questa); questo dibattito incrocia quello sulle “due Europe”, anche esso avviato da Buffagni, cui replicai con “lo scontro tra due europe” e quindi le repliche dello stesso Buffagni (qui e qui).

Ciò che è in questione nell’intreccio dei tre dialoghi è la questione della forma di universalismo verso la quale manifestare lealtà, entro il sistema di tensioni non risolte della nostra cultura e valutando le forze in campo, e la sua concrezione geopolitica nel progetto europeo e mondiale, da una parte, e nella risposta alla crescita (per ragioni interne che riassumo nello schema delle “due economie politiche”) della mobilità della ‘forza lavoro’, dall’altra. Si tratta di questioni dirimenti per il posizionamento politico contemporaneo.

Sulla linea dello “scontro di secolarizzazioni”, dunque sul registro dell’immigrazione, Massimo Morigi replica in “Considerazioni al margine” attraverso una densa lettura della tradizione politica italiana imperniata sul momento risorgimentale e nella fattispecie la figura di Mazzini. Commentando questo pezzo avevo quindi scritto “Identità e universalismo”, nel quale venivano richiamati pochi momenti della grande questione tra autenticità e autonomia che struttura il pensiero politico europeo dei moderni nella sua formazione (attraverso snodi come Rousseau, Kant, Herder ed Hegel, per dire), e viene ripresa ed attualizzata nel dibattito sul multiculturalismo negli anni novanta e in quello sul comunitarismo. Nella chiusa, in quelli che necessariamente anche per il mezzo possono essere solo pochi appunti volanti, avevo scritto che oggi l’unica teoria della giustizia possibile, dunque, è quella che è in qualche modo progettata (rischiosamente) a partire dalle caratteristiche che lo sviluppo storico concreto ha depositato nell’oggi, per come queste si sono date, cioè, dal sedimento dei conflitti e dei successi o fallimenti nell’ottenere riconoscimento da parte delle diverse soggettività.

Probabilmente anche l’unica possibile pratica politica.

Massimo Morigi risponde con un pezzo che riprende questi temi dal punto di vista del “repubblicanesimo geopolitico” e sceglie di manifestare “l’estrema e multilaterale debolezza” del mio argomento giudicato centrale: l’interpretazione di Charles Taylor della tensione tra autenticità e autonomia nella nostra cultura. E soprattutto la tesi del nostro che vi sia una discontinuità tra la lettura dell’autenticità come progetto, sia pure costantemente sfidato da eteronomia (in quanto è autentico in effetti chi non sottopone a riflessione l’essere in cui si trova collocato), dei moderni e quella delle generazioni precedenti. In altre parole, che l’identità sia da leggere in modo diverso per un moderno e per un uomo colto premoderno. Con le parole di Morigi:

Il passo di Visalli testè citato sembra quindi suggerire, assieme a tutto il tono del suo intervento, che il problema dell’identità dei popoli, e di riflesso degli individui che questi popoli compongono, ha inizio in epoca moderna, legato prevalentemente ai fenomeni di secolarizzazione e di progressiva riduzione della dimensione del sacro.

L’obiezione è che, se pure di nazione e della relativa identità si cominciò a parlare con un tono diverso anche a seguito della sfida napoleonica e in ambiente tedesco prima con Herder e poi con i “Discorsi alla nazione tedesca” di Fichte, in evidente polemica con l’universalismo illuminista (che con Napoleone era imperialismo, se visto dall’alto lato delle baionette), l’identità nazionale agonistica preesiste, e di molto. Gli esempi di Morigi sono i greci contro i persiani, gli ebrei, i romani, e quindi dell’idea di Italia che emerge nel medioevo (sia pure tra pochi intellettuali, tra i quali cita Dante e Baldassar Castiglione, o, ovviamente, Machiavelli).

D’altra parte l’interlocutore finisce per concordare con la conclusione:

Scrive Visalli in conclusione del suo pregevole commento al mio articolo: «L’unica teoria della giustizia possibile, dunque, è quella che è in qualche modo progettata (rischiosamente) a partire dalle caratteristiche che lo sviluppo storico concreto ha depositato nell’oggi, per come queste si sono date, cioè, dal sedimento dei conflitti e dei successi o fallimenti nell’ottenere riconoscimento da parte delle diverse soggettività. Probabilmente anche l’unica possibile pratica politica.» Per quanto da indegno erede del  crociano storicismo assoluto io sia del tutto hegelianamente diffidente verso ogni teoria, anche se sotto forma di ‘teoria della giustizia’, calata sulla “realtà effettuale”, non ho alcuna difficoltà a riconoscermi nello spirito di questa affermazione, il cui nucleo è il sacro rispetto che si deve avere di quell’ “astuzia della ragione” che consiste nel secolare deposito storico di aspirazioni e tradizioni apparentemente contraddittorie ma che proprio nella loro contraddittorietà – ed anche mutua violenza e volontà nel passato e, purtroppo, anche odierna, di sopprimersi – formano oggi, del tutto analogamente a come avviene per gli altri popoli, la nostra identità come individui e come popolo.

Tenendo per buono questo finale accordo, probabilmente conviene però spendere qualche parola sul contesto nel quale viene individuata la discontinuità tra moderni e classici che ha colpito Morigi. Sostiene infatti questi che sia “assolutamente da respingere come storicamente inesatta l’idea che i popoli per sviluppare ed avvertire una propria identità, …, abbiano dovuto aspettare il XVIII secolo”, e specificamente “di una identità avvertita come agonistica rispetto alle altre”.

Ora, ci sono molti modi di reagire a questa osservazione:

  •   – da una parte ‘l’agonismo’ tra le organizzazioni più o meno statuali e le nazioni è ovviamente un fatto della storia. Ma entrambi i termini sono anacronistici, se utilizzati prima della modernità nella quale si forma lo Stato-nazione, in riferimento alle entità politiche e società preesistenti.
  • Dall’altra la specie umana è sempre stata formata da individui, ma non sempre questi hanno concepito se stessi e i gruppi nei quali erano immersi nello stesso modo. Il legame sociale è sempre mutato e ancora muta portando con sé l’insieme delle istituzioni, dei valori e delle norme sociali, quindi anche le identità rese possibili da queste. Anche parlare di ‘popolo’, al singolare, prima della modernità contemporanea, con la potenza dei suoi mezzi di comunicazione, per dirne una, rischia di proiettare esperienze contemporanee sul passato in modo indebito.

Quel che possiamo provare a nominare come ‘i popoli’ (che poi a grandi linee sono solo le loro élite e le clientele ad esse connesse in vario modo, e quindi facenti parte del ‘modo di produzione’ tributario ad esse) hanno sempre sviluppato una loro specificità, e quindi ciò che oggi chiamiamo una loro ‘identità’, ma quanto ad avvertirla il passo non è sempre automatico. Parlare dei ‘greci’ (una realtà molto più fratturata di quanto ci piaccia sapere, e la cui tradizione ci viene trasmessa da pochissime fonti, quasi tutte ateniesi, relative a poco più di un secolo e praticamente tutte di parte aristocratica, a partire dalla linea principale dei filosofi e dei drammaturghi) come di un ‘popolo’ opposto ai ‘barbari’ (prendendo per buona la retorica imperiale ateniese e poi macedone) richiede una certa distanza, avvicinandosi l’immagine si frammenta. Egualmente per i ‘romani’, il non-stato più multiforme, politicamente, giuridicamente, etnicamente e culturalmente, dell’antichità.

Diciamo che bisognerebbe entrare molto dettagliatamente nel merito, ed interrogare le fonti con occhio ed orecchio attento alle differenze, che spesso baluginano nei dettagli, più che alle presunte somiglianze (che possono facilmente essere proiezioni).

Ma anche l’osservazione di Charles Taylor va ascoltata nel suo proprio contesto, ovvero entro l’ambiente di discorso al quale il filosofo e storico canadese reagisce. Intanto dalla disciplina principale nella quale interviene: filosofia morale. All’ambiente culturale: Oxford prima USA, dopo. Quindi al periodo: anni settanta per gli studi hegeliani, ottanta per la teoria del linguaggio e dell’azione, l’epistemologia, e poi teoria dell’identità moderna al finire degli anni ottanta, e storia delle idee negli anni a cavallo del millennio. I suoi libri più famosi sono “Hegel”, 1975, “Radici dell’Io”, del 1989, e “L’età secolare”, del 2009.

Si tratta di un autore che avvia la sua riflessione sulla scorta di quell’evento epocale che fu la pubblicazione di “Una teoria della giustizia” di John Rawls del 1971. La ripresa della più antica tradizione contrattualista, in aperta polemica con l’allora egemone teoria morale utilitarista, nel libro epocale di Rawls determina infatti negli anni seguenti una completa ridefinizione del campo. La teoria politica liberale ne viene del tutto riscritta; quella linea genealogica che aveva Hobbes e Locke come padri, poi Kant e J.S. Mill, è riaggiornata da Rawls tenendo fermi i suoi caposaldi: concezione naturalistica dei diritti, libertà individuale come non interferenza, autonomia in senso personale e non collettivo, eguaglianza di principio, democrazia. Ma viene creata anche una coerente cornice intellettuale per far posto a quelle modifiche che il novecento aveva imposto a partire dal new deal: le libertà positive e la redistribuzione, quindi per fare spazio alla ‘questione della giustizia’. Il liberalismo di Rawls fa infatti perno sulla questione dell’eguaglianza, la determina come problema, mentre il liberalismo utilitarista classico si limitava a porre la questione della ‘libertà’ (negativa). Le questioni che diventano rilevanti sono a questo punto soprattutto due: la neutralità o meno dello Stato rispetto a diverse visioni del bene; la natura dei beni che vanno redistribuiti. Del primo problema la discussione si sviluppa con Dworkin, Ackerman, Nagel, Scanlon, ma anche Nozick. Del secondo si discute con i proceduralisti, ad esempio con Ackerman e Habermas (ne avevamo parlato qui).

Ma su questo terreno nasce anche una diversa controversia che esce dal campo liberale, e in alcune versioni attacca direttamente l’impostazione neo-kantiana di Rawls facendo uso di argomenti neo-hegeliani. È un attacco dall’esterno (mentre il primo era dall’interno), ed impegna gli anni tra ottanta e novanta. Si tratta della ripresa di motivi classici, della teoria della virtù, o comunque non liberali, da parte di una nuova famiglia di critici che sono stati etichettati come ‘comunitari’. Gli autori più rilevanti sono Alasdair MacIntyre, di cui leggeremo “Dopo la virtù”, del 1981; Michael Walzer, di cui leggeremo “Sfere di giustizia”, del 1983; Michael Sandel, “Il liberalismo e i limiti della giustizia”, 1982. La tesi a grandissime linee è che non si può presumere, se si pone la questione della giustizia, che lo stato si mantenga neutrale tra opposte concezioni del bene, o della vita buona, perché queste costituiscono gli individui che sono sempre situati ed incarnati in esse.

Charles Taylor è un esponente di seconda generazione di questa reazione all’astratto proceduralismo liberale. Ciò che scrive sulle radici dell’io e la storia delle idee che lo hanno costituito nella modernità va quindi necessariamente inquadrato in questa polemica.

Per il nostro l’identità in senso moderno si caratterizza dall’avere contemporaneamente tre caratteristiche: la percezione dell’interiorità, l’affermazione della vita come comune ed in comune, l’idea della moralità come naturale. Nello spazio morale si determina quindi un ‘io’ quando riusciamo a comprendere che cosa sia per noi di importanza cruciale e quindi in un certo senso quando sappiamo ‘dove’ siamo. Quando diventa possibile assumere una posizione e trovarsi in un orizzonte nel quale possiamo stabilire, di volta in volta, e caso per caso, che cosa è da tenersi per buono, quindi cosa dobbiamo fare o avversare. In altre parole noi siamo in quanto ci stanno a cuore delle questioni e non altre, in quanto siamo dotati di autointerpretazioni che non sono completamente esplicite, e in quanto siamo immersi in relazioni. Nessuno può essere descritto senza fare riferimento a quelli che lo circondano (T., “Radici dell’io”, p. 52). Dunque l’io esiste solo all’interno di ‘reti di interlocuzione’, e non nell’astratto e disincarnato vuoto immaginato dai ‘diritti civili’ liberali. E non esiste staticamente, ma solo narrativamente, sapendo non solo ‘dove siamo’ ma anche ‘dove andiamo’ e ‘da dove’.

Anche Taylor, in effetti, sviluppa una critica allo scientismo di cui è imbevuto il liberalismo naturalista (e le scienze economiche) e valorizza la strategia di Aristotele (come MacIntyre), tendente a definire come ‘vita buona’ quella che “combina nel più alto grado possibile tutti i beni cui aspiriamo” (idem, p.93).

Ecco che la ‘meglior forma’ evocata da Morigi trova una possibile cornice: la ragion pratica evocata ha a che fare con il racconto biografico, con la possibilità, esercitando una forma narrativa di ragione, di mostrare che una data soluzione tiene insieme meglio ciò che ci è caro, risolve meglio le contraddizioni presenti, dissolve confusioni ricorrenti.

Nel capitolo dodicesimo del suo libro sulle radici dell’io Taylor compie una digressione sulla spiegazione storica che direttamente chiarisce il dubbio che Morigi avanza. Il percorso ricostruttivo nel quale indulge (parlando di Cartesio, Locke, Montaigne e via dicendo) non è né una spiegazione ‘idealista’ né una spiegazione storica strictu sensu. Non cerca di dimostrare causazioni diacroniche, come propone ad esempio il marxismo, ma cerca solo di enucleare quali caratteristiche siano state capaci di far affermare la nuova idea di identità (p.256). La relazione tra le idee-forza (ovvero capaci di motivazione e di emergere come parte della autointerpretazione narrativa) e i meccanismi di causazione, è dunque riconosciuta come complessa e passante per pratiche sociali concrete, per l’applicazione di ciò che si può o non può fare. L’ambizione non è di risolverla.

Il seguito vede un ampio racconto che passa per la razionalizzazione del cristianesimo, esemplificata e condensata da Locke e poi le teorie dei sentimenti morali della scuola scozzese, Shaftesbury, Hutcherson, dalla quale emerge la categoria ‘dell’economico’ come ordine provvidenziale (gioverebbe anche ricordare Genovesi) che si autoregola. Quindi per gli orizzonti frantumati della perdita di dio (cui dedica il ben più ponderoso “L’età secolare”) e l’illuminismo radicale nel quale si afferma una idea di ragione autoresponsabile, strettamente connessa con la nuova ragione scientifica (Newton) e con l’affermazione dell’utilitarismo (p.410). Per il ‘controilluminismo’ di Rousseau e la nozione di ‘autonomia’ messa a fuoco da Kant fissa l’ideale di essere razionali, ma anche per la svolta espressivistica di Herder (p. 459) e l’idea di avere in effetti delle profondità interiori.

Da Darwin muove quindi la definitiva affermazione di un ordine senza ordinatore che mette a sistema la visione morale dello scientismo, affermando la secolarizzazione, che si può riassumere nell’enunciato “non si deve credere ciò di cui non si hanno prove sufficienti”. Un concetto di drammatica importanza, nel definire ciò che può essere e ciò che invece deve recedere, che si fonda su due idee-forza per Taylor: la libertà come razionale autoespressione e l’eroismo dell’incredulità. Da qui emerge una sorta di esigenza morale rovesciata: quella di non credere.

Il passo successivo è l’espressionismo postromantico di Schiller, Baudelaire, Schopenauer e Kierkegaard, ma anche Dostoevskij e Nietzsche. E la ricerca di una via di uscita dal mondo meccanico in Husserl, Heidegger, Adorno.

Il punto per Taylor, nel contesto non di una ricerca storica ma di una rimemorazione delle radici dell’io (anche se la relazione causale è incerta e la stessa composizione multiforme) è che “una società di persone tese [solo] all’autorealizzazione e le cui affiliazioni vengono considerate sempre più come revocabili non può sostenere quell’identificazione forte con la comunità politica che la libertà pubblica richiede” (p.617).

Insomma, il punto è precisamente quello evocato nel post “Ripensare i fondamenti: ‘libertà’”: l’idea di libertà come egoismo non limitato, spesso connessa internamente con lo scientismo, è strutturalmente e geneticamente connessa con l’inibizione dell’azione collettiva e milita contro quella che Taylor chiama la “libertà pubblica”. La “libertà privata” atomistica impedisce l’affermazione della “libertà pubblica”, l’autorealizzazione individualista con la lealtà collettiva.

La questione è dunque politica.

BUFALE E BUFALOTTI, di Gianfranco Campa

BUFALE e BUFALOTTI

 

I mass media Italiani, compiacenti portavoci dello stato ombra americano, hanno inondato i canali digitali e terresti, rilanciando e riportando le bufale d’oltreoceano costruite ad arte per screditare Trump. Un lavoro metodico, un meccanismo ben oliato che si attiva puntualmente ogni volta che lo stato ombra viene colpito da una torpedine. Nella fattispecie è stato il licenziamento di Andrew McCabe.

L’accusa dei media è la seguente: il licenziamento di McCabe è un attacco alla FBI e alla figura, al ruolo del procuratore speciale sul Russiagate Robert Muller. Inoltre McCabe avrebbe mantenuto un pro-memoria sugli incontri con Trump e queste note sarebbero state ora consegnate a Muller. L’impressione conseguente è che Trump abbia fatto licenziare McCabe per il timore legato al suo ruolo sul Russiagate.

Il vicedirettore dell’FBI Andrew McCabe è stato licenziato, venerdì notte, dal procuratore generale Jeff Sessions, due giorni prima del pensionamento. Il licenziamento gli preclude l’accesso alla pensione. McCabe però non ne avrà bisogno, perché tra lui e la moglie, il patrimonio in comune è stimato in milioni di dollari. Per chi non avesse ascoltato i nostri podcast su Italia Il Mondo, McCabe era già stato sospeso dall’FBI alla fine di Gennaio per le vicende riguardanti il suo coinvolgimento nelle fughe di notizie riservate, rilasciate furtivamente ai mass media e dopo essere stato scoperto; nell’aver mentito, sotto giuramento, agli investigatori dell’ispettore generale Michael Horowitz (nominato da Obama) sul suo ruolo in questi cosidetti leaks (fughe). Questa vicenda fa parte in generale delle manovre condotte dallo stato ombra nel tentativo di screditare e neutralizzare Donald Trump. Lo stato ombra, l’establishment, il potere delle stanze di Washington, che con il licenziamento di McCabe si vedono minacciati direttamente nella loro propria esistenza; ecco quindi il motivo della reazione  negativamente viscerale a questa decisione presa da Jeff Sessions.

Quello che non si dice quindi nei media è la verità  sul licenziamento di McCabe. Come ho detto, Mccabe si è reso responsabile di un serio crimine, di essere accusato di fughe di notizie secretate. Le indagini di Horowitz hanno anche scoperto il potenziale ruolo da co-cospiratore degli agenti Peter Strzok and Lisa Page nel fabbricare le infondate accuse contro il generale  Michael Flynn. Non è stato nè Trump, nè Jess Sessions a consigliare il licenziamento di McCabe, bensì  l’ufficio della Responsabilità Professionale dell’FBI, l’ente del FBI che si occupa delle violazioni etiche all’interno dell’agenzia stessa, sempre che nell’ambiente sia rimasto qualcosa che assomigli alla parola etica.  In altre parole sono stati gli stessi colleghi dell’Agenzia a raccomandare il licenziamento di McCabe. Ci sono voci che sussurrano che molti dei cosiddetti “rank and file”, cioè i dipendenti dell’FBI non amministrativi, sono contenti di questo licenziamento. James Kallstrom, ex vice direttore dell’FBI, 27 anni di servizio, ora in pensione, ha dichiarato durante un’intervista, che molti semplici agenti tirano un sospiro di sollievo ed esprimono la loro silenziosa approvazione al licenziamento di McCabe. Si sentono quindi vendicati dal fatto che un ramo all’interno dell’FBI stesso abbia raccomandato il licenziamento di questo corrotto personaggio.

Ci sono molti altri punti oscuri nella losca figura di McCabe; andrebbero studiati, analizzati in dettaglio, per esempio, il suo ruolo nelle indagini sullo scandalo delle emails di Hillary Clinton, la quale poi fu esonerata da ogni colpa. Se, per sua dichiarazione, McCabe ha tenuto un registro delle conversazioni con Trump, dov’è di conseguenza quello contenente le sue conversazioni con Clinton? Come mai contestalmente alle indagini su Hillary Clinton, la moglie di McCabe, Jill McCabe era in corsa in qualità di rappresentate del partito democratico alle elezioni al Senato della Virginia ? Jill McCabe avrebbe ricevuto 700.000 dollari dall’ufficio politico di Clinton e dal partito democratico.

McCabe era sotto inchiesta dell’ufficio etico dell’FBI per altri tre specifici accertamenti; il suo  coinvolgimento in discriminazioni sessuali, in improprie attività politiche e nella violazione della Hatch Act. Altro che licenziamento, McCabe dovrebbe essere sotto processo e pronto per una bella cella con vista sbarre di ferro.

Quello che realmente colpisce è stata la viscerale reazione al licenziamento di McCabe da parte di molti repubblicani dell’Establishment, dei democratici e dei rappresentanti dello stato ombra, i quali come scarafaggi sotto l’acqua sono usciti allo scoperto. Su Twitter molti di loro si sono addirittura permessi di minacciare direttamente il Presidente. Eric Holder, James Comey, Samantha Powers, John Brennan e via dicendo hanno usato parole forti e minacciose contro Trump; segno che un certo panico sta cominciando a insinuarsi fra questi personaggi. In particolare Brennan ha dichiarato su Twitter: “Quando si scoprirà l’estensione della tua venalità, della tua turpitudine morale e della corruzione politica, prenderai il tuo giusto posto  come demagogo caduto nella spazzatura della storia. Hai trovato come capro espiatorio Andy McCabe, ma non distruggerai l’America … l’America trionferà su di te. “ . Samantha Powers ha rincarato la dose spalleggiando Brennan: “Donald, non e` una buona idea far arrabbiare Brennan.” Una minaccia non di poco conto visto il carattere pericoloso di Brennan. Consiglio tutti di andarsi ad ascoltare il mio podcast su la morte del giornalista Michael Hasting per capire chi sia realmente questo personaggio. Ricordo anche che Brennan nel 2014 è stato accusato, come capo della CIA, di aver mentito al Senato Americano sui programmi di assassinio con droni , tortura e spionaggio illegale. Brennan fu costretto a scusarsi con i senatori americani per le sue menzogne.  Il giornale britannico The Guardian nel 2014 scriveva su Brennan che “Le scuse private non sono sufficienti ad assolvere un difensore della tortura, l’architetto del programma di droni americani e il bugiardo più talentuoso di Washington. La top spia della nazione deve dimettersi” Che Brennan ora si permetti di pontificare sulla ”Turpitudine morale e sulla corruzione politica” di Trump è a dir poco paradossale.

https://www.theguardian.com/commentisfree/2014/jul/31/cia-director-john-brennan-lied-senate

PODCAST nr 9_ ACCELERAZIONI INSPIEGABILI. LO SCATTO IMPROVVISO DI MICHAEL HASTINGS VERSO LA MORTE 2a parte, di Gianfranco Campa

PODCAST nr 8_ ACCELERAZIONI INSPIEGABILI. LO SCATTO IMPROVVISO DI MICHAEL HASTINGS VERSO LA MORTE 1a parte, di Gianfranco Campa

E così ora ci ritroviamo ad assistere  l’ignobile spettacolo dei media intenti a prostrarsi nella venerazione di queste potenze oscure, di queste pericolosissime entità; tutto per un odio viscerale verso Trump che annebbia loro il cervello e consuma quel poco che è rimasto di onesta`e professionalità giornalistica. Tutto ciò però impallidisce di fronte alla sfacciata arroganza dello Stato Ombra finalmente uscito quasi del tutto allo scoperto. La loro reazione equivale all’attraversamento del Rubicone; dovessero continuare su questa strada il punto di non ritorno sarebbe la rimozione di Trump. In quel momento si innescherebbe un meccanismo che difficilmente potranno controllare o fermare. Saranno le stanze del potere ad innescare la seconda guerra civile americana; a porne fine saranno però i patrioti armati fino ai denti che popolano il vasto spazio dell’America di mezzo. Di questo argomento parlerò nei miei prossimi podcast ed articoli;  i tempi purtroppo sono ormai maturi…

 

dal XXI podcast di Gianfranco Campa suggestioni sull’odierna natura della democrazia e sul mito dell’antifascismo Di Massimo Morigi

Leviathan, Behemoth, Giobbe, Giovenale, Schmitt, Kelsen, Neumann e Thomas Hobbes: dal XXI podcast di Gianfranco Campa suggestioni sull’odierna natura della democrazia e sul mito dell’antifascismo

Di Massimo Morigi

Quis custodiet ipsos custodes? è la chiusa del podcast n. 21 (Parte II) – Chi per primo chiuderà il cerchio? di Gianfranco Campa e con questa citazione prima dalle Satire di Giovenale e poi divenuta paradigmatica del confronto Kelsen-Schmitt in merito al Custode della Costituzione del giuspubblicista fascista di Plettenberg (Carl Schmitt, Der Hüter der Verfassung, Duncker u. Humblot, 1931) nel quale Kelsen molto acutamente mostrò la contraddizione schmittiana di far poggiare la tutela della costituzione (nello specifico la Costituzione della repubblica di Weimar) sull’organo monocratico del presidente della Repubblica (e da qui la domanda di Kelsen “chi controllerà i custodi stessi?”), si ha il singolare e straniante effetto, non solo letterariamente assai suggestivo ma anche molto potente dal punto di vista euristico, che dall’attuale feroce lotta di potere politico-giudiziaria in corso oggi negli Stati uniti per rovesciare Donald Trump si viene trasportati nel clima dell’epoca della Repubblica di Weimar con i suoi altrettanto feroci scontri fra gli agenti strategici politici ed economici e che vedevano il popolo tedesco come massa di manovra per alimentare questi scontri. Sappiamo come andò a finire: nessuno riuscì a custodire niente e nessuno e prevalse un potere apparentemente monolitico e, come già si poteva dire allora usando un lessico preso a prestito dalla politologia fascista italiana, totalitario. Ma a questo punto del nostro ragionamento sovviene un’altra suggestione, non presa direttamente a prestito dalle parole del podcast n. 21 di Gianfranco Campa, ma dalla situazione che questo podcast magistralmente rappresenta, e cioè la situazione di assoluto caos che regna fra i poteri della Res publica degli Stati uniti d’America, una repubblica che una scienza politica immolatasi al formalismo giuridico descrive come improntata e forgiata sul principio della divisione dei poteri ma che, in realtà, è basata sullo scontro anarchico e feroce fra questi poteri. E questa situazione di feroce ed anarchico scontro di poteri ha profondissime analogie, solo se si voglia scavare più a fondo di quello che dolosamente non fanno le odierne scienza politica e filosofia politica mainstream, con la dinamica reale dello scontro di potere nel regime nazista secondo la magistrale interpretazione datane da Franz Leopold Neumann, il quale nel suo Behemoth. The Structure and Practice of National Socialism (Franz Neumann, Behemoth. The Structure and Practice of National Socialism, London, Victor Gollancz, 1942), sovvertendo la vulgata che il potere nazionalsocialista era caratterizzato da una ferrea monoliticità al cui vertice stava il Führer, affermava che questo era caratterizzato da una situazione di caotica policrazia, insomma era caratterizzato da una feroce lotta di potere fra i vari organi dello stato e i vari potentati nazisti, una lotta di potere nella quale Hitler non era il feroce burattinaio manovratore di tutti i fili ma, bensì, una specie di terribile e venerato idolo ai piedi del quale si svolgevano autonome e feroci lotte di potere. Sul solco della tradizione ebraica, in particolare il libro di Giobbe, poi anche ripresa da Thomas Hobbes nel Leviathan e nel Behemoth (rispettivamente, Thomas Hobbes, Leviathan or The Matter, Forme and Power of a Common-Wealth Ecclesiasticall and Civil, 1651 e Id. Behemoth: the history of the causes of the civil wars of England, and of the counsels and artifices by which they were carried on from the year 1640 to the year 1660, 1681), e sulla traccia della quale il filosofo inglese utilizza l’immagine del leviatano per rappresentare l’ordine politico da instaurare contro il disordine rappresentato dalla bestia Behemoth, Beemoth rappresenta il caos e volendo terminare con le suggestioni letterarie ma che ritengo abbiano più forza euristica e dialettica delle mille fregnacce che ci vengono propalate dall’attuale scienza politica, è veramente forse qualcosa di più di un’anacronistica analogia affermare che Behemoth possa essere la mitica bestia che contemporaneamente meglio rappresenta il nazismo e l’attuale lotta di potere negli Stati uniti. E questo non per dire, come da stanca vulgata da agit-prop, che gli Stati uniti, popolo tutto e sue istituzioni, sono nazisti ma per dire, molto più semplicemente, una più elementare verità, che vale anche per tutti gli altri paesi del perimetro delle moderne democrazie industriali ed in particolare per l’Italia e che è la seguente: qualora la retorica sulla democrazia e sui diritti umani non sia seguita da una reale maturazione a livello di massa della consapevolezza sull’intrinseca natura di scontro strategico della politica, questa politica, o meglio questa natura strategica, come vera e propria pulsione repressa, assume manifestazioni caotiche violente, non produttive perché razionalmente non riconosciute, e, in ultima istanza, con esiti totalitari, e che alla fine, come nel nazismo, assumono formalmente veste tetragona e compatta (nel nazismo e nel fascismo un riconosciuto e dispiegato diretto totalitarismo del potere, nelle democrazie, sempre un totalitarismo del potere ma formalmente mediato dalle forme istituzionali dell’esercizio del potere, ma forme istituzionali considerate indiscutibili per ogni luogo, tempo e circostanza, e quindi in sé totalitarie), ma che in realtà, sotto la veste dell’uniformante – e reale in entrambi i casi – totalitarismo, non sono altro che il pieno dispiegamento delle caotiche pulsioni conflittuali che le retoriche democratiche ed universalistiche hanno cercato inutilmente di rimuovere e camuffare. In Italia fino all’altro ieri vigeva il Behemoth della retorica antifascista. Il fatto che ora sembra che di questo antifascismo non si sappia ormai più cosa farne, non è certo nostalgia per un ritorno ad una vecchia tragedia ma bensì il tentativo, magari in forme non teoricamente mature, di uscirne definitivamente, avendo percepito che il vecchio caos fascista aveva trovato nella retorica dell’ apparente anticaos antifascista, forma italica degenerata della retorica dirittoumanistica e democraticistica, il suo modo di sopravvivere. Oltre che per la puntuale ed iconoclasta ricostruzione – autenticamente rivoluzionaria ed iniziatica rispetto ai media informativi mainstream – della feroce lotta di potere attualmente in corso nella grande “democrazia” americana, anche di queste suggestioni dobbiamo essere grati dalle cronache americane di Gianfranco Campa. Massimo Morigi – 18 marzo 2018

Geopolitica dell’acqua: verità controcorrente di Aymeric Chauprade (traduzione di Roberto Buffagni)

Geopolitica dell’acqua: verità controcorrente

di Aymeric Chauprade

Conferenza tenuta l’8 febbraio 2013 alla Webster University (USA) di Ginevra, come introduzione al Forum dedicato all’acqua come fattore nelle relazioni internazionali.

link originale non disponibile

 

Quando Alexandre Vautravers mi ha chiesto di introdurre questo colloquio sull’acqua e la sicurezza, confesso che sulle prime ho sentito una piccola reticenza ad accettare, non perché a chiedermelo era Alexandre (che è uno spirito libero, impossibile da incasellare), tutt’al contrario: ma perché con il passare degli anni, ho imparato a non mettere acqua nel mio vino, e dunque a non mettere acqua… nella mia geopolitica!

Come molti, ho cominciato con le idee dominanti e alla moda sul tema, quelle che si sentono dappertutto, nei dibattiti, nei media, e che è facile riassumere con semplicità: “nel pianeta mancherà l’acqua e per l’acqua gli uomini si faranno la guerra.” Ma voi lo sapete come funziona il mondo: quando non se ne sa un gran che, si seguono le idee dominanti, ma poi, quando si conduce uno studio personale sull’argomento, si scoprono cose che non vanno necessariamente nella stessa direzione. Tra i numerosi libri che ho letto, ce n’è uno che vi raccomando particolarmente: Pour en finir avec les histoires d’eau1 di Jean de Kervadoué e Henri Voron.

Stamattina nuoterò di nuovo controcorrente, e spero che il mio intervento sarà utile introduzione a un dibattito che si vuole esigente, alieno dalle mode, e libero nelle sue conclusioni. Il mio intento sarà quello di rammentare alcune verità idrogeologiche che bisognerà tenere ben presenti in questa giornata di lavori.

Mentre nelle opinioni pubbliche si alimenta l’idea che il problema sarà la rarefazione dell’acqua, dobbiamo cominciare a constatare che oggi, e senza dubbio ancor più domani, è l’eccesso d’acqua che uccide e ucciderà, ben più della sua scarsità.

La catastrofe ecologica che ha mietuto più vite umane negli ultimi tre anni non è stato lo tsunami di Fukushima, ma una inondazione in Pakistan che ha ucciso più di 20.000 persone, ha causato profughi a milioni e sommerso una superficie di 200.000 km, il 40% del territorio francese.

Prendete l’Indo, che da solo misura 1.081.000 kmed è lungo 3.180 km. La sua portata media annua alla foce è di 4.000 m3/s, cioè 120 miliardi di m3 l’anno. La precipitazione di 100 mm di pioggia sulla metà a monte del suo bacino (500.000 km2) genera un volume d’acqua pari a 50 miliardi di m3 in pochi giorni, cioè a dire la metà della portata lorda annuale media. Le inondazioni catastrofiche diventano inevitabili, e la portata della piena abituale nel mese d’agosto può moltiplicarsi fino a 10 volte, da 4.000 a 40.000m3/s. L’acqua può salire molto in alto, e inondare superfici considerevoli.

Nelle gole dello Yangzi Jiang, che un tempo si chiamava Fiume Azzurro, l’altezza delle acque ha avuto variazioni di più di 60 mt. Nel Douro inferiore, in Portogallo, nel dicembre 1990, le acque sono salite a più di due metri sopra gli argini. In Francia, i livelli record in rapporto allo zero delle scale ufficiali hanno raggiunto, per la Garonna 8,32 mt. a Tolosa e 11,70 ad Agens, per la Loira i 7,52 a Tours, per la Senna gli 8,60 al ponte d’Austerlitz a Parigi, per il Rodano gli 8,30 ad Avignone.

Ma non è nulla, a paragone del Mississippi, che a valle di Cairo, nel 1882 ha sommerso più di 9 milioni di ettari, cioè una superficie maggiore dei territori di Belgio e Olanda insieme.

Lo Yangzi Jiang ha allagato superfici paragonabili nel 1931 e 1954, e in quelle occasioni pare abbia distrutto le abitazioni di più di 20 milioni di persone. Per la sola alluvione del 1931, si sarebbe dovuta piangere la morte di più di 100.000 persone.

L’acqua è una risorsa minacciosa, e in realtà, è più facile lottare contro la siccità che contro le inondazioni. Le piene sono improvvise, mentre la siccità è lenta e progressiva. Le piene distruggono abitazioni, riserve di grano e di fieno, uomini e bestiame, quando la siccità al massimo li costringe a spostarsi.

Ora che ho ricordato questa realtà, che secondo gli idrologi rischia addirittura d’aggravarsi, vorrei dare qualche cifra, anche in questo caso per smentire dei miti troppo diffusi.

Esistono tre grandi serbatoi d’acqua sulla Terra: il mare, la terra e l’aria (l’atmosfera).

Il Mare è il serbatoio di gran lunga più voluminoso, 1.338 milioni di miliardi di m3 (o tonnellate d’acqua): il mare, che è la principale fonte di evaporazione, e dunque delle piogge.

Poi c’è la Terra, che rappresenta 48 milioni di miliardi di m3, cioè il 3,5% della massa di acqua marina.

E qui, facciamola finita con i miti a proposito di certi ghiacciai in fusione.

Sulla Terra, ci sono 33 milioni di miliardi di m3 d’acqua immobilizzata sotto forma di ghiaccio; e tenete presente che su questi 33, ce ne sono già 32,6 che costituiscono l’Antartico e la Groenlandia, che non sono ghiaccio, ma che si possono considerare una forma di roccia fissa sul posto da 15 milioni di anni, la temperatura media della quale è di – 70°, e che è diversissima dal ghiaccio dei ghiacciai alpini e dell’Himalaya, i quali rappresentano soltanto 600.000 miliardi di m3.

E’ vero che secondo alcuni questi ghiacciai continentali si ritirano, a causa del riscaldamento climatico osservato a partire dal 1850; ciononostante, l’errore del grande pubblico è credere che a causa del ritiro di certi ghiacciai, diminuisca il volume d’acqua disponibile nei fiumi a valle di essi. E’ falso. Nel caso del Rodano, ad esempio, da 150 anni non si osserva alcuna riduzione della portata media.

E’ importante tenere presente che l’immagazzinamento provvisorio d’acqua, in un lago o sotto forma di ghiaccio, non cambia per nulla il ciclo dell’acqua.

Con o senza ghiacciai, le montagne del mondo sono dei castelli d’acqua. Anche senza ghiacciai, tutte le montagne immagazzinano acqua nei periodi umidi per restituirla nei periodi secchi. Nessun ghiacciaio alimenta il Rio delle Amazzoni, il fiume più possente al mondo, o l’Orinoco, o il Rio de la Plata in Argentina; lo stesso vale per il Nilo, il fiume più lungo del mondo, il Congo, lo Zambesi, i grandi fiumi siberiani, il Mississippi o il San Lorenzo.

Ritorniamo dunque ai nostri 48 milioni di miliardi di m3 d’acqua dolce, dai quali toglieremo i 33 di ghiacci; ci resteranno 15 veri milioni di miliardi di acqua dolce (laghi, fiumi, falde freatiche, zone umide) ciò che risulta, per 7 miliardi di esseri umani, in uno stock di acqua dolce personale di 2 milioni di m3; sapendo che ogni francese consuma in media 100 m3 d’acqua all’anno, se anche vivesse 100 anni, il suo consumo sarebbe di 10.000 m3 su un potenziale di 2 milioni: vale a dire, lo 0,5%.

E’ importante ricordare queste cifre, perché anche se sappiamo che le cose sono più complicate, questo ci porta a relativizzare il peso relativo della presenza umana nel ciclo dell’acqua a livello planetario, e soprattutto a distinguere bene il cosiddetto problema globale dell’acqua dai problemi locali legati all’acqua, problemi che non voglio affatto sottovalutare.

Per riassumere la mia filosofia sul problema dell’acqua: i problemi sono locali, ma la menzogna è globale.

Proseguo sui serbatoi. Ho parlato del mare, della terra, ma non dimentichiamo il terzo serbatoio, l’atmosfera, che è il meno ricco dei tre, 1700 miliardi di m3 sotto forma di vapore, di goccioline d’acqua e ghiaccio che formano le nubi.

Sorvolo sui dettagli, ma negli scambi tra questi tre serbatoi consiste quel che si chiama il ciclo dell’acqua, che, naturalmente, è equilibrato: ecco perché il livello dei mari è costante.

Fatti tutti i calcoli, tenendo conto dell’acqua che cade, di quella che evapora, di quella che torna al mare con i fiumi, si arriva a quella che chiamo l’abbondanza lorda mondiale, cioè a dire la quantità disponibile per l’Umanità nel suo insieme: 47.000 miliardi di m3 all’anno, cioè a dire 6700 m3 per ciascuno dei 7 miliardi di esseri umani. Questi 6700 m3 sono una media, perché per un francese, la disponibilità è di 2800 m3 per abitante; e di questi 2800 m3 a testa, il francese medio (non solo lui, ma anche le sue industrie, i suoi servizi, etc.) ne consuma solo 100 m3 all’anno.

E qui, di nuovo torniamo alla realtà, e tiriamo il collo alle false idee veicolate dall’ideologia mediatica.

Bisogna tenere presente che le famiglie, le industrie, i servizi, le città di tutte le dimensioni restituiscono all’ambiente naturale praticamente il 100% dell’acqua che usano. L’acqua non fa che scorrervi, per essere poi sottoposta a nuovo trattamento: dunque, ad essere consumato non è l’acqua, ma un servizio di distribuzione dell’acqua potabile. Non bisogna confondere l’acqua e il servizio di fornitura dell’acqua: non sono la stessa cosa.

Il solo vero consumo d’acqua, quella che non torna al mare, è l’irrigazione, perché in questo caso l’acqua evapora, e non torna più allo stato liquido nel suo bacino. Ora, tutti sanno che oggi, l’irrigazione ha soltanto un piccolo ruolo nell’agricoltura mondiale.

Eppure, vengono continuamente spacciate delle falsità. Prendiamo questa affermazione di Claude Allègre: “Se tutti gli uomini del pianeta consumassero tanta acqua di fiume quanta ne consumano gli europei, questo prelievo costituirebbe la metà della portata media dei fiumi. Se poi la popolazione mondiale aumentasse del 50%, passando a 9 miliardi, e il livello di vita si elevasse dappertutto al livello di vita europeo, allora l’uomo preleverebbe l’80% della portata dei fiumi.”

Da queste affermazioni traspaiono, oltre alla sempiterna colpevolizzazione dell’europeo, e all’ideologia malthusiana conforme alla quale la crescita demografica è necessariamente un flagello, parecchi errori scientifici. Si lascia credere, anzitutto, che i fiumi siano l’unica risorsa idrica, ciò ch’è inesatto, poiché il 60% delle acque continentali viene dalle falde freatiche. Poi, queste affermazioni lasciano credere che tutta l’agricoltura sia irrigata, che l’allevamento non esiste, che un miglioramento dei livelli di vita comporti necessariamente un aumento proporzionale dei consumi d’acqua. Ora, il consumo dei fiumi francesi è modesto rispetto alla loro portata (3%), e il prelievo non aumenterà, perché l’irrigazione non si svilupperà che in misura molto marginale. D’altronde, da una ventina d’anni i consumi domestici di acqua in Francia diminuiscono, mentre il tenore di vita è raddoppiato. Anche qui vi rimando alle notevoli analisi di Jean de Kervasdoué e Henri Voron.

E’ assolutamente impossibile che l’umanità consumi l’80% dell’acqua dei fiumi e faccia evaporare 47.000 miliardi di m3 all’anno. Per riuscirci, si dovrebbero irrigare 4 miliardi di ettari supplementari, cioè a dire 80 volte la superficie della Francia, per una media di consumo d’acqua per ettaro di 10.000 m3. Ne conseguirebbero raccolti supplementari per 20 miliardi di tonnellate di cereali, quando oggi l’umanità ne produce e consuma soltanto 2,5 miliardi. D’altronde, ad oggi le terre arabili coprono solo 1,4 miliardi di ettari, cioè il 10% delle terre emerse. Non si vede come si potrebbero moltiplicare per 2,5.

I continenti non sono abbastanza grandi per accogliere più di 5,4 miliardi di ettari di terre arabili!

Dunque, se vogliamo affrontare il problema geopolitico dell’acqua, del quale non mi sogno di negare l’esistenza, bisogna cominciare a non massacrare la verità scientifica (idrologica, in questo caso), e anche a diffidare di questo pensiero globalizzante che ha il solo scopo di ficcare in testa alla gente che “per i problemi globali ci vuole un governo globale”.

Globalmente, l’accesso all’acqua non è un problema e non lo sarà, anche con la tensione demografica. Lo ripeto: il problema futuro saranno piuttosto le alluvioni che le siccità. Quanto alla fusione di certi ghiacciai, essa non minaccia in alcun modo il ciclo dell’acqua. Il BRGM2 ci dice che il volume delle falde freatiche mondiali è di 10 milioni di miliardi di m3, cioè a dire 1,5 milioni di m3per abitante nelle sole falde freatiche. Queste acque sotterranee costituiscono il 60% delle acque continentali; e le falde più profonde, a debole capacità di rinnovo, restano dove sono da più di 70.000 anni.

Un’altra impostura nel modo di trattare il problema dell’acqua è che si presenta la diga come un problema, una fonte di conflitti fra gli Stati a monte e gli Stati a valle. Anche qui, il peso dell’ideologia: la diga è come la frontiera, è un muro, e ai nostri giorni i muri non piacciono; l’ideologia dominante ama solo la circolazione senza vincoli, la circolazione degli uomini, la circolazione delle merci, la circolazione delle acque, anche quando sono alluvioni… Il sogno preferito dell’ideologia dominante, subito dopo il meticciato, è proprio la circolazione.

Ora, al contrario di quel che si afferma di solito, le dighe per la produzione di energia idroelettrica non consumano acqua. La diga viene attraversata dal volume totale d’acqua, che transita sia attraverso le turbine, sia attraverso il canale di scarico delle piene. Le perdite per evaporazione, in dighe di questo tipo, sono modestissime o nulle, perché a quelle altitudini fa freddo, anche nelle zone tropicali.

Non solo le dighe non consumano acqua, ma recuperano la sua energia e lottano contro l’erosione. Contribuiscono al contenimento delle piene. La diga non sbarra la via all’acqua, la trattiene provvisoriamente.

Ciononostante, gli Stati a valle non tollerano che gli Stati a monte facciano delle dighe, come l’Egitto e il Sudan che vogliono impedire all’Etiopia di costruire dighe sul Nilo Azzurro, come il Laos, la Cambogia e la Tailandia che si preoccupano dei progetti cinesi sul Mekong. O come l’Uzbekistan che si irrita contro il Tagikistan.

Il vero oggetto di questi conflitti non è l’acqua, è l’elettricità, perché lo Stato a valle non vuole vedere lo Stato a monte produrre la sua propria elettricità, che poi dovrà pagargli a prezzo di mercato. E’ una classica gelosia tra vicini.

Allora fa fine saltare addosso alla Cina e criticarla per la sua diga delle Tre Gole3.

Si dimentica che le Tre Gole sono sul fiume Yangzi Jiang, il più lungo fiume dell’Asia, e senz’altro il più pericoloso del mondo. La verità è che la diga delle Tre Gole ha migliorato la situazione, pur senza annullare il rischio di piene catastrofiche. La capacità della diga, disgraziatamente, è insufficiente a un’efficacia preventiva del 100%. Raccoglie soltanto 34 miliardi di m3, cioè meno del 4% dell’acqua convogliata alla sua imboccatura ogni anno. Gli sversamenti possono ancora superare i 100.000 m3/s, e raggiungere, a valle, i 17 metri di altezza dal livello del suolo. Nel settembre 1998, prima della costruzione della diga, al centro di Wuhan l’onda di piena ha raggiunto i 29 metri, causando la morte di migliaia di persone. Ma la diga regola le piene medie, il che è già molto, e produce 85 miliardi di kWh, l’equivalente di 20 centrali nucleari o di 50 milioni di tonnellate di carbone all’anno.

Bisognerà che un bel giorno i radical-chic4 d’occidente, installati nei loro comfort dopo due secoli di domesticazione dei fiumi e di progressi in materia di trattamento delle acque, autorizzino finalmente i popoli di Asia, d’America Latina e persino d’Africa ad apportare gli stessi miglioramenti. Proprio gli stessi radical-chic d’Europa che si attestano su posizioni dogmatiche in quasi tutti i campi scientifici, che si tratti del gas di scisto, degli OGM o di tutte le altre possibilità che la scienza degli ingegneri ci offre, e che ha costruito la potenza dell’Occidente e la sua superiorità sulle altre civiltà dal XVI secolo in poi. Com’è come non è, gli unici progressi scientifici che si augura questa gente sono quelli che permetterebbero di distruggere lo statuto della famiglia come base della nostra civiltà.

Qualche anno fa, come molti studiosi di geopolitica, sono stato sensibile al tema dell’acqua. Come tutti, amo la Natura, e mi sono detto che forse, qui c’era un vero problema ecologico. Ma bisogna fare, anzi rifare dell’idrogeologia, prima di fare dell’idropolitica, come bisogna rifare la climatologia prima di impegnarsi a testa bassa nell’ideologia del riscaldamento globale di origine antropica. Nel 2009, alla frontiera che separa la repubblica Dominicana da Haiti, nelle piantagioni di banani inondate dal lago salato Enriquillo (che fa da frontiera tra i due paesi vicini) ho scoperto che non esistevano soltanto mari chiusi in via di prosciugamento come il mare d’Aral, del quale si parla sempre, ma che questo lago immenso, invece, si estendeva ogni giorno di più. Insomma, tale e quale ai ghiacciai. Certi si riducono, mentre altri si estendono. Eppure, ai miei figli si parla solo dei primi.

Il professor Aron Wolf, citato da Bjorn Lomborg, faceva notare, dopo aver analizzato le crisi mondiali del XX secolo, che su 412 conflitti catalogati tra il 1918 e il 1994, solo 7 avevano l’acqua come causa parziale, e che in 3 casi su quei 7 non è stato sparato un solo colpo. Un po’ pochino per annunciare la prossima “guerra dell’acqua”.

Insomma, l’acqua è certamente una fonte di conflitto geopolitico, e oggi bisognerà chiedersi che ruolo ha l’acqua nel conflitto israelo-palestinese, nelle relazioni Turchia/Siria/Iraq, interrogarsi sull’acqua in Asia centrale, sul Nilo Bianco, il Nilo Azzurro e tanti altri casi, ma appena cominciate a interessarvi seriamente dei problemi idrogeologici, comprenderete che praticamente tutti questi casi hanno soluzioni scientifiche, e che una guerra costerà sempre molto più cara di parecchi impianti di dissalazione.

Spingiamo più oltre la riflessione. Perché si fa credere alle opinioni pubbliche che qualcosa di essenziale alla loro vita (che cosa c’è di più essenziale dell’acqua?), d’insostituibile, che può suscitare violente reazioni dell’istinto di sopravvivenza, si sta rarefacendo, quando è falso?

Credo che proprio qui la questione dell’acqua in quanto “problema globale” coincida con quella del terrorismo come “problema globale”, e con tutti i “problemi globali”.

Da un canto si spingono alla guerra i popoli confinanti facendo loro credere che sono investiti da un problema geopolitico, quando invece obiettivamente (scientificamente) non è affatto così, dall’altra gli si spiega che la soluzione è globale, e che dunque ci vuole una potenza globale, un potere mondiale, per spegnere questo conflitto.

Da un canto si spinge verso la guerra, dall’altro si spinge verso l’estinzione della sovranità statale.

Chi ha interesse, insomma, a creare disordine per installare più facilmente il suo nuovo ordine globale? Chi ha interesse a destabilizzare i paesi emergenti, a sbarrare la via al multipolarismo che si sta costruendo, a mettere i bastoni fra le ruote a chi vuole incamminarsi sulla via del progresso scientifico e della domesticazione delle forze della Natura che l’Occidente ha imboccato tre secoli fa?

1 Jean de Kervasdoué, Henri Voron, Pour en finir avec les histoires d’eau : L’imposture hydrologique, Paris: Plon 2012

 

2 Bureau de Recherche Géologiques et Minières : http://www.brgm.fr/ [N.d.T.]

 

4 Traduco così l’espressione usata dall’Autore, che in Italia non è di uso corrente: “bobos”. “Radical-chic” non indica esattamente la stessa cosa: in francese, “bobos” cioè “bourgeois-bohéme” designa le persone relativamente agiate e istruite che professano valori “di sinistra” soprattutto nel campo dei diritti delle minoranze, della libertà sessuale, etc. In Italia, il “bobo” corrisponde con una certa precisione al lettore ideale di “la Repubblica”. [N.d.T.]

testo originale non più disponibile on line

Publié par Aymeric Chauprade le 16 août 2013 dans Articles – 6 commentaires

Une conférence donnée à la Webster University (USA) de Genève, le 8 février 2013, en introduction au Forum consacré au facteur de l’eau dans les relations internationales.

Quand Alexandre Vautravers m’a demandé de venir introduire ce colloque sur l’eau et la sécurité, j’avoue d’abord avoir eu une petite réticence, non parce que c’était Alexandre (c’est un esprit inclassable et libre), bien au contraire, mais parce qu’avec le temps j’ai appris à ne pas mettre d’eau dans mon vin, et donc pas d’eau… dans ma géopolitique !

Comme beaucoup, j’ai commencé avec les idées dominantes et à la mode sur ce thème, celles que l’on entend partout dans les colloques, les médias, et qui peuvent se résumer de manière simple : « la planète va manquer d’eau et les hommes se feront la guerre pour l’eau ». Mais vous savez comme le monde fonctionne : quand on ne sait pas grand-chose, on suit les idées dominantes, puis quand on travaille soi-même le sujet, on découvre des choses qui ne vont pas forcément dans le même sens. Parmi les nombreux livres que j’ai lus, il y a en un un que je vous recommande en particulier : Pour en finir avec les histoires d’eau de Jean de Kervasdoué et Henri Voron.

Ce matin je vais encore nager à contre-courant et j’espère que mon intervention sera une introduction utile pour un colloque qui se veut exigeant, loin des modes, et libre dans ses conclusions. Mon but sera de rappeler quelques vérités hydrologiques qu’il faudra garder en tête durant cette journée.

Crédit photo : Kingbob86 via Wikimedia (cc)

Alors que l’on développe dans les opinions publiques cette idée que la raréfaction de l’eau sera le problème, il faut commencer par constater qu’aujourd’hui, et sans doute demain plus encore, c’est l’excès d’eau qui tue et tuera encore beaucoup plus que le manque d’eau.

La catastrophe écologique la plus meurtrière de ces 3 dernières années n’a pas été le tsunami de Fukushima, mais une inondation au Pakistan qui a tué plus de 20 000 personnes, en a déplacé des millions et noyé une surface représentant 40% de la superficie de la France soit 200 000 km2.

Prenez le bassin versant de l’Indus qui mesure à lui seul 1 081 000 km2 et qui une longueur de 3180 km. Son débit moyen annuel à l’embouchure est de 4000 m3/s soit 120 milliards de m3 par an. Le ruissellement intégral de 100 mm de pluies sur la moitié amont du bassin versant, à savoir 500 000 km2, génère un volume d’eau de 50 milliards de m3 en quelques jours, soit la moitié de l’abondance brute annuelle moyenne. L’inondation catastrophique est inévitable et le débit de crue habituel habituel au mois d’août peut alors être multiplié par 10 fois, de 4000 m3/s à 40000m3/s. L’eau peut alors monter très haut et inonder des surfaces considérables.

Dans les gorges du Yangzi Jiang, l’ancien fleuve Bleu, en Chine, la hauteur des eaux a varié de plus de 60 m. Dans le Douro inférieur, au Portugal, en décembre 1909, les eaux ont monté de plus de 26 m au-dessus de l’étiage. En France, les niveaux records par rapport aux zéros des échelles officielles ont atteint, pour la Garonne 8,32 m à Toulouse et 11,70 à Agen, pour la Loire, 7,52 à Tours, pour la Seine 8,60 au pont d’Austerlitz à Paris, pour la Rhône, 8,3 à Avignon.

Mais cela est rien à côté du Mississipi qui, à l’aval de Cairo, a submergé en 1882, 9 millions d’ha soit plus que la surface de la Belgique et de la Hollande réunies.

Le Yangzi Jiang s’est répandu sur des étendues comparables en 1931 et 1954 et, en ces circonstances, aurait détruit les habitations de plus de 20 millions de personnes. Pour la seule crue de 1931, on aurait déploré plus de 100 000 morts.

Crédit photo : KoS (cc)

L’eau est une ressource menaçante et il est en réalité plus facile de lutter contre la sécheresse que contre les inondations. Les crues sont soudaines et violentes et la sécheresse est lente et progressive. Les crues détruisent les habitations, les réserves de grain et de paille, les hommes et le bétail, alors qu’au pire la sécheresse les déplace.

Maintenant que j’ai rappelé cette réalité qui risque même de s’aggraver d’après les hydrologues, je voudrais maintenant donner quelques chiffres, là encore pour casser quelques mythes trop répandus.

Il y a trois grands réservoirs d’eau sur terre : la mer, la terre et l’air (l’atmosphère).

La Mer est le réservoir de loin le plus volumineux, 1338 millions de milliards de m3 (ou de tonnes d’eau). Cette mer qui est donc la principale source d’évaporation et donc de pluies.

Et puis il y a la Terre qui représente 48 millions de milliards de m3 ce qui représente 3,5% de la masse de l’eau de mer.

Tordons ici le coup à quelques mythes à propos de la fonte de certains glaciers.

Il y a 33 millions de milliards de m3 immobilisés sous forme de glace sur Terre et gardez bien à l’esprit que sur ces 33 il y en a déjà 32,6 qui sont l’Antarctique et le Groenland et qui ne sont pas de la glace mais que l’on peut considérer comme une forme de roche en place depuis 15 millions d’années, dont la température moyenne est de -70% et qui est très différente de la glace des glaciers alpins et Himalaya lesquels ne représentent que 600 000 milliards de m3.

Oui ces glaciers continentaux reculent pour certains, du fait du réchauffement climatique observé depuis 1850; mais, pour autant, l’erreur souvent faite par le grand public est de croire que parce que certains glaciers reculent alors le volume d’eau disponible dans les fleuves à l’aval de ces glaciers baisse. C’est faux. Dans le cas du Rhône par exemple, on n’a observé aucune réduction du débit moyen depuis 150 ans.

Il est important d’avoir en tête que le stockage provisoire de l’eau dans un lac ou sous la forme d’un glacier ne change rien au cycle de l’eau. 

Avec ou sans glacier, les montagnes du monde sont des châteaux d’eau. Même sans glaciers, toutes les montagnes stockent de l’eau pendant les périodes humides pour la restituer en périodes plus sèches. Il n’y a pas de glacier pour alimenter l’Amazone, le fleuve le plus puissant du monde, pas plus que l’Orénoque ou le Rio de la Plata en Argentine ; c’est aussi le cas du Nil, le fleuve le plus long du monde, du Congo, du Zambèze, des grandes fleuves sibériens, du Mississipi et du Saint-Laurent.

Donc revenons à nos 48 millions de milliards de m3 d’eau douce sur lesquels on retirera nos 33 de glace et il nous reste quand même 15 vrais millions de milliards d’eau douce (lacs, rivières, fleuves, nappes phréatiques, sols humides) ce qui fait quand même, pour 7 milliards d’être humains, un stock d’eau douce personnel de 2 millions de m3 sachant qu’un Français consomme en moyenne chaque année 100 m3, même s’il vit 100 ans, cela représente 10 000m3 de consommation sur un potentiel de 2 millions soit 0,5%.

Il est important de rappeler ces chiffres car même si nous savons que les choses sont plus compliquées, cela nous amène à relativiser la trace humaine dans le cycle de l’eau, au niveau global (planétaire) et surtout à bien différencier le soit-disant problème global de l’eau des problèmes locaux liés à l’eau, problèmes que je ne veux surtout pas minorer.

Pour résumer ma philosophie sur le problème de l’eau : les problèmes sont locaux mais le mensonge est global.

Je continue sur les réservoirs. J’ai parlé de la mer, de la terre, n’oubliez pas le troisième réservoir, l’atmosphère, qui est le moins doté des trois réservoirs, 17000 milliards de m3 sous forme de vapeur, de fines gouttelettes d’eau et de glace et qui forment les nuages.

Je passe les détails, mais le jeu entre ces trois réservoirs est ce que l’on appelle le cycle de l’eau, il est équilibré évidemment, ce qui fait que le niveau de la mer est constant.

Quant on a fait tous les calculs, en prenant en compte l’eau qui tombe, celle qui s’évapore, celle qui retourne à la mer par les fleuves, on arrive à ce que l’on appelle l’abondance brute mondiale, c’est à dire finalement la disponibilité pour l’Humanité et elle est de 47 000 milliards de m3 par an soit 6700 m3 par an pour chacun des 7 milliards d’être humains. Ces 6700 m3 sont une moyenne car pour un Français, la disponibilité est de 2 800m3par habitant et si je vous dis que ce que ce Français (c’est-à-dire lui-même mais aussi, ses industries, ses services…) consomme c’est seulement 100 m3 par an sur ces 2 800m3.

Là encore revenons aux réalités et tordons le cou aux fausses idées véhiculées par l’idéologie médiatique.

Il faut avoir en tête que les ménages, l’industrie, les services, les villes de toutes tailles rendent au milieu naturel pratiquement 100% de l’eau qu’ils utilisent. L’eau ne fait que passer ; elle est retraitée ; donc ce qui est consommé ce n’est pas l’eau mais un service de distribution d’eau potable. Il ne faut pas confondre l’eau et le service de l’eau. Ce n’est pas la même chose.

La seule vraie consommation d’eau, celle qui ne retourne pas à la mer, c’est l’irrigation, car dans ce cas l’eau est alors évaporée et ne se retrouve pas à l’état liquide dans son bassin versant. Or tout le monde sait que l’irrigation constitue aujourd’hui une petite part dans l’agriculture mondiale.

Pourtant des contre-vérités sont sans cesse colportées. Prenons cette affirmation de Claude Allègre : « Si tous les hommes de la planète consommaient autant d’eau des fleuves que les Européens, ce prélèvement constituerait la moitié du débit des fleuves en moyenne. Si en outre, la population mondiale augmentait de 50%, passant à 9 milliards, et que le niveau de vie s’améliorait partout pour se mettre à niveau des Européens, alors l’homme prélèverait 80% de l’eau des fleuves ».

De ces propos transparaissent, outre la sempiternelle culpabilisation de l’Européen, et l’idéologie malthusienne selon laquelle la croissance démographique est nécessairement un fléau, plusieurs erreurs scientifiques. Ils laissent d’abord croire que les fleuves sont les seules ressources en eau, ce qui n’est pas exact puisque 60% de l’eau des continents tient aux nappes phréatiques. Ensuite, ces propos laissent penser que toute agriculture est irriguée, que l’élevage n’existe pas, que la hausse des niveaux de vie s’accompagne nécessairement d’une hausse parallèle des consommations d’eau. Or les consommations dans les fleuves français, sont faibles par rapport à leur débit (3%) et ces prélèvements n’augmenteront pas car l’irrigation ne se développera que très marginalement. D’ailleurs, depuis une vingtaine d’années, les prélèvements domestiques d’eau baissent en France alors que le niveau de vie a doublé. Là encore je vous renvoie aux analyses remarquables de Jean de Kervasdoué et Henri Voron.

Il est absolument impossible que l’humanité consomme 80% de l’eau de ses fleuves et évapore 47 000 milliards de m3 d’eau par an. Pour cela il faudrait irriguer 4 milliards d’ha supplémentaires soit 80 fois la surface de la France sur une base de consommation en eau de 10 000 m3 par ha. On pourrait y récolter 20 milliards de tonnes de céréales supplémentaires alors que l’humanité ne produit et consomme aujourd’hui que 2,5 milliards de tonnes. Par ailleurs, les terres arables ne couvrent que 1,4 milliards d’ha à ce jour soit environ 10% des terres émergées. On ne voit pas comment les multiplier par 2.5

Les continents ne sont pas assez grands pour accueillir plus de 5,4 milliards de terres arables!

Donc si nous voulons aborder les problèmes géopolitiques de l’eau, que je ne nie pas évidemment, il faut commencer par ne pas massacrer la vérité scientifique (hydrologique en la matière) et même par se méfier de cette pensée globalisante qui n’a d’autre but, que de mettre dans la tête des gens « qu’à problème global il faut gouvernement global ».

Globalement, l’accès à l’eau n’est pas un problème et ne le sera pas, même avec la tension démographique. Je le répète, le problème à venir sera davantage la crue que la sécheresse. Quant à la fonte de certains glaciers, elle ne menace en rien le cycle de l’eau. Le BRGM nous dit que le volume des nappes phréatiques mondiales est de 10 millions de milliards de m3 soit 1,5 million de m3 dans les nappes pour chaque habitant. Ces eaux souterraines constituent 60% des eaux continentales et les nappes les plus profondes à faible capacité de renouvellement sont là depuis 70000 ans.

Une autre imposture du traitement du problème de l’eau est celui du barrage que l’on présente comme un problème, une source de conflits entre États amont et État aval. Là encore, le poids de l’idéologie joue, le barrage, c’est comme la frontière, c’est un mur, et l’on n’aime pas les murs de nos jours ; l’idéologie dominante n’aime que la circulation sans contrainte, la circulation des hommes, la circulation des biens, la circulation des eaux, même quand il s’agit d’eaux en crues… Plus que la circulation l’idéologie ambiante ne rêve que de métissage.

Or contrairement à ce qui est souvent affirmé, le barrage hydroélectrique ne consomme pas d’eau. Il est traversé par la totalité du volume d’eau qui transite soit par les turbines, soit par l’évacuateur de crues. Les pertes par évaporation sur le plan d’eau de ce type de barrages sont faibles, voire nulle, car il fait froid en altitude, même en zones tropicales.

Non seulement les barrages ne consomment pas d’eau mais ils récupèrent son énergie et luttent contre l’érosion. Ils participent à la maîtrise des crues. Le barrage ne barre pas l’eau, il la retient provisoirement.

Pourtant, les États aval ne supportent pas que les États amont fassent des barrages, tels l’Égypte et le Soudan qui veulent empêcher l’Ethiopie de construire des barrages sur le Nil bleu, tels le Laos, le Cambodge et la Thaïlande qui s’inquiètent des projets chinois sur le Mékong. Comme encore l’Ouzbékistan qui se fâche contre le Tadjikistan.

Le vrai sujet de ces querelles ce n’est pas l’eau, c’est l’électricité, l’État aval n’ayant pas envie de voir l’État amont produire sa propre électricité qu’il devra payer lui au prix du marché. C’est une jalousie classique de voisin.

Alors il est de bon ton de tomber sur le dos de la Chine et de la critiquer pour son barrage des Trois Gorges.

On oublie ce qu’est le fleuve Yangzi Jiang, plus long fleuve d’Asie et sans doute le fleuve le plus dangereux du monde. La vérité c’est que le barrage des Trois Gorges a amélioré la situation, sans avoir supprimé le risque de crues catastrophiques. Sa capacité est malheureusement insuffisante pour être efficace à 100%. Il ne stocke que 34 milliards de m3, soit moins de 4% de l’eau charriée à l’embouchure chaque année. Les débits peuvent encore dépasser 100 000 m3/S et atteindre en aval une côte de 17 m au dessus du niveau de la plaine. En septembre 1998, avant la construction du barrage, la côte de 29 m a été atteinte au centre de Wuhan, causant la mort de milliers de personnes. Mais il régule les crues moyennes et c’est déjà beaucoup et il a produit 85 milliards de kWh, l’équivalent de 20 tranches de centrales nucléaires ou de 50 millions de tonnes de charbon par an.

Il faudra un jour que les bobos d’Occident, installés dans leur confort après deux siècles de domestication des fleuves et de progrès en matière de retraitement des eaux, autorisent enfin les peuples émergents d’Asie, d’Amérique Latine et même d’Afrique à procéder aux mêmes améliorations. Ces bobos d’Europe qui campent sur des positions dogmatiques dans presque tous les domaines scientifiques, qu’il s’agisse du gaz de schiste, des OGM ou de toute autre possibilité que la science des ingénieurs nous apporte et qui a fait la puissance de l’Occident et sa supériorité sur les autres civilisations depuis le XVIème siècle. Bizarrement, les seuls progrès scientifiques que souhaitent ces gens sont ceux qui permettraient de détruire le statut de la famille comme socle de notre civilisation.

La mer d’Aral en 2003. Crédit photo : Staecker (cc)

Il y a quelques années, comme beaucoup de géopolitologues, j’ai été sensible au thème de l’eau. J’aime la Nature comme nous tous, et je me suis dit qu’il y avait peut-être un vrai problème écologique de ce côté-là. Mais il faut refaire de l’hydrologie avant de faire de l’hydropolitique, comme il faut refaire de la climatologie avant de s’engager tête baissée dans l’idéologie du réchauffisme d’origine anthropique. En 2009, à la frontière séparant la République dominicaine et Haïti, dans les bananeraies inondées du lac salin Enriquillo (qui fait frontière entre les deux pays voisins), j’ai découvert qu’il n’y avait pas que des mers fermées en voie de rétraction comme la mer d’Aral, dont on parle tout le temps, mais que ce lac immense, lui, s’étendait chaque jour davantage. Comme pour les glaciers donc. Certains rétrécissent, pendant que d’autres s’étendent. Pourtant, à mes enfants on ne parle que des premiers.

Le professeur Aaron Wolf cité par Bjorn Lomborg faisait remarquer, après avoir analysé les crises mondiales du XXème siècle, que sur 412 conflits répertoriés entre 1918 et 1994, seulement 7 eurent l’eau comme cause partielle et que dans 3 cas sur 7 aucun coup de feu ne fut même tiré. Cela fait quand même léger pour nous annoncer “la guerre de l’eau” à venir.

Alors bien sûr, l’eau est une source de litige géopolitique et il faudra s’interroger aujourd’hui sur la place de l’eau dans le conflit israélo-palestinien, sur les relations Turquie/Syrie/Irak, sur l’eau en Asie centrale, sur le Nil bleu et le Nil blanc et tant d’autres cas, mais à partir du moment où vous vous penchez sur les problèmes hydrologiques, vous comprenez que pratiquement tous les cas considérés ont des solutions scientifiques et qu’une guerre coûtera toujours beaucoup plus cher que plusieurs usines de désalement.

Poussons la réflexion plus loin. Pourquoi fait-on croire aux opinions publiques que quelque chose d’essentiel à leur vie (quoi de plus essentiel que l’eau ?), d’incontournable, qui peut susciter des réactions violentes de survie, va se raréfier alors que c’est faux ?

Je crois que c’est là que la question de l’eau en tant que “problème global”, rejoint celle du terrorisme comme “problème global”, et de tous les problèmes globaux.

D’un côté on pousse des peuples voisins à la guerre en leur faisant croire qu’ils ont un problème géopolitique alors qu’objectivement (scientifiquement) ils n’en ont pas, de l’autre on leur explique que la solution est globale, qu’il faut donc une puissance globale, un pouvoir mondial, pour éteindre ce conflit.

D’un côté on pousse à la guerre, de l’autre on pousse à l’extinction de la souveraineté étatique.

Qui aurait donc intérêt à créer ainsi du désordre pour mieux installer son nouvel ordre global ? Qui donc a intérêt à déstabiliser les émergents, à barrer la route à la multipolarité qui se met en place, à gêner ceux qui veulent emprunter le chemin du progrès scientifique et de la domestication des forces de la Nature que l’Occident commença à emprunter il y a trois siècles?

Aymeric Chauprade

IL DESTINO DEGLI EUROPEI. (2/2), di Pierluigi Fagan

IL DESTINO DEGLI EUROPEI. (2/2)

[Prima puntata, qui] Vediamo allora meglio quali possibili eccezioni si possono avanzare alla correlazione massima sovranità = grande Stato. Innanzitutto si possono comparare solo entità che abbiamo qualche forma di analogia, ad esempio, uno stesso livello di sviluppo. Se il Vietnam (che ha comunque 90 milioni di abitanti) cresce impetuosamente è anche perché proviene da una recente conversione all’economia produttivo-scambista nata in occidente. Questa dinamica di “lancio” che si ottiene all’inizio dei processi di sviluppo, non è ripetibile nei paesi molto maturi come quelli europei soprattutto dell’ovest. La seconda discriminazione taglia gli Stati che fungono da snodo banco-finanziario, i depositi o mercati della ricchezza con opacità fiscale e benevolenza giuridica. Lussemburgo, Lichtenstein, Cipro, Malta, Singapore, Svizzera et simili, sono come piccoli vascelli pirata che fanno categoria ma solo a certe condizioni che non sono raggiungibili da chi ha milioni di individui in popolazione. I casi misti come Irlanda od Olanda non cambiano il giudizio finale. La terza è il contesto, trovarsi come la Corea del sud tra Giappone e Cina e stante che anche la Corea ha iniziato il suo sviluppo solo da qualche decennio, non è come trovarsi al centro dell’Africa, tra Tanzania, Angola e Sudan. Così per i Paesi in target dello sviluppo delle Vie della seta cinesi o per la centralità che la Turchia ha sia verso l’Oriente che verso il Mediterraneo. Vale per le opportunità ma vale anche per i problemi, l’Italia ad esempio, ha volente o nolente, il problema del rapporto con Francia e Germania. Se come tutti ritengono, l’Asia sarà il fuoco del futuro sviluppo planetario (già oggi 60% della popolazione mondiale) essere stato in Asia avrà problemi ed opportunità diverse dall’essere stato in Europa, in un caso le condizioni di possibilità vanno ad aprirsi, nell’altro -tendenzialmente- a chiudersi. La quarta sono gli stati con materia-prima che poi sembrano portarsi appresso anche la relativa “maledizione”, è chiaro che fanno categoria a sé e che nessuno stato europeo si trova in questa condizione, anzi siamo tutti dipendenti da materie prime ed energie ampiamente esterne. La quinta è il momento e l’arco storico. Stiamo cioè parlando di un problema che si presenta nel recente e che si imporrà ancor più decisivamente nel futuro, riferirsi al passato per reperire casi di successo economico nello spazio piccolo, fosse anche il neo-keynesismo post bellico e ricostruttivo degli stati europei anni ’60, non ha alcuna utilità.  Questa discussione fatta qualche anno fa con un amico, vedeva come contro-caso la Finlandia ed il suo gioiello Nokia. Oggi, la finlandese Nokia è stata venduta all’americana Microsoft ed è stata venduta perché forte di esser stata un primum movens, non poteva poi reggere la concorrenza asiatica, a prescindere da quanto fosse appoggiata dal suo stato di riferimento. Competere su certe produzioni avanzate con chi, come la Cina, sfornerà assieme all’India il 63% dei laureati in materie scientifiche entro il 2030 (OECD-OCSE), sarà dunque molto difficile. Altresì, è certo che i grandi stati saranno in grado di mobilitare grandi capitali per R&S, si veda il caso americano DARPA o per sviluppo infrastrutturale come fa la Cina e si apprestano a fare gli USA. Il caso Finlandia dice anche che i casi da porre in dibattito vanno valutati in un corso storico decennale altrimenti si finisce come Ricardo a credere che anche il Portogallo con le sue bottiglie di vino porto, aveva “solide” opportunità di vantaggio comparato con cui partecipare alla danza del libero mercato mondiale. Era proprio List a contraddire questo assunto molto generico, una economia-Stato dovrebbe avere una buona parte delle sue produzioni fondamentali interne, se non vuole essere maltrattata dalla potenza produttiva di qualche “fabbrica del mondo” esterna, magari coadiuvata dalla cannoniere come la patria di Ricardo ci ha insegnato. I piani di re-industrializzazione in Francia ed USA, dicono che la favola bella della mano invisibile che mette ordine nel mondo del mercato, è stata illusione che ieri c’illuse e dalla quale oggi dovremmo risvegliarci in fretta. Vale anche per le valute, dipendere dalla valuta di un altro Stato sottrae ovviamente sovranità. Ma naturalmente la valuta deve essere poi di un peso che venga riconosciuto dal mercato, non basta avere carta e tipografia di proprietà.  La sesta discriminazione deve poi escludere quei paesi che di madre o seconda lingua inglese, hanno davanti a loro nel mercato globalizzato una più ampia prospettiva per l’economia dei servizi che oggi rappresenta dal 70% in su del totale contributo al Pil degli stati ad economia matura. La settima è la verifica oltre economica. Definire sovrana la Corea del sud, vista la dipendenza che ha dalla protezione militare americana, pecca di manica molto larga. Purtroppo è proprio il fatto militare, tanto il suo piano produttivo che di  effettiva potenza, a condizionare grandemente l’autonomia dei paesi e s’illude chi legge solo come geopolitica la dipendenza militare poiché gli stati sono sistemi integrati. E’ difficile ospitare una base NATO e mettersi ad amoreggiare con l’economia cinese accettando yuan contro valuta nazionale, perché prima parte una telefonatina, poi qualche tentativo di destabilizzazione per rischio di disallineamento. Di contro, pensare di avere autonomia militare partendo da un singolo stato europeo è ovviamente fuori di senso. Infine, è chiaro che i rapporti tra Paesi dotati di maggior massa e potenza, militare ed economica, quindi politica, determineranno i regolamenti dei giochi planetari, influiranno su gli standard, sulle policy delle istituzioni globali, su i lineamenti giuridici del sistema mondo a cui tutti, volenti o nolenti, dovranno partecipare in vario modo ed intensità. A gli altri, rimarrà l’opzione tra il come ed il quanto integrarsi in un gioco in cui si troveranno gettati senza alcuna voce in capitolo, sapendo che il protettore che si sceglieranno sarà inevitabilmente anche il proprietario del sistema che darà loro i limiti di possibilità. Il soggetto UE che compare nelle classifiche per Pil è un mero ente statistico, non è un soggetto intenzionato, non fa investimenti di alcun tipo, non sviluppa ricerca propria, non è autonomo militarmente (e si fa imporre ad esempio l’ostracismo commerciale alla Russia che gli sarebbe partner naturale), non partecipa al consesso internazionale con voce in capitolo.

Tornando alle premesse  iniziali è chiaro che nulla di tutto ciò impone leggi ferree di dimensioni, si potranno avere casi particolari di buona tenuta in qualche nicchia economica sebbene precaria nel tempo ed assai assediata muovendosi nei limiti dati dall’allineamento geopolitico a qualche superpotenza, la dinamica però della distribuzione dei pesi e delle egemonie, ci sembra tendenzialmente orientata. Hobsbawm scriveva che ai tempi ottocenteschi del dibattito sulla taglia dei nuovi stati, se non proprio legge, faceva chiara tendenza la sequenza dal locale al regionale e dal regionale al nazionale, su fino al mondiale perché sebbene a molti intelletti metafisici sfugga, nel frattempo la popolazione aumenta ed è ovvio che un macrosistema sempre più denso si ripartisce in sottosistemi per avere un ordine per quanto dinamico. La destinazione finale di questa sequenza non è l’impero-mondo, di nuovo incurabile metafisica politica, ma una tavola rotonda di quasi pari che cooperano ed in parte competono tenendosi in reciproco equilibrio e non accettando la prevaricazione di alcuno.  Sembra meno stabile di un impero-mondo ma in realtà è così che si organizza la complessità in natura, ovunque la si osservi distribuisce peso in molteplici, complessi ed interrelati.

Come detto queste considerazioni sono variamente presenti già nel dibattito ottocentesco, addirittura Alexis de Tocqueville prevedeva un futuro bipolare in cui l’Europa sarebbe stata espropriata di significato e potenza da i due giganti americano e russo. Kalergi nel 1923, prevede non solo America e Russia (la suo tempo già URSS) ma anche Giappone e Cina. Schmitt vede britannici come al solito impegnati a spezzettare l’Europa per evitare si venga a formare un soggetto per loro minaccioso, americani, russi e di nuovo l’Asia mentre il destino della noce schiacciata nella morsa Stati Uniti – Russia/Asia angustia anche Spinelli e Rossi. Nel frattempo, i meno di venti Stati europei nella cartina politica europea del 1914, sono diventati cinquanta[1]. La scomparsa dell’impero austro-ungarico, la riduzione di quello germanico, l’implosione sovietica che ha liberato quindici nuovi Stati (non solo europei) e quella jugoslava altri sei, i riconoscimenti di sovranità dopo la seconda guerra mondiale che seguivano anche la logica di interposizione tra fronte occidental-americano ed Unione sovietica, la compiacenza con gli stati-banche in cui dare asilo politico ai capitali in cerca di libertà dal giogo fiscale, furono processi tutti interni alla logica sub-continentale che è andata dalla parte opposta al discorso che qui sviluppiamo. Logica sì interna ma anche molto manipolata dai due giganti URSS ed USA, la sovranità in Europa è un concetto al tramonto dalla fine delle seconda guerra mondiale. Le questioni scozzese, basca, catalana, corsa, fiamminga e vallone e via di questo passo in un  elenco sempre più lungo, promettono altre eventuali invaginazioni. Di contro. Il processo unionista dalla CECA del ’51 a Maastricht – Lisbona – euro, ha dato l’impressione di compensare questa coriandolizzazione delle sovranità europee, operando sintesi a più alti livelli. Ma le ha operate davvero?

Troppo vasto e complesso il sistema europeo allo stato attuale dell’opera per addentrarci al suo interno, rimaniamo all’esterno considerandolo “un” sistema (UE+euro). Allo stato attuale sia dell’opera che delle intenzioni (sia dei fatti che dei discorsi), il sistema unionista europeo è una confederazione, una alleanza su base di trattati, alcuni pensano, vorrebbero, sognano possa poi diventare una federazione, cioè uno Stato ma che una confederazione diventi una federazione non è affatto detto e tra gli assai pochi esempi storici, èsignificativa solo la Svizzera, confederazione per circa sei secoli e poi federazione dal 1848. Proprio la Germania e la sua formazione unificata in Impero nel 1871, ci dice non fu certo lo Zollverein fatto inizialmente con l’Austria a portare all’unificazione. Ci fu una guerra contro l’Austria (tra “tedeschi”) e poi la creazione di  un problema tale da farsi dichiarare guerra dalla Francia di Napoleone III, per spingere i riottosi principi tedeschi a farsi inglobare dai prussiani sulla spinta unificatrice del comune nemico.  Si ricordi poi sempre che la nostra tendenza alla modellistica astratta (confederazioni, federazioni, Stati, unioni, leghe etc.) occulta le particolarità decisiva di dimensione e contesto. Se ad esempio, gli Stati Uniti d’America nascono fondendo colonie oltremare di una unica sovranità, che si sono ribellate con una guerra d’indipendenza, in un continente praticamente vuoto, abitato da 2,6 milioni di anglosassoni con la stessa lingua, cultura e religione e nel disinteresse geopolitico dell’epoca, questo “esempio” non è di nessuna utilità per il caso europeo. E se le confederazioni si sono create storicamente soprattutto come alleanze militari, cosa comporta una confederazione economica che ha poi chiamato una moneta unica per evitare i potenziali conflitti sulle parità di cambio, che sta ora chiamando leggi commerciali, standard, leggi fiscali e di bilancio che arrivano fino al cuore della sovranità economico-politica degli Stati nazionali? Soprattutto, è quella del sistema economico una logica che può supplire alla mancanza di un più nitido processo di unificazione dichiaratamente politico? Decisamente, no. Una confederazione economico-monetaria con qualche forme giuridica di omogeneizzazione rimane un sistema vago, non è un soggetto multipolare intenzionato, è una gerarchia di sovranità comandata dal o dai più forti. Una confederazione economico-monetaria ordinata dai principi imposti dal soggetto più massivo (la Germania), contrattati e scambiati con contro-concessioni esclusive al junior partner francese,  non ha alcuna possibilità di diventare una federazione in cui gli stati entrino col desiderio sincero di sciogliersi in un totale maggiore della somma delle parti poiché non siamo in regime cooperativo ma competitivo, non è una fusione, è un’annessione.

Il sistema economico nel suo pensiero, nasce già in uno stato e non tratta minimamente di stati, anzi, nella sua versione ideologica neo-liberale che ne è ideologia ortodossa tanto de definire le altre ideologie economiche “eterodosse” (!), spinge verso il “meno Stato e più mercato” come se le comunità umane territoriali fossero riducibili al loro mercato, una credenza la cui assurdità lascia esterrefatti soprattutto volgendoci a coloro che sembrano pure prenderla sul serio.  Il sistema economico europeo assomiglia strutturalmente al sistema della credenza cristiana del medioevo. Ogni società piccola o grande, medioevale o moderna, è attraversata da fatti economici quanto religiosi ma  quello che Schmitt chiamava il “nomos” della terra, chiama la partizione politica e giuridica, non quella economica, né quella religiosa. L’islam ha provato alle sue origini a comprendere in un unico Stato (califfato-sultanato) tutte le terre dei credenti ma si è ogni volta frantumato perché per quanto comune sia la credenza spirituale e financo parte della legge (sharia), questo è solo un di cui delle società territorializzate. Gli ebrei hanno in effetti fatto nazione senza vincolarsi ad uno stato territoriale (almeno fino alla nascita di Israele), ma sono l’unico esempio storico in merito ed hanno anche pagato alti prezzi per questa atipicità sgradita -in genere- alla gran parte delle popolazioni territorializzate. Quando le popolazioni crebbero in Europa e le nuove partizioni politico-territoriali statali andarono in urto con l’ecumene cristiano, prima si ruppe l’unità cattolica con Lutero, poi ci fu uno sciame di conflitti che con Augusta – Westfalia sancì definitivamente il “cuis regius, eius religio”, la sottomissione del religioso al politico. Anche Enrico VIII inventò la chiesa anglicana per non aver intromissioni di sovranità da parte del continente (papato romano) così come i britannici hanno poi ribadito con la Brexit nei confronti del’UE. Per quanto si voglia complicare la faccenda, arriva sempre un punto di decisione (la fatidica domanda “chi decide?”) in cui o si segue una logica eteronoma (sistema della credenza, sistema economico e soprattutto finanziario che tendono a superare i confini, sistemi che tendono all’universale) o una logica autonoma e l’unica logica autonoma che esiste è quella politica, la sovranità che la comunità esercita su un territorio. Io non posso vivere accanto ad un vicino che risponde alla sovranità di un micro-stato fondato su una ex-piattaforma petrolifera che rilascia passaporti on line e dire che effettivamente facciamo “società”. Io faccio società coi miei simili, lui è straniero, ognuno risponde a sistemi con logica diverse, non c’è “in comune”, abbiamo firmato due diversi contratti sociali.

In effetti il sistema europeo attuale, è una sistema di Stati-nazionali dominato da i due più forti, la Germania e la Francia, ed è un sistema economico, in parte monetario e poi parzialmente giuridico che non ha nulla a che fare con un processo di unificazione politica. Lamentarne la scarsa democraticità ha poco senso perché è una libera alleanza economica contratta da soggetti sovrani, non direttamente dai popoli sottostanti. I popoli sottostanti semmai dovrebbero lamentarsi della scarsa democrazia dei loro Stati ma una volta che i parlamenti-governi hanno deliberato questo o quello ed avranno regolato i loro pesi nei rapporti di forza tra stati nel loro Consiglio dell’Unione (cioè della confederazione), nel sistema confederale si farà questo o quello com’è ovvio che sia. Questo sistema non ci pensa nemmeno un po’ a diventare un sistema federale, cioè un futuro stato anche perché il fine dovrebbe ordinarne il processo, cosa che non avviene osservando il processo “unionista” in atto. Se si volesse fare uno Stato comune è tutt’altro il processo di pur lenta sintesi progressiva che occorrerebbe fare. Se economicamente ci piace fare sistema con l’Ungheria e perché no con la Turchia piuttosto che con Israele come ad un certo punto qualcuno proponeva,  solo un pazzo scriteriato può pensare di fare uno stato federale europeo con i britannici e i turchi, i polacchi ed i tedeschi, gli scandinavi ed i greci. Per quanto sia difficile liberarsi dall’impianto mentale che ci hanno mineralizzato in testa, un impianto che parla di economia come nel medioevo si parlava di Dio, della mano invisibile come si parlava della Provvidenza,  del debito pubblico come si parlava del peccato,  invito i lettori e lettrici a recuperare un minimo di autonomia mentale e fare l’elenco dei punti che connotano una sovranità e domandarsi quale principi culturali, educativi, stili di vita, interessi geopolitici, forme economiche, lingue che aiutano a pensare oltreché comunicare, tradizioni storiche e politiche, odi reciproci, avrebbero in comune i candidati europei a fare uno Stato assieme?  Forse -appunto-, solo gli odi reciproci.

Si dirà “be’ certo non è facile ma dobbiamo provarci proprio per quanto hai sin qui sostenuto con il principio di taglia minima”. Ma il punto è che, a parte il fatto che non ci stiamo affatto provando perché se ci stessimo provando davvero dovremmo fare tutt’altre cose per fare uno Stato comune, se il “principio di taglia minima” ci dà il pavimento della casa comune da costruire, c’è un altro principio da osservare e che ci dà il tetto: il principio di omogeneità relativa.  Non stare da soli ed unirsi a qualcuno non porta ad unirsi a tutti, se non altro perché agisce il principio naturale di progressività che dal semplice si arrampica lungo la scala della complessità, scala che ha pioli, che non è un collasso spazio-temporale per il quale si va da 0 a 100. Sebbene con la meccanica quantistica abbiamo scoperto che contrariamente a quanto ritenuto nel medioevo la natura fa salti, li fa per passare da un sistema ad un altro sistema, non per passare direttamente dall’elettrone all’Universo, gli elettroni guidano solo il salto che dall’atomo porta alla molecola.  Quali sarebbero le molecole da creare per salire lungo processo di sintesi dell’estrema eterogeneità europea? Quali sarebbero cioè le fusioni politiche, costituzionali ed a quel punto certo “democratiche” e sovrane di maggior taglia, possibili? Quali sarebbero le forme della prima semplificazione della complessità europea che s’illude (o fa finta di illudersi dandoci vaghi sogni come gli inconcepibili “Stati Uniti d’Europa”) di passare dai molti all’uno perché abbiamo la stessa moneta? Quelle che ci indica il principio di omogeneità relativa.

Se riuscissimo a liberare la mente dagli impianti mentali che utilizziamo per pensare le cose, impianti che tra liberali globalisti, neo-liberisti con tendenze anarco-capitaliste, marxisti praticamente senza una teoria dello Stato, sovranisti semplificati, post-moderni confusi e confondenti,  non sembrano centrati sulla natura intrinseca del problema che abbiamo, se riuscissimo a sostituire gli ordini del pensiero economico che di loro natura sono del tutto inidonei per pensare a Stati e sovranità, con ad esempio quelli del pensiero geo-storico che oltretutto parla di cose realmente esistite e successe e non di interessi materiali travestiti da metafisica, penso sarebbe intuitivamente compreso cosa s’intende con “principio di omogeneità relativa”. In breve, come italiani o francesi o spagnoli o inglesi o germani (che sono un sistema storico ben meno preciso dei primi quattro), si formarono in nazione partendo da gruppi diversi non proprio uguali ma con “qualcosa” in comune, così stati di maggior taglia semmai si volessero seguire le conseguenze principali del principio di taglia minima, saranno possibili solo tra coloro che hanno avuto e quindi hanno “qualcosa in comune”, per seguire quello di omogeneità relativa.

Con ciò concludiamo tornando all’apertura di questo scritto, lì dove si indicavano le quattro-cinque famiglie storico culturali europee che si pongono a metà tra la partizione stato-nazionale attuale e l’idea astratta di popolo europeo magari ammassato nei quanto mai improbabili Stati Uniti d’Europa. Come i britannici hanno un loro istinto formatosi nella geo-storia di lungo periodo in quella che è di per sé un’isola, come gli iberici, gli italici ed i greci (ma anche i danesi e gli scandinavi) sono popoli di penisole, così i germano scandinavi o i latino-mediterranei e gli slavi almeno quelli del nord, hanno una loro geo-storia comune o quantomeno fortemente intrecciata. Questo “in comune” culturale, linguistico, geopolitico, storico, istituzionale, sociale, di stile di vita, di valori, di religioni è l’unico presupposto per tentare la scalata alla complessità per fare nuovi macro-Stati. Il punto è tutto nell’impianto mentale che usiamo per fare analisi e sintesi, per fare descrizioni e darci norme. Usando un impianto economicista appaiono possibili edopportune alcune cose, usando un impianto geo-storico, altre, il primo ragiona per mercati il secondo per Stati, il primo è astrattamente cosmopolita il secondo s’impegna al più concreto livello di far convivere diverse nazioni tra loro perché ne riconosce la storica esistenza sistemica, il primo si basa sul diritto del più forte e non potrà mai esser democratico, il secondo è politico, quindi costituzionale, sovrano ed idoneo alla pretesa di democrazia. Il primo si basa su una “fede”, il secondo sulla ragione.

Se pensate sia opportuno far fronte ai tanti e svariati problemi che abbiamo velocemente elencato  in termini di adattamento tra le nostre popolazioni al mondo complesso e multipolare, denso e competitivo, con un impianto economicista e non geo-storico,  continuate a costruire il vostro mercato comune dominato dalla potenza condominiale franco-tedesca, uniti dalla ritrovata pace reciproca fatta pagare a tutti quelli che gli stanno attorno. Potrete anche andare in giro a raccontarvi che la fine della storia saranno gli Stati Uniti d’Europa, tanto quanto il papa ed i suoi grassi e laidi cardinali e preti andavano in giro nel medioevo a raccontare che con loro si realizzava l’ecumene del regno di Dio in terra mentre rubavano terre e ricchezze al popolo ignaro, sottomesso e pregante. Oppure se seguite un impianto sovranista elementare potrete concentrarvi con soddisfazione a dire l’esatto contrario di quello che dicono i neo-liberali. Non costruirete nulla che sia possibile nel mondo nuovo ma vi toglierete la soddisfazione di non esservi omologati a parole. Nei fatti lo sarete comunque dato che o soverchiati dai dominanti “europeisti” o semmai beneficiati di qualche rimbalzo d’opinione messi davvero nelle condizioni di tornare allo Stato-nazione di taglia europea, sarete comunque soggetti a più poteri eteronomi, quelli dei sempre più potenti sistemi vaghi e quelli dei sistemi non vaghi come gli Stati Uniti e la Cina.

Se invece siete davvero convinti che Stato e sovranità se non proprio degli universali siano almeno quanto di più logico la storia ci mostra in termini di auto-organizzazione ed auto-nomia delle umane forme di vita associata, se non riuscite a trovare il perché non applicare i due principi connessi della taglia minima e dell’omogeneità relativa, allora dovrete staccare lo Stato e la nazione  e concluderne che solo una grande Stato federale, costituzionale e democratico tra popolazioni relativamente omogenee, nel nostro caso i  popoli latino-mediterranei, ci può dare le migliori condizioni di possibilità di avere un futuro degno del nostro passato[2]. Incrociando i principi di taglia minima e di omogeneità relativa, restando nel limite di ciò che è geo-storicamente suggerito, occorre cominciare a pensare a Stati in grado di essere un polo nel gioco multipolare[3], altrimenti la sovranità sarà da parziale a nulla.

Il destino degli europei, quindi,  è tutto nel sistema col quale lo pensiamo.

[Fine. 2/2, qui la prima puntata]

0 = 0

[I libri usati per accompagnare il testo sono altrettanti contributi utilizzati dall’Autore per sviluppare il ragionamento]

[1] Poco meno di cinquanta stati su circa 200 in cui si compone il mondo fa il circa 25%, ma rispetto alle terre emerse, Europa è solo il 3,5%. Così, se lo stato medio statistico mondiale è su i 37,5 milioni di abitanti, solo 7 stati europei pareggiano o superano questa media. E’ evidente che il frazionismo europeo ha uno standard tutto suo, figlio della peculiare geo-storia di tempi che non sono più.

[2] Ne abbiamo parlato ed argomentato più volte nei nostri scritti. Il riferimento teorico è ad A. Kojéve, L’impero latino, (in Il silenzio della tirannide), Adelphi, 2004. Più di recente, era una linea indagata anche dall’economista, oggi scomparso, Bruno Amoroso. Ricordiamo ancora una volta che una Unione federale tra Portogallo, Spagna, Francia, Italia, Grecia e Cipro (da vedere Malta), sarebbe composta da duecento milioni di individui che manterrebbero ampie autonomia nei precedenti confini nazionali, ma con devoluzione anche a livelli macro-regionali e provinciali, stante che “democrazia” è una forma politica inversamente proporzionale alla quantità di persone che debbono giungere alla decisione politica. Questo soggetto varrebbe la terza economia del mondo e sarebbe senz’altro un soggetto di peso per i giochi multipolari, a partire da tutti quelli che americani, russi, israeliani e monarchie del Golfo stanno già giocando nel mare davanti casa: il Mediterraneo. Per non parlare dell’Africa o dei possibili rapporti di amicizia col Centro – Sud America ispano-portoghese.

[3] Il nostro ragionamento prende quindi a contesto principale il mondo, non le vicissitudini europeiste o il sistema dell’euro che tanto -giustamente- condizionano l’attuale analisi politica. Va però segnalato che non pochi economisti di buonsenso, tra cui l’ultimo J. Stiglitz, L’euro, Einaudi, 2017, da tempo hanno conseguito che ragionando per aree monetarie ottimali (Mundell 1961), l’area latino mediterranea ha una sua omogeneità parziale interna così ce l’ha quella dei paesi nord europei, ma le due non ce l’hanno tra  loro. Stante che l’idea di avviarci ad una discussione su un possibile nuovo macro-Stato latino-mediterraneo non ha obiettivi politici concreti immediati, già coordinarsi tra questi stati all’interno del sistema UE e promuovere una secessione dell’euro-sud, andrebbe nella direzione auspicata. Se non altro per trattare con qualche minaccia di poter “rovesciare il tavolo”, evenienza la cui necessità hanno scoperto i greci quando si sono trovati a dover dar seguito alle loro promesse elettorali con Syriza. Soprattutto le malconce sinistre di questi paesi stritolati dalla morsa infernale del sistema bruxellese, ne gioverebbero visto che sono immobilizzate dal doppio legame tra “superamento delle nazioni e dei nazionalismi” da una parte e “rifiuto degli impianto neo-ordo-liberisti” che connotano l’attuale costruzione dall’altra. La sinistra occidentale, alimentata ad overdosi di idealismo, dovrebbe recuperare presto una qualche attitudine pragmatico-realista se non vuole scomparire definitivamente. Fare un progetto latino-mediterraneo ci sembra una possibile alternativa ai vaneggiamenti su un’Europa democratica (idea promossa da un economista, non a caso),  e della democrazia impotente del ritorno all’impossibile autonomia nazionale.

 

Sergey Lavrov e i punti fermi della politica estera russa_a cura di Germinario Giuseppe

Qui sotto una intervista, tradotta in italiano, al Ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov. Offre una interpretazione delle dinamiche geopolitiche da un punto di vista quasi del tutto ignorato e travisato dai facitori di opinione di area occidentale. Molto interessanti le motivazioni dell’approccio “paziente” nei confronti dell’Amministrazione Americana

Intervista del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov concessa al quotidiano Kommersant

Visione russa degli eventi attuali. Da prendere, come sempre, con criticità e senno di poi.

Fonte: Ministero degli Affari esteri della Federazione Russa, Kommersant , 21-01-2018

Domanda: Oggi tutti attendono con impazienza la pubblicazione di due rapporti dell’Amministrazione americana: il “Rapporto del Cremlino” sui leader e gli oligarchi vicini ai leader russi, e quello sulla necessità di introdurre nuove dure sanzioni economiche contro Mosca. Se tutti questi testi portassero al rafforzamento della politica di sanzioni di Washington, quale sarebbe la reazione di Mosca?

Sergey Lavrov: Questa domanda è ipotetica. Abbiamo già indicato in diverse occasioni che non aspiriamo in alcun modo allo scontro. A nostro avviso, l’introduzione di sanzioni non ha basi ragionevoli. Per quanto riguarda gli obiettivi annunciati di queste misure, non hanno alcun senso in quanto, poiché queste sanzioni sono in vigore da molti anni, i loro autori avrebbero certamente potuto rendersi conto che queste iniziative non modificano in alcun modo la politica onesta e aperta della Russia. La nostra posizione indipendente e autonoma negli affari internazionali si basa sui nostri interessi nazionali e non può essere modificata sotto la pressione esterna. È definita dal presidente russo sulla base di interessi che soddisfano i bisogni del popolo russo. La popolarità considerevole della nostra politica estera in seno alla sociatà è, a mio parere, la prova migliore dell’inutilità di ogni tentativo di modificarla facendo pressione sulle élites e su alcune imprese.

Anche se non abbiamo alcun interesse a rafforzare la spirale dello scontro, naturalmente non possiamo ignorare i tentativi di punire la Russia – questo riguarda la nostra proprietà, le sanzioni che hai citato o i tentativi di usare lo sport per questi scopi. Ci sono molte prove che riguardo ai casi molto reali di doping dei nostri atleti, così come di molti altri paesi – questi sono ben noti ma nessuno fa rumore, li analizziamo secondo le procedure stabilite – fanno parte di una campagna controllata basata sul principio già utilizzato in altri settori della vita internazionale per quanto riguarda la comunicazione con la Russia e i suoi partner intrapresa contro di noi. Se non mi sbaglio, Richard McLaren ha indicato nel suo rapporto che non c’erano prove e che non sapeva come era stato fatto tutto, ma che gli autori sapevano come si poteva fare. Nessun tribunale normale in nessun paese accetterebbe mai accuse di questo tipo. Queste affermazioni piuttosto esotiche servono come base per le decisioni di privare il nostro paese dei Giochi Olimpici.

Questo contesto ricorda la situazione intorno al Boeing malese: tre giorni dopo questa tragedia gli Stati Uniti hanno chiesto di avviare un’indagine affermando che conoscevano i colpevoli e che erano certi che gli esperti avrebbero confermato il loro punto di vista.

Possiamo anche notare il caso più antico di Alexander Litvinenko. All’epoca, le autorità britanniche sostenevano che l’inchiesta avrebbe confermato ciò che già sapevano. Questa mancanza di obiettività che si tinge di russofobia è davvero senza precedenti. Non avevamo visto nulla di simile durante la Guerra Fredda. All’epoca esistevano regole e standard di condotta reciproci. Oggi tutti questi standard sono stati rigettati.

Domanda: la situazione è peggiore rispetto al periodo della Guerra Fredda?

Sergey Lavrov: Riguardo agli standard di condotta, è possibile. Ma se confrontiamo le reali manifestazioni dello scontro, le opinioni divergono. Da un lato, c’era allora una stabilità negativa tra due blocchi rigidi, tra due sistemi globali – socialista e imperialista. Oggi non c’è divergenza ideologica. Tutti hanno adottato l’economia di mercato e la democrazia. Nonostante i diversi atteggiamenti che si possono adottare nei confronti di questi ultimi, in tutti i casi si hanno le elezioni, le libertà ed i diritti fissati nella Costituzione.

Inoltre, la competizione rimane presente anche in assenza di differenze ideologiche, il che è perfettamente normale. Ma la competizione deve essere onesta. Tutti i paesi hanno ovviamente i propri mezzi per promuovere i loro interessi, i loro servizi segreti, i loro lobbisti impiegati, le loro ONG che promuovono questo o quel programma. È normale. Ma se ci viene detto che la Russia è obbligata ad evitare qualsiasi pressione sulle ONG finanziate dall’estero, ma non ha il diritto di rispondere ad azioni simili contro le proprie ONG all’estero, questo suona come un “Doppio standard”.

Vorrei anche sottolineare un altro elemento. Anche senza differenze ideologiche promuoviamo la crescita materiale del potenziale militare. Che non era il caso al tempo della Guerra Fredda.

Domanda: ma abbiamo avuto la corsa agli armamenti …

Sergey Lavrov: La corsa agli armamenti è rimasta confinata al quadro geopolitico adottato da entrambe le parti. C’era una certa linea di demarcazione tra la NATO e il Patto di Varsavia, che sviluppò le loro braccia su entrambi i lati di quest’ultima. Di conseguenza, l’URSS ha esaurito le sue forze in questa corsa. Le “Star Wars” e altre invenzioni simili hanno avuto un ruolo, anche se quest’ultimo non è stato decisivo. L’URSS si è dissolta perché il paese stesso, le sue élite, inizialmente non sentivano il bisogno di riforme. Poi, quando hanno iniziato le trasformazioni, queste ultime non hanno preso la strada giusta. Ma nell’attuale contesto dell’ampliamento della NATO verso l’Oriente, non c’è davvero alcuna regola. Non abbiamo più un limite da porre come una “linea rossa”.

Domanda: E il confine della Federazione Russa?

Sergey Lavrov: Se dicessimo di non avere alcun interesse nella regione, nell’area euro-atlantica, allora sì: il confine della Federazione Russa sarebbe questa “linea rossa”. Ma abbiamo interessi legittimi perché  popolazioni russe si sono ritrovate all’estero a causa della dissoluzione dell’URSS, perché abbiamo stretti legami culturali, storici, personali e familiari con i nostri vicini. La Russia ha il diritto di difendere gli interessi dei suoi compatrioti, specialmente se sono perseguitati come avviene in molti paesi, o se violano i loro diritti come in Ucraina, laddove annunciavano immediatamente dopo il colpo di stato che la lingua russa doveva essere limitata.

Domanda: Ma hanno indietreggiato …

Sergey Lavrov: Sì, ma è stato ancora detto. Dopo il colpo di stato, la prima iniziativa del Parlamento è stata quella di mostrare “il suo posto” alla lingua russa. Doveva posizionarsi in secondo piano, secondo i parlamentari. Due giorni dopo fu dichiarato che i russi sarebbero stati espulsi dalla Crimea perché non avrebbero mai onorato Stepan Bandera e Roman Shukhevich.

Dopo la mia conferenza stampa, un quotidiano tedesco ha scritto che “Sergei Lavrov aveva cambiato i fatti” e ha presentato una “manifestazione pacifica dei tatari di Crimea davanti al Consiglio supremo della Crimea come un tentativo di espellere i russi dalla penisola”. È sufficiente, tuttavia, guardare i video dell’epoca in cui il Consiglio Supremo era circondato da giovani furiosi, per non parlare dei “treni di amicizia” che Dmitrij Iaroch aveva inviato in Crimea.

Questa storia ucraina è quella del colpo di stato, il tradimento del diritto internazionale da parte dell’Occidente: l’accordo firmato dai ministri degli Esteri dei principali paesi dell’Unione europea è stato semplicemente calpestato. Poi l’UE si è prodigata a persuaderci che questo evento era perfettamente logico e che nulla poteva essere fatto. Francamente, è un peccato per l’Europa. Prendiamo atto di questa realtà storica, ma scegliamo l’implementazione degli accordi di Minsk anziché l’isolamento.

Ma torniamo alle “linee rosse”. Era una “linea rossa”, proprio come nel caso di Mikhail Saakashvili che aveva attraversato un’altra “linea rossa” lanciando un attacco contro l’Ossezia del Sud, dove erano schierate le forze di mantenimento della pace. Russo, osseto e georgiano. Le truppe georgiane furono ritirate, tuttavia, poche ore prima dell’inizio di questa offensiva assolutamente illegittima e provocatoria.

La Russia ha i suoi interessi e gli altri devono tenerne conto. Lei ha le proprie “linee rosse”. A mio parere, i politici seri in Europa comprendono la necessità di rispettare queste “linee rosse” proprio come durante l’era della Guerra Fredda.

Domanda: Ma torniamo agli americani. Secondo i media statunitensi, nel marzo 2017 la Russia ha inviato proposte agli Stati Uniti nel formato “non cartaceo” per quanto riguarda la standardizzazione delle relazioni su più punti. Queste proposte rimangono in vigore data la crescente pressione delle sanzioni da parte americana e tutto ciò che è successo nelle relazioni russo-americane nell’anno passato?

Sergey Lavrov: le proposte sono ancora in vigore. Non assumiamo mai un atteggiamento indignato, ma cerchiamo di capire il contesto delle azioni intraprese dagli americani o da altri colleghi. In questo caso, comprendiamo pienamente che un cocktail di fattori ha provocato questa aggressione senza precedenti dell’establishment americano, come si suol dire.

Il fattore principale è che i democratici non possono accettare la loro sconfitta dopo aver fatto così tanti sforzi, soprattutto per estromettere Bernie Sanders – che al momento si preferisce dimenticare. È una manipolazione diretta delle elezioni e una grave violazione della Costituzione degli Stati Uniti.

Il secondo fattore è che la maggior parte dei repubblicani ha ereditato un presidente fuori dal sistema che non aveva legami con nessun livello dell’establishment repubblicano, ma aveva ottenuto i suoi voti nel campo repubblicano alle primarie. Qualunque sia il tuo atteggiamento nei confronti delle azioni del presidente degli Stati Uniti Donald Trump o la tua visione delle sue azioni non molto usuale per diplomatici e politologi tradizionali …

Domanda: rompe tutti gli accordi internazionali come un elefante in un negozio di porcellana.

Sergey Lavrov: Qualunque sia il vostro atteggiamento nei confronti delle sue azioni, stiamo attualmente parlando delle ragioni per l’indignazione senza precedenti dei politici americani. I repubblicani non apprezzavano davvero l’avvento al potere di un uomo che aveva dimostrato che il sistema esistente da decenni – oltre 100 anni – in cui due parti avevano definito le regole del gioco – io prendo oggi il potere per 4 anni e poi ancora 4, e tu aspetti nel settore degli affari per poi scalare la cima, mentre mi rioriento verso il business – era crollato a causa della vittoria di Donald Trump. Il suo arrivo non è spiegato dal suo carattere messianico, ma dal fatto che la società è stanca e non vuole tollerare questo cambiamento tradizionale di leader, senza alcun significato nella realtà.

Se guardiamo alla struttura della società americana, comprendiamo che quest’ultima affronta processi demografici molto interessanti. Non è un caso che gli elementi etnici stiano attualmente provocando lunghi e profondi dibattiti sul risveglio o il rafforzamento del razzismo, che è sempre stato latente o aperto nella politica americana. Questi sono processi molto complicati che richiedono molto tempo. Ancora una volta, la prima ragione è la disfatta dei democratici, che non possono sempre accettare. La seconda ragione è il crollo del sistema bipartisan. Questa procedura “amichevole” era presente durante molte campagne elettorali. Il terzo elemento – tra molti altri – che vorrei sottolineare è il senso della perdita della capacità di influenzare tutti i processi globali nell’interesse degli Stati Uniti. Potrebbe sembrare paradossale, ma è la realtà. Sentiremo ancora gli effetti per molto tempo.

Anche al tempo della Guerra Fredda gli Stati Uniti erano molto più potenti, grazie in parte alla sua partecipazione all’economia mondiale e al suo ruolo assolutamente dominante nel sistema monetario mondiale, perché l’euro non esisteva ancora e nessuno sapeva nulla dello yuan, per non parlare del rublo. Oggi gli Stati Uniti forniscono dal 18% al 20% del PIL mondiale. Non è più la metà come in passato, soprattutto considerando i numeri dopo la seconda guerra mondiale.

Questa sensazione che tutto non è più deciso da un singolo centro è evidente anche nella campagna russofoba. Ci sono ancora la Cina e altri paesi importanti, molti dei quali preferiscono ignorare le derive americane. Per noi è difficile da fare perché i primi due motivi – la sconfitta dei democratici e il collasso del sistema – ci fanno puntare le dita. Ci sono stati contatti tra alcune persone e rappresentanti delle élite politiche statunitensi, o tra l’ambasciatore russo negli Stati Uniti Sergei Kisliak e il consigliere del presidente Donald Trump sulla sicurezza nazionale Michael Flynn. Questo è assolutamente normale e non avrebbe dovuto causare reazioni di questo tipo soprattutto per la scarsa rilevanza rispetto a ciò che i diplomatici americani fanno in Russia e a quello di cui si tenta di incriminare l’ambasciatore e l’ambasciata russa negli Stati Uniti,

Ma poiché non abbiamo reagito alle misure ostili e coercitive prese contro l’ambasciatore russo che ha rifiutato di cambiare il suo atteggiamento, rinunciare alla sua indipendenza e scusarsi per eventi che non sono mai accaduti, la loro agitazione peggiorò. Naturalmente, siamo stati accusati di tutti gli errori e i fallimenti americani. Siamo usati come una specie di parafulmine di fronte a quello che è successo in Messico, in Francia …

Domanda: anche a Malta …

Sergey Lavrov: Ovunque: Russia, Russia e Russia. È molto semplice e facile per una propaganda “stupida”. Gli elettori ascoltano gli slogan molto semplici della CNN: “La Russia si è ingerita ancora una volta …” Se la ripetiamo mille volte, essa si radica nello spirito.

Domanda: Sembra che tu personalmente giustifichi le scelte del presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Ma nessuno lo ha costretto a firmare la legge sulle consegne di armi in Ucraina o la legge sulle sanzioni lo scorso agosto.

Sergey Lavrov: Non provo a romanticizzare nessuno. Ovviamente, quando si adottano provvedimenti di legge con una maggioranza di voti – il 95% in questo caso – il Presidente non riflette sulla realtà, la legalità, la legittimità o la correttezza della legge, ma riflette sul fatto che il suo veto sarà superato in tutti i casi.

Domanda: Ma che dire della legge sulle forniture di armi in Ucraina? Barack Obama non l’ha firmato …

Sergey Lavrov: La mia risposta è la stessa. Sa perfettamente che il Congresso lo costringerà a farlo. Se il presidente degli Stati Uniti Donald Trump si fosse rifiutato di seguire la volontà della stragrande maggioranza del Congresso – che attualmente esiste – il suo veto sarebbe superato. Questa è la mentalità della politica interna americana. Se il veto presidenziale viene superato – anche se è perfettamente giusto e incontra gli interessi a lungo termine degli Stati Uniti – questa è una sconfitta del Presidente. Questo è tutto.

Quando il presidente degli Stati Uniti Donald Trump mi ha accolto alla Casa Bianca, ha parlato con il presidente russo Vladimir Putin ad Amburgo e in seguito telefonicamente, non ho visto alcuna intenzione di lanciare azioni per silurare i suoi slogan elettorali nella sua aspirazione a mantenere buoni rapporti con la Russia. Ma le circostanze non sono favorevoli. La combinazione dei tre fattori – la sconfitta di Hillary Clinton, la natura fuori dal sistema di Donald Trump e la necessità di spiegare i fallimenti americani nell’arena internazionale (e non solo) – spiega la situazione attuale. Mentre gli Stati Uniti sono coinvolti in questo processo molto riprovevole e trovano una posizione pacifica della Russia che non ammette reazioni isteriche – a volte abbiamo risposto, ma entro il minimo indispensabile. Stiamo perseguendo la nostra politica di risoluzione dei conflitti e di lavoro sui mercati dai quali gli americani vorrebbero rifiutarci. Tutto ciò inizia a irritare coloro che hanno promosso un programma russofobico. È un peccato. Tuttavia, siamo incoraggiati dal fatto che alcuni membri del Congresso, politologi e diplomatici statunitensi sono stati ascoltati di recente – silenziosamente in conversazioni riservate – confermando la natura assolutamente anormale di questa situazione e la necessità di rimediare. In ogni caso, tutti riconoscono l’errore di coloro che hanno cercato di metterci ai piedi del muro, perché ovviamente non arrivano ad isolarci. Basta consultare il programma degli incontri e dei viaggi del presidente russo e dei membri del governo per rendersi conto del fallimento dei tentativi di isolamento. Secondo loro, capiscono di essersi spinti troppo oltre su questo tema, ma ci chiedono di fare il primo passo in modo che possano dire che la Russia si è “mossa”. Questa psicologia crea ovviamente la sensazione che la mentalità della superpotenza stia facendo del male agli Stati Uniti. Propongono di fare qualcosa sul dossier ucraino.

Domanda: “muoversi” significa rafforzare il controllo delle azioni separatiste nel Donbass, costringerli a smettere di sparare, assicurare il ritiro delle armi e rispettare assolutamente tutti i punti fondamentali degli accordi di Minsk?

Sergey Lavrov: Non siamo in alcun modo contrari al ritiro delle armi e al cessate il fuoco, che non dovrebbe essere assicurato da Donetsk e Lugansk ma dall’esercito ucraino. Molte testimonianze dei vostri colleghi, inclusi i giornalisti della BBC e altri media che hanno visitato la linea di demarcazione nel 2018, indicano che battaglioni come Azov non sono controllati da nessuno tranne che dai loro comandanti. L’esercito ucraino, le forze armate ucraine non hanno alcuna influenza su di loro. Non ascoltano nessuno. Ciò si riflette nel blocco che hanno lanciato nonostante le denunce del presidente ucraino Petro Poroshenko il quale aveva promesso pubblicamente di eliminare il blocco che contraddice in modo assoluto gli accordi di Minsk e ha persino inviato le forze per sollevarlo, ma non ci è riuscito. Poi decise che la soluzione migliore sarebbe stata di restituire le vesti e adottare un decreto che legalizzava il blocco. È quindi assolutamente necessario smettere di sparare e ritirare le truppe e le armi pesanti, ma da entrambe le parti.

Come ho detto in una conferenza stampa, il desiderio di ridurre l’intera gamma di questioni geopolitiche in Ucraina – ci viene chiesto di ritirare un battaglione da Donetsk o Lugansk per creare le condizioni necessarie per indebolimento delle sanzioni – è indegno di persone che occupano posizioni molto importanti, ma mantengono tali osservazioni.

Domanda: Ci saranno forze di mantenimento della pace in Donbass nel 2018?

Sergey Lavrov: Non dipende da noi. Se fosse stato così, sarebbero stati schierati lì molto tempo fa.

Domanda: quali ostacoli esistono ancora oggi? La Russia è pronta per le concessioni per eliminarli?

Sergey Lavrov: C’è un solo ostacolo: nessuno vuole guardare le nostre proposte in modo concreto.

Domanda: ma gli americani hanno proposto emendamenti. Sono studiati?

Sergey Lavrov: Nessuno ci ha offerto emendamenti, anche se avessimo voluto. Ho parlato con il ministro degli esteri ucraino Pavel Klimkin, i nostri colleghi francesi e tedeschi. Dicono che è una buona e giusta iniziativa, ma abbiamo bisogno di qualcos’altro. Quindi parliamone. Spiegaci le tue proposte e stabiliremo se sono in linea con l’attuazione degli accordi di Minsk. In ogni caso, il progetto di risoluzione sancisce il nostro assoluto impegno a favore del principio del pacchetto di misure per la concertazione di tutte le azioni di Kiev, Donetsk e Lugansk. Ci viene detto che dobbiamo pensare perché possiamo fare qualcos’altro. Ma tutto è limitato alle parole, nessuno discute con noi questi problemi. Le idee presentate al di fuori del lavoro sulla nostra bozza di risoluzione hanno un orientamento completamente diverso. Il nostro progetto sottolinea l’immutabilità degli accordi di Minsk e la necessità di proteggere la missione dell’osservatore dell’OSCE, le cui condizioni di lavoro sono talvolta pericolose. Le guardie armate delle Nazioni Unite devono seguire gli osservatori in tutti i loro movimenti. Questa è la logica legale degli accordi di Minsk. Ci viene detto che se accettiamo il concetto di forze per il mantenimento della pace, devono assumersi la responsabilità di tutti gli eventi a destra della linea di demarcazione. Lascia che assicurino la sicurezza su questo territorio al confine russo, dicono. In queste condizioni, potevano organizzare le elezioni e tutto sarebbe andato bene. Il nostro progetto sottolinea l’immutabilità degli accordi di Minsk e la necessità di proteggere la missione dell’osservatore dell’OSCE, le cui condizioni di lavoro sono talvolta pericolose.

Domanda: non è ragionevole?

Sergey Lavrov: ragionevole? Lo pensi davvero?

Domanda: le forze di pace delle Nazioni Unite sono una forza da affidare alla sicurezza della regione.

Sergey Lavrov:Gli accordi di Minsk stabiliscono che l’amnistia deve essere intrapresa per prima, l’attuazione della legge sullo status speciale della regione – che è stata adottata ma non ancora entrata in vigore – e incorporare questo ultimo alla Costituzione prima di organizzare le elezioni. I cittadini che sono attualmente soffocati da un blocco illegale e i cui cavi e servizi di telefonia mobile vengono tagliati per isolarli dal mondo esterno, almeno dallo stato ucraino, devono sapere che non sono criminali di guerra né terroristi, poiché Kiev ritiene di aver lanciato un’operazione antiterroristica sebbene nessun abitante di queste regioni abbia attaccato nessuno. Vorrei attirare la vostra attenzione sul fatto che sono stati attaccati. Queste persone hanno bisogno di sapere, in primo luogo, che non sono in pericolo e che l’amnistia copre tutti gli eventi da entrambe le parti. In secondo luogo, devono essere certi di ricevere la garanzia – che gli accordi di Minsk letteralmente prevedono – in grado di mantenere la loro connessione con la lingua russa e la cultura, il loro rapporto speciale con la Russia a prescindere dalla politica delle autorità di Kiev, la loro la polizia e la loro stessa voce per la nomina di giudici e pubblici ministeri. Questi sono i principi essenziali. Non è molto complicato. Inoltre, se non erro, circa 20 regioni ucraine hanno inviato a Kiev una proposta ufficiale 18 mesi fa per avviare negoziati sul loro decentramento, per delegare poteri e firmare accordi speciali con il centro. È quindi una normale federalizzazione. Possiamo chiamarlo “decentramento” se abbiamo tanta paura della parola “federalizzazione”. Ma quando ci viene detto che faremo tutto – varare l’amnistia, mettere in atto lo status speciale e organizzare le elezioni – ma solo dopo aver affidato la regione alle forze internazionali per dare loro il “the” non possiamo accettarlo. È una linea rossa. Tutti lo capiscono e avanzano queste proposte con l’obiettivo molto riprovevole di sfruttare l’argomento delle forze di mantenimento della pace. mettere in atto lo status speciale e organizzare le elezioni – ma solo dopo che la regione è stata consegnata alle forze internazionali per dargli “il”, non possiamo accettarla. È una linea rossa. Tutti lo capiscono e avanzano queste proposte con l’obiettivo molto riprovevole di sfruttare l’argomento delle forze di mantenimento della pace. mettere in atto lo status speciale e organizzare le elezioni – ma solo dopo che la regione è stata consegnata alle forze internazionali per poter dare il la, non possiamo accettarla. È una linea rossa. Tutti lo capiscono e avanzano queste proposte con l’obiettivo molto riprovevole di sfruttare l’argomento delle forze di mantenimento della pace.

Gli accordi di Minsk sono stati adottati dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Essi stabiliscono chiaramente che tutte le azioni necessarie devono essere concertate da Kiev e da alcuni distretti delle regioni di Donetsk e Lugansk. Confidiamo nell’ONU e nell’OSCE, che sta facendo un buon lavoro in un contesto molto serio. Ma non si può semplicemente grattare la parte politica degli accordi di Minsk. La promessa di attuarlo dopo l’acquisizione di questo territorio da parte di un’amministrazione delle Nazioni Unite sembra dubbia. Se gli autori di questa idea riescono a persuadere Donetsk e Lugansk: vai avanti, non ci opporremo. Tutto ciò è previsto dagli accordi di Minsk e approvato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Ma penso che coloro che avanzano questo concetto vogliono semplicemente strangolare questi due territori.

Vi ricorderò una cosa interessante: gli accordi di Minsk si riferiscono all’amnistia, allo stato speciale e alle elezioni. In questo ordine. Nel contesto del gruppo di contatto e del formato Normandia, tuttavia, la parte ucraina propone di capovolgerla, vale a dire garantire in primo luogo la sicurezza totale, compreso l’accesso all’estero, quindi risolvi le altre domande. Abbiamo spiegato loro per anni che il completo ripristino del controllo ucraino di questa parte del confine con la Federazione Russa è l’ultimo punto degli accordi di Minsk. In primo luogo, dobbiamo garantire ciò che abbiamo appena menzionato. Poi dicono che non possono dare uno status speciale a queste persone perché non sanno chi sarà eletto alle elezioni locali. Pertanto chiediamo loro se concederanno questo status solo a coloro che li soddisfano. Rispondono che è questo effettivamente il caso. Questa posizione non è tuttavia molto diplomatica dato che il loro presidente ha firmato un testo che prevede una serie di eventi abbastanza diversi. In ogni caso, abbiamo accettato il compromesso soprannominato “la formula di Frank-Walter Steinmeier”. Stabilisce che la legge sullo status speciale debba entrare provvisoriamente in vigore il giorno delle elezioni per diventare definitiva dopo la pubblicazione della relazione finale dell’OSCE, che dovrebbe garantire l’osservazione durante queste elezioni. Questo lavoro richiede solitamente due mesi. Gli ucraini hanno accettato questo modo di agire. I capi di Stato hanno concordato su questo punto nell’ottobre 2015 a Parigi. Abbiamo provato per un anno a mettere questa formula su carta ma gli ucraini si sono opposti. Quindi, le parti si sono incontrate nel 2016 a Berlino. Abbiamo chiesto spiegazioni sulla mancanza di progressi nell’attuazione della formula di Steinmeier e gli ucraini hanno risposto che era impossibile conoscere in anticipo il contenuto della relazione. Accetto: scriviamo che la legge sullo status speciale dovrebbe entrare provvisoriamente in vigore il giorno delle elezioni per diventare definitiva dopo la pubblicazione della relazione finale dell’OSCE, a condizione che quest’ultima confermi la legittimità e l’accuratezza delle elezioni. Tutti lo hanno accettato. Da allora è passato più di un anno, ma gli ucraini si rifiutano ancora di correggere questa formula nero su bianco. Questo è solo un esempio. Un altro è altrettanto eloquente. Il primo riguardava la politica, e quello sulla sicurezza. Le parti hanno concordato a ottobre 2016 a Berlino di procedere seriamente al ritiro delle armi pesanti e impedire il loro ritorno alla linea di contatto. Hanno scelto tre città pilota: Zoloteus, Pokrovskoye e Stanitsa Luganskaya. In Zoloteus e Pokrovskoye tutto è stato rapidamente portato a termine, ma non è ancora stato possibile farlo a Stanitsa Luganskaya. Gli ucraini dicono che hanno bisogno di sette giorni di tregua prima di lanciare il ritiro delle loro armi pesanti. Da allora l’OSCE ha visto – anche pubblicamente – più di una dozzina di periodi di tregua della durata di sette giorni o più. Gli ucraini dicono di avere altre statistiche e hanno registrato diversi colpi. I tedeschi, il francese e l’OSCE stesso capiscono perfettamente che sono insinuazioni. L’impegno politico dei nostri partner occidentali sfortunatamente impedisce loro di esercitare pressione sulle autorità di Kiev per costringerli ad attuare ciò che hanno promesso, in particolare alla Francia e alla Germania. È triste Se scommetti su un politico, il potere che si è stabilito a Kiev dopo il colpo di stato, è ovviamente molto difficile abbandonare questa posizione senza “perdere la faccia”. Lo comprendiamo e manteniamo la calma. Non siamo scandalizzati a causa della completa disapplicazione degli accordi di Minsk da parte di Kiev, ma cercheremo con calma l’adempimento degli accordi raggiunti. Troppi accordi raggiunti con così tante difficoltà sono attualmente in discussione: l’accordo di Minsk, l’accordo con l’Iran e così via.

Domanda: Rada ha adottato la legge sulla reintegrazione del Donbass giovedì. La reazione delle capitali europee è stata neutrale, mentre Mosca ha fortemente criticato questo testo. Perché? Quali potrebbero essere, secondo te, le conseguenze pratiche dell’adozione di questa legge?

Sergey Lavrov: Da un punto di vista giuridico, la legge sulla reintegrazione traccia una linea sugli accordi di Minsk approvata all’unanimità dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nella sua risoluzione adottata pochi giorni dopo l’incontro dei quattro leader del Normandy Format a Minsk. Per noi è assolutamente ovvio.

Per quanto riguarda la reazione, come ho già detto, non abbiamo dubbi – inoltre, abbiamo prove tangibili – che l’Europa e Washington comprendono appieno il gioco delle attuali autorità di Kiev che cercano di sfuggire alle proprie responsabilità dettate dagli accordi di Minsk. Spero che i rappresentanti di Berlino, Parigi, Washington e altre capitali lo dicano a Kiev in privato, faccia a faccia. Dopo aver preso le parti di questo potere che non ha la capacità di rispettare l’accordo, l’Occidente non può criticare pubblicamente le azioni dei suoi protetti. È un peccato. Capiamo perfettamente che tutto ciò è legato a un falso senso di prestigio e reputazione, ma è la vita. Cercheremo di raggiungere il pieno raggiungimento di tutti i punti degli accordi di Minsk. Tentativi di “deviare il mirino” e ingannare i dibattiti, così come di trovare nuovi ordini del giorno, metodi e forme sono inaccettabili. Difenderemo con calma, ma con fermezza, l’onesto pacchetto di misure firmato dal presidente Petro Poroshenko, nonché dai leader di Donetsk e Lugansk.

Domanda: la mia ultima domanda riguarda l’Iran che lei ha già menzionato. Il possibile fallimento dell’accordo iraniano a causa delle azioni statunitensi potrebbe rivelarsi, in un modo o nell’altro, vantaggioso per la Russia? Gli americani sembrerebbero odiosi e isolati, mentre l’Iran potrebbe diventare più conciliante su alcune questioni.

Sergey Lavrov: questa scuola di pensiero non è quella dei leader russi. Molti politologi si interrogano sulla nostra preoccupazione e difendono la peggiore strategia: secondo loro, gli Stati Uniti dovrebbero essere autorizzati a dimostrare la loro mancanza di capacità di raggiungere un accordo e la loro forza distruttiva negli affari internazionali, in Iran o in Siria, dove attualmente ci sono azioni unilaterali che hanno già scandalizzato la Turchia.

Domanda: Inoltre, l’Iran sarà più accomodante …

Sergey Lavrov: Questo non è essenziale. La distruzione del tessuto degli accordi legali concordati dai principali paesi del mondo in tale e tal altro conflitto potrebbe provocare uno scontro caotico in cui ognuno difenderà solo se stesso. Sarebbe alquanto riprovevole. Lo considero inaccettabile, che si tratti dell’Iran, della Siria, della Libia, dello Yemen o della penisola coreana, anch’esso concordato nel 2005 e che stabiliva chiaramente gli obblighi di Corea del Nord e altre parti. Poche settimane dopo la firma, gli americani “rivangarono” una vecchia storia sui conti di una banca di Macao e iniziarono a bloccare i conti nordcoreani. Possiamo discutere a lungo su questo argomento, l’accuratezza della Corea del Nord o l’errore degli Stati Uniti. I fatti rimangono gli stessi. Abbiamo raggiunto un accordo che comportava la totale cessazione dello scontro e della provocazione. Ha fallito. Pertanto, la capacità di concordare è attualmente il problema sistemico più importante.

Fonte: Ministero degli Affari esteri della Federazione Russa, Kommersant , 21-01-2018

 

GAS, TERREMOTI E GEOPOLITICA_IL CASO OLANDESE, di Piergiorgio Rosso

Qui sotto il sintetico ma efficace testo prodotto da Piergiorgio Rosso e pubblicato al seguente link    http://www.conflittiestrategie.it/la-politica-energetica-ue-terremotata-di-piergiorgio-rosso

L’8 gennaio scorso la regione olandese di Groningen è stata interessata da un terremoto di 3,6° della scala Richter con epicentro a circa 4 km di profondità, esattamente all’altezza del più grande giacimento metanifero europeo, in grado di soddisfare per cinquanta anni, con gli attuali standard di consumo, il 5% del fabbisogno europeo. E’ il più forte di una serie di terremoti verificatisi alla fine dell’anno in una zona, sino a metà anni ’60, del tutto priva di attività sismica. A metà degli anni ’80, a vent’anni dall’inizio dell’attività estrattiva, si iniziano a registrare i primi sussulti e con l’inizio del nuovo millennio l’attività comincia ad essere avvertita dalla popolazione sino ad arrivare, nel 2012, ad un primo terremoto della stessa scala di quello di gennaio, in una zona per altro priva di sistemi di edificazione antisismici. Il legame tra l’attività estrattiva e i movimenti tellurici è ormai riconosciuto da tutti, compresa l’azienda estrattrice. A seguito della novità i governi hanno provveduto a limitare l’attività di estrazione sino a ventilare la possibilità di riduzione del 44%; un taglio che, unitamente ai risarcimenti in corso, renderebbe, tra l’altro, poco conveniente la prosecuzione dei prelievi. Le implicazioni economiche per il paese sarebbero enormi sia dal punto di vista fiscale che da quello della dipendenza energetica in quanto trasformerebbero l’Olanda da paese esportatore a importatore. Le implicazioni geopolitiche sarebbero, probabilmente, ancora più pesanti. L’Olanda è un fulcro commerciale per tutta l’Europa centro settentrionale; è la sede europea di gran parte delle multinazionali estere, specie americane; è uno dei paesi che ha sostenuto in maniera più oltranzista la politica euroamericana antirussa, compresi l’attività militare nella zona baltica e in Ucraina e l’inasprimento delle sanzioni antirusse. L’amara scoperta di una realtà di dipendenza dalle forniture gasifere della Russia e dal sistema di gasdotti russotedeschi potrebbe spingere ad una inedita riconversione degli obbiettivi strategici di politica estera o almeno ad una attenuazione dell’oltranzismo. Il nesso causale non è meccanico e predeterminato, come in ogni nesso che lega l’economia alle scelte geopolitiche. I costi dell’ostinazione potrebbero però rivelarsi pesanti se non insostenibili. Per gli altri stati europei il ragionamento è analogo e potrebbe portare ad una ulteriore divaricazione tra di essi rispetto alle relazioni con il gigante ad Oriente. Buona lettura_Giuseppe Germinario

La politica energetica UE … terremotata di Piergiorgio Rosso

gas

L’estrazione di gas naturale a Loppersum (Groningen – Paesi Bassi) è stata interrotta con effetto immediato a seguito dell’ordinanza dell’ente statale supervisore delle miniere olandesi (SoDM). L’ordinanza subito accolta dal Ministro degli Affari Economici Eric Wiebes, seguiva un forte terremoto – scala 3.6 Richter – avvertito in tutta la città di Groningen, il sesto in ordine di tempo ed il più forte in un solo mese. Da tempo l’attività sismica in quella zona è sotto osservazione da parte degli enti preposti ed è condivisa l’opinione secondo cui essi sono causati dall’attività di estrazione del gas naturale che ha raggiunto un livello tale da abbassare la pressione nei giacimenti al di là dei livelli di guardia per la stabilità geologica. Il SoDM ha anche scritto che l’estrazione di gas naturale dovrà necessariamente dimezzarsi nel prossimo futuro da un livello di 22 Miliardi di m3 (BCM) ad un livello di 12 BCM all’anno: “ .. sarà una tremenda questione sociale” ha detto il Ministro Wiebes. Il gas naturale serve più di 7 milioni di famiglie olandesi, il sistema industriale e la rete elettrica dell’intero paese. Non solo, l’Olanda è esportatrice netta di gas naturale tramite contratti a lungo termine con Belgio, Francia, Germania ed Inghilterra. Il mantenimento degli impegni sarà costoso per le casse dell’erario olandese che vedrà ribaltarsi la posizione commerciale/finanziaria del settore da esportatore ad importatore netto. Uno scenario da incubo. Una transizione accelerata alle rinnovabili come vorrebbero Verdi e organizzazioni non governative, sarebbe estremamente costosa per lo Stato e per le famiglie. L’unica alternativa realistica a breve termine (5-10 anni) è importare gas naturale da paesi come Norvegia, Qatar o Russia. Un nuovo gasdotto dalla Norvegia richiede tempo così come un nuovo ri-gassificatore per l’LNG dal Qatar, mentre i gasdotti dalla Russia già ci sono (via Germania) e aumenteranno la loro capacità con la costruzione del North Stream-2.
Accettare questa realtà sarebbe come ricevere uno schiaffo in faccia per il governo olandese e per l’Unione Europea il cui impegno per la diversificazione delle fonti di approvvigionamento di gas naturale è sinonimo di diminuzione della quota di mercato di Gazprom. La Russia, minacciata da nuove sanzioni dalla UE ed in rotta di collisione col governo olandese sulla questione dell’abbattimento del volo MH17 in Ucraina, si porrà come l’unica àncora di salvezza dell’intera economia dell’Europa nord-occidentale.
Il terremoto di Groningen aprirà un vaso di Pandora: si tornerà a discutere di North Steam-2 e di dipendenza europea dal gas russo nel prossimo futuro, ma in uno scenario completamente diverso da prima.

(libere citazioni da: https://oilprice.com/Energy/Energy-General/Dutch-Gas-Goals-Rocked-By-Earthquakes.html)

Taccuino francese: il ritorno della Vandea, di Roberto Buffagni

Taccuino francese: il ritorno della Vandea

 

Nello scorso novembre, Patrick Buisson[1] ha pubblicato un libro molto interessante: La grande histoire des guerres de Vendée[2]. Non l’ho letto, ma da quel che ne dicono le recensioni non credo ci racconterà  molto di nuovo sulla terribile repressione rivoluzionaria dell’insorgenza vandeana.

Il libro resta di grande interesse, ma per altre ragioni. Anzitutto, per l’autore. Patrick Buisson è uno storico, un giornalista e un militante politico di primo piano della destra francese. E’ stato consigliere di Sarkozy nella sua prima campagna elettorale (2007); seguendo i suoi consigli, Sarkozy non solo ha vinto le elezioni presidenziali, ma per la prima e unica volta nella storia politica francese ha strappato sette punti elettorali al Front National. La campagna elettorale suggerita da Buisson, che appartiene alla destra francese conservatrice di ascendenza maurrassiana[3], batteva su tutti i temi cari al FN, anzitutto l’identità nazionale (alla quale fu poi intitolato un ministero). Buisson, però, nel corso della presidenza Sarkozy, ha dovuto toccare con mano le conseguenze di una circostanza che non gli sarà sfuggita, ma che forse aveva sottovalutato: l’altro principale consigliere del suo candidato era Alain Minc[4], cioè l’esatto opposto ideologico di Buisson, un liberal-progressista che “ha superato la distinzione destra/sinistra”; e infatti, nell’elezione presidenziale del 2017 Minc ha sostenuto la candidatura del centrista républicain Alain Juppé finché ha avuto chances, per poi passare nel campo di Emmanuel Macron, il candidato su misura per lui. In sintesi: Sarkozy, un abile tattico senza principi, ha usato la linea conservatrice e populista di Buisson in campagna elettorale per prendere voti, e una volta al governo ha seguito la linea liberal-progressista di Minc (così perdendo l’elezione del 2012). Insomma: passata la festa, gabbato lo santo.

Non l’ha presa bene, Buisson. Dopo un ultimo tentativo con Sarkozy nel 2012, quando ha tentato inutilmente di persuadere sia il candidato sia il partito a uscire dalla trappola del Front Républicain – la conventio ad excludendum contro il Front National costruita da Mitterrand per garantire ai socialisti il congelamento di metà della destra francese, e la rendita di posizione che ne conseguiva per il PS – Buisson si è allontanato dai Républicains, ha pubblicato La cause du peuple, un libro di violentissima critica a Sarkozy e alla destra liberale[5] che ha avuto spinosi contraccolpi giudiziari, e si è dedicato alla battaglia politico-culturale per la riforma della destra francese.

L’obiettivo strategico della battaglia di Buisson è la fondazione di una destra conservatrice autentica, accomunata da tradizioni, valori e ideologie non liberali o francamente antiliberali (gaullisti di destra e gaullisti sociali, cattolici reazionari, maurrassiani, etc.). Sul piano operativo, l’obiettivo si può raggiungere solo attraverso una spaccatura e una rifondazione: la spaccatura dei Républicains tra liberali/conservatori non liberali e antiliberali, e la rifondazione del Front National su basi nazionaliste, antiliberali, conservatrici, cattoliche (grossolanamente: la linea che si identifica in Marion Maréchal Le Pen[6], contro quella che si identifica in Marine, e prima di Marine in Florian Philippot[7]). In termini pragmatici, per Buisson i conservatori francesi, sinora politicamente rappresentati dai Républicains, devono prendere la guida di una nuova formazione politica di destra antiliberale e antiprogressista, e diventare il corpo ufficiali di un esercito le cui truppe sono costituite dall’elettorato popolare, sociologicamente e geograficamente periferico, del Front National.

Un’altra ragione d’interesse de La grande histoire des guerres de Vendée è il suo prefatore, Philippe de Villiers[8]. Il visconte vandeano Philippe de Villiers è stato leader del fronte sovranista che nel referendum del 2005 bocciò la proposta di costituzione europea promossa dalla UE; ed è fratello maggiore di Pierre de Villiers[9], il capo di stato maggiore delle FFAA francesi che si è recentemente dimesso (applaudito dalle truppe) dopo un violento scontro con il presidente Macron sui finanziamenti alle forze armate.

Terza e ultima ragione d’interesse del libro, il suo soggetto. Non solo perché la guerra civile di Vandea e il terrore di Stato che sterminò  i combattenti vandeani sono una memoria tuttora viva e politicamente attiva in Francia; ma perché non ho il minimo dubbio che Buisson abbia sottolineato, nel suo libro, come la Convenzione rivoluzionaria abbia decretato la durissima repressione delle insorgenze legittimiste e cattoliche sulla base di un consenso elettorale che definire minoritario è dir poco: su 7 MLN di aventi diritto (suffragio ristretto), solo il 10% espresse un voto valido. L’analogia con la ridotta legittimazione popolare di Emmanuel Macron (al secondo turno, 40% circa sul totale degli aventi diritto, con un record storico di astensione e schede bianche o nulle) è lampante[10].

Non è da ieri che uomini di cultura e politici propongono alle destre francesi questa linea francamente conservatrice, che non è mai riuscita ad affermarsi. Ma rispetto a ieri, oggi c’è una grossa novità: che il successo di Emmanuel Macron l’ha resa l’unica linea politica praticabile, se la destra francese non vuole mettere una pietra tombale sulla sua lunga storia. L’abilissima operazione di “taglio delle estreme” che ha condotto Macron alla presidenza ha resuscitato la “destra di situazione” liberale e orleanista[11] che si cristallizzò nel 1830: nell’odierna riedizione, i centristi e gli europeisti/mondialisti di entrambi i maggiori partiti francesi, PS e Républicains, vengono risucchiati dal “movimento di governo” En Marche!  e svuotano dall’interno i partiti da cui provengono. Li svuotano di personale politico, di clientele, di voti, di finanziamenti e soprattutto di ragioni d’esistere. Li svuotano di ragioni d’esistere, perché a dettare la strategia politica tanto del PS quanto dei Républicains è tuttora il paradigma del Front Républicain, l’adattamento francese dell’ “arco costituzionale antifascista” italiano inventato da Mitterrand negli anni Ottanta[12]: e come hanno dimostrato plasticamente le presidenziali del 2017, non esiste blocco sociale, ideologia, formazione politica più adatta ed efficace per battere il Front National del centrismo orleanista di Macron, che si situa all’esatto opposto del blocco sociale e dell’ideologia del Front National e ne è per così dire il negativo fotografico.

Quindi, chi all’interno del PS e dei Républicains vuole ritrovare ragioni d’esistere al di là del nudo e crudo richiamo della gamelle, e non si vuole allineare con il centrismo orleanista di Macron, è costretto a spezzare il cerchio magico del Front Républicain, e a prendere atto che è finita l’alleanza storica tra il liberalismo e il conservatorismo a destra, tra il liberalismo e il socialismo a sinistra. Esattamente come nel 1830, il  liberalismo puro coincide, oggi, con il pensiero e le forze economiche e politiche socialmente dominanti. C’è però una differenza sostanziale tra il 1830 e il 2018, una differenza che è la chiave politica di tutto: che nel 1830 il suffragio elettorale era censitario e ristretto, nel 2017 universale: e per quanto il sistema politico-mediatico possa manipolarlo con le campagne di guerra psicologica, con le leggi elettorali maggioritarie, etc., non può permettersi di abolirlo, perché il suffragio universale è la “formula politica” (Mosca)[13] che lo legittima. E’ questo, il punto debole del liberalismo, che è democratico soltanto suo malgrado. Il liberalismo non è mai riuscito a diventare “popolare”, perché sin dalla sua premessa metodologica non si rivolge ai popoli e alle comunità, ma agli individui.

In sintesi. Stravincendo e mettendo con le spalle al muro tanto la sinistra quanto la destra, il liberalismo orleanista di Macron costringe entrambe ad affrontare e tentar di sciogliere un nodo metapolitico di portata storica: la dialettica dell’illuminismo e il precipitato storico della Rivoluzione francese. Il mondialismo liberale è la manifestazione storica della dialettica dell’illuminismo, del progressismo e dell’universalismo, culturale e politico, che li accompagna. Illuminismo e universalismo sono trascrizioni secolarizzate – amputate della dimensione metafisica e propriamente religiosa – del cristianesimo. L’opposizione al mondialismo è dunque costretta ad essere, volens nolens, opposizione all’illuminismo e all’universalismo politico[14]; e la linea di frattura politica che divide i campi tende a coincidere con la linea di frattura culturale che divide l’Europa sin dal tempo delle guerre di religione[15].

Ecco perché nel 2018 ritorna di attualità la Vandea. Ed ecco perché nella campagna elettorale presidenziale del 2017 due soli candidati hanno incentrato la loro proposta intorno alla ripetizione della parola “patrie”: Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon. Per Marine, non c’è bisogno di spiegare. Per Mélenchon, la spiegazione che propongo è questa: con la reiterazione martellante della parola “patrie”, Mélenchon manifesta il tendenziale distacco della sinistra francese dal liberalismo, e cerca di ritrovare le radici democratiche rousseauiane della sinistra giacobina e socialista. Non è un caso che anche Alain de Benoist, che ha designato il liberalismo come nemico principale del suo campo politico, abbia dedicato una crescente attenzione a Rousseau[16]: perché il liberalismo trionfante tende a separarsi dalla democrazia.

I progetti di ridefinizione politica e partitica oggi in corso in Francia e non solo in Francia, insomma, sono la manifestazione di superficie di un movimento tettonico profondissimo, che costringe gli europei e gli occidentali a ripensare la loro storia, la loro filosofia e la loro religione (o irreligione). Proprio per questo, le vicende politiche francesi che ho brevemente illustrato sin qui interessano direttamente anche l’Italia. Le differenze storiche tra le culture politiche francese ed italiana sono molte, e non superficiali. Ma in profondità, il sommovimento geologico culturale tocca l’Italia come la Francia. Ne vedremo, probabilmente, gli effetti di superficie dopo le prossime elezioni politiche del marzo 2018. Anche da noi, il blocco sociale e politico liberale tenterà di operare il “taglio delle estreme”, con l’ausilio, a destra, delle quinte colonne Berlusconi e Maroni, a sinistra delle formazioni dissidenti dal PD, e usando come massa di manovra il Movimento 5 Stelle, che grazie alla sua “impoliticità”[17] si candida a essere usato come “ago della bilancia” in una manovra machiavellica di superamento della distinzione tra destra e sinistra storiche. Se l’operazione “taglio delle estreme” riuscirà, l’effetto a breve termine sarà devastante per il campo antimondialista e antiUE; a medio e lungo termine, però, sarà benefico e liberatorio, perché farà coincidere la linea di frattura politica con la linea di frattura culturale e sociale reale e principale.

[1] https://fr.wikipedia.org/wiki/Patrick_Buisson. Per una esposizione approfondita delle sue posizioni, i francofoni possono seguire questa sua conferenza del maggio 2017: https://youtu.be/Hj_B708sCWY

[2] La grande histoire des guerres de Vendée, Perrin, Paris 2017

[3] https://fr.wikipedia.org/wiki/Nationalisme_int%C3%A9gral

[4] https://fr.wikipedia.org/wiki/Alain_Minc

[5] Qui una recensione simpatizzante : https://www.polemia.com/la-cause-du-peuple-de-patrick-buisson/

[6] https://fr.wikipedia.org/wiki/Marion_Mar%C3%A9chal-Le_Pen

[7] https://fr.wikipedia.org/wiki/Florian_Philippot

[8] https://fr.wikipedia.org/wiki/Philippe_de_Villiers

[9] https://fr.wikipedia.org/wiki/Pierre_de_Villiers_(militaire)

[10] http://www.lefigaro.fr/elections/presidentielles/2017/05/07/35003-20170507ARTFIG00164-apres-une-abstention-et-un-vote-blanc-record-macron-attendu-au-tournant.php; https://www.rtbf.be/info/monde/detail_presidentielle-francaise-emmanuel-macron-obtient-66-06-de-voix-selon-les-resultats-quasi-definitifs?id=9600231

[11] Ne ho parlato diffusamente qui: http://italiaeilmondo.com/2017/09/29/taccuino-francese-che-cosa-ci-insegna-la-crisi-del-front-national-di-roberto-buffagni/ . “Destra di situazione” significa una destra che non è tale per i valori e l’ideologia che propone, ma per il posizionamento relativo nella dialettica parlamentare; come fu appunto la destra orleanista nel 1830, che a sinistra escludeva repubblicani e bonapartisti, a destra i legittimisti.

[12] Mitterrand, un politico di abilità machiavellica, fece di tutto per promuovere a dignità di pericolo nazionale il Front National di Jean-Marie Le Pen, erede di Vichy e dell’OAS, piazzandolo nello spettro politico-ideologico allo stesso posto in cui stavano il fascismo e i suoi eredi in Italia, così ridefinendo i confini della legittimità politica in Francia a scapito della destra, e garantendo alla sinistra un vantaggio permanente in ogni competizione elettorale. A sinistra, nessun nemico (Mitterrand vinse la sua prima campagna presidenziale, nel 1981, con l’appoggio decisivo del Partito Comunista Francese, allora forte di un 15% di voti) a destra, un confine invalicabile.

[13] https://fr.wikipedia.org/wiki/Gaetano_Mosca

[14] Ne ho parlato qui: http://italiaeilmondo.com/2017/09/29/taccuino-francese-che-cosa-ci-insegna-la-crisi-del-front-national-di-roberto-buffagni/

[15] Ne ho parlato, dialogando con Alessandro Visalli, a proposito della “Dichiarazione di Parigi” firmata da un gruppo di studiosi conservatori di chiara fama: http://italiaeilmondo.com/category/dossier/autori-dossier/roberto-buffagni/

[16] Qui un articolo liberamente scaricabile: https://s3-eu-west-1.amazonaws.com/alaindebenoist/pdf/relire_rousseau.pdf

[17] E’ “impolitico” un movimento politico che non designa l’avversario, e dunque non designa neppure l’amico. La sua impoliticità lo predispone all’eterodirezione, all’essere usato come massa di manovra e come “ago della bilancia” in una manovra politica spregiudicata “al di là della destra e della sinistra”.

1 230 231 232 233 234 241