Dottor Giletti, non è l’arena, ma solo perché manca uno dei contendenti_di Giuseppe Germinario

Al dottor Massimo Giletti

conduttore della trasmissione “Non è l’arena”

Dottor Giletti,

ho seguito con attenzione la puntata di “Non è l’arena” del 20 dicembre scorso. Guardo ormai di rado la televisione, ma capita spesso di osservare la sua produzione quasi sempre interessante, incalzante, il più delle volte con una rappresentazione sufficientemente completa della realtà, altre volte con una intensità ed una partecipazione drammatica talmente forte da spingere ad una visione unilaterale, distorta, deleteria e spesso tribunizia dei problemi posti. Nella fattispecie mi riferisco alla parte di trasmissione dedicata ai problemi di inquinamento e sanitari legati al complesso industriale dell’ILVA di Taranto. Sono originario di quelle parti, ne sono andato via ormai da più di trenta anni, ci torno comunque molto volentieri in vacanza quasi ogni anno, conosco la radicale e particolare combattività di quella popolazione ma osservo anche il progressivo degrado di quell’area, simile purtroppo ad altre del paese e in particolare del Mezzogiorno. Negli anni ‘70 ho esercitato funzioni pubbliche relativamente a margine di quell’area, ma sufficientemente prossime da poter conoscere e nel mio piccolo influenzare la situazione sociopolitica del tarantino. Ho conosciuto il fervore, le aspettative generate dall’insediamento dell’acciaieria, ma anche le enormi problematiche che avrebbe generato progressivamente, ma allora già incipienti se non adeguatamente affrontate. Oggi siamo certamente di fronte forse nemmeno ancora all’epilogo, ma di sicuro all’agonia di una tragedia sanitaria ed ambientale certamente, ma anche economica di quella zona e di tutto il paese, in particolare nella fattispecie nella capacità di controllo delle leve economiche. Un dramma che però deve essere risolto positivamente di pari passo con l’altro. Lascio perdere la narrazione a buon mercato e facilona di un paese intero, ma anche di un territorio così esteso e popolato che possa vivere di solo turismo ed agricoltura. Di quale turismo e di quale agricoltura ci sarebbe comunque da discutere, viste le luci e le ombre che caratterizzano quelle attività in quell’area, come in tante altre per la verità. Non è questo il cuore del problema. Ci sono ormai innumerevoli esperienze di paesi di una certa importanza e dimensione che hanno scelto questa strada e che sono finite velocemente nell’irrilevanza politica e nella tragedia economica e sociale. Un paese che abbia a cuore il proprio benessere, la propria autonomia, la propria indipendenza, la propria coesione e progressione sociale non può rinunciare all’industria.

Non voglio dilungarmi eccessivamente; ci sarebbe da scrivere interi tomi e il blog di Italiaeilmondo.com nel suo piccolo ritiene di aver dato un proprio contributo al tema.

In sintesi cerco di affrontare il tema e rispondere ad alcuni luoghi comuni ricorrenti ed apparsi in modo unilaterale e senza contraddittorio nella sua trasmissione:

  • L’ILVA di Taranto, ex Italsider, è una delle attività superstiti che fornisce il prodotto di base all’industria cantieristica, meccanica, di utensileria, mezzi di produzione e quant’altro in Italia. Rappresenta l’esito di una grande battaglia politica simboleggiata da personaggi come Mattei, condotta da vari esponenti degli schieramenti politici sin dagli anni ‘50 contro altri ben insinuati nei gangli vitali; battaglia che pose le basi dello sviluppo industriale del paese

  • il IV centro siderurgico di Taranto non è nato in una fase di sovrapproduzione dell’acciaio, precisando che quando si parla di acciaio non si parla di un prodotto di base indistinto buono per tutti gli usi. Esistono delle precise e finalizzate specializzazioni di prodotto. Fuori dal contesto economico apparvero invece in parte il V e soprattutto il VI centro, del resto mai sorto a Gioia Tauro non ostante la costruzione del porto ad esso finalizzata

  • il fatto che un paese disponga di una propria industria di base non è affatto un fattore irrilevante e lo sarà sempre meno in una fase di crescente multipolarismo e di incipiente costruzione di diverse e tendenzialmente contrapposte sfere di influenza politiche ed economiche. Il parametro di sovrapproduzione su cui hanno più volte insistito tutti i partecipanti alla trasmissione sottende un contesto geopolitico e geoeconomico del tutto sorpassato se mai esistito

  • il gruppo Arcelor-Mittal non è un gruppo indiano; è un gruppo franco-indiano. La sua attività, il suo comportamento predatorio e i condizionamenti posti in essere e subiti da esso rientrano a pieno titolo per altro nel sordido scontro tutto interno all’Europa, in particolare alla Francia, alla Germania e all’Italia riguardo alla ripartizione delle quote di produzione di acciaio che vedeva l’Italia nei tempi andati detenere ampiamente il primato di produzione ed ora subire pesantemente la riduzione proporzionalmente maggiore delle quote sino a posizionarsi nelle retrovie tra i produttori europei

  • sulle vicende dell’ILVA agiscono sotto traccia dinamiche geopolitiche e logiche di posizionamento militare legate alla presenza dell’Arsenale, del porto militare e delle vicine basi aeree e di osservazione

  • i problemi di ristrutturazione e risanamento dello stabilimento si sono cumulati, acuiti progressivamente e di fatto saturati con la dissennata privatizzazione, purtroppo nemmeno l’unica, in favore della famiglia Riva, con il discutibile nelle modalità e tardivo intervento della magistratura e con l’insipienza politica legata alla scelta dell’affidatario, alle clausole e alle modalità di affidamento dello stabilimento al gruppo Arcelor-Mittal, alla gestione da parte del Governo e dei vari pesci in barile della Regione Puglia a dir poco dilettantesca la quale ha offerto all’impresa numerosi pretesti per la sua condotta predatoria e dilatoria

  • i problemi ambientali e sanitari di Taranto sono legati, oltre alle attività predominanti dell’ILVA, alla combinazione delle attività prospicienti della raffineria, del tutto passate sotto silenzio anche dalla stampa e dai contestatori; sono problemi cumulativi che riguardano la responsabilità a vari livelli, diretta ed indiretta, dei vari imprenditori avvicendatisi, degli organi di controllo e delle autorità politiche

  • buona parte dei problemi sanitari ed ambientali sulle popolazioni sono determinate anche dalla criminale vicinanza di insediamenti urbani sviluppatisi successivamente a quello industriale, in particolare il quartiere Tamburi, più che prossimi, praticamente all’interno dello stabilimento e delle correnti d’aria metereologiche peculiari della zona. Su questa prospicienza si dovrebbe in realtà agire per cominciare quantomeno a ridurre gli effetti immediati dell’inquinamento

  • la chiusura dello stabilimento di Taranto rappresenterebbe una sconfitta tragica del paese e della popolazione locale, per altro nient’affatto compatta nella richiesta di chiusura dello stabilimento e la conferma e consolidamento purtroppo duraturi nel tempo ai danni di una intera nazione di un ceto politico e di una classe dirigente miserabilmente ignavi

  • Ritengo non sia cinismo, ma realismo ed esperienza di chi in altri tempi qualche ruolo positivo pensa di averlo avuto. La chiusura dello stabilimento rappresenterebbe di fatto e purtroppo, mi duole il cuore dirlo, una sconfitta sonora anche dello stesso movimento ambientalista e di denuncia e contrasto dell’emergenza sanitaria che non è stato in grado nemmeno di pretendere con successo in questi anni la banale copertura dei depositi di minerali, figuriamoci di promuovere uno sviluppo alternativo e controllato dell’area, di un attivo processo di risanamento ambientale pur a spese degli interessi strategici di una nazione. Il miraggio della monocoltura del turismo e dell’agricoltura è l’ennesimo esempio dell’abitudine, purtroppo sempre più presente in quelle aree, ad affidare alle parole e agli slogan un valore taumaturgico destinato ad ingannare ed illudere in cambio del nulla o quasi

Dottor Giletti,

la concretezza e la verità, almeno a mio parere, è alla fine apparsa nella sua trasmissione, ma sul suo finire. Non la hanno proferita gli esperti, i giornalisti e i politici cosi animati, ben motivati ed animosi in quella trasmissione; l’ha espressa Vittorio, nel modo ingenuo, elementare e diretto proprio di un ragazzino: la salute, un ambiente vivibile ed una vita sociale serena devono convivere con l’esistenza ed il risanamento di quella industria. Evidentemente Vittorio ha saputo esprimere l’angoscia di una tragedia sanitaria ed ambientale che deve essere risolta con l’esistenza di una attività produttiva altrettanto indispensabile e propedeutica al benessere di una comunità e aggiungo io alla solidità di una nazione,

Giuseppe Germinario

https://www.la7.it/nonelarena/rivedila7/non-e-larena-puntata-del-20122020-21-12-2020-356659

NB_ l’intera trasmissione è interessante; l’argomento trattato parte dall’ora 1:45 della registrazione

ILVA, il suo percorso è la metafora del futuro di una nazione_con Augusto Sinagra

tra quelli che ci fanno

L’affare ILVA si sta rivelando la metafora del destino che l’Italia sta inseguendo nella sua frenesia autodistruttiva.

babbei al governo

Dal ruolo improprio, l’ennesimo, della magistratura alla contrapposizione paralizzante e arcadica tra difesa ambientale e salvaguardia del patrimonio industriale, specie di quello strategico di base, alla insipienza ed arrendevolezza di un ceto politico complice, ormai non solo oggettivamente. Una classe dirigente che non sa offrire un futuro, che non sa pensare all’interesse nazionale, che non sa far altro che nascondersi tra le pieghe sempre più asfittiche lasciate dagli attori geopolitici più intraprendenti. Ha dimostrato di non aver cura nemmeno delle condizioni minime di sopravvivenza del proprio apparato industriale; ha abdicato da ogni iniziativa politica lasciando sempre più spazio all’azione impropria di apparati preposti a sanzionare il mancato rispetto della legge; si sta facendo soverchiare da una multinazionale francoindiana complice dei propositi di desertificazione del paese ad opera dei “fratelli maggiori europei”. Un ceto politico inetto, scarsamente rappresentativo di interessi forti nel paese, ormai avviluppato in un conflitto tra bande. Potrebbe essere la grande occasione per un ceto politico alternativo di presentarsi come i difensori e gli assertori di una diversa prospettiva nazionale. E invece anche l’opposizione, compreso Salvini, sta rivelando limiti ed incomprensioni drammatici, per non dire di peggio. Di fronte a insolenti colpi di mano di Arcelor Mittal tesi a chiudere e danneggiare gli altiforni e alla reazione governativa meramente legalitaria, praticamente una manfrina, inadeguata rispetto all’urgenza drammatica della situazione, si chiosa bellamente sulla modalità di trattare con la multinazionale, sulle buone maniere piuttosto che spingere verso atti di imperio e straordinari che impediscano il vero e proprio sabotaggio in corso. La crisi ILVA è solo la punta di un iceberg che sta minacciando l’esistenza stessa di un apparato industriale appena degno di questo nome. Colpisce l’afasicità delle reazioni, compresa quella degli interessati diretti, gli operai. Non si può nemmeno più parlare della bollitura a fuoco lento di una rana. Qualche segnale di allarme, anche se tardivo, comincia a pervenire dagli ambienti imprenditoriali. E’ l’unico barlume di speranza rimasto. Si vedrà se il ricorso giudiziario, quel che pare una recita a contratto, si trasformerà in una reazione più risoluta. In controcanto ci sta pensando il Ministro della Difesa Lorenzo Guerini a rivelarci convinto l’ultimo tassello della congiunzione astrale, assieme all’ambientalismo d’accatto e decrescista e ai propositi della Unione Europea a trazione franco-tedesca, che vorrebbe il funerale dell’ILVA e del paese: preoccupato del futuro dei quindicimila prossimi disoccupati, ha annunciato l’estensione dell’arsenale militare nel’area Italsider e la prossima assunzione di mille unità.

il complice

Vedremo! Buon ascolto_Giuseppe Germinario

CHI GESTIRÀ LA FASE DI CHIUSURA DELL’ILVA DI TARANTO?, a cura di Luigi Longo

CHI GESTIRÀ LA FASE DI CHIUSURA DELL’ILVA DI TARANTO?

a cura di Luigi Longo

 

Ho sostenuto qui, qui, qui con una ragionevole ipotesi che l’Ilva di Taranto si avvierà verso la chiusura perché è incompatibile con l’allargamento della base Nato e perché gli USA ritengono Taranto e Foggia spazi fondamentali per le loro strategie nel Mediterraneo, Medio Oriente e Oriente.

L’avvio della chiusura di una impresa di livello mondiale, con il più grande impianto siderurgico d’Europa, strategica per l’economia italiana, significherà avviare l’Italia verso un più accentuato declino economico, sociale e politico; dimostrando così che siamo amministrati da sub-sub-decisori servili e stupidi ( ci vorrebbe un altro Johnathan Swift per aggiornare la follia dei decisori) nel momento in cui svendono una industria strategica ad una multinazionale facendo in modo che siano sempre più i gabinetti stranieri a decidere la sorte della nazione.

Si pone una domanda: la svendita dell’Ilva di Taranto alla Am Investco (joint venture tra AcelorMittal (85%)- multinazionale con sede in Lussemburgo con primo azionista la famiglia indiana Mittal e Marcegaglia (15%), con advisor Jp Morgan) é l’inizio della complessa fase di gestione della chiusura?

L’articolo di Comidad (L’Ilva tra nuvole tossiche e nuvole di astrazione, apparso sul sito www.comidad.org, il 14/6/2018), di seguito riportato, pone delle riflessioni che lasciano intravedere le irrisolvibili problematiche perchè l’Ilva possa continuare a produrre e fanno emergere il conflitto tra i sub-sub-decisori delle varie sfere: militare, politica, economica e ambientale, nella fase di gestione della chiusura dell’Ilva.

 

 

L’ILVA TRA NUVOLE TOSSICHE E NUVOLE DI ASTRAZIONE

di Comidad

 

 

L’ennesimo “governo del cambiamento” si è andato a scontrare con le normali emergenze”. Se il dibattito sull’ILVA di Taranto continua ad assumere gli stessi toni spesso esasperati ed esasperanti, è perché risulta astratto; risente cioè di un’assoluta mancanza di contestualizzazione. Anzitutto bisogna capire quanto ha inciso, e quanto incide tuttora, nella vicenda il fatto che lo stabilimento ILVA confini con strutture militari, tra cui una base NATO. Quale che sia il governo in Italia, la NATO ha fatto capire chiaramente che non intende mollare la presa sul Sud del Mediterraneo.
La presenza dello stabilimento ILVA a Taranto è per “caso” diventata di troppo? Ostacola con la sua presenza l’espansione delle strutture militari?
Circa tre anni fa l’allora Capo di Stato Maggiore della Marina ventilò l’ipotesi di un assorbimento dei lavoratori dell’ILVA nel personale civile della struttura militare dell’Arsenale di Taranto.
Che si tratti di un progetto abbandonato o di un progetto lasciato in sospeso, oppure di una boutade di pubbliche relazioni per far vedere quanto possono essere buoni e utili i militari, ancora non è chiaro.
Un’altra questione non da poco è cercare di stabilire quanto incida la presenza militare nell’inquinamento dell’area. Un’ILVA capro espiatorio? Certo è che nessun perito di tribunale si sentirebbe di rovinarsi l’esistenza chiamando in causa una fonte di inquinamento di origine militare. E poi col segreto militare ci sarebbe poco da fare persino se la magistratura fosse al di sopra di ogni sospetto.
Oltre la vicenda del sito di Taranto, c’è la questione della siderurgia in genere. Può esistere una siderurgia senza le sovvenzioni statali, una siderurgia di “mercato”, oppure rientra nel novero delle fiabe liberiste?
In nome del mercato si delega la produzione della gran parte dell’acciaio alla Cina, dove però i colossi dell’acciaio sono tutti statali e vanno verso una crescente cartellizzazione, sempre all’ombra della mano pubblica.
Non sarebbe molto meno oneroso per la spesa pubblica italiana una siderurgia nazionalizzata piuttosto che foraggiare il rapinatore privato di turno?
In molti settori industriali tenere in piedi la finzione del privato ha un costo esorbitante per il bilancio dello Stato che deve tappare i buchi; ma questi “sprechi” di denaro pubblico possono essere catalogati sia come costi dell’assistenzialismo per ricchi, sia come costi della lotta di classe contro il lavoro.
La fiaba liberista ci narra di governanti spendaccioni che acquistano con la spesa allegra il consenso delle masse. La realtà è l’esatto opposto: lo Stato infatti spende e paga il pedaggio alle multinazionali di turno per poter mantenere i lavoratori dei centri siderurgici sotto la spada di Damocle della perdita del posto di lavoro. La produzione siderurgica comporta infatti la presenza sul territorio di concentrazioni operaie e, per i governi, il problema è di evitare che queste concentrazioni operaie diventino, come in passato, roccaforti e punti di aggregazione dell’opposizione sociale.
Un’altra passeggiata tra le nuvole riguarda le cosiddette “bonifiche ambientali”. Persino nell’ipotesi più ottimistica, cioè che l’inquinamento di Taranto sia esclusivamente di fonte industriale e non militare, ogni bonifica costituisce un’avventura di cui non si possono quantificare costi e tempi. E ciò senza tener conto dei rischi ulteriori che comporta l’andare a smuovere strutture che hanno sedimentato scorie tossiche in stratificazioni storiche. A sentire certi discorsi sembra che il disinquinamento sia come confessarsi e farsi la comunione per ritornare puri come prima. In realtà ogni bonifica è un azzardo e le tecnologie in grado di renderlo meno azzardato non sono del tutto certe e affidabili, anche se, ovviamente, il business ambientale tende a far credere il contrario.
La storia infinita della mancata bonifica del sito di Bagnoli è stata risolta semplicisticamente dalla magistratura nei consueti schemi del caso di corruzione. Ci si propina la solita fiaba moralistica secondo cui sarebbe stato solo l’inquinamento delle anime ad impedire il disinquinamento dell’ambiente.