CONSIDERAZIONI A MARGINE DI “Lettura sul dramma di Macerata: lo scontro delle secolarizzazioni”_ DI MASSIMO MORIGI

 Francesco Hayez, La Meditazione, 1850, olio su tela, 90 x 70 cm, Galleria d’Arte moderna Achille Forti, Verona.
La figura femminile malinconica fu un tema caro a Francesco Hayez, che ne realizzò diverse versioni. Il tema era tradizionalmente legato alla rappresentazione delle sofferenze amorose, ma dopo l’insuccesso della Prima guerra d’indipendenza, questa iconografia si caricò di nuovi significati. La figura della Malinconia (o Meditazione) diventò la personificazione allegorica dell’Italia che riflette sul fallimento degli eventi del 1848, come confermano la scritta sul
dorso del libro (Storia d‘Italia) e le date in rosso delle Cinque Giornate di Milano sulla croce (simbolo del martirio patriottico)

 

Considerazioni dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico a margine a “Lettura sul dramma di Macerata: lo scontro delle secolarizzazioni” di Alessandro Visalli (originariamente pubblicata all’URL https://tempofertile.blogspot.it/2018/02/letture-sul-dramma-di-macerata-lo.html    e ora all’URL http://italiaeilmondo.com/2018/02/20/letture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli/  –  WebCite: http://www.webcitation.org/6xPpiXVOA e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F02%2F20%2Fletture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli%2F&date=2018-02-22)

 

 

Di Massimo Morigi

 

Nell’anno in cui si iscrisse al PCI, il 1948, Delio Cantimori pubblicò sulla “Nuova Rivista di diritto Commerciale, Diritto dell’Economia, Diritto sociale”, anno I, fasc. 9-12, 1948, “Idee di riforma sociale in Italia”, il cui testo era l’elaborazione a scopo di pubblicazione di  due lezioni che lo storico romagnolo aveva tenuto nell’estate del  1946 per l’Istituto per la Riforma Sociale di Pisa. Queste “Lezioni”, oltre a costituire una impeccabile ricostruzione storica delle idee e dell’agire dei riformatori sociali che si confrontarono e scontrarono nel Risorgimento italiano, sottintendeva, attraverso questa ricostruzione, la direzione verso la quale un’Italia uscita a pezzi dal secondo conflitto mondiale avrebbe dovuto imboccare e questo nuovo inizio, per Cantimori, avrebbe dovuto evidentemente prendere le mosse ispirandosi alla figura di Giuseppe Mazzini, al quale è dedicata la parte più significativa e pregnante delle “Lezioni”. Ed è anche altrettanto evidente che nelle “Lezioni”  Mazzini, o meglio il movimento storico che egli seppe creare, non è per Cantimori solo il momento imprescindibile e fondante nella costruzione dell’unità ed identità italiana, ma costituiva anche la proposta politico-culturale avanzata dallo storico romagnolo al  Partito comunista –  nel quale Cantimori intendeva svolgere il suo operato di intellettuale –  di un personaggio che aveva presieduto alla sua personale Bildung politico-culturale, il quale partendo da un ambiente romagnolo e da una famiglia profondamente intrisi di mazzinianesimo, aveva cercato, senza successo, di far vivere questa formazione prima nel PNF e ora nel PCI di Togliatti. Molto è stato scritto riguardo alla fuoruscita di Cantimori dal PCI avvenuta nel ’56, fuoruscita generalmente attribuita ad una forma di protesta per l’invasione da parte dell’Unione Sovietica dell’Ungheria e alla denuncia  di Chruščëv al XX congresso del PCUS, tramite il cosiddetto rapporto segreto intitolato “Sul culto della personalità e le sue conseguenze”, del culto della personalità di Stalin, con i conseguenti terribili eccessi che ne erano derivati. Molto più verosimilmente, invece, Cantimori uscì dal PCI non perché questo partito non si fosse schierato contro l’Unione sovietica e perché all’interno di questo partito sarebbero sempre stati all’ordine del giorno sistemi “staliniani”, seppur in sedicesimo, e che avrebbero denotato, tramite il rapporto segreto, una specie di male diffuso anche negli altri partiti comunisti, ma perché già allora era evidente che sia sul versante culturale che su quello politico il PCI non era in grado di implementare quella rivoluzione sociale di tipo mazziniano che aveva costituito il “perno psicologico” dell’attività scientifica di Cantimori (i principali studi di Cantimori, pur non occupandosi mai direttamente di Mazzini, furono sempre incentrati dallo sforzo di far affiorare il contributo italiano al processo di modernizzazione politica europea: vedi per tutti i suoi “Eretici italiani del Cinquecento”) e della vita pubblica di Cantimori (il Cantimori fascista apparteneva all’ala sinistra del PNF, quella parte del partito, per dirla in due parole, che vedeva la gerarchia in funzione della missione sociale del fascismo e non viceversa, come invece i fascisti di destra e reazionari). Citiamo allora la parte di questo articolo di Cantimori riguardante Mazzini, non tanto per rievocare un tentativo fallito di far germinare all’interno del PCI guidato da Palmiro Togliatti la tradizione sociale mazziniana, ma perché queste parole di Cantimori su Mazzini possono essere considerate la migliore risposta al pur pregevole articolo di Alessandro Visalli “Letture sul dramma di Macerata: lo scontro delle secolarizzazioni”, eccellente sì per sincerità di sforzo di analisi (ed anche per il risultato della stessa, specialmente quando afferma che i flussi migratori sono funzionali alla costituzione di un esercito industriale di riserva) ma  che anche deve però pagare pesanti pedaggi al politically correct ed ad una visione ancora ideologica e insufficientemente strategica del problema dell’immigrazione. Facciamo quindi parlare Cantimori: «Su questo sfondo di dottrinari risalta il profondo realismo rivoluzionario di Giuseppe Mazzini.   Egli non concilia o unisce (o sovrappone astrattamente, come meglio si dovrebbe dire) le nuove dottrine, i nuovi principî, il  «verbo della nuova età» all’istanza politica nazionale unitaria, ma tiene sempre fermo ad essa, non tanto subordinando le dottrine all’azione, anzi facendo sorgere le dottrine (o la polemica contro le dottrine) dall’azione stessa, dalle situazioni, dalle possibilità stesse dell’azione. Non che manovri la bandiera della riforma sociale come il Cavour manovrava elegantemente lo spauracchio della rivoluzione socialista: non si tratta di abilità politica, nel senso tecnico della parola; Mazzini coglie genialmente e spontaneamente lo stato degli animi, coglie i sentimenti, le aspirazioni, le vaghe idee, i bisogni, i timori, le speranze, e li convoglia, li rielabora in funzione della rigenerazione della patria attraverso l’unità e l’indipendenza. Perciò non si può né si deve considerare Mazzini – neanche il Mazzini scrittore – coi metodi della storia delle dottrine e delle ideologie: le sue posizioni dottrinali e ideali sono in funzione diretta dell’azione politica a lunga scadenza e di grande portata, e perciò non si esauriscono in semplici programmi e progetti o in pure considerazioni teoriche, anche quando l’azione non è coronata da successo immediato. Il Salvemini e il Mondolfo hanno già rilevato come negli scritti di Mazzini si trovino pagine di tipo socialista, e di tipo socialista moderno, tanto polemiche e critiche,  da poter giustificare a loro giudizio l’avvicinamento (puramente teorico) a Marx, al di là delle cattive relazioni personali che fanno la delizia di coloro i quali, nel migliore dei casi, non sanno fare distinzione fra giudizio politico e giudizio storico; e hanno rilevato però anche le infinite pagine di polemica antisocialista e anticomunista che si trovano negli stessi scritti, tali da annullare quasi, l’interesse che presentano le altre. Questi due studiosi hanno anche osservato che le prime si trovano soprattutto negli scritti precedenti il 1852, le seconde nel periodo posteriore, dopo il consolidamento della reazione in Francia e in Europa, quando sembrò  al Mazzini che le dottrine socialiste avrebbero allontanato, col solo nome, e anche se moderate assai come quelle del Montanelli, la borghesia italiana dal programma unitario e repubblicano. O. Vossler ha anche notato acutamente come Mazzini, oltre la polemica contro i caratteri edonistici e materialistici dei «sistemi socialisti», rifiuti sempre di accettare in astratto la negazione della proprietà privata e combatta anche l’idea che il socialismo sia il principio o il «verbo» della nuova età, informatore di ogni altra idea e di ogni altra azione. Non è dunque il caso di specificare con citazioni, perché non c’è molto da aggiungere a quanto hanno detto questi studiosi, soprattutto il Salvemini e il Mondolfo, per lo meno dal punto di vista della storia dottrinale e ideologica. Va rilevato invece che l’azione del Mazzini, proprio sul terreno sociale, va molto al di là delle teorie (anche arditissime come quelle del suo omonimo, ma pure e astratte teorie) proposte dai «socialisti» italiani suoi contemporanei; e, in un certo senso, in quanto azione lungimirante, organizzata, almeno tendenzialmente, su largo piano, va molto al di là anche dell’azione diretta di Pisacane. Intendo riferirmi al fatto che Mazzini e i suoi seguaci hanno dato vita, si può ben dire, a tutto o a quasi tutto quanto è  esistito di movimento operaio (artigiano) fra gli italiani, in esilio o in patria, durante il Risorgimento. Anche dopo la venuta del Bakunin e durante i primi anni di attività dell’Internazionale in Italia si può ben dire che il movimento operaio (artigiano) italiano è prevalentemente, quasi unicamente mazziniano. Aveva ben ragione Mazzini, in sostanza, quando nel 1871 affermava: «Dal primo impianto della Giovine Italia fino alle nostre ultime manifestazioni la causa degli operai fu nostra e la immedesimammo col moto nazionale italiano… Aiutammo come era in noi… l’impianto delle società di Mutuo soccorso, … preludio a quelle di cooperazione… Tentammo di far intendere alle classi medie che il moto operaio non era sommossa sterile e passeggera…» Questa azione del Mazzini è più importante fra noi in quel periodo delle dottrine anche più ardite, ed è anche più importante delle varie insurrezioni di tipo «guerra ai palazzi, pace alle capanne», di cui abbiamo notizia qua e là prima, dopo, e durante il 1848-49, come sono state studiate, per esempio, per la Toscana, dall’Andriani, seguendo le indicazioni del Salvemini.» (citato da Delio Cantimori, “Studi di storia”, Torino, Einuadi, 1969, pp. 596-598). Cosa  ci dice quindi a chiarissime lettere Cantimori su Mazzini (e, di riflesso, su quello che avrebbe dovuto essere e l’azione del PCI nella società italiana e la sua stessa azione all’interno del PCI, e sia detto per inciso ma anche fondamentale per comprendere l’assoluta originalità, ed anche temerarietà, dell’azione che Cantimori voleva svolgere all’interno del PCI: è solarmente evidente dal passo citato che il Mazzini di Cantimori è un Mazzini in cui è determinante la griglia interpretativa dell’attualismo di Giovanni Gentile). In poche parole Cantimori ci dice che Mazzini non fu quell’acchiappanuvole idealista, e persino intimamente reazionario, sempre votato al fallimento, tramandatoci da una superficiale storiografia e stereotipo assorbito anche a livello popolare, ma, al contrario, afferma con vigore che Mazzini è il perfetto compendio del politico realista, un politico che, proprio per l’intrinseca serietà del suo agire, rifiuta di farsi ingabbiare in facili e rigidi schemi ideologici che privilegiano o le riforme sociali o l’irrobustimento (o creazione) di un’identità nazionale ma sviluppa il suo operato a seconda delle necessità reali o percepite tali dal popolo (che di volta in volta possono essere identitarie o di maggiore giustizia sociale, e ancor più sovente inestricabilmente legate assieme) ma questo non può essere definita demagogia   per ottenere facili successi immediati (l’azione di Mazzini fu sempre mirata ad ottenere il massimo risultato ma proiettato nel lungo periodo: per Mazzini l’insuccesso di un’insurrezione innescava un eroico processo di emulazione attraverso il quale, alla fine di un lungo e doloroso percorso di fallimenti e di schiere di  martiri, avrebbe trionfato la rivoluzione italiana) ma aveva il nobilissimo e strategico  scopo di ottenere nel popolo un armonioso sviluppo fra istanze culturali ed identitarie e le istanze di giustizia sociale, che per il Mazzini sono inscindibili e che solo per ragioni tattiche possono essere momentaneamente disgiunte. Per Mazzini la sintesi finale fra questi due momenti era l’istituzione della Repubblica ma quello che qui preme sottolineare, al di là del tristo santino repubblicano che di lui ci ha consegnato una tradizione politica assolutamente non degna della grandezza del personaggio, è  che per Mazzini la Repubblica era, insomma, l’obiettivo finale ed anche il momento simbolico di un grandioso sforzo strategico che il rivoluzionario di Genova intendeva svolgere sul (e a favore del) popolo italiano. Il popolo italiano era quindi per Mazzini e il centro strategico della sua azione e il precipitato finale di questa azione, e questo non perché disdegnasse le impostazioni socialistiche della rivoluzione ma perché aveva assolutamente chiaro che una rivoluzione su base unicamente economicista o, peggio, astrattamente universalistica era un autentico non senso. Mazzini, insomma, non era un astratto ed esaltato acchiappanuvole ma lo potremo definire il Lenin italiano – o, ancor meglio, il Lenin degli italiani o dell’Italia –  che se anche non disse mai “analisi concreta della situazione concreta” costantemente ispirò la sua azione a questa massima. Vengo rapidamente alla conclusione. Ottimo l’articolo di Vissalli, fatta però una fondamentale osservazione. In “Lettura sul dramma di Macerata: lo scontro delle secolarizzazioni” (risposta all’articolo di Roberto Buffagni “Intorno ai fatti di Macerata – Non c’è più religione? Dipende”, all’URL http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/ – WebCite: http://www.webcitation.org/6xJAwBIIo), il momento strategico  è concentrato e limitato sull’analisi del fenomeno migratorio come funzionale alla costituzione di un esercito industriale di riserva; del tutto però insufficiente riguardo le problematiche identitarie del popolo italiano; problematiche fatte emergere violentemente dai fenomeni migratori ma in cui questi fenomeni sono solo una parte del problema, iniziando questa crisi identitaria dalla sconfitta nel secondo conflitto mondiale (e massima e tragica espressione politica di questa crisi identitaria è l’ideologia antifascista – cioè non l’antifascismo sorto come logica, naturale e legittima reazione al regime fascista ma l’antifascismo foglia di fico per qualificarsi come democratici verso le potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale e braghettone ideologico per nascondere la guerra civile latente fra i partiti che erano subentrati alla apparente guida dell’Italia dopo il 25 aprile ma in cui il vero comando era riservato alle potenze angloamericane che avevano conquistato l’Italia –,  vero e proprio virus, questo antifascismo a regime fascista morto, geneticamente modificato e creato per  parassitare e alla fine a distruggere il DNA della tradizione storico-culturale italiana) e rincrudita ed accelerata dallo sviluppo economico capitalista del secondo dopoguerra. Cantimori uscì dal PCI per l’indifferenza che suscitò nel partito la sua linea culturale, e nella quale il mazzinianesimo (l’autentico mazzinianesimo – quel mazzinianesimo che ebbe il suo migliore studioso in Giovanni Gentile –, il mazzinianesimo fedele alle idee e all’operato del grande genovese, e che noi oggi definiamo ‘mazzinianesimo strategico’, non certo l’odierno caricaturale e deformato mazzinianesimo dei suoi indegni epigoni) costituiva la spina dorsale,  ma l’impostazione che voleva dare alla soluzione  del problema italiano (se soluzione si può parlare per i fatti storico-sociali) era, come è tuttora, quella corretta: una chiara visione strategica di pretto stampo mazziniano che partendo dai problemi sociali e culturali del nostro popolo sappia (ri)costruire e rafforzare una identità nazionale che permetta al nostro paese di rimandare al mittente tutte le spinte disgregative (di cui l’immigrazione è una di questa) che ci giungono da questa disgraziata modernità di un mondo sempre più multipolare. Per Mazzini il nemico storico da dissolvere ed annientare era l’Impero Austroungarico. Oggi il nemico da dissolvere ed annientare non è un impero ma un’impostazione mentale “politically correct” che vorrebbe privilegiare l’impero turbo-capitalistico della globalizzazione e le cui povere truppe d’assalto, al posto dei croati Austroungarici, sono le disgregate, vaganti e disperate popolazioni del sud del mondo. E come i nostri padri del Risorgimento, prima fra tutti Mazzini, non odiavano i croati (che costituivano il grosso delle truppe di occupazione dell’impero Austroungarico) ma anzi provavano per loro compassione  ma, nonostante questa compassione li volevano cacciare (Vedi poesia “Sant’Ambrogio” di Giuseppe Giusti: «Entro, e ti trovo un pieno di soldati,/Di que’ soldati settentrïonali,/Come sarebbe Boemi e Croati,/Messi qui nella vigna a far da pali:/  Difatto, se ne stavano impalati,/ Come sogliono in faccia a’ Generali,/Co’ baffi di capecchio e con que’ musi,/Davanti a Dio diritti come fusi.//Mi tenni indietro; chè piovuto in mezzo/ Di quella maramaglia, io non lo nego/ D’aver provato un senso di ribrezzo/Che lei non prova in grazia dell’impiego./Sentiva un’afa, un alito di lezzo;/Scusi, Eccellenza, mi parean di sego,/ In quella bella casa del Signore,/Fin le candele dell’altar maggiore […] Povera gente! lontana da’ suoi,/In un paese qui che le vuol male,/Chi sa che in fondo all’anima po’ poi/Non mandi a quel paese il principale!/ Gioco che l’hanno in tasca come noi. —/Qui, se non fuggo, abbraccio un Caporale,/  Colla su’ brava mazza di nocciolo,/Duro e piantato lì come un piolo.»), così anche noi ci dobbiamo atteggiare e comportare verso i flussi immigratori incontrollati. E questa risoluzione non viene da qualche lunatico sparacchiatore ma dalla più pura tradizione strategica del nostro Risorgimento. Anche se in forme veramente inedite ed inaspettate, alla fine veramente tutto torna, e questo è veramente una grande lezione strategica che evidenziata nel nostro Risorgimento, è anche alla base della nascita, sempre italiana, del pensiero storicista che si sviluppa attorno al vichiano ‘Verum et factum convertuntur’ del “De antiquissima italorum sapientiae” (e che si pone in antitesi al pensiero illuministico ed astrattamente razionalistico ed antistorico, da cui trae origine la mistica dei diritti umani, grande responsabile  e giustificatrice sul piano ideologico degli incontrollati flussi migratori). Machiavelli, Vico, Mazzini, Giovanni Gentile, Gramsci, Cantimori (cioè la grande tradizione del realismo e dello storicismo italiani, che non si traduce,  però, nella  esaltazione di una tetra ed amorale realpolitik o Machtpolitik calata dall’alto ma, mazzinianamente, nella  creazione di una politica espressiva dei più profondi ed intimi bisogni del popolo, insomma un progetto teso nella sua più ultima e rivoluzionaria espressione – che, partendo da Giovanni Gentile per arrivare ad Antonio Gramsci,  va sotto il nome di filosofia della prassi – alla definizione di quella gramsciana cultura nazionalpopolare, il cui mancato conseguimento fu anche, come ben si vede oggi sia nella società che nel partito che pretende essere l’erede di quello fondato da Antonio Gramsci, anche il grande fallimento del PCI togliattiano), pensati attentamente i quali paiono  veramente bizzarre la considerazioni, riguardo i fatti di Macerata,  che «L’unica cosa certa di questa vicenda è che una ragazza è morta, alcuni immigrati hanno tentato di occultare il cadavere, dissezionandolo, e un italiano in preda ad esaltazione ha tentato di fare giustizia sommaria su altri innocenti scelti a caso» o  che «Ci sono associazioni, tra cui la ALCR […], attiva in Gabon, che denunciano coraggiosamente gli omicidi rituali, spesso condotti per banali ragioni di successo economico in un contesto di elevata frammentazione etnica (circa 40 gruppi) e di religioni animiste (20% della popolazione) o sincretiche come il Bwiti, anche se il 75% della popolazione è identificata come cristiana. Si tratta comunque di poche centinaia di casi, [sic!] spesso ricondotti a non meglio precisati “cultisti” […], ma sono spia del disagio di una troppo rapida, e subalterna, trasformazione.» Mazzini, intriso di spirito umanitario ma anche (o proprio per questo) pensatore ed uomo d’azione profondamente strategico non inneggiò mai all’odio contro nessuno ma non si sognò mai neppure di dire: «L’unica cosa certa è che i soldati croati sono dei semplici fantocci in mano all’impero austroungarico e per questo non devono essere combattuti ma accompagnati, piuttosto, gentilmente alla porta.» Le cose non andarono così e, se si vuole dare una speranza a questo paese, non dovranno andare così neppure per gli immigrati irregolari. E questo con buona pace – pur dandogli credito delle migliori intenzioni – delle pur generose esortazioni (ed anche in parte penetranti analisi) di Alessandro Visalli, il cui difetto di fondo è l’essere impregnate di quello spirito universalistico di matrice illuministica che Mazzini – e sulla sua scia il Repubblicanesimo Geopolitico –  sempre e con tutte le sue energie avversò, e questo non perché fosse un reazionario ma perché aveva capito benissimo che se si vuole essere veramente universali la prima cosa che necessita è possedere una visione strategica il cui centro focale è la creazione di una propria distinta ed unica identità, lasciando agli ideologi la discussione in merito all’universalità di questo o quell’altro sacro principio (che, come Mazzini aveva ben compreso, sempre nasconde l’interesse di qualcuno che con questi giochi di parole – ai tempi di Mazzini la Francia col suo monopolio  e volontà di imposizione dei sacri principi dell’ ’89, oggi la liberale e liberistica globalizzazione turbocapitalistica col mito del diritto e dell’inevitabilità all’immigrazione incontrollata –  intende perseguire nascostamente e con l’appoggio di masse ignoranti, vaganti, disperate e senza identità i propri inconfessabili interessi di annichilimento culturale dei popoli  e di  disgregazione ed atomizzazione delle società che questi popoli, attraverso lacrime, sangue,  battaglie e guerre si sono costruite nel corso della storia ).

Massimo Morigi – 22 febbraio 2018

 

 

 

 

 

 

 

Letture sul dramma di Macerata: lo scontro delle secolarizzazioni, di Alessandro Visalli

Tratto con l’autorizzazione dell’autore da https://tempofertile.blogspot.it/2018/02/letture-sul-dramma-di-macerata-lo.html

articolo inerente di Visalli http://italiaeilmondo.com/2018/02/20/letture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli/

Il mio amico Roberto Buffagni ha una ipotesi circa i fatti di Macerata, nelle Marche, in cui si è consumato un doppio orrendo fatto di cronaca: alcuni criminali di origine nigeriana, dediti a quanto sembra a spaccio di stupefacenti, avrebbero ucciso una povera ragazza anche essa dedita all’uso, dunque una cliente, e poi, forse per occultarne il cadavere, l’avrebbero fatta a pezzi e abbandonata in campagna. Successivamente un criminale italiano, a scopo di vendetta razziale, ha sparato su passanti di colore e si è quindi consegnato, avvolto in un tricolore.

Le indagini non sono concluse, e la dinamica non è completamente confermata, ma in alcune versioni emerge l’ipotesi, sposata da Buffagni nel suo pezzo, che l’omicidio sia stato in qualche modo una forma pervertita e corrotta di secolarizzazione (ovvero di utilizzo a fini economici di riti tradizionali) delle forme religiose tradizionali dell’area di provenienza degli attori. Certo, come sostiene Giorgio Cingolani, professore a contratto dell’università di Macerata ed antropologo, è del tutto prematuro connettere questi pochi fatti a ritualità pervertite o, come dice, a “personalizzazioni del rito ad opera di soggetti specifici”, ed è certamente improprio immaginare che questi fenomeni, dove si danno, siano di massa o “tradizionali”.

Al momento le indagini, quando l’udienza di convalida non si è neppure tenuta, non confermano, né escludono queste ipotesi, ma, come scrive la Repubblica: “restano invece aperti tutti i dubbi sul movente dell’omicidio: dal tentativo di stupro finito male al sacrificio rituale, ipotesi che gli inquirenti non escludono ma per le quali, al momento, non hanno prove”.

Tra l’altro giova ricordare che la Nigeria, il più popoloso stato africano, settimo al mondo, è sede di antica civilizzazione e dispone di un PIL di tutto rispetto (435 miliardi di dollari), maggiore di quello del Sud Africa; dal punto di vista religioso per lo più la popolazione è cristiana e mussulmana, solo l’1,4% è animista. La Nigeria, sin dal 1200 d.c. si specializza nell’essere un terminale commerciale essenziale tra il nord-africa (e poi gli occidentali) e l’Africa profonda, nel traffico degli schiavi e nell’economia di saccheggio che ne consegue. Dal 1600 gli occidentali fondano porti dedicati a tale tratta che diventa gradualmente egemone nel 1800 (in particolare diretta alle americhe). Dal 1901 è un protettorato e poi una colonia inglese, nel 1960 diviene indipendente e federale (36 stati). L’economia nigeriana è la prima del continente, la 26° nel mondo. Il settore agricolo determina il 22% del PIL, mentre il settore manifatturiero il 7%, il settore petrolifero determina il 15% del PIL ed il terziario il 52% (banche, cinema e telecomunicazioni).

 
Isaac Newton

L’unica cosa certa di questa vicenda è che una ragazza è morta, alcuni immigrati hanno tentato di occultare il cadavere, dissezionandolo, e un italiano in preda ad esaltazione ha tentato di fare giustizia sommaria su altri innocenti scelti a caso.

La vicenda mostra dunque un tessuto di violenza che attraversa la nostra società, messa sotto tensione dagli effetti di diversi sradicamenti e sul quale ci dovremmo interrogare.

Ma è anche vero, per quanto marginale e certamente non di massa, che in alcune aree centroafricane lo stesso sradicamento e troppo rapida secolarizzazione, sotto la spinta dell’esposizione senza filtri ai mercati ed al potere della tecnica (e del capitale), sta provocando fenomeni di perversione delle forme rituali tradizionali. Ci sono associazioni, tra cui la ALCR (questa la sua pagina Facebook), attiva in Gabon, che denunciano coraggiosamente gli omicidi rituali, spesso condotti per banali ragioni di successo economico in un contesto di elevata frammentazione etnica (circa 40 gruppi) e di religioni animiste (20% della popolazione) o sincretiche come il Bwiti, anche se il 75% della popolazione è identificata come cristiana. Si tratta comunque di poche centinaia di casi, spesso ricondotti a non meglio precisati “cultisti” (questo un articolo nigeriano), ma sono spia del disagio di una troppo rapida, e subalterna, trasformazione.

 
ALCR

Non ci sono dunque prove che l’episodio di Macerata sia connesso con i crimini che a volte si verificano nei paesi di provenienza e che le forze dell’ordine locali, le chiese e le religioni locali, e le associazioni combattono con vigore.

Ma il dibattito con Buffagni si è egualmente sviluppato come se tale ipotesi fosse possibile. In questo link la sua ripresa su Sinistrainrete. E in essa la reazione di due lettori, Eros Barone e Mario Galati, che con diverse sfumature richiamano al primato dell’economico di marxista memoria. In particolare Galati accusa la conversazione che è linkata nell’articolo e cui rinvio, di “scorrere tutta entro la dimensione pulsionale e sacrale dell’uomo”, fino a concepire la storia stessa solo come “storia religiosa”, ignorando o subordinando la “produzione e riproduzione della vita materiale”. In particolare, con riferimento al mio dire, si chiede se “constatare la persistenza di pulsioni primordiali e del senso del sacro possa spiegare la storia?” e, ancora, se “stabilire il nesso tra razionalismo e sviluppo capitalistico equivalga forse a rigettare il pensiero scientifico, in quanto semplice statuto disciplinare, paradigma convenzionale, o che dir si voglia?” Non mi è immediatamente chiaro cosa significhi “pensiero scientifico come statuto disciplinare, o paradigma convenzionale”, in quanto il pensiero scientifico è una sorta di habitus mentale e un insieme molto largo e comprensivo di pratiche sociali dotate di meccanismi verbali di inclusione ed esclusione; una cosa che va molto oltre lo statuto di una o più “discipline” e di convenzioni. Attraversa i “paradigmi” (nel senso di Thomas Khun) e non ne è incluso o rappresentato.

Ma la domanda sarebbe qui se il razionalismo occidentale sia, o meno, connesso con lo sviluppo storico del capitalismo, e se il riconoscimento di questa connessione debba portare direttamente a rigettare il pensiero scientifico, evidentemente in favore del primato di pulsioni o di sacralità (o, come dice Barone, del comunitarismo etnico). E, con le parole del professore di filosofia Eros Barone, al netto degli insulti o dei posizionamenti identitari, riassunti nell’etichetta di “dialettica e materialismo storico” ed ancora più nell’evocazione di passaggio dell’inferno (cui si contrappone simbolicamente un paradiso evidentemente rappresentato dal comunismo), se si debba alla fine parlare solo “dei rapporti di proprietà”, ed a questi ricondurre il fondo del conflitto e di ogni differenza.

Lo schema di Barone è molto tradizionale: è alla fine l’imperialismo che genera, alleva e fa prosperare la “prole mostruosa” del “bellicismo espansionista, del razzismo differenzialista, e del comunitarismo etnocentrico”. Prole che può essere sconfitta solo da un “vasto fronte popolare” in grado di fare l’operazione esattamente inversa a quella condotta dal capitale: unire ciò che questo vuole dividere (proletariato autoctono e immigrato), e dividere ciò che vuole unire (borghesia e proletariato). In altre parole è compito dei comunisti riportare lo scontro sul piano delle differenze di classe, proletari contro borghesi in relazione alle strutture di produzione imposte dal capitale, rigettando come false tutte le differenze di tipo etnico o culturale. Come si possa fare, senza farsi carico di comprendere il punto di vista e la percezione delle classi popolari, e continuando a ritenere di avere in toto il monopolio della Verità, mi sembra difficile da immaginare.

In questa direzione va comunque anche la richiesta di Galati di trovare piuttosto direzioni nelle quali agire, senza restare inchiodati alle carenze delle dimensioni primordiali e l’insufficienza di precarie “civilizzazioni”.

 
Gabon, articolo

Colgo l’invito a parlare prima di tutto delle condizioni materiali: anche se il fenomeno è disuniforme quanto ad impatto quantitativo (ma tende, per le modalità stesse che diremo, a concentrarsi, risultando differentemente percepito per i diversi gruppi sociali ed areali), la dinamica delle emigrazioni ed immigrazioni determina una complessiva ‘economia politica’ che è caratterizzata da importanti fenomeni di corruzione degli assetti sociali e culturali, di gestione come oggetti d’uso dei corpi estratti, e di potenziamento dello sfruttamento a causa dei normali meccanismi di creazione del valore di scambio. Per comprenderlo bisogna però fare prima una mossa, che ha qualcosa a che fare con il discorso che faremo su razionalismo e capitalismo: smettere di vedere le ‘economie povere’ come un vuoto. Una dimensione eguale alla nostra, ma con meno denaro. Se si inquadra, facendo uso di cecità educata da economisti, in questo modo l’emigrazione e la stessa trasformazione dell’ambiente di provenienza dei flussi umani immigrati alla fine è solo questione di razionalizzazione e sviluppo.

Propongo una diversa ipotesi interpretativa: che, cioè, sia più utile inquadrare il fenomeno come un progressivo allargamento dello spazio dominato e controllato dal mercato, e per esso dalla finanza, nell’intreccio di due “economie politiche” reciprocamente rimandantesi. Quella che avevo chiamatoeconomia politica dell’immigrazione”, la nostra, che fa scaturire una insaziabile e crescente spinta estrattiva e insieme di trasformazione (spingendo l’uomo a ripensarsi come ‘forza lavoro’, adattandosi alla relativa disciplina) che via via incorpora ‘risorse’ (umane) per fornire risposta ad una domanda di lavoro debole e disciplinato, insaziabilmente prodotta dall’attuale economia interconnessa e finanziarizzata (allo scopo di tenere in movimento la macchina deflazionaria contemporanea), nella quale tutti sono sempre in concorrenza con tutti sotto il pungolo del capitale mobile e continuamente valorizzante. È essenziale in questo senso che il meccanismo del recupero di margini di valorizzazione, attraverso la riduzione costante dei costi (in primis del costo più ‘inutile’, quello del lavoro), sia sempre in movimento; sia sempre un poco più veloce del paese vicino. Quindi è essenziale che il lavoro sia un poco più debole, un poco più disciplinato, giorno dopo giorno, anche a costo di espellere e sostituire chi non abbia la possibilità materiale di piegarsi, o non voglia. Il ricatto davanti al quale ci troviamo tutti è semplicemente che l’unica alternativa, in condizione di piena mobilità dei capitali, è che ad andarsene siano invece i processi produttivi. Dunque non resta che importare forza lavoro sempre più debole, per rendere debole quella che c’è, o lasciare tutti a casa. L’effetto di questa dinamica, trascinata dalla valorizzazione differenziale nella metrica della finanza che mette in contatto e costringe alla competizione il mondo intero, è che è nelle aree del lavoro debole che si concentra, in diretto contatto con coloro i quali sono sfidati e pungolati a ‘maggiore efficienza’ (che normalmente significa minori compensi a parità di lavoro produttivo), l’attrazione di ‘forza lavoro’ sostitutiva. Il processo è strutturalmente simile per i lavoratori-raccoglitori dei pomodori nelle piane pugliesi, o campane, per i lavoratori-manifatturieri nei cantieri navali o nelle fabbriche e fabbrichette in subappalto disseminati nelle nostre periferie industriali, per i lavoratori-domestici che sono nelle nostre case e per i lavoratori-professional che sono messi in competizione con le piattaforme. Ha dunque ragione chi dice che il problema è nel rapporto di forza con il capitale, ma nello stesso momento ha torto: perché nel dirlo non si fa carico davvero della materialità del problema nei luoghi in cui si determina.

Questa dinamica di attrazione differenziale, ulteriormente accentuata dal meccanismo stesso dell’attrazione (influenzato dal percorso, come dicono gli economisti, e quindi dalla preesistenza di reti di relazione, strutture sociali di accoglienza, “diaspore”) che tende ad accrescere la presenza dove è già maggiore, esercita obiettivamente una pressione al disciplinamento che è letto come oggettivamente violento (anche se la fonte non è nei corpi dei concorrenti per il lavoro debole ma in ciò che lo rende tale). Nessuno può riaprire una relazione sentimentale con le classi popolari se non comprende questa dinamica, se si limita intellettualisticamente a qualificare come brutti, sporchi e cattivi, e razzisti, coloro che se ne sentono vittime.

 
Il subcomandante Marcos

Nel suo testo “la IV guerra mondiale è cominciata”, Rafael Sebastián Guillén Vicente, noto come “il subcomandante Marcos”, denuncia questa situazione in questo modo:

“Il risultato di questa guerra di conquista mondiale è una grande giostra di milioni di migranti in tutto il mondo. ‘Straniere’ nel mondo ‘senza frontiere’ promesso dai vincitori della III Guerra Mondiale [ndr la guerra fredda], milioni di persone subiscono la persecuzione xenofoba, la precarietà del lavoro, la perdita dell’identità culturale, la repressione poliziesca, la fame, il carcere e la morte. ‘Dal Rio Grande americano allo spazio Schengen ‘europeo’, si conferma una doppia tendenza contraddittoria: da un lato, le frontiere si chiudono ufficialmente alle migrazioni di lavoro, per l’altro, interi rami dell’economia oscillano tra l’instabilità e la flessibilità, che sono i mezzi più sicuri per attrarre la manodopera straniera’ [Alain Morice, op, cit.]. Con nomi diversi, subendo una differenziazione giuridica, dividendosi una eguaglianza miserabile, i migranti o rifugiati o delocalizzati di tutto il mondo sono ‘stranieri’ tollerati o rifiutati. L’incubo della migrazione, quale che sia la causa che la provoca, continua a rotolare e a crescere sulla superficie del pianeta. Il numero di persone che sarebbero di competenza dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati [Acnur] è cresciuto in modo sproporzionato dai due milioni del 1975 a più di 27 milioni nel 1995. Distrutte le frontiere nazionali [dalle merci], il mercato globalizzato organizza l’economia mondiale: la ricerca e il disegno di beni e servizi, così come la loro circolazione e il loro consumo sono pensati in termini intercontinentali. In ogni parte del processo capitalista il ‘nuovo ordine mondiale’ organizza il flusso di forza lavoro, specializzata e no, fin dove ne ha bisogno. Ben lontani dal subire la ‘libera concorrenza’ tanto vantata dal neoliberismo, i mercati del lavoro sono sempre più condizionati dai flussi migratori. Quando si tratta di lavoratori specializzati, e anche se questa è una parte minore delle migrazioni mondiali, questo ‘travaso di cervelli’ rappresenta molto in termini di potere economico e di conoscenze. Però, si tratti di forza lavoro qualificata o semplice manodopera, la politica migratoria del neoliberismo è più orientata a destabilizzare il mercato mondiale del lavoro che a frenare l’immigrazione. La IV Guerra Mondiale [il riassestamento neoliberale], con il suo processo di distruzione/spopolamento e ricostruzione/riordinamento provoca lo spostamento di milioni di persone. Il loro destino sarà di continuare ad essere erranti, con il loro incubo sulle spalle, e di rappresentare, per i lavoratori impiegati nelle diverse nazioni una minaccia alla loro stabilità nel lavoro, un nemico utile a nascondere la figura del padrone, e un pretesto per dare senso all’insensatezza razzista che il neoliberismo promuove”.

Ma questa “economia politica” si affianca a quella “dell’emigrazione”, la “ricostruzione/riordinamento” si affianca alla “distruzione/spopolamento”. Perché le persone che sono ‘aspirate’ in occidente dalla domanda di lavoro debole, alimentano anche il trasferimento di poveri surplus monetari che insieme alla trasformazione dei pochi settori produttivi in industria da esportazione estranea al tessuto locale e dipendente dai capitali esteri, attraggono e corrompono, disgregandole, aree ancora relativamente esterne al circuito della valorizzazione, contribuendo a “monetizzarle”, ovvero a ricondurle entro il circuito astratto e impersonale del capitale e della sua logica. In qualche misura questo paradosso è stato oggetto di analisi della tradizione marxista sin dal suo avvio, e delle esitazioni dei suoi padri.

Questo processo va infatti inteso come “razionalizzazione”, ed alfine giudicato una sia pure dura necessità (come inclinava a pensare il vecchio Engels)? Oppure un non necessario sacrificio, un calice che potrebbe anche passare, se si avesse il tempo di prendere il proprio percorso (come inclinava a pensare il vecchio Marx, ma non il giovane)? Ha ragione lo zapatista e neo-anarchico Marcos o il marxista Negri?

In altre parole, questa ‘economia’ che, come avevamo scritto, corrompe in basso, gestisce in mezzo e sfrutta in alto è senza alternative, perché in fondo coerente con la direzione della Storia? O è solo coerente con quelli che chiamavo i “campi sentimentali” dei millennials (e dei loro profeti), che individualisticamente vedono la mobilità attraverso le frontiere come liberazione?

Ma la dura realtà, ben oltre gli immaginati campi del desiderio, o le palingenesi storiche, parla del semplice fatto che è la piena libertà di movimento dei capitali, nelle attuali condizioni e infrastrutture tecnico-legali (che significa anche sistema delle “città globali” di cui parla Sassen), che porta necessariamente, insieme alla libertà di spostamento delle merci (nelle condizioni della rivoluzione informatica), a quella insostenibile segmentazione delle catene produttive nei settori tradabili (o mobili) su lunghe filiere logistiche disegnata espressamente per massimizzare lo sfruttamento dei fattori non mobili (ambiente e lavoro), i quali restano al contrario localmente sempre abbondanti in senso relativo. E’ in questo contesto generale che interviene la libertà di movimento anche dei lavoratori, per tenere sempre abbondante il fattore poco mobile, dunque per tenerlo in condizioni di subalternità.

In altre parole, se nei settori in cui le produzioni sono rivolte a mercati globali (dunque in cui le merci, ovunque prodotte, possono essere vendute su ogni mercato alle stesse condizioni), si riesce a garantire anche la piena mobilità dei fattori produttivi capitale e conoscenza, si ottiene che questi possano andare sistematicamente a rintracciare quelle condizioni locali di relativa abbondanza del fattore mancante (lavoro ed ambiente) in modo che il saggio di sfruttamento complessivo sia massimo. Ciò a fronte del ricatto di non collocarsi lì ma andare dal secondo migliore e via dicendo.

L’immigrazione, dunque la resa in condizione mobile anche del lavoro, adempie precisamente questa funzione; a questo punto il capitale può generare ovunque le desiderate condizioni di inflazione (e quindi debolezza) del fattore che gli manca per valorizzarsi.

Si tratta di un meccanismo ovvio e di semplicissima e materiale geometria, all’opera da secoli e del tutto noto a Marx:

«Il progresso industriale che segue la marcia dell’accumulazione, non soltanto riduce sempre più il numero degli operai necessari per mettere in moto una massa crescente di mezzi di produzione, aumenta nello stesso tempo la quantità di lavoro che l’operaio individuale deve fornire. Nella misura in cui esso sviluppa le potenzialità produttive del lavoro e fa dunque ottenere più prodotti da meno lavoro, il sistema capitalista sviluppa anche i mezzi per ottenere più lavoro dal salariato, sia prolungando la giornata lavorativa, sia aumentando l’intensità del suo lavoro, o ancora aumentando in apparenza il numero dei lavoratori impiegati rimpiazzando una forza superiore e più cara con più forze inferiori e meno care, l’uomo con la donna, l’adulto con l’adolescente e il bambino, uno yankee con tre cinesi. Ecco diversi metodi per diminuire la domanda di lavoro e rendere l’offerta sovrabbondante, in una parola per fabbricare una sovrappopolazione. … L’eccesso di lavoro imposto alla frazione della classe salariata che si trova in servizio attivo ingrossa i ranghi della riserva aumentandone la pressione che quest’ultima esercita sulla prima, forzandola a subire più docilmente il comando del capitale» (Il Capitale, Libro, I, 7,25)

Questo docile comando del capitale (che, giova ricordarlo, non è persona ma meccanica) trasmette, attraverso la connessione indotta dai flussi di merci, denaro e persone (e, perché no, armi), i suoi effetti di corruzione attraverso la razionalizzazione e la divisione tra deboli. Questa corruzione si manifesta sia nei luoghi di estrazione sia in quelli di ricollocamento, dunque bisogna evitare entrambi gli errori: quello di considerare che se la lotta tra poveri favorisce lo sfruttamento degli uni e degli altri, allora bisogna negare che ci sia competizione, e quello di reagire solo difendendosi dai poveri più poveri.

Trovare un corso di azione non è facile, e per farlo abbiamo bisogno delle più rilevanti forze che siamo in grado di mettere in campo e dello Stato. Dobbiamo definire la nostra responsabilità, verso noi stessi e verso l’umano.

 
Samir Amin

L’economista marxista Samir Amin, in “La crisi”, del 2009, sottolinea la necessità di combattere quella tendenza intrinseca del capitalismo, ovvero del meccanismo di creazione del valore come differenziazione ed accumulazione, che crea periferie, schiacciandole. La macchina produttiva fa dell’uomo e della natura risorse, costringendolo nel tempo lineare e razionalizzato, misurabile, della scienza e con ciò ad alienarlo (si veda anche Lohoff, qui). Amin, già nel testo del 1973, “Lo sviluppo ineguale”, sostiene che in fondo il modo di produzione capitalista, che è interpretato come una forma storica creatasi in occidente in un contesto particolarmente predatorio, e di qui dispiegatasi nel resto del mondo travolgendo altre forme di organizzazione sociale (tra le quali le promettenti forme di protocapitalismo orientali, più lente e molto meno individualiste), lungi dall’essere una necessità storica (si può leggere su questo anche l’ultimo Marx) esprime invece una forma di razionalità specifica, connaturata ai suoi propri rapporti sociali ma anche limitata da questi. Le caratteristiche essenziali del modo di produzione capitalista (la generalizzazione della “forma-merce”, l’assunzione di tale forma da parte della “forza-lavoro”, quindi la reificazione e la proletarizzazione dell’uomo fatto produttore di merci, la finalizzazione ad essa delle attrezzature produttive tutte), si ritrovano peraltro intatte anche in molte forme di esperienza socialista reale, che è quindi un “capitalismo senza capitalisti”.

In altre parole, se entro il modo di produzione capitalista, fino a che si resta entro la sua logica, appare alla fine comunque razionale, e quindi invincibile, il calcolo economico e la competizione, con essa diventano anche inevitabili i rapporti sociali che esso determina (o meglio, che lo fondano); con la sua logica viene anche una specifica forma di gerarchia sociale. Comprendendo il capitalismo, invece, come figura storica (e non sopra-storica) diventa possibile accedere ad un piano di critica più profondo. Il calcolo economico, indiscutibile sul piano della valorizzazione del valore (e quindi della sua accumulazione, nel contesto dei rapporti sociali dati), diventa irrazionale se si tiene al centro il principio di una altra socialità: se la ricerca dell’autonomia porta a porre al centro la natura e la società tutta. Il calcolo economico, come scrive nel 1973 Amin, diventa allora riconoscibile come “irrazionale dal punto di vista sociale”.

Allora come si esce dalla trappola dell’intreccio delle due “economie politiche” (che possono anche essere scalate nel rapporto intraeuropeo tra paesi ‘arretrati’ come il nostro e ‘locomotive’ come la Germania, che estrae e reinserisce a fini di disciplinamento le nostre “risorse umane”)? Ovvero dalla trappola del sottosviluppo che si proietta su tutto il pianeta? La condizione per uscire dalle condizioni di “sottosviluppo” (ovvero da forme di organizzazione sociale, prima che economiche, rese subalterne e funzionalizzate da una logica esterna nella quale possono solo perdere sempre), è dunque necessariamente di uscire anche dalla “mondializzazione capitalistica”. Dove è il secondo termine ad essere qualificante: di “sganciarsi”, dunque.

Ma una parte non secondaria dello “sganciamento” è concettuale: riconoscere che l’illuminismo, con tutti i suoi meriti che non si negano, è anche il progetto di instaurare il capitalismo. Precisamente di insediare, al posto delle forme sociali precedenti, ormai disfunzionali (diagnosi che, come ovvio, autori come Burke, De Maistre ed altri contestano), una nuova società, fondata sulla ragione, anziché sulle consuetudini sociali e le forme di vita consolidate e immersive; una società capace di determinare in sé l’emancipazione dell’individuo. Individuo che quindi deve essere libero di operare, nella cornice di leggi, nel “modo economico” (ovvero entro l’ambiente competitivo dei “mercati”) e di scegliere attraverso la forma politica della democrazia (anche essa individuale, in qualche modo nella forma di un “mercato politico”). Ma come “i due versanti del progetto sono entrambi legittimati ricorrendo alla Ragione”, così questo si autodefinisce come “instaurazione di una Ragione trans-storica e definitiva – la fine della storia, dopo una preistoria priva di ragione” (Amin, p.77). Questa è la radice ideologica della rivoluzione borghese dalla quale anche i padri del marxismo (in particolare quelli che camminano nelle orme di Engels) hanno fatto fatica a vedere, e quindi a liberarsene (nell’unico modo in cui ci si libera di una idea: capirla).

Veniamo ora al punto che ci consentirà di rileggere la discussione con Buffagni in modo diverso: proprio per Samir Amin parte della rivoluzione deve interessare il mondo tradizionale agricolo, nel quale è impegnato ancora la gran parte dell’umanità (e la cui distruzione provoca le ondate migratorie). Se si guarda con attenzione si vede che l’agricoltura industrializzata del nord attiva un meccanismo di drenaggio strutturale, per il quale i profitti del capitale impiegato dagli agricoltori vengono sistematicamente intercettati dai segmenti dominanti del capitalismo industriale (la rete distributiva e di trasformazione) e finanziario (tramite il meccanismo del debito), situati necessariamente a monte, invece l’agricoltura povera del sud resta intrappolata in ancora più aspre condizioni di dominazione (dal capitale internazionale), e tanto più si modernizza tanto più espelle individui ormai inutili.

Ancora il subcomandante Marcos:

“La IV Guerra Mondiale sul terreno rurale, per esempio, produce questo effetto. La modernizzazione rurale, che i mercati finanziari esigono, punta a incrementare la produttività agricola, però quel che ottiene è distruggere le relazioni sociali ed economiche tradizionali. Risultato: esodo massiccio dai campi alle città. Sì, come in una guerra. Intanto, nelle zone urbane si satura il mercato del lavoro e la distribuzione diseguale del reddito è la ‘giustizia’ che spetta a coloro che cercano migliori condizioni di vita”.

Alla fine l’auspicata, dai fautori dello sviluppo, modernizzazione accelerata dell’agricoltura del sud creerebbe quindi, nel medio termine, eserciti immani di “inutili” come effetto della semplice logica propria della valorizzazione. Gli ‘inutili’ saranno però anche sradicati culturalmente, e costretti violentemente entro una logica del valore che non comprendono.

Dunque se bisogna che lo sviluppo (in quanto ‘sociale’ ed ‘umano’, e non ‘economico’) sia inclusivo e non escludente, bisogna anche che a lungo sopravviva un’economia contadina effettiva, cosiddetta “di sussistenza”, i cui rapporti con “i mercati” restino protetti e regolati. La prima forma di rivoluzione in molte parti del mondo è dunque il diritto all’accesso alla terra (anche superando le forme gerarchiche tradizionali, rivolte alla creazione di élite estrattive più che tributarie). Per tornare all’esempio della Nigeria, il più ricco paese africano (soggetto come tutti alle dinamiche estrattive del capitalismo contemporaneo), e quello che tutto sommato dalla decolonizzazione ad oggi ha conservato la sua unità politica, le risorse minerarie e la connessione con l’economia internazionale passano entrambe a vantaggio del sud cristiano, lasciando isolato il nord mussulmano nel quale opera il Boko Haram e dal quale muovono due milioni e mezzo di sfollati, con quindicimila richieste di asilo in Italia nel 2015 e una tratta di giovani donne molto ben organizzata. Le rotte nigeriane (vedi qui) partono dai porti costieri, hanno un nodo nella città del nord Kano (4 ml di abitanti), e di lì transitano ad Agadez, nel basso Sahara, di qui in tre tappe si arriva alla città-prigione libica di Sabha e infine a Tripoli. La politica economica del governo nigeriano è orientata agli investimenti stranieri, concentrati su industrie di esportazione (anche verso il resto del continente) ed una importazione interamente rivolta ai consumi distintivi di imprenditori, mercanti, alta burocrazia. Il petrolio (che vale il 90% delle esportazioni, e nel quale opera l’ENI) ha determinato la distruzione ambientale di vaste zone e l’incremento dei prezzi con conseguente esodo rurale e concentrazione di immense masse in slums suburbani. Risultano al 2010 il 20% degli addetti al settore primario (ca 40 milioni) e il 10% di disoccupazione maschile (50% femminile).

Si tratta quindi di una sfida complessa e multidimensionale, per la quale bisogna fare bene attenzione a non confondere “cosmopolitismo” (borghese) con “internazionalismo” (delle lotte nelle condizioni locali). Cioè di non perdere di vista la logica dell’uniformazione gerarchica, sotto un’unica Ragione (quella della legge del valore), propria di una oligarchia che esercita una sorta di “imperialismo collettivo”, la cui meccanica si nutre di una spontanea solidarietà tra frammenti “nazionali” che gestiscono un sistema mondiale di fatto.

Ma questa dinamica, dell’intreccio tra due ‘economie politiche’ nelle quali gli uomini vengono estratti e funzionalizzati alla logica della valorizzazione astratta resta strettamente connessa con le infrastrutture concettuali della modernità, in cui il loro “lavoro concreto” si fa “astratto” e ricondotto a metriche che espellono, non trovandovi più posto, le altre dimensioni della vita, riducendole o colonizzandole. Tra queste il tempo astratto, lineare ed omogeneo, e il relativo spazio. Si tratta di vere e proprie infrastrutture concettuali messe a punto, in un processo coestensivo alla trasformazione della società e l’estendersi delle reti commerciali e di capitale, e delle relative tecniche, che sono state messe a punto nella lunga evoluzione della rivoluzione scientifica, tra il 1500 ed il 1700. Da allora il tempo che conta è quello misurabile e la misura è in esatto rapporto con la produzione di merci e con la possibilità del salario e del profitto.

Ogni lavoro, sempre e di chiunque, è quindi la riduzione del tempo ad una quantità puramente astratta e reificata di tempo speso, che rende scambiabili tra di loro i relativi prodotti. Cioè il ‘lavoro’ in quanto astrazione forma la sostanza del valore, nella misura i cui esso incorpora nel suo stesso concetto la misura nel tempo astratto. In altre parole, il lavoro non crea il valore in modo ovvio e banale, come il panettiere fa il pane in modo tale che il cumulo di pane finisca per rappresentare, in rei, il lavoro ormai trascorso, dunque “morto”; al contrario, misurare il pane come prodotto di un “tot” di lavoro, determinando rispetto ad esso il suo valore, presuppone quella che Lohoff chiama “l’astrazione di un’astrazione”: l’esistenza, cioè, di un concetto di tempo, ordinato, astratto e lineare, che separa la vita stessa in sfere distinte, e che sarebbe stato inattingibile per una persona prima della modernità. Non era ‘lavoro’ nel nostro senso quel che si svolgeva, ma parte inseparabile degli obblighi, delle relazioni e degli affetti, che costituiva la persona stessa. Parte, cioè, del suo ruolo nel mondo; era, come dice: intimamente legato alla totalità della sua esistenza (si può leggere in proposito “La nozione di persona”, di Marcel Mauss).

Ora, la tesi di Buffagni è, in fondo, questa: che le persone, dei criminali certamente ma anche degli alienati perché incapaci di sopportare la reificazione delle loro vite, che hanno condotto l’azione orrenda di Macerata si possano interpretare come disadattati alla forma di secolarizzazione che viene imposta dalla nostra società (anche nella ‘economia politica dell’emigrazione’, anche qui, dalla quale sono fuggiti, per ricadere in quella ‘dell’immigrazione’). E che la loro rozza reazione sia di secolarizzare malamente la loro cultura, piegandone i riti alle esigenze pervertite che trovano nell’oggi.

Sia vero o meno che ciò che è fattualmente accaduto a Macerata corrisponda a questa ipotesi, essa è in linea generale possibile.

Quel che dunque nel dialogo con la lettura del fatto come emergere di un profondo tenebroso non domesticato (sia nel criminale nigeriano sia nell’italiano), e come un fallimento della cultura e delle istituzioni, di Buffagni, mi pare quindi da rimarcare è che può esservi incluso il fatto che l’uomo sfugge al razionale e si ancora nei riti. L’uomo è molto di più, come dice Sahlins; e pensare altrimenti è il “grosso sbaglio” dell’idea occidentale di natura umana. In altre parole, con i poveri mezzi a disposizione i disgraziati attori della vicenda urlano che ci sono dei nessi più larghi che li costituiscono, che loro guardano e si riconoscono, ovvero fondano la loro vita, in un cosmo più ampio. La perversione dei criminali nigeriani è di immaginare mezzi creati in un contesto animista per ottenere obiettivi che solo l’adattamento alla metrica del valore occidentale può dare, e di forzare per questo i mezzi, trascinandoli fuori del loro senso. La perversione del criminale italiano è di capire il gesto dei primi come lesione di una immaginaria purezza, e di ricondurla a simboli per i quali spendere sangue.

È qui che si inseriva la mia replica a Buffagni: il radicale altro che potrebbe essere incluso nei fatti di Macerata è che l’uomo sfugge al destino di essere completamente sussunto nella tecnica e per essa nella creazione di valore del capitalismo. Nella riduzione del mondo ad oggetti e di se stessi ad erogatori, secondo metriche lineari, di ‘lavoro’ e per questo di ‘valore’. Inoltre che questo enorme risultato è provocato da uno schermare e disincantare il mondo che ha richiesto secoli e non è mai del tutto riuscito. L’estrazione violenta di uomini e donne da mondi ancora non completamente incorporati nell’occidente, mondi ‘arretrati’ e per questo deboli e periferici, rende quindi in contatto dentro la ‘gabbia d’acciaio’ della modernità, radicamenti diversi.

È un tema davvero difficile, con il quale si sta misurando anche la filosofia più specialistica (abbiamo letto, ad esempio, Habermas in “Verbalizzare il sacro”): come scrive il grande filosofo tedesco la religione, tutte le forme rituali, sono in qualche modo dei contrafforti, di socialità prediscorsiva, davanti al rischio di costringere tutto l’umano entro l’oggettivazione scientista e la razionalità strumentale e per questo funzionale ai “mercati”. Questi rischiano alla fine di disseminare un mondo di naufraghi disperatamente orfani e incapaci delle più elementari prestazioni di solidarietà e reciproco riconoscimento che sono indispensabili anche a fondare quella che chiama la normatività post-metafisica: il riconoscimento reciproco come persone capaci di azione e volontà autonome, in linea di principio in grado di scegliersi insieme il destino nella forma dell’autolegislazione.

In altre parole, e più semplici, senza conservare delle fonti autonome dalla ragione funzionale (che si riconduce necessariamente alla logica schiacciante della valorizzazione) anche la democrazia finisce per essere incorporata come tecnica dall’economico e ridotta a vuoto involucro. È, più o meno, ciò che accade al progetto europeo.

Nella risposta a Buffagni ripercorrevo quindi la storia, sommariamente, della riduzione del reale al numerabile ed alla legalità scientifica. Ovvero, come scriveva Koyrè l’espulsione dalla legalità scientifica di tutti i ragionamenti e delle esperienze basate su concetti come: perfezione, armonia, significato, fine.

Non si tratta però, come teme Galati di rifiutare la scienza, nessuno potrebbe farne a meno e comunque nemmeno vorremmo. Si tratta invece di sfuggire anche all’inconsapevole religione del capitalismo (Benjamin, “Il capitalismo come religione”) che disgrega tutte le altre, sostituendole con pallidi feticci.

Un modo per diventare sensibili alle alternative ed a ciò che ci sta succedendo sotto gli occhi (unitamente ai suoi costi umani) è quindi di connettere il discorso sulla disgregazione interna della società africana per effetto della ‘seconda secolarizzazione’, quella giovane, indotta dalla ferrea logica del capitale internazionale alla prima, ‘quella vecchia’, che allunga i suoi tentacoli.

Che cosa fare?

Serve un vasto progetto di scala internazionale; connesso con politiche industriali a guida pubblica e non di mercato, che rovescino la logica dello sviluppo che sfrutta la lotta tra poveri e che costantemente riadattino verso il lavoro povero la composizione organica del capitale; una logica, in grado di orientare anche lo sviluppo tecnologico, che faccia uso di opportuna repressione finanziaria per creare condizioni di scarsità invertite, nelle quali non sia il capitale a potersi spostare liberamente ed indefinitamente scegliendosi dallo scaffale i lavoratori di volta in volta più consoni, al minor prezzo, ma il lavoro a trovarsi in condizioni di scarsità relativa e quindi attivare una dinamica ascendente (maggiore costo del lavoro, investimenti, aumento della produttività) che possa favorire il riposizionamento dei sistemi-paese su segmenti di valore e ricchezza superiori. In questa dinamica potrebbe darsi anche il miracolo che nuova forza-lavoro (che, però, sono anche persone, con la loro cultura) progressivamente sposti verso l’alto quella esistente, invece di rigettarla nella disoccupazione, la rabbia e l’intolleranza. Ma questo schema prevedrebbe anche autonomia, dunque di fuoriuscire dallo schema imperialista europeo e da quello, più in generale, di quella che Amin chiama “la triade” (USA, Giappone, Europa), eventualmente con i suoi soci minori.

In altre parole, bisogna rimettere radicalmente in questione le “quattro libertà” del progetto europeo. Che sono oggettivamente preordinate alla meccanica, incorporata nella logica del capitale e non necessariamente voluta o progettata da alcuno, della creazione costante di ‘eserciti di riserva’ pronti a prendere il posto dei renitenti locali (ovvero di chi avanzasse l’assurda pretesa di trarre dal suo lavoro quanto basta ad una vita sicura e dignitosa).

L’incastro delle due “economie politiche” osservate (e della terza, quella dell’”emigrazione” dai paesi semiperiferici come i nostri ed i paesi “core”) nella dinamica “emigrazione/immigrazione/emigrazione” sta infatti devastando il mondo e sta facendo saltare ogni possibile patto sociale, ed in modo necessario in quanto si tratta di un meccanismo strutturale intrinseco alla dinamica necessaria del capitale.

L’anziano Marx si pose questo problema nel suo dialogo, che prese diversi anni della sua vita, con i populisti russi, di cui l’esempio più noto è la lettera a Vera Zasulic e quella alla «Otecestvennye Zapiski», che è del 1877. Davanti al problema della conservazione della obšcina, ovvero della forma tradizionale di vita (che, comunque aveva circa cento anni di vita, essendo scaturita da una riforma delle forme medioevali) che prevedeva proprietà collettiva e strutture comunitarie (come oggi in alcune aree agricole asiatiche e africane). Marx resta profondamente incerto, alla fine risolvendosi verso il tentativo di tenere insieme individualità (frutto della modernità) e forme comunitarie. Questo Marx, scrive anche la prefazione all’edizione russa del “Manifesto”, nel 1882, che “l’odierna proprietà comune rurale russa potrà servire di punto di partenza per un’evoluzione comunista”. Ovvero scrive che la comunità rurale, questa forma tradizionale, non moderna, non progressiva nel senso comune del termine, questa forma che è un residuo “della originaria proprietà comune della terra” (residuo delle forme premoderne, dunque), può passare “direttamente” alla forma più “alta” del socialismo. Può passarci per un movimento interno, guidato dalla prassi rivoluzionaria ma anche dalla continuità, può unire conservazione e rivoluzione.

Elaborando un’idea che viene ripresa da Samir Amin (ed in modo esplicito) il Marx nel suo penultimo anno di vita (un anno di intensi studi storici ed antropologici), dice insomma che la forma comunistica, più “alta”, può manifestarsi grazie alla disponibilità di abilità, raziocinio, consuetudini e sapienza e tecnica, ad avere tempo (quel che non avrà), evitando di percorrere la stessa drammatica strada che l’occidente ha seguito. La strada della modernizzazione capitalistica non è un destino inevitabile, via proletarizzazione ed estensione del modello della ‘città’, dello sfruttamento della città nei confronti della campagna.

L’ipotesi che propone Marx per risolvere il dilemma è che, senza passare sotto le forche caudine del sistema capitalistico, i contadini ne potrebbero utilizzare ed integrare le acquisizioni positive. Così come non è necessario superare tutte le fasi tecnologiche (dal telaio meccanico, a quello a vapore, poi ai bastimenti a vapore, poi le ferrovie, e via dicendo) od organizzative (prima le fiere, poi le borse merci, poi le banche, le società per azioni, …) per impostare un sistema economico avendole ormai davanti pronte tutte.

Questo è il senso, a ben vedere, in cui si capisce l’ultima frase della prefazione del 1882:

“la sola risposta oggi possibile [al problema] è questa: se la rivoluzione russa servirà di segnale a una rivoluzione operaia in occidente, in modo che entrambe si completino, allora l’odierna proprietà comune rurale russa potrà servire di punto di partenza per un’evoluzione comunista”.

Se la rivoluzione, invece, in Russia resterà sola, costretta a competere con le potenze capitaliste, in termini di confronto geopolitico e produttivo, non avremo “il completamento” reciproco e la comune potrebbe essere schiacciata (come fu, dalla collettivizzazione).

Non è andata affatto così, anche perché Engels, quando Marx andrà a Highgate, riporterà la barra al centro, e riaffermerà la sua versione del materialismo storico, oltre i dubbi e le sfumature del “vecchio Nick”.

Potremmo, almeno noi, tentare di essere meno schematici?

LA PARTICOLARE GESTIONE POLITICA DEI FATTI DI MACERATA, di Giuseppe Germinario

C’ è un limite alla capacità di orientamento dell’opinione pubblica per quanto sofisticate possano essere le tecniche di comunicazione e di manipolazione delle informazioni; è il crescente e reiterato stridore tra la rappresentazione offerta e il concreto evolversi degli eventi e delle situazioni. Lo si è visto durante le elezioni presidenziali americane e, nel nostro piccolo, nella rapida parabola che sta segnando i destini di tanti uomini politici nostrani, compreso il ruspante Matteo Renzi.

I fatti di Macerata, nella loro banale tragica casualità, rappresentano uno di quei momenti cruciali che possono innescare il collasso irreversibile di una classe dirigente inadeguata, ormai avulsa da gran parte del paese e, nel migliore e auspicabile dei casi all’affermazione di una nuova classe dirigente, nel peggiore a una condizione di degrado e instabilità endemica attorno alle cittadelle assediate dei centri di potere.

Una ricostruzione degli eventi e dei conseguenti comportamenti dei politici a partire dalla tragica uccisione di Pamela Mastropietro, avvenuta il 30 gennaio e della rappresaglia, fortunosamente meno tragica di Luca Traini del 3 febbraio, per quanto soggettiva può servire a fornire i primi elementi di giudizio.

  • Al rinvenimento del corpo meticolosamente sezionato e privo di alcune parti la prima imputazione dei giudici inquirenti è stata, al momento, la sottrazione e vilipendio di cadavere.
  • Il 3 febbraio scatta la rappresaglia xenofoba di Traini, con il ferimento di immigrati neri e l’ostentata consegna alle forze dell’ordine dell’autore dell’atto terroristico, avvolto nel tricolore davanti al monumento ai caduti della prima guerra mondiale.
  • Il sindaco e soprattutto il questore, la figura istituzionale abilitata, propendono per il divieto temporaneo di ogni manifestazione.
  • Dal Ministero degli Interni arriva a Macerata un funzionario di alto livello il quale spinge ad autorizzare la sola manifestazione antifascista.
  • Si fa strada l’ipotesi, in qualche maniera suffragata dalle dichiarazioni del medico legale incaricato dell’autopsia che il sezionamento del cadavere non fosse dovuto alla necessità di nascondere o far sparire il cadavere, ma fosse legato alla pratica, ancora in uso in numerose comunità tribali africane e riprese dalle organizzazioni mafiose nigeriane operanti in Italia, di riti sacrificali. Una tesi esplosiva in grado di compromettere definitivamente la residua credibilità delle attuali politiche migratorie e dell’intera classe dirigente di esse responsabile; contestualmente la Procura locale denuncia le enormi pressioni cui è sottoposta.
  • Il questore di Macerata viene rimosso improvvisamente e sostituito da un funzionario del Ministero vicino al Ministro Minniti. Non è il solo avvicendamento legato agli avvenimenti; viene sostituito il responsabile del Dipartimento Persone Scomparse. In contemporanea viene lanciata su stampa e telegiornali la notizia che in Italia scompaiono circa ottocento italiani e cinquantasettemila stranieri.

Avrebbe potuto essere una importante occasione per assurgere alla statura di uomini di Governo e ancor più di Stato, sia per il ceto politico attualmente al governo sia per quello che ambisce a sostituirlo.

Avrebbe dovuto essere il momento per affermare solennemente e praticare un principio fondante, basilare della convivenza civile e del confronto politico: lo Stato deve essere il detentore unico dell’uso della forza e non può accettare forme individuali e collettive di rappresaglia e l’esistenza di strutture di controllo politico e militare alternative ad esso come le organizzazioni mafiose e di malavita organizzata, tra esse quella nigeriana, secondo propri codici di comportamento e repertori di sanzioni.

Sin da subito le reazioni, nella quasi totalità dei casi, seguono invece il cliché naturale proprio di politicanti intenti a salvaguardare la propria fazione e intaccare la credibilità delle altre.

Già il giorno dopo il ritrovamento dei resti di Pamela, con grande enfasi mediatica, si assiste alla richiesta di perdono, probabilmente indotta se non orchestrata, rivolta ad una madre, imbarazzata e ignara del senso dell’iniziativa, ad opera di un nigeriano a nome dell’intera sua comunità di appartenenza. Una contraddizione enorme per una società fondata sul principio della responsabilità e della colpa individuale del cittadino e che ha spinto il punto di vista liberale sino all’estremo del disconoscimento o della incomprensione dei legami culturali, religiosi e ideologici propri di una comunità.  Una funzione disperatamente cacciata dalla porta della casa liberale, ma pronta pervicacemente a rientrare ad ogni occasione dalla finestra.

La campagna, però, inizia subito ad utilizzare argomenti più sofisticati e variegati quanto vario è il campo dei paladini dirittoumanitaristi.

Parte a spron battuto l’onorevole Boldrini la quale adombra il fatto che l’assassinio contemporaneo della ragazza di Milano ad opera di un ferrotranviere depravato rappresenta un atto di per sé equivalente se non più grave, perché legato apertamente ad un abuso sessuale quando invece il delitto di Macerata, enfatizzato, rischia invece di alimentare il razzismo.

Prosegue l’opera di imbonimento Giuliano Amato,https://www.youtube.com/watch?v=kciBzASA6Og  il “dottor sottile” il quale a furia di sottilizzare ci illumina sul corso dei secoli pontificando che l’Europa, le popolazioni europee sono la sintesi di una mescolanza di etnie e di culture più o meno aperte al confronto, le quali popolazioni hanno cominciato a rimarcare le differenze e le estraneità, le aperte ostilità sino al male assoluto dei genocidi a sfondo razziale, con l’avvento degli stati-nazione. La sottigliezza degli argomenti gli consente il margine necessario per qualche giravolta opportunistica tipica del personaggio; il senso rimane comunque quello del superamento degli stati nazionali e dell’appello ad un intenso processo di integrazione a scapito dell’evidenza storica delle macellerie che hanno interessato l’epoca moderna, quanto quella medioevale e le precedenti. Eppure il colto e raffinato Giuliano Amato saprà benissimo che sino a qualche secolo fa, in Europa, si riteneva che i vari organi del corpo umano fossero le sedi rispettivamente delle varie virtù umane; la tentazione di conseguenza di nutrirsene doveva essere forte. Concediamogli pure la misconoscenza che tale apprezzamento sia ancora in atto in larghe parti del pianeta, non troppo lontane da noi.

Conclude l’opera di imbonimento e sviamento il vescovo di Macerata, Monsignor Zamboni, http://www.famigliacristiana.it/articolo/il-vescovo-di-macerata-l-italia-e-davanti-al-fallimento-educativo-non-le-servono-miracoli-elettorali.aspxl il quale smarrisce la sua funzione di prelato e di pastore per assumere quella del sociologo attribuendo alla mancanza di senso della vita, al materialismo dell’arricchimento senza scrupoli, alla assenza di concrete politiche di integrazione l’origine del male. Uno smarrimento che spinge il prelato a dimenticare che l’idea di bene e di sacrificio offerta dal cristianesimo, in particolare dalla componente cattolica, si contrappone non solo ai problemi sociali ma ad idee di bene e di sacrificio, di rituali propri di società e comunità tribali; comunità dalle quali stiamo bellamente traendo “risorse” ignorandone completamente i retaggi culturali e le effettive possibilità di reale integrazione. Succede quando si riduce il problema dell’integrazione ad un mero aspetto economico, di dialogo e di giustapposizione multiculturale.

La rappresaglia di Traini rappresenta la classica ciliegina a conferma della costruzione di questo immaginario. Offre l’occasione inaspettata per nascondere sotto il vessillo consunto dell’antifascismo di maniera la polvere dei tanti problemi lasciati a marcire. Grazie ai quali e all’inesistenza di alternative politiche, soffocate queste ultime continuamente per decenni da questo manierismo, si finisce più o meno inconsapevolmente per rilegittimare e dare occasioni di rilancio proprio alle componenti fascistoidi, in quanto uniche potenziali forze di opposizione radicale. La strumentalizzano apertamente le forze sinistrorse più radicali sino alla aperta chiamata di correità di coloro che puntano a regolamentare e ridurre drasticamente i processi di immigrazione. In questo Boldrini e Grasso, ma anche Bersani e d’Alema quando tentano di ridurre a fascismo il sovranismo, sono le punte di lancia. Ma il resto degli iscritti “all’anagrafe antifascista” non sono da meno tranne che nella cautela di vedersi associati all’azione “militante” delle “guardie plebee” (cit. di Preve) dei centri sociali.

Da qui la fretta di celebrare il “sacrificio” di Traini e la tentazione di evitare o rinviare quello degli assassini di Pamela. Se finiranno male, questi ultimi saranno additati come mostri; in realtà non sono nient’affatto avulsi dalla loro comunità; non sono nemmeno troppo lontani dai rituali previsti da nostre comunità. L’aspetto più mefitico di queste dinamiche per il nostro paese rischia di essere proprio quello di una commistione e di una fusione. I segnali, andando in giro per la penisola, di certo non mancano. Dall’altro la riduzione e rimozione a “mostri” è funzionale alla sopravvivenza delle priorità di ordine pubblico e di politica giudiziaria stabilite dai pasdaran dei diritti umani: la persecuzione delle donne, la recrudescenza del fascismo e poi si vedrà. Un modo paradossale di relegare un problema di criminalità organizzata e di rituali annessi, anche se praticamente sconosciuto, in second’ordine rispetto ad un problema sociale in gran parte sovrastimato e comunque riguardante comportamenti individuali quale quello della persecuzione della donna e a un problema circoscritto, più politico in senso stretto che giudiziario, quale quello del fascismo.

Di fronte a questi strattonamenti si comprendono meglio lo smarrimento, i tentennamenti e le oscillazioni della magistratura inquirente.

L’inquietudine che si legge nei comportamenti del ceto politico al governo soggiace a motivi precisi e a retaggi inamovibili.

  • La retorica dell’accoglienza rappresenta un velo che nasconde la completa ignoranza della radicalità delle differenze culturali di gran parte degli immigrati sino all’ingresso di comunità di natura tribale. Una retorica che nasconde l’ambizione reale di gran parte delle schiere più recenti di immigrati; ambizioni che vanno al di là di una dignitosa esistenza in un contesto produttivo.
  • L’entità dei flussi e la condizione di crisi e di radicale riorganizzazione economica in un paese in evidente declino rende impossibile un assorbimento ed una integrazione economica propedeutica a quella culturale
  • La massiccia presenza dell’economia informale e di organizzazioni e sistemi malavitosi e mafiosi alternativi e compenetrati allo Stato offrono lo spazio all’importazione massiccia di strutture analoghe presenti all’estero. Forse uno dei pochi esempi riusciti di integrazione; con essi la mutualizzazione e l’ingresso di rituali largamente presenti e denunciati in quei paesi, ivi compresa la Nigeria. Del resto sono scene e rituali che non sono prerogative esclusive di quell’area. Li abbiamo visti in Siria, con i guerriglieri della libertà dediti ad assorbire le energie vitali del nemico mangiandone cuore e fegato. Anche da quelle parti stiamo attingendo a man bassa, con l’aggiunta dell’esperienza guerriera. Gran parte degli immigrati di quelle aree sicuramente hanno superato questi modelli di vita e ambiscono a qualcosa di meglio. La riproduzione di quelle comunità e di quelle strutture, in una situazione così precaria, rischia di ricacciarli inesorabilmente alle origini. Una precarietà, se proprio la si vuole legare ad una condizione sociale, legata molto più alla economia informale che alla condizione di clandestino. Un processo di regressione riscontrabile purtroppo anche nelle comunità di immigrati meno recenti. Un processo, per altro, che ha intaccato pesantemente la coesione di paesi ben più solidi come la Svezia, la Francia e la Germania. http://italiaeilmondo.com/2017/12/08/svezia-un-paese-sempre-piu-allineato-in-tanti-aspetti-intervista-a-max-bonelli/
  • Gran parte dei flussi sono legati a precisi disegni di destabilizzazione dei paesi fonte di emigrazione e di precarizzazione di gran parte delle economie occidentali, specie quelle in declino. Una destabilizzazione alla quale ha partecipato con ogni evidenza passivamente e senza sussulti l’intera classe dirigente nazionale. Lo stesso interventismo che si sta affermando nell’Africa Subsahariana rischierà di alimentare questa immagine nella misura in cui si offre lo stendardo di una crociata all’integralismo ad un conflitto al momento di tutt’altra natura, in particolare di origine etnica e di sistemi socioeconomici antitetici costretti in uno stesso stato

Sono ingombranti scheletri negli armadi che rischiano di uscire proprio nel momento delle elezioni a discredito definitivo di ciò che rimane della credibilità dei governanti.

Sarebbe stata l’occasione per la sedicente opposizione radicale di proporsi come classe dirigente alternativa credibile.

Lascio perdere per carità di patria i grillini.

Anche Salvini ha però di fatto scelto il silenzio e la speculazione strumentale.

Sarà stato senz’altro il timore, con l’esclusione dall’anagrafe antifascista, di vedersi assegnato nel girone dei reietti.

Molto probabilmente peserà soprattutto la sua inadeguatezza ad affrontare un tema così delicato in termini di sicurezza e di coesione sufficiente del paese e della formazione sociale.

Due atteggiamenti complementari che rischiano di far scivolare il problema della gestione compatibile dell’immigrazione in un problema di etnie, di bianchi e di neri. Da qui ad una rappresentazione razzista più o meno latente del processo il passaggio rischia di essere impercettibile quanto funesto http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/