Tag: geopolitica
Negli States il diavolo e la pentola!…..ma il coperchio?_ con Gianfranco Campa
Negli States la preda pare sempre sul punto di rimanere intrappolata, ma ancora una volta riesce a farsi beffe dei cacciatori. Questo perchè i cacciatori sembrano prescindere dal contesto politico-economico nel quale si muove Trump; forse mancano ancora degli strumenti e delle capacità necessarie ad elaborare e costruire un progetto politico che riesca in primo luogo a legittimarli e renderli credibili. Proseguono a tentoni, ma così possono sperare solo in qualche colpo fortunato. Sembra una storia senza fine, ma solo fino a quando il movimento avverso non riuscirà ad esprimere una nuova e più solida leadership. E’ probabilmente il vero obbiettivo che sta attualmente perseguendo Trump. Sarà quello l’inizio vero della fine di questa farsa sempre più grottesca. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
Biden e il Mediterraneo_con Antonio de Martini
Cambiano i presidenti, cambiano le strategie di intervento e di controllo dell’area mediterranea. Nel frattempo emergono nuovi protagonisti, troppo numerosi ed intraprendenti per realizzare l’aspirazione al ripristino dell’egemonia incontrastata di nemmeno trenta anni fa. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
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Geopolitica secondo il Centro di Gravità, a cura di Piergiorgio Rosso
Posizione geopolitica 22 dicembre 2020
PREMESSA
Il presente documento intende proporre in estrema sintesi una ipotesi di posizione geopolitica nazionale, basandosi su di una analisi che individua gli elementi che hanno portato alla presente fase conflittuale globale e particolare per la nostra nazione, introducendo il concetto basilare di interesse nazionale. La descrizione e le tesi sulle diverse élites dominanti ed il loro conflitto sono indicate, ma non sviluppate in termini di schieramento da scegliere, in quanto si vuole privilegiare l’autonomia di Patria piuttosto che le posizioni politiche. La bibliografia in calce è composta in modo distinto sia da testi ufficiali di organi istituzionali che da fonti pubblicistiche. INTRODUZIONE
La perdita di autonomia politica della nazione italiana viene datata da alcuni osservatori a partire dalla crisi politico-giudiziaria degli anni 1992-1993 detta “Mani Pulite”, periodo nel quale un’intera classe politica è stata annientata per via giudiziaria, è stata ratificata in Parlamento l’adesione al Trattato di Maastricht – in piena emergenza politica – l’intero, strategico, patrimonio dell’industria pubblica dell’IRI – risalente al 1933 – è stato smembrato e privatizzato, è stato cancellato il diritto dello Stato italiano a battere moneta. In realtà, non sfugge agli osservatori più attenti, che l’autonomia politica italiana era già stata pressoché annullata nell’immediato secondo dopoguerra, in quanto nazione sconfitta e costretta a firmare un Trattato di Pace (1947) che – lungi dal considerare la cosiddetta cobelligeranza del periodo 43’/45’ – rappresentava una vera e propria resa senza condizioni. Quel contesto si innestava inoltre su una precedente realtà politica e sociale ereditata dal secolo XIX nel quale era, sì stata “fatta l’Italia” – seppure con l’aiuto interessato di alcune potenze straniere – ma non gli italiani. La frattura Nord-Sud non era stata completamente sanata dalla classe dirigente liberale sia della Destra che della Sinistra storica: “… c’è fra il nord e il sud della 1 penisola una grande sproporzione nel campo delle attività umane, nella intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione, e, quindi, per gli intimi legami che corrono tra il benessere e l’anima di un popolo, anche una profonda diversità fra le consuetudini, le tradizioni, il mondo intellettuale e morale…» (Giustino Fortunato/1911). Nel corso della discussione, interna al CdG, alla ricerca di un possibile nuovo posizionamento geopolitico dell’Italia, ci siamo presto resi conto che non aveva molto senso discutere di politica internazionale, senza prima definire se e come l’Italia poteva prima pensarsi e quindi presentarsi nel consesso internazionale, come una nazione. Come premessa a qualsiasi discussione geopolitica abbiamo pertanto identificato tre questioni irrisolte che a nostro parere ancora dividono profondamente e pesano sugli italiani. Le abbiamo chiamate tre guerre civili per segnalare la serietà di tre specifiche questioni storiche e l’assoluta priorità politica che esse oggi assumono.
UNA NUOVA IDENTITÀ NAZIONALE La premessa politica è che: “La tesi secondo la quale il principio nazionale risulterebbe superato è propria dei popoli vinti che accettano la sconfitta. L’emergere delle grandi realtà a livello continentale ha bensì posto in termini nuovi il rapporto di forze internazionali, ma non esclude, anzi presuppone, le nazioni come soggetti politici operanti.” Le “tre guerre civili” vengono sinteticamente descritte volendo offrire un’indicazione alla ricerca storica che auspicabilmente il CdG potrebbe promuovere ed alimentare. Esse sono: • Il “brigantaggio” o “lotta al banditismo” ingaggiata dal neonato Regno d’Italia nelle regioni meridionali e durata più di dieci anni; • La guerra civile 1943-45 e oltre; • La lotta armata degli anni ’70 del secolo scorso. L’obiettivo del documento è duplice. La rilettura e ricostruzione storica degli eventi legati alle “tre guerre civili” italiane ha un evidente scopo culturale. Ma assume in sé un significato politico in quanto premessa necessaria per: “… la rivendicazione, da parte della società italiana, del diritto di riconoscersi come comunità nazionale, con una propria identità civile, politica e storica e, su tale presupposto, a svolgere – nel quadro geopolitico – una missione di civiltà: una comunità di destino, avanguardia mondiale del diritto dei popoli”. Storicamente il Paese Italia ha avuto in età moderna un processo unificante che si è imposto sulle sue specificità ed identità storiche e geografiche, con un iniziale processo 2 militare sostenuto e diretto da opposti interessi stranieri (austriaci, inglesi e francesi). Questa presenza straniera ha prodotto un continuo condizionamento sulla classe dirigente politica italiana, che da una parte ha favorito gli interessi di trasferimento di ricchezza nazionale all’estero, dall’altra ha prodotto all’interno del Paese una frattura fra la progressiva integrazione europea dei gruppi economici settentrionali e la disgregazione delle strutture economiche meridionali. Tale iniziale processo ha creato e sviluppato un profondo disconoscimento popolare dello stato unitario tra le masse sociali. Ciononostante, le risorse umane e materiali del Paese hanno portato ad uno sviluppo economico elevato dell’Italia, con una capacità manifatturiera esportativa e una crescita del mercato interno, terzo d’Europa, e hanno prodotto un accumulo di risparmio domestico maggiore degli altri Paesi europei. Tale processo ha avuto ulteriori eventi negativi sulla coesione identitaria: la guerra civile successiva alla seconda guerra mondiale, che portò ad un inserimento nella sfera USA del Paese, ed il periodo di conflitto sociale armato degli anni ’70 del secolo scorso, culminato con il terrorismo, precedente alla caduta dell’Unione Sovietica, che fu caratterizzato nuovamente dal rientro delle ingerenze americane, inglesi e francesi. Queste ingerenze non hanno più la modalità esclusiva, del periodo post unitario del XIX secolo, ma sono inserite nel processo di unificazione europea che passa, dall’iniziale natura puramente commerciale, ad una natura strategico politica con i Trattati di Maastricht e Lisbona. Questo passaggio si sostanzia per la nazione italiana con la sostituzione della classe politica democristiana e socialista con quella ex-comunista e della sinistra democristiana (significativamente salvate dai processi di “Mani Pulite”), si rinforza con la privatizzazione di gran parte delle grandi aziende strategiche nazionali (svendita degli assetti pubblici, IRI) e culmina, alla fine del XX secolo, con la perdita della sovranità monetaria; tutti eventi che introducono e consolidano in Italia il quarto grande soggetto estero, la Germania, che prende un ruolo, da primo sub-dominante – rimanendo gli USA gli assoluti egemoni in Italia – rispetto ai sub-dominanti storici Francia e Regno Unito. Al presente abbiamo una realtà sociale che risulta frazionata e sempre più lontana da un’identità comune. Anche in questo presente, nonostante tutto, il Paese riesce a mantenere una capacità economica manifatturiera e finanziaria che lo pone secondo in Europa e in molti settori al primo posto. Non egualmente si mantiene la capacità di identità sociale, causa la destrutturazione della scuola 3 pubblica e della sanità, accelerate con l’autorità autonoma assunta dalle Regioni, parallela alla perdita di sovranità monetaria. Fattore questo che ha portato il governo statale a giustificare tutte le manovre restrittive, come obbligatoria ottemperanza alle direttive politiche e finanziarie europee. Quindi, i cittadini sono schiacciati tra un governo nazionale, che dichiara strumentalmente di non avere autonomia dall’”Europa”, e da governi regionali, che, obbligati dai vincoli di riduzione della spesa pubblica sistematicamente accettati dal governo nazionale ai tavoli europei, garantiscono le speculazioni del sistema criminale territoriale e i grandi capitali, privatizzando i servizi essenziali, acqua, luce, gas, trasporti, sanità e scuola. Le fasce sociali dominate e tradizionalmente patriottiche (lavoratori, studenti e piccola borghesia) sono disarticolate in una pletora di marginalità, individualizzate e alienate dai vecchi e nuovi strumenti di comunicazione Tale scenario è divenuto globale, portato dal sistema capitalistico occidentale in tutto il mondo, con il concorso/competizione di molti paesi. Assunto questo scenario vediamo che in esso, e in modo specifico proprio in occidente, è in corso il conflitto competitivo per la supremazia, tra diverse fazioni della formazione capitalistica tradizionale per l’introduzione sistematica delle tecnologie ed il nuovo sistema digitale, in cui la produzione di merci avviene avvalendosi anche di “materia prima immateriale”, come i dati e l’informazione. Prendendo atto che si è raggiunto un livello molto basso di coscienza sociale identitaria, si può ipotizzare che, per avviare una ricostruzione di tale identità sociale, vada adottato un paradigma diverso da quello che ha condotto allo stato presente. Pensiamo che sia possibile riproporre il paradigma di uno stato federale, che tenga conto delle diversità socio-culturali, sostituendolo allo stato centralizzato unitario – peraltro rimesso in discussione in modo disfunzionale con la riforma del Titolo V della Costituzione – che ha schiacciato tali diversità. Si riprenderebbe, così, un antico corso della millenaria storia italiana, che fin dall’Impero di Roma, iniziò un vasto ordinamento federale amministrativo, poi ripreso dalle Città Stato e dalle nostre sapienti Repubbliche Marinare. Il concetto di stato federale possibile, si basa sulle diversità culturali ed economiche ancora presenti in Italia. Il fine di tale impostazione è quello di superare la sperequazione prodotta dallo stato centrale, storicamente definita come questione meridionale. Per conseguire il risultato combinato di differenziazione locale ed identità nazionale, si introduce il principio di diretta 4 responsabilità della politica locale sull’amministrazione del territorio, lasciando allo stato centrale la competenza sulla politica internazionale e della difesa, sul bilancio generale, sulla politica industriale, infrastrutturale ed energetica e sui servizi universali del cittadino, sanità, scuola, acqua, ambiente e trasporti erogati esclusivamente da enti pubblici. Diversamente i settori specifici locali, piccola impresa, urbanizzazione e beni culturali (esclusa la loro tutela) sono di diretta amministrazione locale. Tale processo socialmente differenziativo viene compensato dal processo integrativo, che viene realizzato dall’erogazione statale dei servizi basilari, soprattutto nei territori più penalizzati. La tesi per cui in un mondo in cui i mercati non hanno confini, lo Stato non avrebbe più alcun ruolo né importanza, è in realtà una tesi portata avanti dai promotori della globalizzazione liberista. Per i paesi che accettano questa visione dell’economia mondiale, la capacità statale di rendere la politica indipendente dal principale partner commerciale di un paese, viene progressivamente erosa man mano che i paesi stessi si trovano intrappolati in una rete continua di interdipendenza. I mercati più grandi non arrivano senza un costo. Del resto le crisi del 2008 e quella del 2020 si sono incaricate di rendere difficile sostenere ancora tale tesi. Lo Stato (sovrano) continua ad essere la forza capace di plasmare e guidare lo sviluppo economico nazionale, compresa la stessa globalizzazione. La maggiore capacità di superare la distanza geografica, resa possibile dalle innovazioni nelle tecnologie di trasporto e comunicazione, è di scarsa utilità se esistono barriere politiche a tali movimenti. Le politiche di liberalizzazione, deregolamentazione e privatizzazione sono state necessarie per superare le barriere non tecniche al libero flusso di lavoro, capitale e merci. Pertanto, la forza abilitante della globalizzazione è lo Stato. In effetti, gli Stati più grandi e potenti – come gli USA – hanno usato la globalizzazione come mezzo per aumentare i loro poteri e interessi. Ci muoviamo da queste premesse – e dalla prioritaria soluzione delle “tre guerre civili” – per articolare alcuni principi che dovrebbero ispirare una strategia italiana volta a tutelare i propri interessi nazionali nel consesso internazionale.
CONTESTO INTERNAZIONALE
La conclusione della seconda guerra mondiale e della guerra fredda, vedono la crisi dell’equilibrio bipolare che conteneva nell’egemonia dei Paesi Egemoni (USA ed URSS) i conflitti geopolitici dei diversi Paesi satelliti. 5 Fase mondiale conflitto permanente multinazionale. Quindi si entra in una fase in cui le élites dominanti sovranazionali vanno in conflitto tra loro tramite una nuova dinamica, composta da conflitti regionali e locali tra stati e dentro gli stessi stati, andando a recuperare contrapposizioni etniche e religiose. Il metodo conflittuale comporta un’estrema turbolenza in quanto libera gli interessi geopolitici delle diverse nazionalità, sia minori sia emergenti. La globalizzazione, in una nuova fase, contrasta il ruolo delle nazioni dominate nell’economia, anche sviluppando nuove tecnologie produttive e di controllo sociale. Nel settore produttivo si supera il rapporto con le merci materiali e i mezzi di produzione per l’impiego di mezzi immateriali: i dati e l’intelligenza artificiale. Di pari passo il controllo sociale sugli individui non necessita di organi intermedi, sindacati, partiti, ma si opera direttamente sul singolo individuo collegandolo in modo permanente con tecnologie attive, che ne acquisiscono (depredano) le informazioni personali linguistiche e biometriche, con cui predeterminano il comportamento nel lavoro, nei consumi e nella vita emotiva. Nuovi e vecchi fattori di forza. Il fattore di forza per svolgere il conflitto permanente avviato dalle élites dominanti resta la capacità militare. Restano soggetti attivi i Paesi che ospitano élites dominanti industriali militari a capacità continentale. Per capacità industriale militare deve intendersi un concetto complesso, che include oltre ai sistemi d’arma, i sistemi di veicolazione, archivio, elaborazione dell’informazione. In questo contesto il concetto di informazione va oltre quello tradizionale di notizie e propaganda, si estende come accennato ai dati globali sulle singole persone. USA. In questa fase di conflitto permanente multinazionale, la dinamica di posizionamento degli stati europei si è andata modificando dall’equilibrio istituzionalizzato con la NATO. L’elemento pattizio che ha permesso e permette di mantenere l’egemonia storica postguerra agli USA nell’occidente, di fatto, perdura, con gli accordi bilaterali che avallano la presenza militare americana nei diversi paesi europei. Di tale situazione l’Italia ne è stata ed è la maggiore vittima. In modo specifico in quanto ne limita ed abortisce il ruolo mediterraneo e con il medio e lontano oriente, cui è deputata per geopolitica e storia. Il fatto più recente è stata la cancellazione violenta dei rapporti 6 con la Libia. Gli USA appaiono, a qualsiasi osservatore attento, profondamente divisi al loro interno, sia fra i diversi schieramenti di cittadini sia, soprattutto, fra le varie élite dominanti. Le divisioni in essere, non mettono in discussione la necessità per gli Usa di mantenere la supremazia mondiale, ma sono dialetticamente concorrenti per quanto attiene alla migliore strategia da applicare, per mantenere la supremazia geopolitica degli USA sul mondo. Il mutamento strategico segnala che gli Stati Uniti hanno dovuto prendere atto di un loro predominio non incontrastato, così come avevano pensato, dopo il crollo dell’Urss, per un periodo di tempo tutto sommato breve (1990-2003). E’ in tal senso che si può parlare, oggi, di declino relativo del paese ancora predominante e – parallelamente alla maggiore assertività di Russia e Cina – dell’avvio di una fase multipolare del sistema-mondo. In ogni caso, gli Stati Uniti dovranno rigiocarsi la centralità globale, in un periodo che dovrebbe essere piuttosto lungo, di alcuni decenni almeno, e il cui esito non è scontato in partenza; non è affatto escluso che riacquistino la preminenza, ma nemmeno è indiscutibile un simile risultato. Si tratterà di una fase storica turbolenta – con svariati mutamenti di prospettive e di previsioni – di cui le crisi economiche sono soltanto il segnale premonitore. In questo processo la loro dialettica interna diviene strumentale ad adottare una posizione isolazionista (sovranista) o globalista (deep state) a seconda della congiuntura più favorevole a loro. Tale dialettica è dimostrata dal cambiamento di valori e tipologia sociale di consensi che hanno avuto i due partiti principali, repubblicano e democratico . Data questa premessa, sembra che le due fazioni USA, attualmente in lotta fra loro, si differenzino, rispetto alla priorità da dare al contenimento di Russia o Cina. Il gruppo isolazionista (sovranista – repubblicano) sembra avere l’intenzione di bloccare l’espansione cinese – non solo di tipo commerciale/logistico ma, soprattutto, di tipo militare/strategico – soprattutto nella “zona-mare”, per orientarla verso la parte continentale, quindi verso la zona centro-asiatica, dove potrebbe scontrarsi con la Russia. Mentre il gruppo globalista (democratico- Deep State) considera la Russia quale avversario principale, il primo da “contenere” e mettere in isolamento e in difficoltà. E’ indubbio, che le dirigenze attuali cinese e russa – ancorché insidiate al loro interno da fazioni che si oppongono a loro e vorrebbero giocare alla “globalizzazione” magari in nome dei “diritti civili” – comprendono molto bene il significato delle mosse statunitensi e hanno consapevolezza dell’interesse, di non breve momento, a collaborare per sventarle e non cadere nella “trappola”. 7 La fazione USA che dà priorità al contenimento della Russia, procurerebbe come ovvia conseguenza una maggior spinta sull’acceleratore, soprattutto, nell’area UE. E l’Italia – data la sua posizione geografica, e ancor più con la sua debolezza “strutturale” di “nazione incompiuta”, attraversata da spinte centrifughe, da ostilità interregionali, ecc. – assumerebbe, in quel contesto, un’importanza significativa e, quindi, maggiori pressioni e interferenze. Russia Il collasso dell’URSS, avvenuto alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, aveva portato, come conseguenza, la rapida spoliazione della nazione ex-sovietica, da parte di un’élite antinazionale interna (gli oligarchi) “aiutata” e guidata da “esperti” e consiglieri occidentali. Questo processo si interrompe con la crescita e la presa di potere, di un élite nazionale, che esprime la sua guida in Putin. La Russia putiniana, uscita vincente dallo scontro con la parte più “filo-occidentale” degli oligarchi – che pur mantenendo un certo potere economico non hanno accesso ad alcun potere politico – sembra godere di una relativa stabilità ma deve fare i conti con le continue insidie nel suo “estero vicino” (Georgia, Ucraina, Bielorussia, ecc.), una seria crisi economica – e la contestuale difficoltà a svincolare la sua economia dall’eccessiva dipendenza dalla vendita di fonti energetiche fossili – e con le storiche difficoltà nel tenere unito un Paese geograficamente immenso (immigrazione cinese nell’est siberiano). La Russia sta dimostrando di aver acquisito la consapevolezza che il suo sistema produttivo deve migliorare la complementarietà con il complesso della ricerca civile e militare (due mondi che in epoca sovietica viaggiavano totalmente disconnessi da quello economico-produttivo). Per il momento rimane un nano economico ma è ridiventata una nazione potente militarmente, in grado, in questo modo, di svolgere un ruolo globale e non solo regionale. Cina La Cina è un paese fortemente dipendente dall’esterno e tale resterà per molti anni a venire. Con una popolazione di oltre un miliardo e mezzo di persone, la tigre asiatica dovrà guardare fuori dai suoi confini per accaparrarsi risorse sufficienti. Per quanto, infatti le politiche interne siano ambiziose e volte al ricorso di fonti energetiche interne, sfruttabili a livello nazionale, il sistema industriale cinese necessiterà, ancora per molti anni, di fonti energetiche di origine fossile importate da altre nazioni. Anche l’impegno su grande scala nell’utilizzo delle fonti energetiche 8 cosiddette “rinnovabili” e l’elettrificazione della mobilità necessitano per la Cina l’acquisizione e il controllo di metalli speciali di cui è ricco il continente africano. Il che spiega perché la Cina continuerà ad essere presente in Africa e in altre parti del mondo e a promuovere investimenti massicci in progetti cosiddetti “green” e non solo. La stessa cosa vale per le risorse alimentari: la dieta dei cinesi – progressivamente inurbatisi negli ultimi decenni – è drasticamente cambiata dagli anni del Grande Balzo In Avanti. La Cina non ha abbastanza risorse all’interno dei suoi immensi confini per sfamare la propria popolazione. A questo si accompagna la fragilità della sua sicurezza ai confini marittimi collocati sulle linee di una manciata di isole ed arcipelaghi del Mar Cinese Orientale – il cosiddetto “Filo di Perle” a poche centinaia di chilometri dalle sue coste – che non controlla né economicamente né tanto meno militarmente. Questa condizione di dipendenza dall’estero e di debolezza strategica ai suoi confini marittimi – per molti uno svantaggio nella corsa alla leadership mondiale – favorisce gli americani, i quali auspicano e lavorano affinché si prolunghi il più a lungo possibile. Sulla questione del conflitto USA-Cina e della nuova prospettiva in cui va inquadrato, è molto importante un saggio scritto da Giulietto Chiesa nell’ottobre scorso: Quale destino per l’Impero. UE In un recente saggio storico, Joshua Paul della Georgetown University, ha scandagliato gli archivi istituzionali del suo paese, portando alla luce come l’intelligence americana abbia avuto una parte sostanziale nel creare e finanziare il mito europeistico per ragioni strategiche. I cosiddetti padri fondatori dell’Ue erano a libro paga dei servizi segreti americani. L’occupazione americana dei paesi dell’UE non cessa ai nostri giorni, anche se trova in questa fase “due” Stati Uniti in contrasto fra loro. Ognuna delle due fazioni ha i suoi punti di riferimento in Europa. Quella dei sovranisti, venuta alla luce di recente soprattutto con Trump, si sta creando i suoi sodali tra coloro che si dichiarano sovranisti. Quella dei globalisti (Clinton, Bush, Obama) trova da sempre i suoi sodali nelle socialdemocrazie e nei tradizionali partiti ex-democristiani. Entrambe lavorano per creare una frattura tra le “vecchie” nazioni europee e le “nuove” – quelle che appartenevano al Patto di Varsavia nell’epoca del bipolarismo USA-URSS – in chiave anti-russa. La situazione della UE ha visto la realizzazione di una capacità economica continentale tramite l’aggregazione dei Paesi aderenti, ma non con una dialettica di equilibrio dei partecipanti, bensì con una prevaricazione degli interessi del blocco Franco Tedesco a danno dei paesi mediterranei, 9 ed un continuo boicottaggio USA operato prima dalla Gran Bretagna ora dalla Polonia. In questa dinamica il ruolo dei governi italiani è stato sempre subalterno ad entrambi, verso gli USA, primariamente, per la dipendenza militare industriale, verso la Francia e Germania per i ai vantaggi politici e finanziari portati ai gruppi storici stranieri egemoni nell’economia italiana. Questa schizofrenia non ha portato mai l’Italia ad inserirsi nelle iniziative di partecipazione strategica negli assetti industriali, civili e militari europei. Un discorso a parte merita di essere fatto sui rapporti che si sono consolidati, in questi ultimi trent’anni, fra Italia e Francia, riassumibili in estrema sintesi in pochissime parole: il PD è diventato il partito dei francesi in Italia. Qualsiasi evoluzione dei rapporti geopolitici con i nostri vicini francesi – articolabili in estrema sintesi nel triangolare con la Germania all’interno della Commissione Europea e nel definire le reciproche sfere d’influenza nel Nord Africa e nel Mediterraneo – deve necessariamente prima passare dalla liquidazione dei riferimenti italiani asserviti alla Francia, interni ai centri di potere politici, militari, economici e finanziari. INTERESSE NAZIONALE ITALIANO
Partiamo dalla doverosa premessa che l’Italia, uscita dal Trattato di Pace del 1947, non è un paese libero. Secondo un giudizio storico autorevole – ma ancora non condiviso da chi denomina gli “alleati” come nostri “liberatori” – le conseguenti osservazioni di cui tenere necessariamente conto sul piano geopolitico, sono: • Il Trattato di Pace mostra prima di tutto l’impotenza dell’Italia nel secondo dopoguerra; • Gli USA pensavano ad un Europa bastione contro l’URSS e in questa chiave usavano la democrazia ed il benessere; • Per la GB l’Italia doveva essere punita e le interessava la supremazia nel Mediterraneo, quindi indebolire la flotta e la presenza italiana in nord-africa (vedi anche le ricerche di Fasanella); • L’URSS mirava alle riparazioni per la sua ricostruzione, dava per scontato l’allineamento occidentale dell’Italia e mantenne un atteggiamento morbido, tranne sulla questione del confine orientale; • La Francia puntava ad una Germania neutralizzata e spezzettata. Intervenne limitatamente per promuovere i suoi interessi in Tunisia e sul confine occidentale. 10 Ad oggi le basi militari USA in Italia sono ufficialmente 8: • Friuli Venezia-Giulia Base aerea di Aviano USAF • Veneto Vicenza Caserma Ederle US Army • Veneto Vicenza Camp Del Din Base militare US Army • Toscana Pisa-Livorno Camp Darby Base militare US Army • Lazio Gaeta Naval Support Activity Base navale US Navy • Campania Napoli Naval Support Activity Naples US Navy (VI flotta) • Sicilia Niscemi Base radio US Navy • Sicilia Sigonella Base aerea US Navy A questi dati di fatto – che devono essere riconosciuti realisticamente come fondativi del carattere della nazione – si deve aggiungere quanto emerso dopo la firma dei Trattati di Maastricht e di Lisbona. Dichiara Guido Carli nelle sue memorie: “… L’economia di mercato, mutuata dall’esterno, è sempre stata una conquista precaria, fragile, esposta a continui rigurgiti di mentalità autarchica. Il vincolo esterno ha garantito il mantenimento dell’Italia nella comunità dei Paesi liberi. La nostra scelta del «vincolo esterno» è una costante che dura fino ad anni recentissimi e caratterizza anche la presenza della delegazione italiana a Maastricht. Essa nasce sul ceppo di un pessimismo basato sulla convinzione che gli istinti animali della società italiana, lasciati al loro naturale sviluppo, avrebbero portato altrove questo Paese…” Tale visione di immaturità del popolo italiano, che sfiora il razzismo antropologico, si perfeziona duplicando il vincolo esterno aggiungendo anche quello europeo o meglio franco tedesco, come venne spiegato da Paolo Peluffo – che raccolse le memorie di Carli – il quale, a proposito di Maastricht, ha scritto: “ …. L’Italia si trovò nel giro di pochi mesi nella condizione di essere privata di alcuni dei suoi obiettivi strategici, per esempio nei Balcani, nel Mediterraneo, in Medio Oriente. La scelta del trattato di Maastricht …. apparve l’unica soluzione possibile, ma rappresentò anche lo scivolamento da un vincolo esterno a guida americana (quello che inizia nel 1945) ad un vicolo esterno a guida europea e dunque nel tempo franco-tedesca.” L’analisi schematica del contesto internazionale, svolta più sopra, ci consegna un sistema in accelerazione dinamica, verso un assetto sempre più multipolare. In questo contesto alcune nazioni trovano spazi che, nel contesto bipolare/unipolare del secolo passato, non avevano. Per le nazioni, che non competono a livello globale, risulta pertanto giustificata una posizione 11 internazionale flessibile, dove non si ponga come vincolo un singolo esito, cosa d’altronde impossibile determinare, in questa fase storica. A fronte di queste considerazioni, della collocazione strategica al centro del Mediterraneo, della residua ricchezza del proprio patrimonio industriale, produttivo e culturale e della tradizione di rapporti con le aree circostanti, in particolare nell’area adriatica e mediterranea, siamo convinti che l’Italia abbia ancora un ruolo autonomo significativo, orientato alla risoluzione positiva dei conflitti e alla creazione di un contesto che possa allargare rapporti oggi preclusi e garantire lo sviluppo economico e sociale del Paese. Si tratta, dunque, di sostituire il vincolo esterno con un vincolo interno dell’interesse nazionale, che si può definire con alcune considerazioni basilari e necessarie per delineare una nuova strategia per l’Italia, della quale la futura classe dirigente dovrà dotarsi. La prima cosa è fare pace con noi stessi: da qui la necessità di risolvere le “tre guerre civili” che abbiamo descritto più sopra. Serve ridare senso e forza allo Stato unitario, per evitare che con le istituzioni nazionali evapori la nazione. Il che comporta dare priorità alla costruzione di nuovi gruppi dirigenti politici fondati a partire dalla crisi e dalla destrutturazione degli attuali schieramenti politici, che siano in grado di dare prospettive e plasmare l’identità della nazione riorientando gli interessi e stabilendo nuove regole di governo, nonché capaci di individuare, in particolare tra i ceti professionali e direttivi, i referenti in grado di coagulare le forze necessarie a garantire il successo della svolta. Occorre ricostruire la reale identità storica italiana, per ottenere uno spirito civile e sociale che produca un orgoglio patriottico da trasmettere alle future generazioni, recuperando tutti i nostri antichi valori frutto del patrimonio di cultura e di Civiltà che ha portato un contributo assoluto per la centralità dell’uomo e delle arti. L’Italia ha anche una dimensione manifatturiera, materiale ed oggigiorno anche immateriale, da leader mondiale in molteplici settori, che dobbiamo alimentare e promuovere, prima di tutto, contrastando la sua svendita a proprietà estere che ne determinano lo sfruttamento irrispettoso dei lavoratori e dell’ambiente sino alla chiusura dell’impiantistica e conseguente disoccupazione, e, poi contrapponendoci ad un risorgente sentimento interno anti-industriale, falso-ambientalista. L’Italia non possiede nel suo territorio sufficienti fonti energetiche e altre materie prime essenziali per le produzioni strategiche; per acquisirle da altre nazioni, pagando quindi in valuta estera, deve considerare oltre ai vincoli geopolitici anche l’equilibrio della bilancia commerciale. Lo scambio 12 energia/materie prime contro manufatti, servizi ed agroalimentare è la formula che ha garantito meglio la relativa autonomia della Prima Repubblica, insieme al conto economico nazionale. L’esempio strategico di Enrico Mattei, a est (Russia) ed a sud (Nord Africa), rimane una scelta valida anche per il futuro, se non altro perché ancorata ad evidenti ragioni geografiche. Lo scambio commerciale intra-UE ed in particolare con Germania e Francia deve essere basato sulla reciprocità, per salvaguardare il patrimonio dei settori economici e lo sviluppo tecnologico nazionale. Il partenariato nei settori a dimensione continentale deve essere realizzato sempre con soggetti equivalenti a dimensione subcontinentale. Un’attenzione particolare va prestata al settore digitale o dei dati (traffico, gestione, elaborazione, archivio) pubblici, privati e classificati in cui è imprescindibile garantire la totale autonomia infrastrutturale tramite assetti esclusivamente nazionali. Il finanziamento delle attività di ricerca scientifica di base ed applicata deve assumere in questo contesto un significato insieme strategico e complementare al sistema industriale-manifatturiero, orientandosi verso nuove fonti energetiche non-intermittenti, in sostituzione progressiva di quelle fossili, e verso le tecnologie di recupero dei materiali da reimmettere nei cicli produttivi. Superamento delle condizioni materiali del trattato di pace/resa della seconda guerra mondiale, non più con le conseguenze della NATO, che potrà pure essere “cerebralmente morta” (Macron), ma questo non significa che gli USA abbandonino le loro basi in Italia. Per accompagnare gli USA a questo esito, per noi strategico, è necessario rinegoziare le intese bilaterali escludendo qualsiasi presenza di forze militari straniere sul nostro territorio, con l’obiettivo di conquistare agibilità politica autonoma nei confronti dei Paesi europei e mediterranei e commerciale con il resto del mondo. 13
BIBLIOGRAFIA
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Inascoltabile, di Vincenzo Cucinotta
Il colpo di stato in Myanmar: perché adesso?, di: Phillip Orchard
Proseguiamo nell’opera di documentazione e di analisi delle dinamiche e delle ragioni del colpo di stato in Myanmar. E’ la volta di un articolo tratto dal sito Geopolitical Futures, diretto dall’analista americano George Friedman_Giuseppe Germinario
Il colpo di stato in Myanmar: perché adesso?Ci sono enormi rischi nell’abbandonare il precedente accordo politico del paese.Di: Phillip OrchardPer il Myanmar, un paese in cui i vertici militari hanno dichiarato i colpi per la maggior parte della sua storia moderna, il golpe di questa settimana non avrebbe dovuto essere una sorpresa. Giunte militari e governi fantoccio hanno governato il Myanmarper tutti tranne circa 20 anni dall’indipendenza nel 1948. E quando finalmente ha acconsentito a una transizione graduale allademocrazia a partire dal 2008, le forze armate si sono assicurate che non avrebbero mai dovuto rispondere a nessuno tranne che a se stesse . Anche dopo che il partito sostenuto dai militari ha accettato con relativa grazia la sua sconfitta nelle storiche elezioni del 2015, è stato difficile scuotere la sensazione che il tempo stringesse per il nuovo governo di Aung San Suu Kyi dall’inizio. Eppure, quando lunedì il capo militare generale Min Aung Hlaing ha annunciato l’ennesima acquisizione, ribaltando la seconda schiacciante vittoria consecutiva della Lega nazionale per la democrazia guidata da Suu Kyi nelle elezioni di novembre e imponendo almeno un anno di stato di emergenza, si è trattato davvero di una sorta di grattacapi. Ciò è in parte dovuto al fatto che i militari non hanno mai effettivamente ceduto il pieno potere al governo civile, ed è difficile vedere come i suoi interessi fondamentali potrebbero essere minacciati da un secondo mandato dell’NLD. Più confuso, la motivazione originale dei militari per allentare la presa sul potere è stata guidata in qualche modo dai cambiamenti ancora in corso nell’ambiente esterno del Myanmar che stavano rendendo insostenibile l’isolamento quasi totale del paese dall’Occidente. Sembrava, in breve, che il paese avesse finalmente trovato una struttura di potere interna e una logica strategica necessaria per far prosperare una parvenza di democrazia. Allora cosa è cambiato? Creato per l’instabilità Il Myanmar ospita quasi tutti gli elementi che generano instabilità perpetua. Fu governata dagli inglesi, e poi brevemente dai giapponesi, fino al 1948. La sua topografia montuosa e ricoperta di giungla genera profonde fratture etniche, religiose e socio-economiche in tutto il paese. Inoltre, rende difficile per qualsiasi governo l’estensione del governo centralizzato all’intero paese. In effetti, gran parte delle regioni montuose estese che circondano il nucleo centrale sono, se non del tutto prive di governo, governate dai più armati dei vari gruppi etnici del paese. Alcuni di questi gruppi sono stati in guerra con il governo centrale per quasi un secolo. Condivide i confini con vicini molto più potenti – sospettosi l’uno dell’altro e quindi inclini a competere per l’influenza nelle loro zone cuscinetto – mettendo il Myanmar nel fuoco incrociato. Ha un’abbondante ricchezza di risorse naturali, ma prive delle strutture istituzionali necessarie per evitare quella che è nota come “maledizione delle risorse”, queste risorse alimentano principalmente conflitti, corruzione e ingerenze straniere. Di conseguenza, il paese è stato essenzialmente in guerra con se stesso sin dall’indipendenza, e quelli con più potere hanno avuto la tendenza a derivarlo principalmente dalla canna di una pistola. Il controllo del governo nazionale, quindi, è stato il più delle volte i governi militari o nominalmente civili sostenuti dai militari. Ciò iniziò con il rovesciamento del 1962 dell’ultimo governo eletto sulla base del fatto che le autorità dovevano condurre le sue varie campagne di controinsurrezione con mano libera. Poco dopo, il regime nazionalizzò la maggior parte delle industrie del paese, esiliò i mercanti indiani e pose divieti sulla maggior parte delle forme di aiuto e commercio estero. E per circa mezzo secolo da allora, i militari hanno visto l’isolamento internazionale come inevitabile o in qualche modo necessario per proteggere il paese da nefaste influenze esterne e darsi spazio per fare tutto ciò che riteneva necessario per governare come riteneva opportuno. I timori della giunta di minacce straniere erano abbastanza ragionevoli. Storicamente, il Myanmar è stato liberamente utilizzato da potenze straniere per i propri scopi, dalla colonizzazione britannica all’espansione giapponese nella seconda guerra mondiale al Kuomintang che organizza un’insurrezione contro Mao. Molte delle sue milizie etniche hanno ricevuto il sostegno di potenze straniere, inclusi Stati Uniti e Cina, in tempi diversi. Durante la Guerra Fredda, gli Stati Uniti avevano una grande impronta militare in Thailandia , storico avversario del Myanmar. Più recentemente, gli interventi militari occidentali in Serbia, Iraq e altrove hanno convalidato la paura della giunta di ingerenze internazionali, soprattutto alla luce della diffusa retorica del cambio di regime rivolta alla giunta. L’istituzione della Corte penale internazionale e di altri tribunali internazionali, paradossalmente, potrebbe aver reso la giunta meno propensa a rinunciare al potere per paura che sarebbe finita sotto processo all’Aia. In breve, il regime conosceva i rischi storici di governare un redditizio angolo della terra con il pugno di ferro. Ma verso la metà degli anni 2000, i problemi di isolamento erano diventati evidenti. L’economia era crollata da tempo, rendendo il Myanmar uno dei paesi più poveri del mondo nella sua regione in più rapida crescita. Sebbene il sostegno cinese avesse arricchito e trincerato il regime, aveva creato uno squilibrio strategico e stava effettivamente trasformando il Myanmar in uno stato tributario. La Cina è un avversario storico per il Myanmar e il sostegno regolare di Pechino a potenti eserciti ribelli etnici che dominano regioni effettivamente autonome e produttrici di papaveri lungo il confine cinese ha solo acuito l’ostilità tra i vertici del Myanmar. La Cina, inoltre, stava diventando sempre più potente. Di conseguenza, la paura della Cina ha soppiantato la paura dell’Occidente. L’urgenza di sfruttare il potenziale latente del Myanmar come hub energetico e di risorse naturali che collega Cina, India e Sud-est asiatico – e rendendosi così un alleato indispensabile per tutti i suoi vicini – è cresciuta. Per renderlo possibile, era necessario attirare investimenti stranieri e questo significava indurre l’Unione europea e gli Stati Uniti a revocare le sanzioni. E così alla fine degli anni 2000, i generali hanno iniziato un graduale processo di apertura. Il Myanmar ha iniziato la transizione a un governo nominalmente civile attraverso le elezioni del 2010. Queste sono state boicottate dall’NLD e il nuovo governo guidato dal presidente Thein Sein era pieno di generali in pensione da poco. Ma è stato comunque un momento cruciale, dal momento che Thein Sein ha guidato una campagna di impegno di successo con l’Occidente, in particolare gli Stati Uniti. Il governo ha liberato Aung San Suu Kyi, che aveva guidato l’opposizione in gran parte dagli arresti domiciliari nei due decenni precedenti. Nel 2012 era membro del parlamento. Nel 2015, stava guidando la NLD a una clamorosa vittoria alle elezioni nazionali. La saggezza prevalente I militari non hanno annullato i risultati elettorali, come avevano fatto in passato, in parte perché avrebbero comunque esercitato un potere considerevole nel sistema che ha creato indipendentemente dai risultati. La costituzione del 2008, ad esempio, ha riservato il 25 per cento dei seggi in parlamento ai militari (abbastanza per bloccare qualsiasi tentativo di sostituire la costituzione). Conservava anche per sé quasi la piena autorità sulle questioni di sicurezza, in particolare le sue infinite battaglie con gli eserciti ribelli etnici. I suoi lucrosi interessi commerciali erano garantiti in vari modi. Ha anche squalificato Suu Kyi dal diventare lei stessa presidente (anche se, in quanto “consigliera di stato”, è ancora stata de facto il capo del governo). Ci sono poche prove che qualcosa in questo accordo fosse intollerabile per i militari. E ci sono enormi rischi nell’abbandonarlo. Così la stranezza della decisione di staccare la spina, mesi dopo che il partito di Suu Kyi è arrivato a una seconda vittoria a novembre. A dire il vero, c’erano molti problemi con questo sistema. In effetti, il Myanmar aveva due governi separati che operavano in parallelo, spesso con obiettivi e interessi contrastanti. Ciò ha complicato i compiti di governo di routine, per non parlare di problemi più intrattabili come negoziare la pace e / o fare la guerra contro vari gruppi ribelli. Ha anche complicato gli obiettivi diplomatici del Myanmar, spesso consentendo a potenze straniere e interessi commerciali di cercare di mettere le due parti a vicenda. (Ad esempio, Pechino aveva investito pesantemente nel corteggiare Suu Kyi, che aveva bisogno di uno stretto rapporto con i cinesi per dare al suo governo un certo potere sulle forze armate.) In un paese già enormemente difficile da governare come il Myanmar, renderebbe almeno un certo senso muoversi verso un sistema più centralizzato e unificato con una chiara gerarchia di autorità. Dopotutto, questo è l’impulso dei governi autoritari in tutto il sud-est asiatico . La saggezza prevalente sembra essere che le ambizioni personali del generale Min Aung Hlaing sono il fattore centrale dietro il trasferimento. Il generale dovrebbe raggiungere l’età pensionabile a luglio. Con il Partito per la solidarietà e lo sviluppo sostenuto dai militari che balbettava alle elezioni, la sua strada per rimanere al potere diventando presidente era chiusa. Così ha trovato un modo più diretto per restare, o almeno così dice la teoria. Il generale ei suoi sostenitori possono infatti essere motivati principalmente da ambizioni personali; le figure potenti di solito lo sono. Ma dati i rischi connessi con la mossa, sembra improbabile che sia successo senza un più ampio sostegno istituzionale all’interno delle forze armate – e la sensazione diffusa che i fattori che hanno costretto i militari a iniziare a dilettarsi con la democrazia un decennio fa potrebbero essere gestiti anche se invertisse la rotta . In altre parole, i militari potrebbero credere che la marea di investimenti stranieri che ha reso il Myanmar una delle economie in più rapida crescita del mondo negli ultimi dieci anni non finirà bruscamente semplicemente a causa di un colpo di stato senza sangue. Le aziende straniere in genere apprezzano la stabilità e la sicurezza più della democrazia e spostare le fabbriche è inoltre costoso. Le aziende straniere apprezzano anche un ambiente in cui non corrono il rischio di entrare in conflitto con le sanzioni occidentali, ovviamente, ma qui i militari potrebbero credere che l’Occidente non avrà davvero l’interesse a isolare il Myanmar completamente come una volta. Gli Stati Uniti non vedono l’ora che un paese così strategicamente importante venga trascinato di nuovo nell’orbita della Cina. Washington regolarmente trascura i colpi di stato nei paesi che servono i suoi interessi. E in ogni caso, è improbabile che la causa della democrazia in Myanmar abbia la stessa risonanza politica in Occidente come negli anni ’90 e 2000, ora che l’opinione di Suu Kyi, vincitrice del Premio Nobel per la pace, si è inasprita sulla sua presunta indifferenza. alla difficile situazione dell’etnia Rohingya. Anche il Myanmar ha tutte le ragioni per credere che i vicini importanti non causeranno molte storie. Come ha affermato lunedì il primo ministro thailandese Prayuth Chan-ocha, che ha guidato un colpo di stato nel 2014: “È un affare interno”. Questo è il sentimento nella maggior parte delle capitali regionali. Anche così, un colpo di stato è una mossa rischiosa. Il Myanmar ha ancora bisogno di una tonnellata di investimenti per modernizzare la sua economia e soddisfare le crescenti esigenze della sua giovane popolazione, una generazione della quale ha raggiunto la maggiore età in mezzo a un’abbondanza materiale senza precedenti. Le aziende probabilmente non fuggiranno – anche quelle che hanno già annunciato la sospensione delle operazioni locali – ma presumibilmente l’incertezza renderà molto più difficile attrarne di nuove e sostenere la traiettoria dell’ultimo decennio. La chiusura di Internet e del traffico aereo non genera molta fiducia negli investitori. I militari possono promettere stabilità, ma possono continuare senza spargimento di sangue se un’altra rivoluzione sociale esplode alla pari con la rivoluzione dello zafferano del 2008? Molti a Washington, nel frattempo, sono effettivamente giunti alla conclusione che le sanzioni globali sono tipicamente controproducenti e strategicamente rischiose. Ma l’amministrazione Biden ha detto che almeno alcune sanzioni mirate sono in arrivo. Una ripresa della cooperazione bilaterale militare e di sicurezza è ora probabilmente un punto fermo. La Cina, da parte sua, ha trovato il modo per approfondire la sua influenza economica in Myanmar sin dall’apertura, e esercita ancora una notevole influenza sui vari processi di pace con i gruppi etnici ribelli. Il bisogno del Myanmar di aiuto esterno per bilanciarsi con Pechino è più forte che mai. Ad ogni modo, i militari hanno apparentemente fatto la loro scelta: cercare di governare il Myanmar come molti dei suoi vicini sono gestiti – illiberale, ma comunque più o meno accettato dall’Occidente, e quindi in grado di coprire le sue scommesse e forgiare un equilibrio strategico con il maggiore. poteri alla sua periferia. L’unica differenza con il Myanmar è che era un completo paria circa un decennio fa, aumentando in qualche modo le aspettative legate alla sua improbabile comparsa. |
Anniversario, di Bernard Lugan
Qui sotto l’editoriale di Bernard Lugan apparso sul suo bollettino di febbraio. Una precisazione: truppe speciali inglesi e francesi erano già presenti in Cirenaica già da almeno il 2010. Un anno prima che iniziassero i moti._Giuseppe Germinario
Dieci anni fa, nel mese di febbraio 2011, scoppiò la guerra civile in Libia. Il 10 Marzo Nicolas Sarkozy è intervenuto in questo conflitto interno riconoscendo una delegazione di ribelli come rappresentanti della legalità libica !!!
La Francia è quindi entrata in un conflitto in cui i suoi interessi non erano in gioco
A Marzo, ha ottenuto l’autorizzazione delle Nazioni Unite per impiegare l’aviazione per
“Proteggere i civili”, in realtà le Milizie islamiche in Cirenaica e i Fratelli Musulmani di Misurata …
L’obiettivo ufficiale della guerra deciso da Nicolas Sarkozy era l’istituzione dello stato di diritto. Il suo risultato fu invece questo.
Le strutture statali libiche sono scomparse, lasciando il posto agli scontri delle milizie islamo-mafiose.
Quanto al vuoto libico, ha avuto conseguenze sull’intera area ciadiana e su parte del BSS.
Per non parlare della creazione di un file pompa di aspirazione migratoria.
Questo intervento ha distrutto il sistema di alleanze tribali su cui si basava la stabilità politica della Libia.
Il regime del colonnello Gheddafi lo aveva fatto; riuscì anzi a far convivere centro e periferia, articolando poteri e rendita di idrocarburi sulle realtà locali.
Politicamente, la Libia è infatti caratterizzata dalla debolezza del potere centrale rispetto al
hotline tribali. Genuino “Breakers of horizons”, le tribù hanno assunto il controllo più forte di questi corridoi di nomadizzazione che collegano il Mediterraneo alla regione del Ciad attraverso i quali viene effettuato il traffico odierno (droga e migranti) e le solidarietà jihadiste sono ancorate.
Mancata presa in considerazione di questi dati, quelli che, in nome dell’illusione democratica, hanno innescato il disastroso intervento del 2011,sono responsabili della corrente del caos. In effetti, le due chiavi che reggono la vita politica libica sono tribalismo e federalismo.
1) La Libia è naturalmente multicentrata e il rovesciamento del colonnello Gheddafi ha amplificato questa realtà dando vita a molteplici luoghi di potere indipendenti e rivalità di legittimità nate dal
guerra. Non è possibile stabilizzare la Libia se non tenendo conto della sua archeologia tribale
[1]
.
Il fallimento compiuto dall’ISIS tuttavia potrebbe servire da lezione. Era anzi la definizione tribale del paese l’ostacolo al califfato universale sostenuto dall’ISIS; le forti identità tribali lo hanno reso impossibile a causa anche dell’innesto di un movimento composto per lo più da stranieri. Come allora affermare di voler mettere fine al conflitto in corso quando le tribù, ossia le uniche vere forze politiche del paese sono escluse dalle trattative?
2) La Libia non ha un centro unificante. Le tre province che lo compongono non hanno punti di saldatura e sono separate da una massa sahariana vuota al 95%, mentre più del 80% della popolazione è concentrata su una stretta fascia costiera.
La soluzione quindi coinvolge due imperativi:
1) La ricostituzione delle alleanze tribali forgiate dal colonnello Gheddafi.
2) Un vero federalismo, perché la Cirenaica non accetterà mai la finzione di uno stato libico dominato dalla Tripolitania… e viceversa.
Alexander Soros in Myanmar una settimana prima della visita di Xi, a cura di Giuseppe Germinario
Di padre in figlio! Qui sotto la traduzione, sia pure non proprio perfetta, di un articolo del giornale digitale https://elevenmyanmar.com/ che illustra le attività del figlio di George Soros e alcuni antefatti del di suo degno genitore propedeutiche al successo elettorale della sempre più screditata premio Nobel Aung San Suu Kyi. A conforto delle accuse dei militari a carico dell’esponente arriva la notizia che a gestire i dati delle elezioni in Myanmar-Birmania sia stata la famigerata Dominion, uno degli strumenti più efficaci nella manipolazione e nella contraffazione dei dati elettorali. Protagonista, come più volte segnalato, dei brogli negli Stati Uniti, bandita ormai in numerosi stati. Il Myanmar è un’area cruciale nel confronto tra Cina e Stati Uniti. Confina con la Cina; rappresenta uno degli sbocchi diretti strategici della Cina nell’Oceano Indiano, necessari ai collegamenti con l’Africa e l’Europa e fondamentale per aggirare le strozzature nel mar Cinese Meridionale che frenano la proiezione geopolitica cinese ed alimentano la sua conflittualità immediata con il Giappone, le Filippine, il Vietnam e l’Indonesia e strategica con gli Stati Uniti. In questo contesto la Birmania è tra gli ultimi paesi, tra le Tigri del Sud-Est asiatiche a cercare di sfruttare le pieghe del confronto geopolitico e le dinamiche della globalizzazione per innescare un processo di sviluppo economico ed industriale e di relativo peso politico regionale. Il colpo di stato in Myanmar va inquadrato in questo contesto, in un confronto tra Cina e Stati Uniti che ormai si trascina da anni in quella regione. Non è detto che alla patina democratica che avvolge il premio Nobel per la pace corrispondano le esigenze di autonomia e di sviluppo di quel paese. Una smentita in tempo reale piuttosto alle aspettative di pace con le quali il conformismo universale progressista e conservatore ha salutato l’avvento di Biden alla Casa Bianca. Il rinnovato attivismo della famiglia Soros, attraverso le loro organizzazioni tentacolari, è l’ulteriore conferma che la restaurazione neocon-democratica porterà alla moltiplicazione dei focolai di conflitto e alla ulteriore trasformazione del confronto planetario in uno scontro di religione e fondamentalista, in una lotta tra il bene e il male. Lascerà sempre meno spazio a negoziati fondati sul principio del realismo politico e del riconoscimento degli stati; non farà che alimentare situazioni sempre più diffuse di guerra civile endemica, già sperimentate ampiamente nelle primavere arabe e in Ucraina, messe in atto nei territori metropolitani, addirittura al centro dell’impero ai danni del presidente uscente degli USA e ormai prossime ad essere innescate su larga scala. In questo l’attività e la missione di George Soros & Figli si è rivelata una pedina fondamentale. Novità che sanno di vecchio. Una condizione di precarietà diffusa che potrà sempre più facilmente sfuggire di mano ai protagonisti sino a creare le condizioni di uno scontro diretto tra giganti._Giuseppe Germinario
Alexander Soros in Myanmar una settimana prima della visita di Xi
La pagina dei social media di Alexander Soros mostra il suo incontro con il ministro dell’Istruzione, il dott. Myo Thein Gyi.
PUBBLICATO IL 12 GENNAIO 2020
PHYO WAI
Alexander Soros, figlio del miliardario americano George Soros, aveva fatto visita alla capitale del Myanmar Nay Pyi Taw, una settimana prima che il presidente cinese Xi Jinping facesse la sua visita ufficiale per volere del presidente Win Myint il 17 e 18 gennaio.
Alexander, come affermato sul suo account sui social media, è “tornato a lavorare” a Nay Pyi Taw prima che Xi compia il suo primo viaggio in Myanmar in 19 anni.
George Soros, un influente miliardario che è stato criticato per aver messo le mani nella politica di molti paesi, aveva criticato Xi come un nemico della “ Società aperta ” al Forum economico mondiale tenutosi a Davos, in Svizzera, nel gennaio 2019.
Una “coincidenza” simile a quella del ministro degli Esteri cinese Wang Yi in Myanmar prima del viaggio del consigliere di stato Aung San Suu Kyi per difendersi dalla causa della Corte Internazionale di Giustizia, Alexander Soros è qui in Myanmar prima che arrivi il capo cinese.
George Soros, che ora ha 89 anni, è stato criticato per aver manipolato la politica del Myanmar con il suo sostegno a oltre 100 organizzazioni attraverso la Open Society Foundation (OSF), come dichiarato sul sito web della fondazione. L’OSF ha speso miliardi di dollari USA in oltre 100 paesi in tutto il mondo nell’ambito di progetti etichettati in modo diverso, che si tratti di diritti umani, istruzione, diritti delle donne, diritti dei bambini, democrazia e pace. Ha anche speso 57,6 milioni di dollari in fondi in quattro paesi, incluso il Myanmar, nell’Asia-Pacifico nel 2019.
George Soros è stato anche accusato di oscillazioni pesanti nei mercati finanziari dei paesi; la fattispecie nel 1997, quando è stato il protagonista che ha avviato la crisi finanziaria in Thailandia che ha portato alla rovina di molte attività commerciali thailandesi – in alcuni casi portando a suicidio. Gli era stato anche fatto notare il suo potenziale per essere una delle parti che produrranno guai nello Stato di Rakhine al fine di rallentare la Belt and Road Initiative cinese.
“Temo che sarebbe diventato troppo personale quando parlo. Questo ha anche a che fare con gli affari. Penso che, nel periodo 1993-1994, abbia giocato con le finanze in Thailandia, cosa che ha causato molti problemi agli imprenditori. Molte delle imprese di costruzioni si sono piegate, alcuni imprenditori si sono suicidati. Quindi penso che uno dei suoi obiettivi sia che l’economia cinese stia crescendo troppo rapidamente. Il PIL sta andando alle stelle. Lui gioca con le finanze. È nel suo interesse fomentare i problemi in Rakhine in modo che One Belt One Road rallenti e i suoi investimenti siano protetti. Tutti noi – governo, cittadini, etnie – dobbiamo procedere con cautela quando si tratta di questo. La storia mostrerà chi ha ragione e chi ha torto “, ha detto Zaw Aye Maung, Ministro di Rakhine Ethnic Affairs, nella sua intervista di Akonthi Media il 7 novembre 2018.
L’ex ministro dell’Unione e attualmente parlamentare Soe Thane aveva anche detto che George Soros ha versato ingenti fondi per gli affari bengalesi. Come affermato sul sito web di OSF, nel 2015 aveva raccolto 10 milioni di dollari in fondi di emergenza per i bengalesi.
Dopo i 10 milioni di dollari per bengalesi / rohingya, la fondazione aveva anche finanziato la fondazione di Kofi Annan, un membro chiave della commissione formata per indagare sugli attacchi dell’ARSA nel 2017, come dichiarato sui siti web della Fondazione Kofi Annan e dell’OSF.
DVB, Yangon Journalism School, Thabyay Education Foundation, Mal Daw Clinic, Equality Myanmar, Myanmar Observer Group Media Group, Institute for Strategy and Policy: Myanmar, Myanmar Institute for Peace and Security, Pen Myanmar, Myanmar China Pipeline Watch Committee, Myanmar Center to Empower Regional Parliaments, Network for Human Rights Documentation Burma (ND-Burma), Bangladesh Legal Aid and Services Trust, Irrawaddy Publishing Group sono tra i tanti che sono stati dichiarati partner dall’OSF. L’OSF aveva anche affermato che il gruppo Fortify Right, un gruppo che combatte per i diritti bengalesi sotto la bandiera dei diritti umani, è stato anche finanziato da esso una volta.
Le osservazioni e le speculazioni abbondano sul fatto che su oltre 100 organizzazioni collegate a George Soros in Myanmar, molte di loro sono collegate all’Organizzazione per la cooperazione islamica (OIC), l’organizzazione dietro la causa avviata dal Gambia presso l’ICJ. A causa di fughe di dati a seguito di un attacco informatico nel 2016, è stato anche scoperto che l’OSF aveva pagato tra 50mila e 300mila dollari per organizzazione a circa 50 gruppi, media e gruppi di attivisti politici.
Il libro scritto da Soe Thane, ‘Myanmar’s Transformation and U Thein Sein: An insider’s account by U Soe Thane’, afferma anche che George Soros, secondo il suo modus operandi di dipingere l’immagine che vuole attraverso sontuosi finanziamenti in tutto il mondo, aveva anche cercato di fare lo stesso con il governo del Myanmar.
L’autore del libro, l’ex ministro dell’Unione Soe Thane, racconta di come George Soros e l’allora presidente Thein Sein iniziarono i contatti fino ai progetti sociali che furono portati avanti in collaborazione.
E che George Soros aveva cercato di estrarre le informazioni che desiderava dal governo, andando poi a investire una grande quantità di fondi negli affari dei Rohingya (come originariamente affermato nel libro).
Si dice che Thein Sein e George Soros si siano incontrati nel 2012, con quest’ultimo che ha sostenuto progetti educativi e sanitari. Nel 2013, George Soros ha incontrato il presidente, Aung San Suu Kyi e altri ministri. Il libro afferma anche che ha incontrato solo Aung San Suu Kyi e altri ministri al Myat Taw Win Hotel di Nay Pyi Taw, dove ha soggiornato. Sempre nel 2014 e nel 2015, ha incontrato di nuovo il presidente, poi incontrando lo stesso autore Soe Thane, spingendolo a richiedere al presidente di nominare Thaung Tun come ministro per fare il giro del mondo per attrarre investimenti nel paese. Quella richiesta è stata respinta dal presidente in seguito, secondo il libro.
Il libro prosegue anche affermando che il 13 gennaio 2017, George Soros è tornato a Nay Pyi Taw per incontrare Aung San Suu Kyi e il giorno successivo Thaung Tun è stato nominato Consigliere per la sicurezza nazionale.
Quando Thaung Tun doveva ricevere la carica di ministro dell’Unione, Soe Thane si era opposto. “Lavoro dalla precedente amministrazione. So molto bene come sono collegati Thaung Tun, il governo precedente e George Soros. Io sono il testimone. Ma il tempo era poco, e avevo solo me stesso come prova. L’altra cosa è che quando Thaung Tun ha inviato le sue informazioni dettagliate, tutto ciò che riguarda il lavoro con Soros è stato cancellato. L’altra cosa è che ho inviato un’e-mail in America. Se arriva la risposta, può essere utilizzata come prova ma così come stanno andando le cose non si farà in tempo. Si conosce meglio. Deve dimostrare di aver lavorato con George Soros prima se è onesto e presumo che sia disonesto perché aveva nascosto quell’informazione. George Soros è influente negli Stati Uniti e anche se è solo per la posizione di consigliere per la sicurezza nazionale, un giorno arriverà a danneggiare le relazioni Cina-Myanmar. Sono in buoni rapporti con Thaung Tun e andrà bene se non avessi detto niente. Ma devo dirlo per la nazione perché so di più di queste cose. Per ora, le prove sono difficili da trovare. Non è che non volessi che ottenesse quella posizione. Ho detto il mio messaggio ai parlamentari e al popolo “, ha detto Soe Thane in risposta ai media riguardo alla sua obiezione. Non è come se non volessi che atterrasse in quella posizione.
OSF è legalmente autorizzato ad aprire uffici in Myanmar nonostante la necessità di tagliare alcuni dei tentacoli dell’OSF in oltre 100 organizzazioni in Myanmar a causa delle diffuse accuse di George Soros che lui, attraverso l’OSF, sta manipolando nella politica delle nazioni. Mentre lo scopo esatto della visita di Alexander Soros in Myanmar deve ancora essere chiarito, la sua pagina sui social media aveva mostrato di aver incontrato il ministro dell’Unione per l’istruzione, Myo Thein Gyi.
https://elevenmyanmar.com/news/alexander-soros-in-myanmar-a-week-before-xis-visit
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quale politica estera degli Stati Uniti di Biden_di Orbis Géopolitique
Rispetto a Donald Trump, Joe Biden padroneggia con facilità il funzionamento della geopolitica. La sua carriera politica come Presidente della Commissione Affari Esteri del Senato gli ha infatti dato l’opportunità di interessarsene da vicino. Uomo di compromesso, multilateralista, desideroso di riallacciarsi alla strategia del suo ex mentore Barack Obama, si prepara quindi a rompere con l’eredità di Trump. Una svolta a 180 0 per gli Stati Uniti?
Dopo D. Trump, unilateralismo e patriottismo economico lasceranno il posto a una nuova diplomazia. Notizia ? Non esattamente, perché J. Biden è la coppia Obama-Clinton alla Casa Bianca. Sebbene gli interessi degli Stati Uniti rimarranno sempre rivolti all’Estremo Oriente e continueranno quindi a voltare le spalle all’Europa, che B. Obama aveva già avviato con il “perno a est”, molti cambiamenti diplomatici vedranno la luce del giorno . In realtà, è la tattica che cambierà e non proprio la strategia.
Ma cosa sarà concretamente?
In un tweet del 7 luglio 2020, J. Biden ha dichiarato: “Ripristinerò la nostra leadership sulla scena internazionale. “Se D. Trump non lo ha necessariamente annientato, ha senza dubbio limitato notevolmente il volto interventista degli Stati Uniti. Per quanto riguarda l’Europa, prima di tutto, J. Biden desidera tornare alla politica perseguita dal suo ex mentore. Sotto B. Obama, infatti, aveva promosso l’allargamento della NATO e un conseguente riavvicinamento all’Unione Europea. J. Biden desidera quindi riconquistare un ruolo di primo piano in un’Europa divisa e desiderosa di costruire una certa autonomia strategica. Quindi, se il nuovo presidente sarà più accomodante nei confronti dell’Occidente, ricordiamoci che non cederà alle spese del vecchio continente nei confronti della NATO. Un ritornello che suggerisce nuove crisi all’interno dell’Alleanza Atlantica.
D’altra parte, ed è qui che emerge indiscutibilmente il lignaggio di Clinton, Biden è fermamente contrario a qualsiasi forma di riavvicinamento con la Russia. Senza soffermarsi sul fatto che sia contro Vladimir Putin o contro la Russia che gli Stati Uniti si oppongono, conserviamo questa frase che Biden ha pronunciato lo scorso aprile a Foreign Policy : “Per contrastare l’aggressione russa, dobbiamo mantenere le capacità militari dell’alleanza ad alto livello mentre espandere la propria capacità di affrontare minacce non tradizionali, come corruzione armata, disinformazione e furto di computer. “ Una formula che dimostra, ancora una volta, che la Guerra Fredda non è finita.
In Medio Oriente, il presidente Biden romperà, in parte, con la geopolitica intrapresa dall’amministrazione Trump. Volendo staccarsi dalle alleanze turca e saudita, che considera troppo offensive nello Yemen in particolare, è soprattutto nei confronti dell’Iran che la diplomazia americana si evolverà notevolmente. L’accordo di Vienna del 14 luglio 2015, sull’allentamento delle sanzioni americane, tornerà sul tavolo dei negoziati. Una scelta che contraddice la sua politica fermamente filo-israeliana, illustrata dal fatto che non invertirà le azioni di Trump nei confronti dello Stato ebraico. Il riavvicinamento con la Repubblica islamica spezzerà, in questo senso, l’eredità del suo predecessore che aveva fatto di tutto per unire gli Stati del Golfo a Israele contro l’Iran. Ma il nuovo inquilino della Casa Bianca continuerà, come ha fatto Obama, ma anche il suo predecessore, il ritiro americano dal Medio Oriente. Questa regione sembra quindi non essere più il centro degli interessi statunitensi. Infine, tieni presente che Biden metterà fine alMuslim Ban , che consentirà nuove relazioni con gli stati musulmani presi di mira.
Così, la nuova geopolitica degli Stati Uniti sarà un vero ritorno a quella guidata da Obama. Sotto quest’ultimo, Biden aveva creato la Trans-Pacific Partnership, che Trump ha sepolto, e ha sempre favorito il compromesso contro la Cina. Ma quale sarà il suo atteggiamento nei confronti di Pechino, mentre infuria la guerra geopolitico-commerciale tra i due stati?
L’amministrazione Biden sarà quindi molto prevedibile, perché, a differenza del suo predecessore, sarà un fervente difensore del diritto internazionale e lo privilegerà sugli equilibri di potere. Volendo costruire, ad esempio, un Summit delle Democrazie e chiedendo il reinserimento degli Stati Uniti nell’Organizzazione Mondiale della Sanità o negli accordi sul clima di Parigi, Joe Biden farà rivivere la classica geopolitica degli Stati Uniti. Niente più realpolitik . Venato di neo-conservatorismo, nei suoi rapporti con la Russia e nella misura in cui affermava che “l’America è un faro per il mondo” , tornerà e riporterà il mondo allo status quo ante. Previsioni che dovranno poi fare i conti con la realtà e gli imprevisti delle relazioni internazionali.
https://www.revueconflits.com/joe-biden-politique-exterieure-orbis/
L’impossibile ritorno al passato, con Gianfranco Campa
Più che un ritorno al passato, le velleità restauratrici di una classe dirigente americana assediata e senza bussola. Più che ordine, confusione dove i colpi di mano disordinati dei vari centri di potere sembrano prevalere su ogni disegno. Man mano che Biden esibisce i propri campioni destinati ad occupare le caselle fondamentali del proprio staff, diventa evidente la fonte di ispirazione del suo mandato. Il problema sarà nella capacità di sintesi di quegli interessi e di quelle ambizioni_Giuseppe Germinario
https://rumble.com/vd9wpb-limpossibile-ritorno-al-passato-con-gianfranco-campa.html