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Thomas Hobbes e la sua filosofia politica_di Vladislav Sotirovic

Thomas Hobbes e la sua filosofia politica

Fondamenti storici, filosofici e sociali del pensiero politico di Thomas Hobbes

Con le sue opinioni nella storia della filosofia politica, il teorico politico inglese Thomas Hobbes (1588-1679) divenne un rappresentante classico della scuola dell’empirismo inglese. Costruì un sistema politico completo basato sulla tesi fondamentale che nel mondo reale esistono solo corpi materiali individuali. Con questa visione, Hobbes iniziò una guerra contro i pregiudizi del realismo medievale, per il quale i concetti erano la vera realtà, mentre le cose erano semplicemente un loro derivato. È importante notare che Hobbes credeva che esistessero tre tipi di corpi individuali: 1) corpi naturali (cioè corpi della natura stessa che non dipendono dall’uomo e dalle sue attività); 2) L’uomo (sia un corpo della natura che il creatore di un corpo artificiale, cioè innaturale); e 3) Lo Stato (un corpo artificiale come prodotto delle attività dell’uomo).

L’opera più importante di Hobbes nel campo delle scienze politiche è Leviathan (1651) [titolo completo e originale: Leviathan or the matter, form and authority of government, Londra], in cui espone le sue opinioni filosofiche sul terzo corpo, cioè lo Stato, ovviamente nel contesto dell’epoca in cui visse e di cui fu testimone. In breve, in quest’opera Hobbes elaborò la visione secondo cui lo stato naturale della vita del genere umano è una guerra di tutti contro tutti (bellum omnium contra omnes). Secondo lui, questa visione è seguita da una legge naturale che porta al superamento di tale stato e alla creazione dello Stato (cioè dell’organizzazione politica) attraverso un contratto sociale tra i cittadini e il governo, ma anche un contratto che riconosce infine il potere indivisibile e illimitato del sovrano (re) nella politica (organizzazione statale) per la protezione dei cittadini e dei loro diritti. In altre parole, i cittadini rinunciano volontariamente a una (gran parte) della loro libertà naturale, che trasferiscono allo Stato allo scopo di proteggersi dai nemici esterni e interni. Si tratterebbe di una forma politica di “fuga dalla libertà” volontaria e contrattuale, magistralmente decifrata dal filosofo tedesco Erich Fromm (1900-1980) nella sua opera omonima Escape from Freedom (1941), utilizzando l’esempio della società tedesca durante l’era del nazionalsocialismo.

Le basi sociali e storiche del pensiero politico di Hobbes erano le frequenti guerre civili in Inghilterra, in cui il re Carlo I Stuart (1625-1649) perse sia la corona che la testa (che fu tagliata con un’ascia), la nascita di due correnti politiche nel Parlamento inglese, che in seguito divennero partiti: i Tories (conservatori) e i Whigs (liberali), nonché la proclamazione del Commonwealth (cioè una repubblica, o “stato sociale”, 1649-1660) ma con il dittatore Oliver Cromwell (1599-1658), che dal 1653 portò il titolo di “Protettore” (“Protettore d’Inghilterra, Scozia e Irlanda”). A quel tempo, lo sviluppo capitalista inglese e persino quello coloniale-imperialista richiedevano la protezione di uno Stato estremamente forte e onnipotente sotto forma di monarchia, cioè di potere reale assolutistico.

Fondamentalmente, Thomas Hobbes non criticava l’attuale sistema socio-politico, ma cercava piuttosto di consolidarlo e rafforzarlo il più possibile affinché l’intero Stato con i suoi cittadini potesse funzionare nel miglior modo possibile ed essere il più efficiente possibile, a vantaggio di tutti i cittadini che prima stipulavano un contratto sulle relazioni bilaterali tra loro e poi con lo Stato. Anche da una prospettiva europea (guerre civili tra protestanti e cattolici), dato che in tutta l’Europa occidentale prevaleva un clima di paura e insicurezza personale, Hobbes desiderava la pace, la sicurezza e la protezione della proprietà privata, tanto che a tal fine divenne un convinto statalista, ovvero un sostenitore del potere statale più forte possibile sui singoli cittadini.

Nel tardo Rinascimento europeo e nel primo periodo moderno, il rafforzamento del potere monarchico attraverso lo sviluppo dell’assolutismo monarchico illuminato (dispotismo) era espressione della necessità di unità sociale e statale e di funzionalità armoniosa al fine di evitare l’anarchia politica medievale, il politeismo e l’impotenza. Quando si enfatizza l’assolutismo monarchico, generalmente non è a causa dell’illusione dei diritti divini del sovrano, ma a causa della convinzione pratica che una forte unità politica possa essere raggiunta solo nel quadro di un monarchismo assolutista illuminato. Pertanto, quando Hobbes sostiene l’assolutismo centralista del re, non lo fa perché crede nei diritti divini dei re o nel carattere divino del principio di legittimità, ma perché ritiene che la coesione della società e l’unità nazionale possano essere raggiunte principalmente in questo modo. Hobbes crede nell’egoismo naturale dell’individuo, e una conseguenza naturale di questa convinzione era l’idea che solo un’autorità centrale forte e illimitata (assolutista/dispotica) di un monarca fosse in grado di frenare e superare le forze centripete che portano alla disintegrazione della comunità sociale e alla dissoluzione dello Stato.

Leviatano (1651) – sistema politico (Stato) secondo lo Stato contrattuale

Va notato che il punto di partenza della filosofia politica di Thomas Hobbes è lo stesso di tutti gli altri rappresentanti della cosiddetta scuola del “diritto naturale e del contratto sociale”. Hobbes, come molti altri della stessa scuola, riduce l’individuo all’ordine della natura e e lo stato civile allo stato di un contratto tra cittadini e stato, ma che è formato da soggetti che, proprio in virtù del contratto con lo stato (monarca), dovrebbero diventare cittadini, liberandosi così dalla posizione e dal ruolo di sudditi medievali senza legge (cioè coloro che avevano solo obblighi nei confronti del governo ma nessun diritto in relazione allo stesso governo), almeno secondo la filosofia politica liberale.

Per Hobbes, la base della natura umana è l’egoismo e non l’altruismo, così come il bisogno di vita comunitaria, ma non come una sorta di impulso alla vita comunitaria (come negli animali selvatici che vivono in branchi), bensì un bisogno dettato da un interesse puramente egoistico. In altre parole, la società politica organizzata sotto forma di Stato nasce come risultato della paura di alcuni individui verso altri, e non come risultato di una qualche inclinazione naturale di alcuni individui verso altri. Pertanto, lo Stato è un’organizzazione socio-politica imposta come prodotto di una visione razionale della vita, cioè della sopravvivenza, della comunità umana al fine di preservare gli interessi individuali, compresa la nuda vita. In altre parole, Hobbes negava la felicità e il piacere come elementi dello stato o dell’ordine naturale. Al contrario, per lui lo stato naturale è pericoloso per l’esistenza umana perché è animalisticamente crudele e omicida. Uno stato in cui tutti combattono contro tutti. In un ordine naturale che opera secondo le leggi (animali) della natura (il diritto del più forte), la base delle relazioni interpersonali è la guerra basata sulla forza e sull’inganno.

La successiva caratteristica importante dell’ordine naturale è l’assenza di proprietà delle cose e dei beni nel senso dell’assenza di una chiara demarcazione di ciò che è di chi. In altre parole, tutto appartiene a tutti, e ciò che è di chi dipende, almeno per un certo periodo, dalla forza, dalla rapina e dalla coercizione sugli altri. Per Hobbes, tutti gli esseri umani sono uguali sia fisicamente che intellettualmente, e tutti hanno diritto a tutto, sforzandosi di preservare questo diritto naturale. Tuttavia, poiché allo stesso tempo si sforzano di ottenere il potere o almeno il dominio sugli altri, inevitabilmente si verifica una guerra di tutti contro tutti, così che la vita umana diventa insopportabile. I più forti si sforzano di diventare ancora più forti e influenti, mentre i più deboli si sforzano di trovare protezione dai più forti per sopravvivere. Da un lato, l’uomo si sforza di preservare la sua libertà naturale, ma dall’altro lato, di ottenere il potere sugli altri. Per Hobbes, questo è il dettame dell’istinto di autoconservazione (libertà + dominio). La razza umana ha lo stesso impulso per tutte le cose e, quindi, tutte le persone vogliono le stesse cose. Pertanto, tutte le persone sono una fonte costante di pericolo, insicurezza e paura per gli altri nella brutale lotta per la sopravvivenza. Pertanto, l’esistenza umana si riduce a una guerra di tutti contro tutti (l’uomo è un lupo per l’uomo).

Per Hobbes, la legge naturale fondamentale è quindi la legge dell’egoismo, che induce l’individuo umano a preservare se stesso con perdite minime e guadagni massimi a spese degli altri. La legge naturale (ius naturale) è quindi l’istinto di autoconservazione, cioè la libertà per tutti di usare la propria forza e abilità per preservare la propria esistenza. Tuttavia, il significato fondamentale dell’esistenza dell’individuo umano è la ricerca della sicurezza. Pertanto, per Hobbes, solo l’interesse, e non l’altruismo (l’inclinazione dell’uomo verso l’uomo), è il motivo naturale fondamentale nella ricerca di una via d’uscita dallo stato di natura perché sta diventando insopportabile. In altre parole, la libertà naturale sta diventando un peso sempre più gravoso sulle spalle dell’uomo che deve essere sopportato.

Hobbes si oppose agli insegnamenti di Aristotele e Grotius secondo cui l’uomo stesso ha originariamente un impulso ad associarsi, cioè un istinto sociale. Contrariamente a entrambi, Hobbes ritiene che l’uomo sia originariamente un essere completamente egoista e possieda un solo impulso, quello di autoconservazione. Questo impulso spinge l’uomo a realizzare i propri bisogni, a cogliere il più possibile da ciò che la natura stessa mette a sua disposizione e, in accordo con questo impulso, ad espandere la sfera del proprio potere individuale il più possibile e il più lontano possibile. Tuttavia, secondo la logica stessa delle cose, in questa sua intenzione l’uomo incontra la resistenza di altre persone guidate dallo stesso impulso naturale (innato), cioè dalle stesse aspirazioni, e così tra i membri della razza umana sorgono competizione, lotta e guerra, che minacciano l’esistenza fisica delle persone. Pertanto, se l’uomo vive in uno stato di natura, si trova di fronte alla realtà della guerra di tutti contro tutti, cioè una guerra causata naturalmente dal bisogno e dalla forza dell’individuo e una guerra in cui l’eventuale mancanza di forza fisica, cioè di superiorità, è sostituita dall’astuzia e dall’inganno secondo il principio che il fine giustifica i mezzi.

Lo stato di natura non permette alla ragione umana di fare nulla che possa in qualche modo mettere fisicamente in pericolo la propria vita, né di trascurare ciò che può meglio preservarla. Hobbes riconosce che la natura umana è tale da essere sempre in conflitto con varie passioni e pulsioni, tra cui predomina il desiderio di potere. Tuttavia, usando la ragione, l’uomo realizza nella pratica le leggi naturali, tra cui l’aspirazione fondamentale alla pace (personalità umana = conflitto tra passioni e ragione). Le persone, seguendo la ragione e le leggi naturali che spingono l’uomo a preservare e garantire la pace con tutti i mezzi disponibili, concludono tra loro un contratto o un accordo socialmente vantaggioso. Sulla base di tale contratto, le persone appartenenti alla stessa comunità che vivono nello stesso spazio abitativo si uniscono con l’obiettivo di formare una comunità più forte con forze congiunte sulla base di un’armonia generale, che alla fine si trasforma in una forma di statualità che garantirebbe loro pace e sicurezza. Pertanto, l’organizzazione politica ha due obiettivi fondamentali, ovvero funzioni: la difesa della comunità dai nemici esterni e la conservazione dell’ordine, della pace e della sicurezza all’interno della comunità stessa a livello interno. Così, uno Stato (dal greco polis) viene creato sulla base di un contratto, e la politica sarebbe definita come l’arte di governare uno Stato allo scopo di realizzare efficacemente le sue due funzioni fondamentali.

Tale contratto (di formazione dello Stato) impedisce le guerre all’interno della stessa comunità (socio-politica) se il contratto viene rispettato, il che è conforme alla legge naturale. Il contratto impone a ciascun individuo della comunità un gran numero di obblighi e doveri oltre ai diritti, il cui adempimento è necessario per la conservazione della pace, dell’ordine e della sicurezza. Pertanto, un individuo, membro di una comunità socio-politica, perde necessariamente una parte importante della sua libertà, che trasferisce allo Stato per il proprio benessere e la conservazione della propria esistenza. A questo proposito, va notato che la legge o l’effetto dello sviluppo della civiltà e del progresso del genere umano nel contesto storico è che con lo sviluppo della civiltà l’uomo perde sempre più le sue libertà naturali e viceversa.

Thomas Hobbes riteneva che le leggi naturali fossero, in realtà, leggi morali. Uno dei principi morali fondamentali per il funzionamento efficiente e giusto del sistema socio-politico, cioè i contratti, è che non si dovrebbe fare agli altri ciò che non si vorrebbe fosse fatto a sé stessi dagli altri. Le leggi morali sono eterne e quindi immutabili e quindi universali per tutti i membri di una comunità, quindi tutti gli individui si sforzano di armonizzare il loro comportamento verso gli altri in conformità con tali leggi morali. Tuttavia, nello stato di natura, queste leggi morali sono impotenti poiché non obbligano le persone a comportarsi in conformità con esse, ma solo fino a quando non vengono create opportunità reali affinché tutte le altre persone siano governate da esse. Infine, tali condizioni e opportunità sono create da un contratto che porta alla creazione e all’organizzazione funzionale dello Stato.

Transizione dallo stato di natura allo stato contrattuale di statualità

Secondo Hobbes, la legge appare abbandonando lo stato di natura e passando allo stato contrattuale di statualità. La statualità è l’istituzione che consente la creazione o la definizione della proprietà privata tra i membri della comunità secondo il principio del “mio”/“tuo”. Lo Stato, in quanto istituzione, è quindi obbligato a rispettare la proprietà altrui. A differenza dello stato contrattuale (civiltà), nello stato di natura (barbarie) non esisteva alcuna sicurezza reciproca né alcun garante di tale sicurezza. Creando lo Stato/la statualità come istituzione, l’uomo ha rinunciato ai diritti di cui godeva nello stato di natura. Nello stato di statualità, l’uomo aderisce ai contratti perché questo è l’unico modo per garantire la pace e, quindi, la sicurezza personale. Così, l’uomo passa ad adempiere agli obblighi morali perché contribuiscono alla conservazione della sicurezza personale.

Tuttavia, come sostiene Hobbes, il semplice contratto/accordo tra i membri di una comunità non è sufficiente per l’esistenza e il funzionamento di uno stato. Ciò richiede, oltre al contratto, una completa unità interna. In altre parole, per formare una volontà unificata del popolo, esso deve cessare di vivere come individui indipendenti e separati, cioè in qualche modo deve “affogare” nelle correnti generali della comunità statale e quindi rinunciare a una parte essenziale della propria indipendenza, individualismo e libertà naturale. Ora Hobbes passa al punto principale della sua filosofia politica, che ha un proprio specifico contesto storico, ovvero il tempo in cui Hobbes visse, sostenendo che gli individui non dovrebbero conservare né volontà né diritti per sé stessi perché tutto il potere dovrebbe passare allo Stato come istituzione generale e superiore. Hobbes essenzialmente esige che gli individui in una comunità statale siano sudditi dello Stato e non cittadini dello stesso. Pertanto, i sudditi devono obbedire ai comandamenti/alle leggi dello Stato perché solo così possono distinguere il bene dal male. Questo trasferimento di tutti i diritti e poteri individuali agli organi statali porta alla formazione della sovranità (statale) (suma potestas/sumum imperium).

In questo modo, secondo Hobbes, gli individui sono legati da un doppio contratto/accordo:

1) Un contratto in base al quale gli individui si associano tra loro; e

2) Un contratto in base al quale, come collettività sociale (individui associati), si legano a un’autorità statale alla quale cedono tutto il potere con un obbligo assoluto e incondizionato e una pratica di sottomissione ad essa (nel periodo storico specifico di Hobbes, ciò significava in particolare l’autorità reale assolutista).

La principale conseguenza diretta di questo doppio contratto è che dalla pluralità degli individui si forma un’unica entità sotto l’egida dell’autorità statale. Hobbes chiamò Leviatano questa autorità statale, ovvero l’autorità monarchica assolutista sui sudditi che ha il sostegno della chiesa. Si tratta di un mostro biblico o di un dio mortale che, nell’illustrazione di Hobbes, tiene in una mano il pastorale vescovile e nell’altra la spada, ovvero gli attributi del potere spirituale e temporale. Per Hobbes, lo Stato non è né una creazione divina né soprannaturale. L’uomo è l’opera razionale e più sublime della natura, e lo Stato-Leviatano è la creazione umana più potente. Lo Stato stesso è un corpo artificiale rispetto all’uomo, che è un corpo naturale. L’anima dello Stato è l’autorità suprema, le sue articolazioni sono gli organi giudiziari ed esecutivi, i nervi sono le ricompense e le punizioni, la memoria sono i consiglieri, la mente è la giustizia e le leggi, la salute è la pace civile, la malattia è la ribellione e la morte è la guerra civile.

L’uomo ha creato lo Stato basandosi sulla voce della ragione. Secondo Hobbes, lo Stato è un prodotto artificiale di una mossa razionale della razza umana e non un fatto naturale, come credevano molti filosofi prima di lui, come ad esempio Aristotele. Secondo Hobbes, lo Stato esercita la sovranità assoluta in modo tale che gli individui, cioè i sudditi, sono alienati nello Stato stesso, cioè rinunciano al loro diritto e alla loro condizione naturali. In altre parole, per il fatto stesso di aver concluso un accordo per sottomettersi al potere statale assoluto che hanno scelto, gli individui rinunciano ai loro diritti, che alienano trasferendoli al sovrano. Il rapporto dell’individuo con lo Stato assume la forma di un’alienazione politica dell’uomo nel sovrano, invece che dell’alienazione medievale in Dio.

Il governo e le sue forme

Hobbes riteneva che il suo sistema teorico di governo potesse essere applicato nella pratica a tutte le forme di potere statale. Nello specifico, per lui esistevano tre forme di potere statale nella loro forma pura: la monarchia (che lui preferiva), l’aristocrazia e la democrazia. Egli ammetteva anche l’istituzione di un parlamento, ma a condizione che il potere del monarca fosse forte e illimitato. La funzione di tale potere monarchico è quella di abolire lo “stato naturale” del genere umano, cioè la guerra generale di tutti contro tutti, con la sua autorità globale e il suo potere totale, e garantire così la pace e la sicurezza individuale per tutti i membri della comunità socio-politica, cioè lo Stato. La libertà come forma fondamentale di democrazia porta alla ribellione, all’anarchia e al disordine. Hobbes ritiene inoltre che il potere supremo del monarca debba essere principalmente di carattere sovrano, il che per lui significava specificamente che non doveva essere subordinato ad alcuna autorità esterna (dominio), soggetto ad alcuna legge al di fuori della legge della monarchia, sia essa naturale o ecclesiastica.

Tuttavia, in ultima analisi, il potere monarchico, almeno in teoria, non era totalmente illimitato, poiché il diritto all’esistenza era per lui l’unico diritto che consentiva una limitazione del potere supremo, cioè la sottomissione obbligatoria al sovrano. Questo perché il fondamento del potere statale in qualsiasi forma era basato sulla sopravvivenza esistenziale e sull’autoconservazione. Questa forma può essere in linea di principio monarchica, aristocratica o democratica, ma in nessun modo mista, cioè con la divisione del potere tra singoli organi. In ogni caso, il potere deve essere esclusivamente nelle mani dell’organo a cui è stato affidato. In questo caso, Hobbes nega il principio fondamentale del potere democratico moderno, che è la divisione del potere in legislativo (parlamento), esecutivo (governo) e giudiziario (organi giudiziari).

Va notato che Thomas Hobbes era un acerrimo oppositore della rivoluzione, ritenendo che l’artigianato e il commercio, e quindi, nelle sue condizioni socio-politiche, la produzione capitalistica in ascesa, avrebbero prosperato nelle condizioni di un’amministrazione statale onnipotente in cui tutti i disaccordi e le lotte politiche sarebbero stati eliminati. Egli credeva che tutto ciò che contribuisce alla vita comune delle persone sia buono e che tutto ciò che aiuta a mantenere una forte organizzazione statale debba essere sostenuto. Al di fuori dello Stato regnano la passione, la guerra, la paura e la brutalità (cioè lo stato di natura), mentre nella organizzazione statale regnano la ragione, la pace, la bellezza e la socievolezza (cioè la civiltà).

L’oggetto della cura dell’amministrazione statale (monarchia assoluta) deve essere la ricchezza dei cittadini (cioè dei sudditi) creata dai prodotti della terra e dell’acqua (mare), nonché dal lavoro e dalla parsimonia. Il dovere dello Stato è quello di garantire il benessere del popolo. Ipoteticamente, gli interessi del monarca dovrebbero essere identificati con quelli dei suoi sudditi affinché lo Stato funzioni in modo ottimale.

Osservazioni sintetiche

La dottrina di Thomas Hobbes sul potere onnipotente del monarca assolutista illuminato è il prodotto di un’epoca in cui vi era una forte necessità di organizzare uno Stato centralizzato e assolutista (centripeto) che potesse, soprattutto, resistere con successo all’universalismo papale, ma anche servire lo sviluppo del capitalismo e la limitazione degli elementi feudali (centrifughi). Da un punto di vista puramente economico, la monarchia assolutista di quel tempo e del secolo successivo corrispondeva agli interessi della borghesia capitalista e ai suoi sforzi per creare un grande mercato economico interno senza tasse regionali-feudali e imposte sulle vendite. In questo modo, d’altra parte, si sarebbe automaticamente creata l’unità nazionale come garante del funzionamento dell’economia all’interno del quadro nazionale (uno Stato unico).

Hobbes riteneva che il terribile stato di guerra naturale di tutti contro tutti potesse essere superato perché, oltre alle passioni, nell’uomo esiste anche la ragione, che insegna alle persone a cercare mezzi migliori e più sicuri per la loro vita biologica, materiale, economica e generale rispetto a quelli che portano alla guerra di tutti contro tutti. In altre parole, per garantire la pace sociale e la sicurezza individuale, ogni individuo nella società deve rinunciare al diritto incondizionato che possiede nello stato di natura. In definitiva, l’uomo lo fa perché lo impone il suo istinto di autoconservazione. Con questa rinuncia, l’uomo rinuncia e partecipa alla sua libertà naturale, cioè alla libertà data dalla legge naturale, perché l’intera comunità sociale si sottomette al contratto generale per vivere in una comunità politica-Stato. Sebbene tutti gli individui accettino tale contratto/accordo, lo fanno in linea di principio per ragioni puramente egoistiche, ma la ragione impone loro di farlo e quindi di obbedire a certe virtù fondamentali senza le quali la sopravvivenza dello Stato sarebbe impossibile (fedeltà, gratitudine, gentilezza, indulgenza, ecc.). Al di fuori del contratto statale, cioè dello Stato, ci sono affetti, guerra, paura, povertà, sporcizia, solitudine, barbarie, ecc. A differenza dello stato di natura (cioè lo stato della giungla, dell’inciviltà e della barbarie, ma anche della totale libertà in senso banale), lo stato è caratterizzato da ragione, pace, sicurezza, ricchezza, lusso, scienza, arte, ecc., ma con la condizione di una drastica restrizione e persino abolizione delle libertà naturali.

Solo con la formazione di un’organizzazione statale nasce la distinzione tra giusto e sbagliato, virtù e vizio, bene e male. Per Hobbes, la conclusione di un contratto di formazione dello Stato tra i membri di una comunità sociale può essere tacita, cioè informale. In ogni caso, la conclusione di un contratto di Stato per Hobbes è di importanza storica perché separa la preistoria dalla storia stessa. In altre parole, come per molti altri ricercatori della storia dell’umanità, il passaggio dallo stato di giungla (anti-civiltà) allo stato di statualità è anche il passaggio allo sviluppo della civiltà e alla storia in generale. Da un lato, Hobbes ha compreso abbastanza correttamente la natura dello stato di natura originario, ma non è riuscito a spiegare la nascita dello stato al di fuori del quadro del contratto sociale.

Ciò che è importante notare nella teoria del contratto di Hobbes è che egli credeva che, stipulando un contratto sociale-statale, gli individui che lo stipulavano trasferissero automaticamente tutto il loro potere e i loro diritti all’amministrazione statale, cioè al monarca assolutista. Lo Stato diventa onnipotente, dispotico e assolutista e, quindi, assomiglia al mitico mostro biblico Leviatano. Il trasferimento contrattuale del potere dall’individuo allo Stato deve essere incondizionato e, quindi, anche il potere statale stesso deve essere incondizionato. Per essere tale, il potere deve essere nelle mani di un solo uomo, ovvero il monarca assolutista che è sia l’unico amministratore che il giudice supremo. Hobbes derivò quindi dalla sua teoria del contratto la necessità della monarchia assoluta come unica forma di amministrazione statale che corrisponde pienamente alle intenzioni del contratto sociale stesso. La monarchia assoluta presenta anche altri vantaggi rispetto ad altre forme di organizzazione politica che la rendono la migliore forma di governo. Così, ad esempio, in una monarchia assoluta il potere può essere abusato da una sola persona, in un’aristocrazia da diverse famiglie e in una democrazia da molti (qui Hobbes non distingue tra la possibile gravità dell’abuso e della corruzione). Inoltre, in una monarchia assoluta, le lotte tra partiti sono più facilmente neutralizzabili e, nel caso ideale di dispotismo totale, le lotte tra partiti e politiche non esistono perché c’è una completa unità tra società, Stato e politica sotto il governo di una sola persona. Anche i segreti di Stato sono più facili da mantenere nelle monarchie assolute.

Un monarca assoluto deve anche avere un potere assoluto, cioè un diritto assoluto in tutte le relazioni politico-giuridiche e morali dello Stato (“Lo Stato sono io!”). Il monarca (nel caso di Hobbes, il re) è colui che ha sia la prima che l’ultima parola in tutte le questioni ecclesiastiche, religiose e morali. Pertanto, il monarca determina come Dio deve essere adorato; altrimenti, ciò che sarebbe adorabile per una persona sarebbe blasfemo per un’altra e viceversa. In questo modo, la società all’interno dello stesso Stato sarebbe divisa in fazioni ostili e si scatenerebbe una lotta tra queste fazioni su questioni religiose (come, ad esempio, il Sacro Romano Impero durante le guerre di religione del XVI e XVII secolo). In altre parole, Thomas Hobbes era un grande oppositore di qualsiasi tolleranza religiosa all’interno della stessa organizzazione politica. Per lui, è un atto rivoluzionario inaccettabile che qualcuno si opponga alla religione valida e unica consentita sulla base delle proprie convinzioni religiose private, perché in questo modo viene messa in discussione la sopravvivenza stessa dello Stato e il suo normale funzionamento. Pertanto, ciò che è generalmente buono e ciò che è cattivo per la società e lo Stato è deciso solo dal monarca. La coscienza morale consiste nell’obbedienza al monarca.

Thomas Hobbes, tuttavia, in seguito ammise alcune limitazioni all’assolutismo reale e ritenne che ogni potere fosse giusto se serviva il popolo e che questo potesse essere in ultima analisi anche una repubblica (Commonwealth), ma guidata da una figura di fatto assolutista (ad esempio Oliver Cromwell). La teoria dello Stato di Hobbes passò dall’interpretazione teologica medievale a quella antropologica dell’origine e dei fondamenti dello Stato. L’insegnamento di Hobbes sull’emergere dell’organizzazione statale basata sui contratti e sulla comprensione che la vita sarebbe stata migliore e più sicura nello Stato era contrario alle interpretazioni teologiche medievali e alla comprensione dello Stato, che identificavano gli obiettivi della classe feudale dei grandi proprietari terrieri con gli obiettivi divini. Molti filosofi hanno visto la teoria dello Stato di Hobbes come la dottrina dello Stato totalitario moderno. Tuttavia, la filosofia politica di Hobbes è essenzialmente individualistica e razionalistica.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex professore universitario

Ricercatore presso il Centro di studi geostrategici

Belgrado, Serbia

© Vladislav B. Sotirovic 2025

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Thomas Hobbes and his political philosophy

Historical, philosophical, and social foundations of Thomas Hobbes’ political thought

With his views within the history of political philosophy, the English political theorist Thomas Hobbes (1588–1679) became a classic representative of the school of English empiricism. He built a comprehensive political science system based on the basic thesis that in the real world, there are only individual material bodies. With this view, Hobbes began a war against the prejudices of medieval realism, for which concepts were the true reality, while things were merely derived from them. It is important to note that Hobbes believed that there were three types of individual bodies: 1) Natural bodies (i.e. bodies of nature itself that do not depend on man and his activities); 2) Man (both a body of nature and the creator of an artificial, i.e. unnatural, body); and 3) The State (an artificial body as a product of man’s activities).

Hobbes’s most important political science work is Leviathan (1651) [full and original title: Leviathan or the matter, form and authority of government, London] in which he elaborates his philosophical views on the third body, i.e., the state, of course, in the context of the time in which he lived and witnessed. In short, in this work, Hobbes elaborated on the view that the natural state of life of the human race is a war of all against all (bellum omnium contra omnes). According to him, this view is followed by a natural law that leads to the overcoming of such a state and the creation of the state (i.e. political organization) through a social contract between citizens and the government, but also a contract that finally recognizes the indivisible and unlimited power of the sovereign (king) in the polity (state organization) for the protection of citizens and their rights. In other words, citizens voluntarily give up a (large) part of their natural freedom, which they transfer to the state for the purpose of protecting themselves from external and internal enemies. This would be a political form of voluntary and contractual “escape from freedom” that was masterfully deciphered by the German philosopher Erich Fromm (1900–1980) in his eponymous work Escape from Freedom (1941), using the example of German society during the era of National Socialism.

The social and historical foundations of Hobbes’s political thought were the frequent civil wars in England, in which King Charles I Stuart (1625–1649) lost both his crown and his head (which was cut off with an axe), the emergence of two political currents in the Parliament of England, in fact later parties – the Tories (conservatives) and the Whigs (liberals), as well as the proclamation of the Commonwealth (i.e., a republic, or “welfare state”, 1649–1660) but with the dictator Oliver Cromwell (1599–1658), who from 1653 bore the title of “Protector” (“Protector of England, Scotland and Ireland”). At that time, English capitalist and even colonial-imperialist development required protection from an extremely strong and all-powerful state in the form of a monarchy, i.e., royal absolutist power.

Basically, Thomas Hobbes did not criticize the current socio-political system, but rather tried to consolidate it and strengthen it as much as possible so that the entire state with its citizens could function as well as possible and be as efficient as possible, which would be for the benefit of all citizens who first enter into a contract on bilateral relations among themselves and then with the state. Even from a European perspective (civil wars between Protestants and Catholics), given that an atmosphere of fear and personal insecurity prevailed throughout Western Europe, Hobbes desired peace, security, and the protection of private property, so that to this end he became a pronounced statist, i.e., a supporter of the strongest possible state power over individual citizens.

In the late European Renaissance and early modern period, the strengthening of monarchical power through the development of enlightened monarchical absolutism (despotism) was an expression of the need for social and state unity and harmonious functionality in order to avoid medieval political anarchy, polytheism, and powerlessness. When monarchical absolutism is emphasized, it is generally not because of the illusion of the divine rights of the ruler, but because of the practical conviction that strong political unity can only be achieved within the framework of enlightened absolutist monarchism. Thus, when Hobbes supports the centralist absolutism of the king, he does not do so because he believes in the divine rights of kings or in the divine character of the principle of legitimacy, but because he believes that the cohesion of society and national unity can primarily be achieved in this way. Hobbes believes in the natural egoism of the individual, and a natural consequence of this belief was the view that only a strong and unlimited (absolutist/despotic) central authority of a monarch is capable of restraining and overcoming the centripetal forces that lead to the disintegration of the social community and the dissolution of the state.

Leviathan (1651) – political system (state) according to the contractual state

It should be noted that the starting point of Thomas Hobbes’ political philosophy is the same as that of all other representatives of the so-called “natural law and social contract” school. Hobbes, like many others from the same school, reduces the individual man to the order in nature, and the civil state to the state of a contract between citizens and the state, but which is formed by subjects who, by the very contract with the state (monarch), should become citizens, thus freeing themselves from the position and role of medieval lawless subjects (i.e. those who had only obligations to the government but no rights in relation to the same government) at least according to the liberal political philosophy.

For Hobbes, the basis of human nature is egoism and not altruism, as well as the need for communal life, but not as some kind of drive for communal life (as in wild animals that live in packs), but a need out of purely egoistic interest. In other words, organized political society in the form of a state arises as a result of the fear of some individuals of others, and not as a result of some natural inclination of some individuals towards others. Therefore, the state is an imposed socio-political organization as a product of a rational view of life, i.e., survival, of the human community in order to preserve individual interests, including bare lives. In other words, Hobbes denied happiness and pleasure as elements of the natural state or order. On the contrary, for him, the natural state is dangerous for human existence because it is animalistically cruel and murderous. A state in which everyone wars against everyone. In a natural order that operates according to the (animal) laws of nature (the right of the stronger), the basis of inter-living relations is war based on force and deception.

The next important characteristic of the natural order is the absence of ownership of things and possessions in the sense of the absence of a clear demarcation of what is whose. In other words, everything belongs to everyone, and what is whose depends, at least for a while, on force, robbery, and coercion over others. For Hobbes, all human beings are equal both physically and intellectually, and everyone has a right to everything, striving to preserve this natural right. However, since at the same time they strive to achieve power or at least dominance over others, a war of all against all inevitably occurs, so that human life becomes unbearable. The stronger strive to become even stronger and more influential, and the weaker strive to find protection from the stronger in order to survive. On the one hand, man strives to preserve his natural freedom, but on the other hand, to gain power over others. For Hobbes, this is the dictate of the instinct for self-preservation (freedom + dominance). The human race has the same drive for all things, and therefore, all people want the same things. Therefore, all people are a constant source of danger, insecurity, and fear for others in the brutal drive for survival. Therefore, human existence is reduced to a war of all against all (man is a wolf to man).

For Hobbes, the fundamental natural law is therefore the law of egoism, which directs the human individual to preserve himself with minimal losses and maximum gains at the expense of others. Natural law (ius naturale) is, therefore, the instinct for self-preservation, i.e., the freedom for everyone to use their own strength and skill to preserve their existence. However, the fundamental meaning of the existence of the human individual is the search for security. Therefore, for Hobbes, only interest, and not altruism (the inclination of man to man), is the fundamental natural motive in the search for a way out of the state of nature because it is becoming unbearable. In other words, natural freedom is becoming an increasingly heavy burden on human shoulders that must be endured.

Hobbes opposed the teachings of Aristotle and Grotius that man himself originally has an urge to associate, i.e., a social instinct. Contrary to both of them, Hobbes believes that man is originally a completely egoistic being and possesses only one urge, which is the urge for self-preservation. This urge drives man to realize his needs, to seize as much as possible from what nature itself puts at his disposal and, in accordance with this urge, to expand the sphere of his individual power as much and as far as possible. However, according to the very logic of things, in this intention of his, man encounters resistance from other people who are guided by the same natural (innate) urge, i.e., aspirations, and thus competition, struggle, and war arise between members of the human race, which threaten the physical existence of people. Therefore, if man lives in a state of nature, he is confronted with the reality of the war of all against all, i.e. a war that is naturally caused by the need and strength of the individual and a war in which the eventual lack of physical strength, i.e. superiority, is replaced by cunning and deception according to the principle that the end justifies the means.

The state of nature does not allow human reason to do anything that can in any way physically endanger his own life, as well as to neglect what can best preserve it. Hobbes acknowledges that human nature is such that he is always in conflict with various passions and drives, among which the desire for power is predominant. However, by using reason, man realizes in practice natural laws, among which the basic aspiration for peace is (human personality = conflict of passions and reason). People, following reason and natural laws that strive for man to preserve and ensure peace by all available means, conclude a socially beneficial contract or agreement among themselves. On the basis of such a contract, people within the same living community living in the same living space unite with the aim of forming a stronger community with joint forces on the basis of general harmony, which ultimately turns into a form of statehood that would ensure peace and security for them. Thus, political organization has two basic goals, i.e., functions: the defense of the community from external enemies and the preservation of order, peace, and security within the community itself on the internal level. Thus, a state (Greek polis) is created on the basis of a contract, and politics would be defined as the art of running a state for the purpose of effectively realizing its two basic functions.

Such a (state-forming) contract prevents wars within the same (socio-political) community if the contract is fulfilled, which is in accordance with natural law. The contract imposes on each individual of the community a large number of obligations and duties in addition to rights, the fulfillment of which is necessary for the preservation of peace, order, and security. Thus, an individual, a member of a socio-political community, necessarily loses an important part of his freedom, which he transfers to the state for the sake of his own security and preservation of existence. Here, it should be noted that the law or effect of the development of civilization and the progress of the human race in the historical context is that with the development of civilization, man increasingly loses his natural freedoms and vice versa.

Thomas Hobbes believed that natural laws are, in fact, moral laws. One of the basic moral principles for the efficient and just functioning of the socio-political system, i.e., contracts, is that one should not do to others what one does not want to be done to oneself by others. Moral laws are eternal and therefore unchangeable and therefore universal for all members of a community, so all individuals strive to harmonize their behavior towards others in accordance with such moral laws. However, in the state of nature, these moral laws are powerless since they do not oblige people to behave in accordance with them, but only until real opportunities are created for all other people to be governed by them. Finally, such conditions and opportunities are created by a contract that leads to the creation and functional organization of the state.

Transition from the state of nature to the contractual state of statehood

According to Hobbes, law appears by leaving the state of nature and moving to the contractual state of statehood. Statehood is the institution that enables the creation or definition of private property between members of the community according to the principle of “mine”/“yours”. The state, as an institution, therefore, is obliged to respect the property of others. Unlike the contractual state (civilization), in the state of nature (savagery), there was no reciprocal security or guarantor of that security. By creating the state/statehood as an institution, man renounced those rights that he/she enjoyed in the state of nature. In the state of statehood, man adheres to contracts because this is the only way to ensure peace and, therefore, personal security. Thus, man shifts to fulfilling moral obligations because they contribute to the preservation of personal security.

However, as Hobbes argues, the mere contract/agreement between the members of a community is not sufficient for a state to exist and function. This requires, in addition to the contract, complete internal unity. In other words, in order to form a unified will of people, they must cease to live as independent and separate individuals, i.e., in some way they must “drown” into the general currents of the state community and thus renounce an essential part of their independence, individualism, and natural freedom. Now Hobbes moves on to the main point of his political philosophy, which has its own specific historical background, namely the time in which Hobbes lived, arguing that individuals should retain neither will nor right for themselves because all power should pass to the state as a general and superior institution. Hobbes essentially demands that individuals in a state community be subjects of the state and not citizens of it. Therefore, subjects must obey the commandments/laws of the state because only then can they distinguish good from evil. This transfer of all individual rights and powers to state bodies leads to the formation of (state) sovereignty (suma potestas/sumum imperium).

In this way, according to Hobbes, individuals are connected by a double contract/agreement:

1) A contract according to which individuals associate with each other; and

2) A contract by which, as a social collective (associated individuals), they connect themselves with a state authority to which they surrender all power with an absolute and unconditional obligation and practice of submission to it (in Hobbes’s specific historical time, this specifically meant absolutist royal authority).

The main direct consequence of this double contract is that a single entity is formed from the plurality of individuals under the auspices of state authority. This state authority, or royal absolutist authority over subjects that has support in the church, Hobbes called Leviathan. It is a biblical monster or mortal God who, in Hobbes’s illustration, holds a bishop’s crosier in one hand and a sword in the other, i.e., attributes of spiritual and worldly power. For Hobbes, the state is neither a divine nor a supernatural creation. Man is the rational and most sublime work of nature, and the state-Leviathan is the most powerful human creation. The state itself is an artificial body compared to man, who is a natural body. The soul of the state is the supreme authority, its joints are the judicial and executive organs, the nerves are rewards and punishments, memory is the counselors, the mind is justice and laws, health is civil peace, illness is rebellion, and death is civil war.

Man created the state based on the voice of reason. According to Hobbes, the state is an artificial product of a rational move of the human race and not a natural fact, as many philosophers before him believed, such as, for instance, Aristotle. According to Hobbes, the state exercises absolute sovereignty in such a way that individuals, i.e., subjects, are alienated in the state itself, that is, they renounce their natural right and condition. In other words, by the very fact that individuals have concluded an agreement to submit to the absolute state power they have chosen, they renounce their rights, which they alienate by transferring them to the sovereign. The relationship of the individual to the state is in the form of political alienation of man in the sovereign, instead of the medieval alienation in God.

Government and its forms

Hobbes believed that his theoretical system of government could be applied in practice to all forms of state power. Specifically, for him, there were three forms of state power in their pure form: Monarchy (which he preferred); Aristocracy; and Democracy. He also allowed the establishment of parliament, but under the condition of a strong and unlimited monarch’s power. The function of such a monarch’s power is to abolish the “natural state” of the human race, i.e., the general war of all against all, with its comprehensive authority and total power, and thus ensure peace and individual security for all members of the socio-political community, i.e., the state. Freedom as the basic form of democracy leads to rebellion, anarchy, and disorder. Hobbes further believes that the monarch’s supreme power must be primarily of a sovereign character, which for him specifically meant that it should not be subordinated to any external authority (domination), subject to any law outside the law of the monarchy, whether natural or ecclesiastical.

However, in the final analysis, monarchical power, at least theoretically, was not totally unlimited, since the right to exist was for him the only right that allowed for a limitation of supreme power, i.e., obligatory submission to the sovereign. This is because the foundation of state power in any form was laid on the basis of existential survival and self-preservation. This form can in principle be monarchical, aristocratic, or democratic, but in no way mixed, i.e., the division of power between individual organs. In any case, power must be exclusively in the hands of the organ to which it is handed over. In this case, Hobbes denies the basic principle of modern democratic power, which is the division of power into legislative (parliament), executive (government), and judicial (judicial organs).

It should be noted that Thomas Hobbes was a bitter opponent of the revolution, believing that crafts and trade, and therefore, in his socio-political conditions, the rising capitalist production, would flourish under the conditions of an all-powerful state administration in which all disagreements and political struggles would be eliminated. He believed that everything that contributes to the common life of people is good and that everything that helps to maintain a strong state organization should be supported. Outside the state, passion, war, fear, and brutality reign (i.e., the state of nature), while reason, peace, beauty, and sociability reign in the state organization (i.e., civilization).

The object of the care of the state administration (absolute monarchy) must be the wealth of the citizens (i.e., subjects) created by the products of the land and water (sea), as well as work and thrift. The duty of the state is to ensure the well-being of the people. Hypothetically, the interests of the monarch should be identified with the interests of his subjects for the state to function optimally.

Synthetic remarks

Thomas Hobbes’s doctrine of the omnipotent power of the enlightened absolutist monarch is a product of a time when there was a strong need to organize a centralized and absolutist state (centripetal) organization that could, above all, successfully resist papal universalism but also serve the development of capitalism and the limitation of feudal (centrifugal) elements. From a purely economic point of view, the absolutist monarchy at that time and in the following century corresponded to the interests of the capitalist bourgeoisie and its efforts to create a large internal economic market without regional-feudal taxes and sales taxes. In this way, on the other hand, national unity would automatically be created as a guarantor of the functioning of the economy within the national framework (a single state).

Hobbes believed that the terrible natural state of war of all against all could be overcome because, in addition to passions, there is also reason in man, which teaches people to seek better and safer means for their biological, material, economic, and general life than those that lead to war of all against all. In other words, in order to ensure social peace and individual security, each individual in society must renounce the unconditional right that he/she possesses in the state of nature. Ultimately, man does this because his/her instinct for self-preservation dictates it. By this renunciation, man renounces and partakes of his natural freedom, i.e., the freedom given by natural law, because the entire social community submits to the general contract to live in a political community-state. Although all individuals accept such a contract/agreement, they do so in principle for purely egoistic reasons, but reason dictates that they do so and therefore obey certain basic virtues without which the survival of the state would be impossible (fidelity, gratitude, kindness, indulgence, etc.). Outside the state contract, i.e., the state, there are affects, war, fear, poverty, filth, loneliness, barbarism, etc. Unlike the state of nature (i.e., the state of the jungle, uncivilization and barbarism, but also total freedom in the banal sense), statehood is characterized by reason, peace, security, wealth, luxury, science, art, etc., but with the condition of drastic restriction and even abolition of natural freedoms.

Only with the formation of a state organization does the distinction between right and wrong, virtue and vice, good and evil arise. For Hobbes, the conclusion of a state-forming contract among members of a social community can be tacit, that is, informal. In any case, the conclusion of a state contract for Hobbes is of historical importance because it separates pre-history from history itself. In other words, as for many other researchers of the history of mankind, the transition from the state of the jungle (anti-civilization) to the state of statehood is also the transition to civilizational development and history in general. On the one hand, Hobbes quite correctly understood the nature of the original state of nature, but he could not explain the emergence of the state outside the framework of the social contract.

What is important to note about Hobbes’s theory of contract is that he believed that by concluding a social-state contract, the individuals who concluded it automatically transfer all their power and their rights to the state administration, i.e., the absolutist monarch. The state becomes omnipotent, despotic, and absolutist, and therefore, resembles the mythical biblical monster Leviathan. The contractual transfer of power from the individual to the state must be unconditional, and therefore, the state power itself must be unconditional. To be such, power must be in the hands of only one man, and that is the absolutist monarch who is both the sole administrator and the supreme judge. Thus, Hobbes derived from his contract theory the necessity of absolute monarchy as the only form of state administration that fully corresponds to the intentions of the social contract itself. Absolute monarchy also has other advantages over other forms of political organization that make it the best form of government. Thus, for example, in an absolute monarchy, power can be abused by only one person, in an aristocracy by several families, and in a democracy by many (here Hobbes does not distinguish between the possible depths of abuse and corruption). Furthermore, in an absolute monarchy, party struggles are more easily neutralized, and in the ideal case of total despotism, party and political struggles do not exist because there is a complete unity of society, state, and politics under the rule of one person. State secrets are also easier to keep in absolute monarchies.

An absolute monarch must also have absolute power, i.e., absolute right in all political-legal and moral relations in the state (“The state, that is me”!). The monarch (in Hobbes’ case, the king) is the one who has both the first and the last word in all ecclesiastical, religious, and moral matters. Thus, the monarch determines how God is to be worshipped; otherwise, what would be worshipable to one person would be blasphemous to another, and vice versa. Thus, society within the same state would be divided into hostile parties and would wage a struggle between these parties on religious issues (like, for instance, the Holy Roman Empire during the religious wars in the 16th and 17th centuries). In other words, Thomas Hobbes was a great opponent of any religious tolerance within the same political organization. For him, it is an unacceptable revolutionary act for someone to oppose the valid and only permitted religion based on their private religious convictions, because in this way, the very survival of the state as well as its normal functioning is called into question. Therefore, what is generally good and what is bad for society and the state is decided only by the monarch. Moral conscience consists in obedience to the monarch.

Thomas Hobbes, nevertheless, later allowed for limitations on royal absolutism, and believed that every power was just if it served the people, and that this could ultimately be even a republic (Commonwealth), but headed by an in fact absolutist figure (e.g., Oliver Cromwell). Hobbes’s theory of statehood turned from the medieval theological to the anthropological interpretation of the origin and foundations of the state. Hobbes’s teaching on the emergence of state organization based on contracts and the understanding that life would be better and safer in the state was contrary to medieval theological interpretations and understandings of the state, which identified the goals of the feudal class of large landowners with divine goals. Many philosophers have seen Hobbes’ theory of the state as the doctrine of the modern totalitarian state. However, Hobbes’s political philosophy is essentially individualistic and rationalistic.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex-University Professor

Research Fellow at Centre for Geostrategic Studies

Belgrade, Serbia

© Vladislav B. Sotirovic 2025

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com

Pragmatismo tecnocratico e inattualità della filosofia, di Andrea Zhok

Per la prima volta nella storia dei finanziamenti nazionali nessun PRIN (Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale) è stato finanziato per l’area filosofica. I progetti di quest’area rappresentavano il 10% dei progetti presentati, ma sono stati bocciati tutti.

Al netto del dispiacere per i mancati finanziamenti, credo che ci si possa compiacere di questo evento almeno per il suo contributo a fare chiarezza.

Si tratta di una scelta che si inquadra perfettamente nell’atmosfera del nuovo pragmatismo emergenziale, che non ha più tanto tempo da perdere con le apparenze.

Dopo tutto, come ha detto il ministro Cingolani, basta studiare quattro volte le guerre puniche. Ci vogliono più conoscenze tecniche.

Questo nuovo “pragmatismo” sta rapidamente dismettendo tutti gli orpelli, tutti i passati omaggi alla Costituzione, ai diritti, alla libertà di pensiero ed espressione, e sta andando rapidamente al cuore del progetto tecnocratico contemporaneo, senza più infingimenti. L’imperativo è la rapidità d’esecuzione previa cancellazione di controlli, pratiche di mediazione, tempi di riflessione.

In questo senso si tratta di un evento chiarificatore, molto meglio della strategia adottata sui finanziamenti alla ricerca a livello europeo, dove vige ancora (ma vediamo per quanto) un altro stile d’azione, quello per cui si finanziano progetti “trendy”. Adesso è il momento del Greenwashing e dunque i finanziamenti alla libera ricerca cadono e cadranno su progetti che si raccomandano per la capacità di sostenere l’attuale narrazione sull’emergenza climatica.

Beninteso, naturalmente non c’è niente di male a svolgere ricerca su questo importante tema.

Il problema – non proprio marginale per la libertà di ricerca – è che il finanziatore stabilisca i temi degni di essere ricercati a monte (e, in effetti, scelga anche le linee di fondo delle tesi che si andranno a testare). Questo qualche problema direi che lo genera, visto che l’agenda del finanziatore è eminentemente politica, mentre quella del ricercatore dovrebbe essere il perseguimento della verità.

In attesa di vedere come verranno valutati in futuro progetti filosofici su “Spinoza e la Piccola Era Glaciale” e “La stufa di Cartesio e il Global Warming“, possiamo apprezzare la chiarezza fatta dalla scelta italiana.

Va detto che l’idea stessa di concepire i finanziamenti, specificamente per aree come quelle afferenti a forme di pensiero critico, nella modalità di pochi grandi finanziamenti, è parte del problema. Questo modello viene promosso come “altamente competitivo”, e il presunto “alto livello della competizione” rende l’esclusione anche di progetti manifestamente meritevoli del tutto normale. Dunque, che i meritevoli, anche gli assai meritevoli, restino fuori è un’idea cui il modello ci abitua.

In questa idea di “alta competizione” c’è qualcosa di profondamente fuorviante. Qui non siamo in una gara di corsa in cui il più veloce arriva primo, o in un incontro di boxe in cui il più forte resta in piedi. Qui siamo in un ambito più simile a un concorso di bellezza, dove si mettono in mostra i propri punti di forza sperando di convincere la giuria. E siccome “la bellezza è negli occhi di chi guarda”, questo modello conferisce alle “giurie” un totale controllo su quali linee di ricerca promuovere. Questo fatto stesso, a prescindere dall’obiettività e buona fede delle giurie che può essere adamantina, limita la libertà di ricerca, in quanto promuove implicitamente un gioco di anticipazione dei desiderata dei giudici. Progetti ambiziosi, fondati, ma “strani” tendono a scomparire per autocensura.

Detto questo, che la filosofia debba riciclarsi in un formato disciplinare “self-contained“, in un campo ben delimitato e dunque “tecnicizzabile”, è qualcosa di promosso e incentivato da tempo. Tuttavia la riflessione filosofica – finché esiste e non sono ottimista sul suo stato di salute – è intrinsecamente refrattaria alla chiusura in un campo.

Con qualche semplificazione, si potrebbe dire che mentre tutte le altre scienze possono di principio (magari malvolentieri) concepirsi come studio di “mezzi”, di “tecniche”, la filosofia perde completamente la sua natura se non è sempre insieme indagine sui “mezzi” e sui “fini”, sui mezzi in rapporto ai fini, sui fini in rapporto ai mezzi. E ogni discussione che chiami in campo i fini tende ad avere carattere olistico, non settoriale.

Ora, dovrebbe essere chiaro a chiunque sia aduso a riflettere sulla politica e sulla storia che, per il potere – chiunque lo gestisca di volta in volta – un sapere relativo ai mezzi è prezioso, perché ti fornisce ulteriore potenza; ma una riflessione aperta sui fini è invece esiziale, perché il potere la propria agenda di fini ce l’ha già e non desidera affatto che sia messa in discussione. Dunque i saperi tecnici sono i benvenuti, ma tutte le forme di riflessione che possono mettere in discussione l’agenda dei fini (forme che comunque, di fatto, possono nascere in qualunque area del sapere) rappresentano un problema.

La filosofia in questo senso, nella misura in cui esiste ancora in forme tradizionali, rappresenta un piccolo scandalo, una sorta di atavismo, il residuo di epoche al tramonto. In filosofia porsi domande intorno all’intero, alla storia e alla società in cui si è collocati, alla propria posizione nel cosmo, e farlo sulla base della critica radicale, del dubbio verso l’opinione maggioritaria, dell’uscita dallo schema pregresso, è precisamente la base, il cuore da cui tutto parte.

Per questo motivo la filosofia – finché esiste e nella misura in cui ancora esiste – esige innanzitutto libertà di pensiero ed espressione, e se c’è una battaglia rispetto a cui nessun filosofo che voglia dirsi tale può arretrare è una battaglia per la libertà di pensiero e di espressione.

Per far capire alla fine di che cosa ne va al momento, è utile riportare un breve passo da l’Avvenire; qui, proprio all’inizio di un articolo in cui si discute della mancata erogazione dei PRIN al settore filosofico, troviamo scritto:

“Qualche maligno attribuisce il risultato negativo a qualche isolato e presenzialista “avversario del Green pass” e all’avversione che può avere suscitato verso la disciplina, ma la comunità filosofica ha reagito con tempestività e con contributi di valore, mostrando al contrario di quanto bisogno vi sia di buone elaborazioni concettuali anche di fronte a un’emergenza sanitaria.”

Traduzione informale:

“Non lo dico io, naturalmente, mai mi permetterei; è solo una voce maligna, però, però, pensateci sopra, non sarà mica che il sostenere tesi eterodosse da parte di qualcuno che si fregia del nome di filosofo (Agamben? Cacciari?) abbia attratto sull’intera comunità filosofica l’ira funesta dei Giudici? No, no, cosa vado mai a pensare! Infatti – e per fortuna, altrimenti chissà cosa sarebbe potuto accadere – c’è stata una reazione pronta che ha riportato la nave sulla giusta rotta.”

Ecco, questa, per chi non lo avesse colto, è una garbata forma di intimidazione, ed è esattamente ciò che si desidera diventi la filosofia – altrimenti poi non ci si lamenti se non verrà finanziata: un amplificatore colto di tesi ortodosse, con bollinatura governativa.

Insomma veniamo lasciati scegliere come morire, se per soffocamento, senza soldi, o per snaturamento, senza critica.

https://www.lafionda.org/2021/11/29/pragmatismo-tecnocratico-e-inattualita-della-filosofia/?fbclid=IwAR09qFyVyeUum9zB_zEj6-EqVF07slcd1jGdRAKL28GdfvnDr9dKl1EOfl8

 

Seguono alcuni dei commenti apparsi su facebook:

Roberto Buffagni

Tutto giustissimo. Mi permetto però un parziale dissenso, o meglio una nota di specificazione a margine, sulla frase “Ora, dovrebbe essere chiaro a chiunque sia aduso a riflettere sulla politica e sulla storia che per il potere (chiunque lo gestisca di volta in volta) un sapere relativo ai mezzi è prezioso, perché ti fornisce ulteriore potere; ma una riflessione aperta sui fini è invece esiziale, perché il potere la propria agenda di fini ce l’ha già e non desidera affatto che sia messa in discussione.” Questo è senz’altro vero se la discussione sui fini è “aperta”, democratica, e può concludere ad atti politici efficaci (a nessuno piace cedere il posto). E’ meno vero se si considera la formazione culturale della classe dirigente. Ogni classe dirigente ha certo bisogno di saperi tecnici, dalla competenza militare alla competenza amministrativa. Per conservare il potere e accrescerlo nel conflitto sia interno, sia esterno al proprio campo, nella incessante lotta per l’egemonia tra le potenze, è invece indispensabile che la classe dirigente, e in specie i decisori politici di ultima istanza, siano culturalmente formati anche, e vorrei dire soprattutto, alla riflessione sui fini; perché la riflessione sui fini importa la riflessione sull’uomo e sul mondo, e le discipline indispensabili sono proprio la filosofia e la storia: anche la psicologia, la teologia, l’antropologia, etc., ma le prime due sono affatto necessarie. Per comprendere che cos’è la geopolitica, per formarsi al pensiero strategico, ossia per mettersi in condizione di prendere le decisioni di ultima istanza, che vertono sempre sull’essenziale, è indispensabile conoscere, assimilare, fare proprie la riflessione storica e filosofica (il che non vuol dire esserne specialisti, ovviamente). Alcuni errori colossali commessi dalle dirigenze occidentali negli ultimi anni – es. vent’anni di guerra persa in partenza in Afghanistan, traslocare infinite manifatture dagli USA alla Cina, un nemico potenziale di pari grado, la scelta del vaccino come unica risposta alla crisi pandemica – penso siano da ascrivere proprio a un difetto di riflessione in merito ai fini nei decisori di ultima istanza, a una povertà culturale, a un accecamento ideologico, a una mancanza di flessibilità intellettuale, a una imbecillità intelligente che hanno effetti concreti e rovinosi proprio sul piano della Realpolitik: perché per fare politica realistica bisogna prestare attenzione alla realtà, e la realtà è infinitamente vasta, inesauribile, misteriosa, e difficilissimo anche solo iniziare a comprenderla. Niente è più arduo che vedere le cose come sono; e l’arte politica è la più difficile delle arti, perché i materiali che deve mettere in forma sono i più riottosi, complessi, viventi. il disprezzo per la riflessione sui fini, per farla corta, prepara le sconfitte.
Andrea Zhok

Roberto Buffagni Capisco ciò che dici, ma qui credo sia da specificare una cosa. Quello che tu dici riguarda un’ideale élite al potere, che di riflessioni sui fini ha bisogno per non commettere gravi errori. Ma l’élite al potere oggi ha un carattere assai modestamente ‘personale’. E’ braccio esecutivo sostituibile di un sistema capitalistico acefalo. Il capitalismo sa sempre dove vuole andare. Nella direzione che incrementa le prossime trimestrali. Che questo a lungo termine possa condurre ad una qualche grande distruzione è irrilevante, anzi: il capitalismo fiorisce nelle grandi distruzioni, da cui emerge più forte di prima (beh, sì, salvo se la distruzione è planetaria, ma questa è ancora eventualità remota).
Antonio Boncristiano

Andrea e Roberto, scusate se mi intrometto nella vostra gara di fioretto, ma avrei un paio di considerazioni supplementari. Posto che la nonna di Einstein è sempre in agguato useró un linguaggio meno aulico. Condivido le osservazioni di entrambi in quanto ragionate, cionondimeno trovo che mal si attagliano alla situazione oggettiva sui punti seguenti.
Primo, la pericolosità della filosofia, per il Potere non è tanto a causa del proprio ruolo sui fini o sulle domande assolute ma rispetto ai destinatari. Vi siete persi la lotta di classe. Essi non hanno paura delle critiche se provengono da una piccola sezione comunque controllabile della società, anzi Agamben, Cacciari o chi per loro (vedi anche il caso di Borghi, Bagnai e Barra Caracciolo nella Lega nel caso politico) sono contorno necessario all’immagine della libera democrazia partecipativa. Il problema viene fuori quando figli e nipoti di operai, contadini, piccoli impiegati, ovvero milioni di persone potenzialmente, prendono coscienza e capacità critica e, soprattutto, forza reattiva.
Secondo, così come esiste un politically correct, esiste un condizionamento nella classe intellettuale di oggi nell’esprimere le proprie tesi, pur controcorrente, che rifiuta a priori di valutare l’ipotesi della malafede di Essi. Si ricorre a stigmi di incapacità politica, di miopia culturale o quant’altro pur di non essere ascritti al becero complottismo delle classi incolte. Mi dispiace di deludervi, Essi sono molto più avanti delle vostre ipotesi, in filosofia si destreggiano abbondantemente come in qualsiasi altra materia. Il che comporta l’ammissione che i loro atti e gli effetti derivanti siano accuratamente pianificati esattamente per tali effetti. Che poi a dirlo sono loro stessi. Ridisegnare la mappa del pianeta sotto vari profili, economico, digitale, genetico, ambientale e via discorrendo. Lo hanno teorizzato Essi e non qualche invasato complottista. E stanno procedendo come schiacciasassi. Il che puó voler dire tutto meno che impreparazione o improvvisazione. Trovate il coraggio di dire che sono proprio cattivi. E che non si sono venduti l’anima al diavolo. Rispetto a Essi, satana è un poveraccio qualsiasi.
Andrea Zhok

Antonio Boncristiano Capisco e in parte condivido. Non dimentico affatto la questione della lotta di classe, che oggi si ripresenta in una nuova forma, molto più radicale e misconosciuta che mai, essendo contrasto tra chi dipende essenzialmente dal proprio lavoro per vivere e chi dipende da varie forme di rendita (o da “lavori” che operano con la rendita).
Quanto al ‘piano’, ho letto “The Fourth Industrial Revolution” di Schwab e ne sono rimasto impressionato. Quello è un piano, ridente, ottimista, utopico e totalmente inconsapevole di essere una distopia fatta e finita. Non escludo che una qualche proiezione di un piano simile sia davvero all’opera. Ma anche in tal caso, la categoria della ‘malvagità’ è povera e inefficace. E’ una concettualità tecnologica che si è trasformata in un’ideologia filosoficamente miserabile, ma perfettamente all’altezza dei tempi. (E per quel che conta, combattere una visione del genere è al centro di tutto quello che ho pensato e scritto da buoni vent’anni.)
Andrea Zhok

Roberto Buffagni Non decide tutto. Non decide, perché non è una persona. Spinge in una direzione. E chi va nella direzione della spinta ha un supplemento di forza che spesso, quasi sempre, è decisivo. In quel quasi sta lo spazio in cui si possono incuneare occasionalmente altre ragioni.
Roberto Buffagni

Andrea Zhok Su questo concordo, e del resto si vede a occhio nudo. Secondo me uno dei fattori principali di questa scarsa capacità di direzione occidentale risiede proprio nella distorsione culturale che, in affinità con la tecnostruttura e l’ideologia dominante, tende a a) privilegiare lo studio dei mezzi sullo studio dei fini b) sopravvalutare la potenza materiale rispetto ad altri fattori di potenza come la qualità delle persone e le idee c) privilegiare la logica lineare sulla logica strategica, che NON è lineare ma paradossale (v. “si vis pacem para bellum”) d) privilegiare una concezione astratta e universale dei profili antropologici sulla valutazione empatica delle alterità e delle motivazioni profonde, tanto del proprio popolo quanto, a maggior ragione, degli altri. Questi sono punti ciechi molto pericolosi, perché oscurano una porzione molto grande e importante della realtà, che è indispensabile tentar di comprendere per partecipare con successo al conflitto tra le potenze.
Andrea Zhok

Roberto Buffagni Naturalmente concordo. Io però dubito molto fortemente della capacità delle odierne classi dirigenti, incluse quelle dell’Impero Americano di cui siamo provincia, di governare alcunché. Che alcuni ci provino, ok, su questo non ho dubbi.
Roberto Buffagni

Andrea Zhok Non so. Non sono d’accordo, almeno non sono d’accordo per intero. Che il capitalismo esista e pensi alla trimestrale di cassa e influenzi fortemente le decisioni politiche, non ci piove. Il capitalismo c’è dappertutto, coincide con la società industriale della quale nessuna formazione politica può fare a meno, perché essa sviluppa la potenza, e se non ce l’hai vieni spazzato via da chi ce l’ha. Però il capitalismo non è un soggetto, e però esistono, invece, oltre al capitalismo, anche gli imperi e gli Stati. Gli imperi, es. l’impero americano, non si fanno per fare profitti: si fanno per la gloria, per la primazia (poi spesso originano da un moto difensivo, vedi Roma alle origini circondata dalle altre piccole polis laziali, ma questo è un altro discorso). Negli Stati Uniti e in UK, ad esempio, c’è un fitto dibattito culturale in merito all’ordine dei fini, e proprio nell’ambiente che ospita e cresce le élites politiche al massimo livello. Negli USA è un dibattito poco invitante e spesso distorto perché la violenza dello scontro culturale è al livello “ti stermino la famiglia”, ma c’è eccome, con ricadute pratiche contraddittorie clamorose, vedi ad es. le preparatory schools più celebri e antiche che reintroducono nel curriculum obbligatorio il latino e a volte anche il greco, e le università della Ivy League in preda alla dinamica autodistruttiva del politically correct. Nell’ultimo discorso del presidente cinese, egli individua con precisione gli aspetti politicamente e culturalmente dannosi e pericolosi del capitalismo (disgregazione della personalità individuale e dell’armonia comunitaria) e vara una campagna pedagogica di massa. Analoga linea segue il presidente russo, istituendo il cristianesimo ortodosso come religione imperiale, promuovendo gli studi storici, difendendo la famiglia, etc. Insomma per farla corta e facile io al capitalismo che decide tutto non ci credo.
Roberto Buffagni

Andrea Zhok Certo. Ma il supplemento di forza che ti sospinge verso la vittoria ti può anche sospingere verso la sconfitta, appunto perché è forza cieca, “sistemica”. La potenza va governata, e non è per nulla facile governarla.
Roberto Buffagni

Andrea Zhok Il problema di fondo, spirituale, è che la potenza acceca, v. hybris greca, v. il racconto della Genesi, che mette a fuoco la linea di faglia essenziale della natura umana, il desiderio di essere “sicut dii”. Il controllo della potenza è la cosa più difficile del mondo, per chi ne dispone.
Giuseppe Germinario

Concordo con la riflessione con una noterella. L’impronta denunciata da Zhok è molto più evidente e incisiva nei paesi periferici e più subordinati. In Russia, in Cina, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e Francia, paesi dal passato e presente imperiale e di resistenti, l’aspetto filosofico, umanistico e strategico viene curato; in alcuni in maniera più diffusa (Francia), in altri più riservati alle élites. Un aspetto che dovrebbe far riflettere sul ruolo politico degli intellettuali più orientati verso il realismo politico, di qualsiasi estrazione essi siano

Il punto di svolta, di Carlo Lancellotti

Negli ultimi anni, numerosi libri si sono cimentati con la percezione che stiamo vivendo un periodo di declino sociale e culturale. Possiamo annoverare in questa categoria The Benedict Option di Rod Dreher , Why Liberalism Failed di Patrick Deneen e The Decadent Society di Ross Douthat . Una nuova aggiunta a questo genere, che tuttavia riguarda anche l ‘”ascesa” che ha preceduto il “declino” e le lezioni che possiamo trarne per andare avanti, è The Upswingdi Robert D. Putnam e Shaylyn Romney Garrett. In un impressionante tour de force della ricerca sociologica, gli autori analizzano una vasta gamma di dati statistici riguardanti quattro aree della vita americana tra il 1895 e il 2020 (economia, politica, società e cultura) e rilevano un modello “macro-storico” comune . In tutte e quattro le aree, durante la prima metà del periodo la società americana è passata da “I” (che è usato come abbreviazione per disuguaglianza economica, polarizzazione politica, isolamento sociale e individualismo culturale) a “Noi” (che significa un sistema, un grado significativo di cortesia politica, più solidarietà sociale e una cultura più comunitaria). Ma poi, intorno al 1960 “accadde qualcosa” e il pendolo iniziò a oscillare nella direzione opposta. Organizzando adeguatamente i dati,Putnam e Romney Garret sono in grado di tracciare un grafico generale (a forma di U capovolta) che riassume questa traiettoria “I-We-I”. La parte ascendente del grafico parte dall’età dell’oro, attraversa l’era progressista e il New Deal e culmina nel consenso culturale e politico degli anni ’50. Profondamente imperfetto, che rimpiazzava i neri americani e le donne, questo accordo era ancora uno di più ampia solidarietà sociale e minore disuguaglianza di quanto non fosse stato nell’Età dell’Oro. La tappa discendente comprende i turbolenti anni ’60 e ’70, la rivoluzione Reagan e gli ultimi decenni, portando all’attuale situazione di minore solidarietà e cortesia, e aumento dell’isolamento e della disuguaglianza superando l’era progressista e il New Deal culminata nel consenso culturale e politico degli anni ’50. 

Oltre ad essere un libro interessante a sé stante, The Upswing ha attirato la mia attenzione nella mia qualità di traduttore inglese delle opere del filosofo politico italiano Augusto Del Noce (1910–1989). Del Noce era un perspicace critico sociale e storico della cultura, il quale già negli anni Sessanta sosteneva che gli anni immediatamente prima e dopo il 1960 avevano segnato un grande cambiamento epocale, quello che Putnam e Romney Garret chiamano appropriatamente un “punto di svolta”. La prospettiva di Del Noce era strettamente filosofica e culturale, ma penso che integri l’analisi di The Upswing sotto due aspetti.

In primo luogo, Del Noce scrive da una prospettiva europea e guarda all’evoluzione della cultura occidentale nel suo insieme, mentre Putnam e Romney Garret si concentrano strettamente sugli Stati Uniti. Mentre questo è abbastanza giustificato per quanto riguarda l’economia e la politica, lo è meno quando dobbiamo cercare di comprendere la cultura e la società; molte delle trasformazioni culturali e sociali che descrivono (ad esempio, la rivoluzione sessuale, il consumismo, l’espansione di istruzione) si sono svolte quasi contemporaneamente in molti paesi diversi e probabilmente sono meglio comprese da un punto di vista più internazionale.

In secondo luogo Del Noce, come filosofo, può concentrarsi sulla logica interna della vita culturale e intellettuale in una misura che non è possibile in uno studio sociologico. Una delle scoperte più interessanti di Putnam e Romney Garret è che nel dopoguerra i cambiamenti economici e sociali sembrano essere leggermente ritardati rispetto ai cambiamenti culturali. La cultura è cambiata prima; seguirono cambiamenti economici e sociali più ampi. Come spiegano, questo non ci consente di concludere che le dinamiche culturali da sole abbiano guidato il “punto di svolta”, perché gli interessi materiali e politici hanno certamente esercitato anche la causalità in una complessa rete di circuiti di feedback. Tuttavia, le idee hanno sicuramente giocato un ruolo significativo. Putnam e Romney Garret illustrano questa interconnessione di causalità citando un passaggio sorprendente di Max Weber: “Non le idee, ma gli interessi materiali e ideali governano direttamente la condotta degli uomini. Eppure, molto spesso le “immagini del mondo” [ Weltanschauungen , visioni del mondo] che sono state create dalle “idee” hanno, come i commutatori, determinato i binari lungo i quali l’azione è stata spinta dalla dinamica di interesse “.

Weber qui fa la distinzione tra “idee” e “interessi ideali”. Ciò che intende è che gruppi di persone possono avere un interesse a preservare un insieme di idee, o promuoverne uno nuovo, tale da andare ben oltre il fatto che quelle idee siano o meno vere. Ad esempio, i sociologi accademici hanno interesse a preservare l’idea che la sociologia accademica è un campo coerente ma difficile da capire, degna di un’impresa di alto livello con una grande sicurezza del lavoro. Gli inserzionisti hanno un interesse ideale nel promuovere il concetto che le decisioni di acquisto possono essere modellate dalla pubblicità. Le attiviste femministe hanno un interesse ideale nel promuovere il concetto che il patriarcato è potente e sinistro e che le attiviste femministe hanno molto lavoro importante da fare. Coloro che vogliono fare molto sesso senza impegno hanno un interesse ideale nel promuovere il postulato che la monogamia e il matrimonio sono istituzioni oppressive e che, per estensione, agire sul desiderio sessuale è una sorta di sana espressione di sé. Sono idee come queste che vengono costruite in “visioni del mondo”. Ci si può trovare con una visione del mondo notevolmente coerente con il proprio interesse personale.

Gruppi di persone possono avere interesse a preservare una serie di idee, o promuoverne una nuova, che va ben oltre il fatto che quelle idee siano vere o meno…. Ci si può trovare con una visione del mondo notevolmente coerente con il proprio interesse personale.

Del Noce era uno specialista nello studio di tali “visioni del mondo” come si trovano nelle opere di filosofi, artisti e intellettuali, ma anche nei media e nella cultura popolare, e delle loro logiche interconnessioni e sviluppi. In particolare, era convinto che la storia del Novecento fosse in misura insolita “storia filosofica” per quanto influenzata da idee e ideologie ereditate dal secolo precedente. Quindi, penso che le sue intuizioni contribuiscano alla discussione sulla “cultura” nel capitolo 5 di The Upswing .

In termini molto generali, Del Noce ha osservato che la cultura occidentale della metà del secolo ha risposto alle tragedie dei decenni precedenti (due guerre mondiali, il totalitarismo sovietico e nazista, l’Olocausto, la bomba atomica) riscoprendo la mentalità dell’Illuminismo .Questa mentalità era emersa per la prima volta nel diciottesimo secolo, ma poi era stata contrastata e parzialmente neutralizzata dalla cosiddetta reazione romantica, che caratterizzò il diciannovesimo secolo e la prima parte del ventesimo. Mentre il romanticismo enfatizzava un senso di continuità storica, persino un amore per il passato, l’atteggiamento dell’Illuminismo fu segnato dalla decisione di rompere con il passato e “ricominciare da capo”. E infatti dopo il 1945 studiosi, giornalisti e artisti riscoprirono gradualmente l’Illuminismo “come disposizione a dichiarare una rottura con le strutture tradizionali e criticarle inesorabilmente da un punto di vista etico, politico e sociale”. Mentre ai tempi di Voltaire il passato era il “periodo oscuro” della superstizione religiosa, negli anni Cinquanta era “fascismo”.”Ma il” fascismo “immaginato dagli uomini e dalle donne degli anni ’50 era visto, per la maggior parte, non come un fenomeno politico contingente (e moderno!), ma come l’espressione della” vecchia Europa “; una cultura immaginata essere indelebilmente oscura come Voltaire aveva immaginato la Chiesa cattolica, segnata dal nazionalismo, dall’irrazionalismo, dal tribalismo, dal razzismo, dal sessismo e così via. La percezione era che il fascismo avesse segnato il fallimento della tradizione europea; in un certo senso ne fosse il suo vero volto. Ecco perché, secondo Del Noce, i pensatori e gli scrittori degli anni Cinquanta hanno riscoperto l’Illuminismo nella sua versione più antitradizionale, perché il loro recupero ha assunto un sapore decisamente anti-autoritario (“antifascista”). Questo antiautoritarismo si è espresso come un’enfasi sull’autonomia personale e l’indipendenza dalle restrizioni sociali e nel linguaggio dell ‘”autorealizzazione” che divenne onnipresente nella cultura popolare. Opporsi a ciò era per necessità, pensavano, essere a favore della vecchia Europa che, secondo loro, ci aveva regalato l’Olocausto.

La cultura occidentale della metà del secolo ha risposto alle tragedie dei decenni precedenti riscoprendo la mentalità dell’Illuminismo…. L’atteggiamento dell’Illuminismo è stato segnato dalla decisione di rompere con il passato e di “ricominciare da capo”.

Questa disposizione neo-illuminista si manifestava anche in una chiave diversa, in tensione con la prima: un impegno per il bene dell’autoespressione dell’individuo unico andava di pari passo con un’enfasi sui valori umani universali rispetto ai valori nazionali o locali. Questi valori, tuttavia, non erano particolarmente le verità etiche universali rivendicate, ad esempio, dal cristianesimo. Il principale tra i valori universali a cui guardava il bien-pensant degli anni ’50 era quello della razionalità scientifica, che presumibilmente fornisce l’unica via possibile per allontanarsi dagli orrori del passato e consente all’umanità di entrare nell’età adulta. Di conseguenza, un atteggiamento divenuto comune negli anni precedenti al 1960 era lo scientismo, con cui Del Noce non intende la scienza in sé, ma piuttosto la visione filosofica secondo cui la scienza è l’unica vera razionalità e l’unico sano principio organizzativo della società. La controparte politica dello scientismo è la tecnocrazia, l’idea che la società debba essere diretta da “esperti”: scienziati, tecnici, manager, uomini d’affari. Questa idea era stata notoriamente avanzata alla fine del “vecchio” Illuminismo dal conte di Saint-Simon e puntualmente riemerse negli anni ’50, l’era della “rivoluzione manageriale”. Non a caso, questa fu anche l’età d’oro delle scienze sociali – sociologia, antropologia, psicologia, sessuologia, pedagogia – che raggiunsero una grande importanza non solo nel mondo accademico ma anche nella politica pubblica e persino nella cultura popolare. Allo stesso tempo la filosofia perse gran parte del suo precedente prestigio culturale, poiché molti professionisti si allontanarono dai suoi tradizionali campi di indagine (metafisica, filosofia morale) a favore di campi che ne facevano una sorta di ancilla scientiae.(filosofia analitica, filosofia della scienza). La scienza naturale, dopotutto, era la vera fonte di conoscenza. Tutto il resto era speculazione.

Un impegno per il bene dell’autoespressione dell’individuo unico è andato di pari passo con un’enfasi sui valori umani universali rispetto ai valori nazionali o locali. Questi valori, tuttavia, non erano particolarmente le verità etiche universali rivendicate, ad esempio, dal cristianesimo.

Per alcune interessanti illustrazioni americane di ciò che descrive Del Noce, rimando il lettore ai capitoli 3 e 4 di The Twilight of the American Enlightenmentda George Marsden, l’illustre storico evangelico. Quello che Marsden chiama l’Illuminismo “americano” è in realtà il difficile “matrimonio” che aveva segnato così tanto della storia degli Stati Uniti: il matrimonio tra l’Illuminismo e il protestantesimo. Quindi l’affermazione di Del Noce deve essere adattata al contesto americano dicendo che mentre in Europa la mentalità dell’Illuminismo è stata riscoperta, negli Stati Uniti (dove era già forte) si sentiva abbastanza forte da allontanarsi dalla sua difficile alleanza con il cristianesimo protestante. Con questa qualifica, Marsden concorda con Del Noce sul punto essenziale: “A tutti questi livelli della vita americana tradizionale, dai più alti forum intellettuali alle colonne di consigli quotidiani più pratici, due di queste autorità sono state quasi universalmente celebrate: l’autorità del metodo scientifico e l’autorità dell’individuo autonomo “.

Secondo Del Noce, alla grande svolta culturale alla fine degli anni Cinquanta contribuì un’altra riscoperta: quella del marxismo. Nella cultura europea il marxismo era già tornato alla ribalta dopo la seconda guerra mondiale, diventando egemonico, ad esempio, tra gli intellettuali francesi e italiani. Negli Stati Uniti, ovviamente, durante la Guerra Fredda, la cultura dominante era decisamente anticomunista. Tuttavia, secondo Del Noce, le idee marxiste avevano una portata molto più ampia del comunismo come movimento politico. Se si riconosce come nucleo del marxismo l’affermazione della priorità causale dei fattori economici-materiali, la tendenza a “spiegare ciò che è superiore attraverso ciò che è inferiore” e la teoria della “falsa coscienza” (che sostiene che si appella all’etica universale e i valori religiosi sono generalmente travestimenti per interessi economici egoistici), allora bisogna ammettere che il marxismo ha avuto una grande influenza, ad esempio, sulle scienze sociali. Mentre gli intellettuali laici generalmente rifiutavano la filosofia della storia di Marx (l’aspettativa della rivoluzione, il ruolo messianico del proletariato e così via), molti di loro aderivano ampiamente agli aspetti scientisti e materialistici del marxismo. Presi isolatamente, questi tendono a persuadere gli aderenti ad adottare un “relativismo totale”; tutti i valori sono i riflessi di circostanze storiche materiali, di gruppo o di interesse personale; non hanno validità permanente. È in questo senso, scriveva Del Noce, che “la rinascita della mentalità illuminista e la riscoperta del marxismo si sono incontrate e si sono compenetrate”.

Mentre gli intellettuali laici generalmente rifiutavano la filosofia della storia di Marx, molti di loro aderivano ampiamente agli aspetti scientisti e materialistici del marxismo. Presi isolatamente, questi tendono a persuadere gli aderenti ad adottare un “relativismo totale”: tutti i valori sono il riflesso di circostanze storiche materiali, di gruppo o di interesse personale, e non hanno validità permanente.

Già nel 1963 Del Noce ha diagnosticato che questa confluenza di temi illuministici e idee marxiste caratterizzava una “nuova” cultura, che ha variamente descritto come la società “tecnologica” o “ricca”, o come “progressismo”. Ha anche predetto che quando questa mentalità è penetrata dalle élite intellettuali nella società più ampia (attraverso l ‘”industria della cultura”, i mass media, l’istruzione pubblica, ecc.), Avrebbe prodotto precisamente alcuni degli effetti descritti in The Upswing : crescente individualismo, frammentazione sociale , diminuzione della religiosità, crescente disuguaglianza economica. Ha basato la sua previsione sul fatto che la nuova cultura era radicalmente positivistica, e quindi destinata a “demitizzare” e infine a distruggere le narrazioni simboliche e religiose che legavano insieme la società.

Per spiegare meglio questo punto cruciale, lasciatemi fare riferimento al classico cliché “Dio, famiglia e paese”. Questo slogan è stato sfruttato da molti politici senza scrupoli e ridicolizzato da altrettanti intellettuali sofisticati, ma indica una verità importante. Le persone si sentono unite ad altre persone se condividono quella che Del Noce chiamava una “dimensione ideale” che inevitabilmente si riferisce a ciò che chiamava “l’invisibile” o “il sacro”. Per essere unite le persone devono riconoscersi a vicenda come partecipanti a esperienze e valori universali che trascendono l’utilità individuale immediata. La religione, la famiglia e la nazionalità sono tre di queste fonti fondamentali di “sacralità”. Ora, secondo Del Noce, la società benestante tende a “dissacrarli” e di conseguenza diventa lentamente una “non società” formata da individui “atomizzati”.

Per essere unite le persone devono riconoscersi a vicenda come partecipanti a esperienze e valori universali che trascendono l’utilità individuale immediata.

Per quanto riguarda “Dio”, Del Noce sostiene che il dopoguerra ha visto nascere una nuova forma di “irreligione” ben diversa dall’ateismo tradizionale. Piuttosto che negare direttamente l’esistenza di Dio, i pensatori neo-illuministi professavano una forma di agnosticismo scientistico. Questo pretendeva di essere religiosamente “neutro” ma in realtà minò la religione a un livello più profondo, negando il valore intellettuale e pratico delle questioni religiose . Da una prospettiva scientista “queste domande irrisolvibili sono anche quelle che non ci interessano; nel senso che non interessano coloro che vogliono agire nel mondo per migliorarlo in alcun senso. ” Le questioni religiose sono irrilevanti per la vita sociale, economica e culturale, tranne che come potenziale fonte di conflitto civile, che deve essere evitato accettando che “la politica democratica può essere solo una politica de-mitologizzata”. Questo atteggiamento relega la religiosità a una sfera strettamente privata e alla fine porta a una secolarizzazione radicale, “perché erode la dimensione religiosa fino a cancellare dalla coscienza ogni traccia della questione di Dio”.

Passando alla “famiglia”, Del Noce vede uno stretto legame tra scientismo e rivoluzione sessuale, il cui quadro concettuale è stato fornito dalla rinascita della sessuologia scientifica e della psicoanalisi negli anni ’50 e ’60. L’esperienza della sessualità in quasi tutte le culture è stata una via di trascendenza, così potente che deve essere ordinata con cura. Al contrario, la “scienza” non conosce la trascendenza. La sessualità scientifica e la psicoanalisi considerano la sessualità umana come un fenomeno puramente naturale, privo non solo di significato trascendente, ma anche di finalità intrinseche (ad esempio, la procreazione). Da una prospettiva scientista, gli impulsi sessuali sono semplicemente fenomeni naturali da studiare con metodi biologici o psicologici, ma non hanno uno scopo superiore e non hanno valore simbolico oggettivo (per non parlare di sacramentale). Di conseguenza, agli uomini e alle donne della società benestante viene insegnato a non trovare nel sesso nulla che punti al di là di loro stessi.

In questo senso, la filosofia della rivoluzione sessuale è “positivismo per le masse”. Ritiene che anche le relazioni umane più intime siano essenzialmente “prive di significato” tranne che per il significato “diamo loro”. Il sesso diventa una transazione romantica (nella migliore delle ipotesi) tra individui autonomi e fondamentalmente isolati, e il matrimonio diventa molto simile a quello che nel diciannovesimo secolo era chiamato “amore libero”, cioè una libera associazione che dura finché dura l ‘”amore”. e può essere sciolto quasi a piacimento. Chiaramente, questa concezione del matrimonio “centrata sulla coppia” implica una sorta di “de-sacralizzazione” dell’idea di “famiglia”.

Un tipo simile di desacralizzazione si applica all’idea di “nazione”. Ho già accennato al carattere universalista e cosmopolita della cultura neo-illuminista emersa all’epoca della “svolta”. Aggiungo che anche in questo caso Del Noce pensa che ci sia una necessità filosofica. Le nazioni erano tradizionalmente basate su identità religiose o culturali, articolate in storie di fondazione, in “miti” ed “eroi” nazionali, che incarnavano uno scopo collettivo. Nessuno di questi ha senso da una prospettiva scientista-positivistica. Una nazione è solo una forma di organizzazione politica ed economica, completamente sostituibile da forme più efficienti. L’amore per la patria è nel migliore dei casi una reliquia romantica, nel peggiore una forma di fanatismo e fonte di una passione pericolosa. Se qualcosa, un abitante della società benestante sentirà una maggiore fedeltà alla comunità globale di manager illuminati, tecnologi, filantropi e uomini d’affari che alla sua nazione d’origine.

 

Chiaramente, a lungo termine questo è destinato a creare una frattura politica (all’interno dei paesi sviluppati) tra l’élite tecnocratica (tipicamente concentrata attorno a poche grandi “città del mondo”) e coloro che condividono il vecchio senso di identità basato sulla nazione (tipicamente che vivono in aree periferiche). Questo è solo un aspetto di un fenomeno generale che Del Noce descrive come segue: nelle società prive di un terreno comune “ideale” (religioso, filosofico) “la separazione tra la classe dirigente e le masse diventa estrema perché i membri della prima sanno che ogni argomento in termini di valori è semplicemente l’ideologia come strumento di potere “. Tutto, per loro, è già smascherato, e quelli per i quali non è smascherato lo sono. . . beh, non sono illuminati.

In sintesi, Del Noce sosteneva che in una cultura radicalmente scientista-positivistica come quella che divenne dominante in Occidente intorno al 1960 tutte le forme di “appartenenza” si indeboliscono a causa della scarsità di un terreno comune ideale. Questa rozza sintesi, ovviamente, non rende giustizia alla sua analisi. Ad esempio, non posso discutere qui le sue opinioni sui critici interni della società benestante, in particolare i movimenti di protesta degli anni Sessanta e Settanta. Mi limiterò a menzionare che, a suo parere, quei movimenti (che in un certo senso possono essere visti come i paralleli della reazione romantica al primo Illuminismo) per lo più non sono riusciti ad affrontare i fondamenti filosofici della nuova società, e in realtà spesso hanno finito per giocare nella sua mani, criticando le istituzioni “tradizionali” che in realtà ostacolavano il processo “We-to-I” (la chiesa, la famiglia,educazione liberale, ecc.).

Ma basta con l’analisi del “declino”. Del Noce ha qualcosa da dirci sulla questione sollevata in The Upswing ? Cioè, cosa ci vorrà per superare un altro punto di svolta e iniziare a muovere il pendolo nella direzione opposta: tornare indietro verso la solidarietà?

In una cultura radicalmente scientista-positivistica tutte le forme di “appartenenza” si indeboliscono a causa della scarsità di un terreno comune ideale. Cosa servirà per superare un altro punto di svolta e iniziare a muovere il pendolo nella direzione opposta: tornare indietro verso la solidarietà?

Chiaramente, ritenendo che la cultura abbia giocato un ruolo di primo piano nella svolta, Del Noce era propenso a privilegiare una sorta di “revisione culturale” per invertire la tendenza. Ciò implica, tra le altre cose, che la politica può svolgere solo un ruolo di supporto, mentre l’istruzione deve essere al centro dell’attenzione. Non a caso, l’istruzione è uno dei campi che ha sofferto di più nella società ricca-tecnologica. Privata di narrazioni e ideali, l’educazione è stata impoverita dall’utilitarismo, che si manifesta come un’enfasi sulla tecnologia nelle scienze. La politicizzazione nelle discipline umanistiche sembra essere un tentativo di recuperare un qualche senso narrativo o ideale, ma a scapito di un dibattito umano e aperto, di una curiosità rigorosa e di una connessione con idee precedenti e forse più ricche di giustizia e natura umana. (O, ovviamente, può semplicemente accadere che, poiché le facoltà umanistiche perdono la convinzione che la bellezza artistica e la verità filosofica siano oggetti di studio e contemplazione intrinsecamente meritevoli, devono giustificare la loro esistenza affermando che i loro soggetti hanno rilevanza politica, e quindi pratica).

Innumerevoli tentativi di “aggiustare” l’istruzione primaria e secondaria come se fosse un problema “tecnico” sono falliti, perché non può esserci educazione senza un’immagine organica di ciò che significa essere umani, e la cultura secolare moderna non ne ha una, o il uno che ha è inadeguato al compito. Quindi, la vera domanda che dovremmo porci è: quali risorse culturali devono essere portate al sistema educativo, e alla cultura in generale, per rendere possibile una nuova ripresa?

Non può esserci educazione senza un’immagine organica di ciò che significa essere umani, e la moderna cultura secolare non ne ha una, o quella che ha è inadeguata al compito. Quindi, la vera domanda che dovremmo porci è: quali risorse culturali devono essere portate al sistema educativo, e alla cultura in generale, per rendere possibile una nuova ripresa?

Un approccio semplice è guardare alle idee che hanno guidato la svolta precedente (quella intorno al 1960) e metterle in discussione. Invece di vivere in una relazione perennemente antagonista con il nostro passato collettivo, dobbiamo fare pace con esso, il che richiede essere in grado sia di rifiutare i suoi errori che di valutare ciò che era prezioso. Invece di ribellarci ai vincoli della religione, della famiglia e del paese, dobbiamo riconoscere ciò che Simone Weil chiamava “il bisogno di radici”. Dobbiamo capire che i valori universali possono essere realizzati solo in forme locali e contingenti. Dobbiamo imparare ad accettare i limiti, e venire a patti con il fatto che gli esseri umani non possono avere un sano rapporto con il visibile (come direbbe Del Noce) senza fare i conti in qualche modo con l’invisibile . Quest’ultima osservazione ci porta al punto critico: una nuova ripresa sarà impossibile senza adeguate risorse religiose. La buona volontà, o politiche migliori, o strumenti tecnici più avanzati semplicemente non affronteranno gli aspetti culturali della crisi. Ma la vera religione non può essere fabbricata a volontà. È necessaria una conversione. Come dice Del Noce, serve un risveglio religioso, perché religione, patria e famiglia sono ideali supremi e non strumenti pratici. Ed è certamente un punto valido che la formula corruzione optimi pessima si applichi al deterioramento che colpisce questi ideali quando sono visti, almeno in primo luogo, come strumenti pragmatici del benessere sociale. Per essere socialmente utili devono essere pensati all’interno delle categorie del vero e del bene; il contrario è impossibile. Certamente, un tale risveglio non può essere un’opera meramente umana. Ma ciò nondimeno richiede, per realizzarsi, che i cuori degli uomini siano attenti.

Allora partecipiamo.

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La storia dei due vasi cinesi, a cura di Giuseppe Imbalzano

La storia dei due vasi cinesi
Una anziana donna cinese possedeva due grandi vasi, appesi alle estremità di un lungo bastone che portava bilanciandolo sul collo.
Uno dei due vasi aveva una crepa, mentre l’altro era intero. Così alla fine del lungo tragitto dalla fonte a casa, il vaso intero arrivava sempre pieno, mentre quello con la crepa arrivava sempre mezzo vuoto.
Per oltre due anni, ogni giorno l’anziana donna riportò a casa sempre un
vaso e mezzo di acqua.

Ovviamente il vaso intero era fiero di se stesso, mentre il vaso rotto si vergognava terribilmente della sua imperfezione e di riuscire a svolgere solo metà del suo compito. Dopo due anni, finalmente trovò il coraggio di parlare con l’anziana donna, e dalla sua estremità del bastone le disse: “Mi vergogno di me stesso, perché la mia crepa ti fa portare a casa solo metà dell’acqua che prendi”.

L’anziana donna sorrise “Hai notato che sul tuo lato della strada ci sono sempre dei fiori, mentre non ci sono sull’altro lato? Questo succede perché, dal momento che so che tu hai una crepa e lasci filtrare l’acqua, ho piantato semi di fiori solo sul tuo lato della strada. Così ogni giorno, tornando a casa, tu innaffi i fiori.
Per due anni io ho potuto raccogliere dei fiori che hanno rallegrato la mia casa e la mia tavola. Se tu non fossi così come sei, non avrei mai avuto la loro bellezza a rallegrare la mia abitazione”

Ciascuno di noi ha il suo lato debole. Ma sono le crepe e le imperfezioni che ciascuno di noi ha che rendono la nostra vita insieme interessante e degna di essere vissuta.
Devi solo essere capace di prendere ciascuna persona per quello che è, e scoprire il suo lato positivo.
Buona giornata a tutti coloro che si sentono un vaso rotto, e ricordatevi di godere del profumo dei fiori sul vostro lato della strada!

tre punti di partenza, di Pierluigi Fagan

https://www.facebook.com/pierluigi.fagan/posts/10221964943728277GEOSTORIA FILOSOFICA. Le tre principali tradizioni di pensiero, indiana, cinese, occidentale cioè greca alle origini, potrebbero esser definite dall’atteggiamento nei confronti della realtà,: come è (indiana), come va intesa (cinese), come va agita (greca). Ci riferiamo alla “filosofia prima”, alla prima considerazione che fonda un sistema di pensiero.

Per la tradizione indiana, la molteplicità è apparenza di un’unica sostanza, il Brahman. Per la tradizione cinese, la sostanza è alternarsi di due principi che convivono in diverse proporzioni dinamiche, lo Yin e lo Yang. Per la tradizione greco-occidentale la sostanza o è A o è B, il che crea i presupposti dinamici del divenire e del polemos.

Si potrebbe quindi forse dire che per la tradizione indiana importante era sapere com’è davvero la realtà e questo sapere porta a dire che “questa” realtà è solo un riflesso da noi condizionato di una realtà non esperibile, ma intuibile, altra. Questa realtà vera, per quanto a noi inattingibile, è Una, a-dimensionale, a-temporale. Un com’è davvero.

La tradizione cinese invece, vede dualità ma la ritiene apparente anch’essa, non per una riconducibilità ultima ad un Uno sottostante, ma perché tale dualità è complementarietà, armonia, dinamica di prevalenze momentanee. Un come va intesa.

La tradizione greco-occidentale, da ultima, vede invece dualità in conflitto, o prevale l’una o l’altra e da questo eterno polemos, la dinamica del mondo. Un come va agita.

La tradizione indiana è, cronologicamente, la più antica e la meno definibile storicamente. Sanscrito e Veda, si pensa fossero portati da sacerdoti di popolazioni indoeuropee di cui sappiano poco o nulla. Inoltre, non sappiamo quali fossero i pensieri originari e quanto siano stati ibridati da evoluzioni successive. Tra Bhagavadgītā ed i precedenti Veda più antichi (i Rg Veda) corre un millennio o forse più se il Rg Veda è a sua volta -come sembra- lo scritto di una più lunga ed antica tradizione orale.

La tradizione cinese è la seconda in ordine di tempo. Il suo corpo principale compendiato nell’Yi JIng, è autoctono, mentre il successivo afflusso del taoismo, sembra influito da correnti del buddhismo (Chan). Nell’Yi Jing, a su volta versione scritta di una tradizione orale precedente che potrebbe risalire indietro anche di mille anni (o più), tutto scaturisce da due elementi simbolizzati nella linea continua ed in quella spezzata.

La tradizione greca nasce dalla confluenza tra tradizioni mitologiche locali ed una decisa influenza indiana, diretta o mediata dai popoli intermedi, i persiani. Persiani che, a loro volta, furono pesantemente influiti da un braccio dello stesso flusso di popoli e credenze che era arrivato in India (via valle dell’Indo, oggi Pakistan). Tra l’antica Avesta ed i Rg Veda, ci sono infatti punti di contatto. Essendo la più tarda e la più influita geo-storicamente è la meno definibile unitariamente. Gli influissi iranico-asiatici che arrivano a Mileto danno degli esiti, quelli che arrivano sotto forma di pratiche religiose (i Misteri), altri. Pitagora che molto influì su Platone, ad esempio, essendo di Samo, era di area culturale anatolica visto che distava da Mileto cinque-sei volte meno che da Atene. Nel Platone del Timeo, ci sono forti influssi della religione degli ebrei, la quale a sua volta -nella cattività babilonese- venne decisivamente influita dalla tradizione iranica, cioè zoroastriana (quindi antico indoeuropea). Parmenide era della Magna Grecia, Elea, ma il popolo greco che fondò la città era dell’Anatolia, Focea, poco più a nord di Samo e Mileto.

Ma lasciando a queste rapide tracce originarie l’intricatissimo albero delle discendenze ed influenze, rimane forse l’atteggiamento filosofico come guida del comportamento. Quello di un sostanziale disimpegno dalla realtà concreta degli indiani concentrati nella ricerca interiore, quello cinese molto pragmatico che cerca la relazionalità e l’armonia tra le diverse forme date dall’alternanza dei due principi fondativi, quello di forte ingaggio nella realtà con sforzi per prevalere, quindi di “polemos” per i greci poi occidentali.

Questi, in particolare, sembrano fortemente influiti dalla nativa culla geografica divisa tra Anatolia, Egeo, Attica e Magna Grecia. In particolare dal fatto che sia le forme di costa, che quelle più chiaramente isolane, hanno favorito la nascita di città-Stato che non avevano alcuna facilità ad espandersi per cooptazione dei vicini formando regni o imperi, com’era nella antica tradizione iranico-mesopotamica-levantina-egiziana-ittita. Nacquero città-Stato tra loro polemiche e tali rimasero fino ad Alessandro Magno, la cui “unificazione” politica durò lo spazio di un mattino. Polemici all’esterno, l’una città con l’altra, polemici all’interno di “stasis” in” stasis”, guerra civile, alternanza tra tiranno e demos.

La conformazione geografica dell’Europa con grandi e medie isole, penisole, catene montuose che dividono spazi di una certa omogeneità (alpi scadinave, italiche, Pirenei, Urali), grandi fiumi meridiani o su paralleli come il Danubio, sembra ripetere lo schema non più di piccole città-Stato ma di Stati poi Nazioni, polemici anch’essi, tanto all’interno che all’esterno. Quando gli europei, i portoghesi per primi, cominciarono a cercar fuori di Europa sostanze per alimentare i propri conflitti interni al sub-continente, nacque la verve coloniale (XV secolo) ed il successivo conato a dominare quanto più mondo possibile.

Gli eredi odierni di queste tradizioni, sono molto più ibridati dei loro antenati. Ma il fondo metafisico ha una sua longeva perduranza e nei sistemi di pensiero che sono per lo più forme ad albero, il fondo (o tronco o radici) sono molto influenti nell’arborizzazione successiva. Chissà quindi, nel prossimo futuro e rimanendo allo stretto del continuum euroasiatico, quale tra ciò che promana dalla tradizione del com’è, del come va inteso o del come va agito, risulterà più adattativo.

Sempre che si debba applicare una logica disgiuntiva o congiuntiva, diplomatica o polemica, idealistica o pragmatica …

Su Hegel e la virtù, di Teodoro Klitsche de la Grange

POST – FAZIONE su Hegel e la virtù

Nello scrivere il suesteso articolo sulla virtù e lo Stato moderno https://italiaeilmondo.com/2018/05/01/virtu-e-stato-moderno-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/ , avevo omesso di considerare ciò che Hegel sosteneva, in particolare nella “Fenomenologia dello spirito” sulla virtù e su come diversamente considerata dagli antichi e dai moderni.

In effetti il filosofo nota due cose, spesso ripetute nei secoli successivi; la prima che la virtù esternata dai moderni è per lo più “Pomposo discorrere del sacrificio per il bene e dell’abuso delle doti; simili essenze e fini ideali si accasciano come parole vuote che rendono elevato il cuore e vuota la ragione; simili elevate essenze edificano, ma non costruiscono, sono declamazioni che con qualche determinatezza esprimono soltanto questo contenuto: che l’individuo il quale dà ad intendere d’agire per tali nobili fini e ha sulla bocca tali frasi eccellenti, vale di fronte a se stesso come un’eccellente essenza, ma è invece una forzatura che fa grossa la testa propria e quella degli altri, la fa grossa di vento…Ma la virtù da noi considerata è fuori della sostanza, è priva di essenza, è una virtù soltanto della rappresentazione, virtù di parole prive di qualunque contenuto…La nullità di quella chiacchiera sembra essere divenuta certa anche per la cultura del nostro tempo, sebbene in modo inconsapevole; giacchè dall’intera massa di quelle frasi e dal vezzo di farsene belli è dileguato ogni interesse, il che trova la sua espressione nel fatto ch’esse producono soltanto noia”.

Il secondo è che, di converso “La virtù antica aveva il suo significato preciso e sicuro, perché possedeva un suo fondamento pieno di contenuto nella sostanza del popolo e si proponeva come fine un bene effettuale già esistente; e perciò non era rivolta contro l’effettualità (intesa) come una universale inversione, nè contro un corso del mondo”[1].

Nel Grundilinien das philosophie des recht Hegel confermava che « Il discorso su la virtù, però, sconfina facilmente nella vuota declamazione, perché se ne parla solo come di un’entità astratta e indeterminata, e, analogamente, un tale discorrere, con le sue ragioni ed esposizioni, si rivolge all’individuo come a un arbitrio e capriccio soggettivo”[2], l’etico è unità di sostanzialità e soggettività “La vigenza di questo diritto consiste nel fatto che, nella sostanzialità etica, sono dileguate ogni caparbietà e ogni Coscienza singolare che, in quanto essente-per-sé, si opporrebbe appunto alla sostanzialità”[3].

La concretezza della virtù degli antichi, indirizzato alla “sostanza del popolo” e al “bene effettuale già esistente” è particolarmente evidente nel racconto di Plutarco sul discorso di Volumnia, la madre di Coriolano, al figlio per persuaderlo a non combattere contro Roma. Volumnia parla come madre (fisica), ma le sue parole sono anche (e soprattutto) quelle della madre politica: infatti è consapevole che se Coriolano ne seguirà l’esortazione, sarà ucciso. Ma nella decisione tra la patria e la vita del figlio (ossia tra pubblico e privato) non ha esitazioni né dubbi: sacrifica i sentimenti privati alla salvezza di Roma: ed esorta il figlio a fare altrettanto: “Perché taci o figlio? Forse che è nobile abbandonarsi completamente all’ira e al rancore mentre è disonorevole cedere alla madre che ti rivolge una così grave preghiera?… E a nessuno come te si converrebbe di osservare i doveri della riconoscenza, a te che così duramente ti vendichi dell’ingratitudine. Eppure, benché ti sia ampiamente vendicato della patria, a tua madre non hai mostrato alcun segno di riconoscenza”[4]. Coriolano così compì la scelta perorata dalla madre: salvò Roma e venne ucciso dai Volsci.

L’opposto di Coriolano era Polinice, il figlio di Edipo morto combattendo contro la propria patria per affermare il proprio diritto alla successione al trono del padre e al rispetto del relativo patto con il fratello Eteocle: ovvero per un diritto (soggettivo) appartenente a se medesimo.

Se l’aspetto soggettivo è comune a Polinice ed ai pomposi banditori “del bene supremo dell’umanità e dell’oppressione di questa” diverso ne è il bene protetto. Nell’eroe antico è la concreta spettanza di un diritto; nei moderni è, come scriveva Hegel, privo di sostanza, pura rappresentazione ideale: “virtù di parole prive di qualunque contenuto”. Ossia buone intenzioni (e, spesso, derivazioni paretiane).

Hegel torna ancora sulla virtù dei moderni nelle “Lezioni sulla filosofia della storia” in particolare sulla concezione della virtù da parte dei rivoluzionari giacobini “Dominano ormai i principi astratti della libertà e della sua manifestazione nella volontà soggettiva, la virtù. La virtù deve ancora governare i molti che, con la loro corruzione e con i loro vecchi interessi, o anche per gli eccessi della libertà e delle passioni, le sono infedeli. Il principio della virtù fu posto come principio supremo da Robespierre, e si può dire che quest’uomo la prese veramente sul serio. La virtù è qui un principio semplice, e distingue solo quelli che hanno un convincimento da quelli che non l’hanno. Ma il convincimento non può essere conosciuto e giudicato che dal convincimento. Domina perciò il sospetto: ma la virtù, appena diviene sospetta, è già condannata”. La virtù astratta governa col sospetto e col terrore: “Dominano così, ora, la virtù e il terrore: infatti questa virtù soggettiva, che governa solo in base al convincimento, porta con sé la più terribile tirannia. Essa esercita il suo potere senza forme legali, e la pena che infligge è egualmente semplice: la morte”. I principi rivoluzionari, sosteneva Hegel, trovavano terreno fecondo nelle nazioni cattoliche[5]. Il liberalismo ha dominato tutte le nazioni romaniche, “cioè tutto il mondo cattolico-romano, la Francia, l’Italia, la Spagna, il Portogallo. Ma dappertutto ha fatto bancarotta … In tutte queste rivoluzioni va messo in rilievo il fatto che esse sono esclusivamente politiche, senza mutamento di religione. In questa specie della libertà dello spirito, la religione non prosperò né decadde. Ma senza mutamento religioso non può avvenire una rivoluzione politica. La libertà dello spirito, come è stata espressa nella nazioni romaniche, i principi stessi di questa libertà, sono solamente principi astratti”[6].

In sostanza la virtù, in senso politico, è questione pubblica ed essenzialmente comunitaria che nella difesa della comunità e del suo modo d’esistenza ha la propria funzione e la propria oggettività. La lezione del grande filosofo è tuttora attuale.

[1] V. Fenomenologia dello spirito, trad. it. di E. De Negri, Firenze 1973 pp. 323-324.

[2] V. Op. cit. ult. prgrf.150 trad. It. Di V. Cicero, Milano; “L’Etico, in quanto è il modo d’agire universale degli individui stessi appare come ethos, costume. L’Etico è qui la consuetudine dell’ethos, è come una seconda natura messa al posto della prima volontà meramente naturale”

[3] Op. ult. cit. prgrf. 152 e prosegue Colui che ha un carattere etico, infatti, ma come proprio fine motore l’universale immobile, il quale però nelle sue determinazioni, si è dischiuso a razionalità reale. Chi ha un carattere etico conosce la propria dignità e ogni sussistenza dei fini particolari come fondate in questo universale, e qui le ha realmente”; riporta questo aneddoto per illustrare il connotato peculiare dell’eticità antica “Alla domanda di un padre sulla maniera migliore di educare il proprio figlio, un pitagorico diede la seguente risposta (che viene messa anche in bocca ad altri) fallo cittadino di uno Stato con buone leggiop. ult. cit. prgrf. 153, la sostanza etica è ”lo Spirito reale  di una famiglia e di un popolo” op. ult. cit. prgrf. 156.

[4] V. Plutarco, Vite parallele. Coriolano, trad. it. di L. M. Raffaelli, Milano 1992 p. 241.

[5] Tuttavia è bene ricordare che nelle nazioni cattoliche trovarono le più determinate opposizioni che presero forma nelle guerre partigiane: dal cardinale Ruffo a Empecinado ad Hofer.

[6] V. LFS Firenze 1963, vol. IV, p. 209 ss.