Georgia, punto di rottura_di Daniele Lanza

(cerchiamo di spiegare al pubblico il risultato delle elezioni georgiane, il cui significato va oltre la Georgia)
Il partito conservatore non liberale “Sogno georgiano” raccoglie da solo, senza alleati, il 54,1% del voto secondo sistema proporzionale: per contro, le forze filo-UE e filoatlantiche – 4 mini coalizioni – raccolgono in tutto il 37%.
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In che modo interpretare queste elezioni a beneficio dell’osservatore europeo/italiano nel modo più semplice possibile ? Innanzitutto chiarendo il campo di gioco e i suoi giocatori.
Abbiamo un paese, la GEORGIA, che si trova in una posizione geografica assai particolare, ai margini estremi del continente europeo (se ancora può definirsi tale), inserito in quella grande catena montuosa che è la fusione con il vicino medio oriente turco/iranico. Malgrado questo si tratta di un paese CRISTIANO (chiesa ortodossa autocefala georgiana) in mezzo al mare musulmano circostante, entrato nell’orbita russo imperiale 2 secoli fa, attraversando assieme a Mosca il settantennio sovietico, cosa che ne ha fondamentalmente secolarizzato il costume. Al termine dell’era sovietica, si rende indipendente, manifestando nel corso di tale processo, fisiologici moti antirussi post-sovietici, comuni in differenti misure in tutta la galassia post-sovietica (come i figli adolescenti che arrivano al momento della ribellione con i genitori).
Sulla base di tutti i fattori riportati sopra, ormai da oltre 20 anni si pianifica da parte europea di integrare tale paese nella casa comune guidata da Strasburgo e Bruxelles.
Insomma, si vuole la Georgia come membro dell’Unione Europea, questo è il punto.
Quanto questo intento sia plausibile e giustificabile non si può che lasciarlo al giudizio di ogni osservatore: si giudichi da sé quale e quanto senso possa avere cercare di integrare a tutti i costi in UE un minuscolo stato nazionale, la cui area storica non ha mai fatto parte dell’Europa – nè occidentale, ma per lungo tempo nemmeno di quella orientale – se non come margine estremo verso l’Asia musulmana, dotato di un’economia al medesimo livello di quelle nordafricane (che quindi non può apportare nulla, ma al contrario sarebbe un oggettiva zavorra aggiuntiva all’Unione. I parametri economici d’accesso, i requisiti non esistono per caso, ce lo si ricordi).
A questo punto perché non fare entrare anche la TURCHIA ? (è quello che Ankara ha domandato per anni prima di stancarsene, sostenuta a gran voce da Washington che – ricordiamocelo – voleva la Turchia nell’UE tanto quanto nella Nato). Oppure perché non fare il grande passo ed ammettere anche lo stato di ISRAELE ?? (c’è chi l’ha proposto, eccome).
Come ho cercato di sottolineare in precedenza, non sussiste (disgraziatamente) alcun fondamento razionale all’ingresso della Georgia, se ci si basa su un rispetto stretto dei criteri economici e culturali di adesione; il fondamento razionale invece esiste invece, eccome,…..se per tali criteri utilizziamo invece quelli geopolitici e geostrategici: un ulteriore tassello euro-atlantico nel cuore del Caucaso espanderebbe l’influenza politico/militare nell’area, a danno principalmente di Mosca che si ritroverebbe la Nato ai confini da meridione (e secondariamente di Teheran).
UE e NATO viaggiano (si propagano) in parallelo, ricordiamocelo anche se sembra banale dirlo: sono rispettivamente il braccio civile e militare della medesima entità di fondo, e l’uno va avanti seguito dall’altro a brevissima distanza o viceversa perchè servono lo stesso interesse (…)
Ergo, la chiave sono le RAGIONI (quelle reali) per le quali si vuole la Georgia in UE. Si può concordare o meno con tali ragioni – dipende dall’orientamento del lettore – ma quelle sono, quindi è giusto essere chiari in proposito senza accampare alibi vari.
Si può scegliere ciò che si vuole (sono chiaro), ma allora si abbia il coraggio di dirlo e affrontarne tutto quello che consegue (non ci si può aspettare che Mosca – o qualsiasi altra potenza di quel calibro – se ne stia con le mani in mano mentre gli si costruisce attorno un confine fatto di missili puntati contro: in Ucraina quanto a Taiwan o in qualsiasi altro posto…non fa testo se fatto volontariamente o meno, democraticamente o meno ! Sia come sia, su un piano geostrategico si traduce in un rischio per Mosca, la quale chiaramente si interesserà alla questione in un modo o in un altro).
Se è chiaro quanto scritto sopra allora si può proseguire.
Allora CHI vuole la Georgia nell’UE ? Le cosiddette correnti filoccidentali che in concreto sono i partiti, movimenti e coalizioni a sostegno tanto dell’integrazione europea quanto (al 99,9%) all’ingresso nell’Alleanza atlantica. Sono quelli che organizzano le parate di piazza a favore dei diritti civili come di tradizione newyorkese, londinese o parigina……alfieri dell’ideologia liberale di classico conio, affiancati da una piccola galassia di ONG generosamente finanziate dall’estero. Si tratta del popolo che urla a squarciagola e issa vessilli arcobaleno per tutta la città nel nome della giustizia. In parole altre, mi spiace dirlo, sono quella fascia di società che, imbevuta di un’immagine idilliaca delle società euro-americane (desiderandone la prosperità), finisce per esserne usata per scopi altri (che nulla hanno che fare con la prosperità).
Questo popolo, molto rumoroso sulla strada lo chiameremo “Popolo Arcobaleno” (che in questo caso non è nemmeno tanto ad indicare l’associazione col movimento Lgbtq, quanto una visione del mondo “prospera”, per quanto illusoriamente).
CHI è contro costoro ?
Un partito sorto una quindicina di anni fa ad opera di un miliardario locale: si chiama “SOGNO GEORGIANO”, nome attorno al quale da adesso tutto girerà.
Diciamo da subito che la natura di questo partito è decisamente più complessa di quanto sia semplificato sui media occidentali: a beneficio del lettore diciamo che NON si tratta di un partito “filorusso” a scanso del fatto che tale etichetta gli è stata applicata un po’ ovunque (…).
Si tratta di un partito nato come “di sinistra” sul piano della presenza dello stato e dell’assistenza sociale (cose che da un punto di vista liberal/anglosassone sono automaticamente considerate di sinistra), ma le combina con un deciso conservatorismo sul piano sociale. In pratica una destra di tipo SOCIALE (per così esprimersi): il problema è che alla filosofia liberal non sta bene alcuno dei due aspetti ! Dal momento che promuove un modello di libero mercato (assai poco assistenziale) e del tutto progressista su quello sociale. Oltre a tutto questo (cosa più grave in assoluto), “Sogno georgiano” promuove una politica di realpolitik con la RUSSIA; si muove in direzione di una normalizzazione dei rapporti e di una pacificazione della zona di frontiera – tormentata dal 2008 – così come una riapertura del commercio russo-georgiano (molto grande in rapporto alla piccola economia del paese).
Tutto questo scaturisce da un’impostazione di fondo che consiste nel realizzare la natura peculiare del paese, collocato sul piano storico/culturale tra due mondi: quello occidentale da un lato, ma anche quello russo dall’altro (col quale il legame è inscindibile). Si cerca pertanto un bilanciamento tra le due forze. L’obiettivo, pertanto, non è di essere per forza “amici della Russia” quanto trovare un equilibrio ragionevole che non costringa ad esserle nemici. Questa è la chiave di tutto: equilibrio e bilanciamento. Concetti che tuttavia stridono con le aspettative occidentali, nella misura in cui mal coincidono con un orientamento rigidamente antirusso adottato da tutto l’asse euro-americano. In base a questa ricerca di equidistanza si è limitata la presenza di ONG finanziate dall’estero (sapendo benissimo da chi sono finanziate; ricordiamo che non sono state vietate, ma solo è stato posto l’obbligo di registrarsi ed essere trasparenti……cose che sembrano ragionevoli da un altro punto di vista. Oppure no ? Si vorrebbe liberissimo e non trasparente finanziamento dall’estero ? Per nascondere cosa ? Si risponda anche a questo in coscienza, prego…). Si limita anche la forza del movimento LGBTQ nella misura in cui lederebbe il consenso in ampie parti del paese non in grado di metabolizzare idee del genere, generando divisioni e frizioni in seno a una società molto tradizionale.
In definitiva: cosa è “Sogno georgiano” e cosa vuole ? E’ un partito multisfaccettato, dall’approccio molto realistico: NON intende far sì che la propria società sia investita di cambiamenti che non condivide, nè che si ritrovi incastrata in alleanze politico/militari che non coincidono col proprio percorso storico. Sono leggi ed iniziative simili, analoghe a quelle russe sì, ma in realtà che non sono state prodotte al fine di emulare la Russia (idea questa, diffusa da occidente), quanto piuttosto perché vogliono riflettere il paese reale, il quale, coincidentalmente, è tanto conservatore quanto la Russia. Si tratta di una convergenza culturale piuttosto che di un piano geopolitico. PUNTO.
In nulla “Sogno georgiano” è specificamente “filorusso”: quest’ultima è una definizione data dai centri di potere e dai mezzi di informazione euro-americani (che hanno contribuito ad instaurarla nel pensiero comune). In realtà questo partito georgiano è “filorusso” soltanto se lo si osserva da una prospettiva severamente ANTIRUSSA: una prospettiva che Washington/Bruxelles gradirebbe per qualsiasi nuovo alleato che coopta (l’equivoco di fondo sta tutto lì : la Georgia è un paese fiero e indipendente, ma NON antirusso quanto paesi baltici e Polonia, che quindi punta ad una posizione più sfumata, nella crisi presente. Questo, ahimè, è sufficiente per farlo bollare come “filorusso” dall’asse euro-americano che nella propria foga tende a considerare come sospetto qualsiasi atteggiamento che non sia in linea col proprio. Diventa pertanto “filorusso” non soltanto chi è filorusso per davvero, ma anche colui che non si dichiara antirusso, pretendendo di mantenere una posizione equidistante.
Lo chiameremo quindi partito del paese profondo

= ……….ecco I due attori fin qui descritti si confrontano: il “popolo arcobaleno” e il “paese profondo” si confrontano direttamente (come oramai sta accadendo in tanti paesi dell’occidente europeo, vedi Francia e Germania).
I risultati sono quelli che si vedono. Il paese profondo veniva dato al 40% dai sondaggi commissionati dagli avversari (le forze liberal-progressiste si vedevano vincitrici e diffondevano tale idea), ma alla prova reale sul campo prende invece il 54% al voto nazionale e senza nemmeno alleati coi quali dover dividere il potere. Nelle zone rurali poi tale voto arriva a sfiorare il 90%.
Il popolo arcobaleno e le 4 coalizioni che lo rappresentano, sono andate poco sopra 1/3 del consenso nazionale.
Un messaggio forte che fa intendere lo scarto tra la minoranza rumorosa che va in piazza ad urlare ed il paese reale (che questo piaccia o meno a chi rimane affascinato dalle piazze solcate di bandiere e slogan).
Si deve aggiungere qualche nota specifica sul voto: come in tanti fanno notare, “Sogno georgiano” si è presentato su manifesti elettorali con iconografia che riflette ancora l’europeismo (vero). Un punto che consente dunque di evidenziare ulteriormente il grande equivoco che grava su queste elezioni e sulla natura del partito stesso di cui abbiamo già parlato addietro: il conservatismo georgiano NON è antieuropeo e non lo è mai stato………semplicemente non è disposto ad abbracciare per intero l’ideologia liberal/anglosassone che sembra ad esso esserne ormai connaturata. Il conservatismo georgiano è disposto a far parte della UE da un punto di vista economico (così come essa è sempre stata concepita), ma non a stravolgere il proprio background culturale per questo; piuttosto, è dalla sponda opposta (Bruxelles) che si pretende di imporre un’agenda politica e geopolitica assieme al benessere (illusorio) che darebbero in cambio. Ci si può dunque a questo punto domandare chi sia il più ipocrita: se “Sogno georgiano” che vuole il benessere europeo senza pagarne il prezzo sul piano dei valori, oppure la stessa UE, la quale formalmente si presenta come un’associazione economica, ma poi pretende di imporre una precisa agenda politica che interferisce direttamente con la società e la politica interna dei nuovi membri che vorrebbero aderire (di nuovo, ognuno in cuor proprio opti per la variante che crede).
D’altro canto si deve sottolineare un fatto: se ammettiamo che non è stato corretto da parte di “Sogno georgiano” servirsi della simbologia UE nella sua campagna elettorale non condividendone i valori, allora parimenti non è stato corretto da parte filoccidentale trasformare l’intera campagna in un referendum pro o contro la RUSSIA.
Quanto è accertato è che le forze liberali e filoccidentali in campagna elettorale hanno da subito stravolto il senso delle cose: quello che doveva essere un confronto, di per sé importante, sulla politica interna del paese e sulla sua società……….è divenuto un confronto di politica ESTERA, focalizzato sul “filorussismo” o meno. La cosa è stata fatta ingenuamente oppure deliberatamente. C’è da temere sia la seconda. Esattamente come nel caso moldavo una settimana fa, si è fatto sì che il tema geopolitico divenisse impropriamente l’ago della bilancia, argomento da sventolare minacciosamente e a sirene spiegate in modo proprio da convincere quella parte del paese, la più nazionalista e conservatrice, a votare PRO-Europa, pur non condividendone l’orientamento liberale.
La dinamica è proprio la medesima a pensarci: il fronte liberale filoccidentale, ben consapevole della difficoltà di far accettare ad una società tradizionalista come quella georgiana un’agenda molto progressista, allora ricorre allo spauracchio Russia/Urss, consapevole dell’avversione istintiva che provoca in tutta la popolazione, trasversalmente….nella speranza di ottenere voti anche in quelle fasce che non voterebbero MAI riforme di matrice troppo liberale.
Escamotage semplice ed efficace: il problema è che non è bastato e nemmeno lontanamente. Ha pesato il fatto che la Georgia, a differenza della Moldavia, ha molti meno emigrati residenti in Europa (oltre 1 milione in realtà, ma tutti in Russia) e, pertanto non c’è stato nessun flusso di voti filoeuropeo dall’estero a ribaltare il verdetto, come nel caso moldavo (…). Trasformare le elezioni in un referendum contro la Russia è stato fallimentare; una mossa poco responsabile che riflette più la foga antirussa dell’occidente che non una reale valutazione dell’interesse georgiano, puntando tutto sul risveglio di un antirussismo che non è presente nella società georgiana (non nella medesima misura di paesi baltici o Polonia) con pochi risultati. Potrebbe al contrario aver spaventato molti georgiani alla prospettiva di far diventare il paese un ennesimo fronte armato, costantemente attivo, contro il gigante vicino.
Nella sostanza l’errore UE/USA è stato questo: hanno sponsorizzato (perché gli sponsor ideologici e materiali sono loro) una campagna elettorale basata non tanto su un oggettivo benessere nazionale da condividere quanto sulla paura di un ipotetico nemico alle frontiere. Il timore anziché una qualche giustizia. C’è da ritenere che la società georgiana in fondo abbia percepito qualcosa di tutto questo: che il guadagno sarebbe stato minimo (l’UE non regala a nessuno il proprio benessere, al massimo fa “prestiti”, come Kiev ben presto scoprirà) e il prezzo da pagare sarebbe stato alto (trovarsi una Russia eternamente nemica, e questo senza peraltro che i georgiani fossero nemici della Russia).
CONCLUSIONE
Chi di dovere (cioè chi aveva accesso ai sondaggi veri e non di propaganda), si è reso conto già da molte settimane delle scarse possibilità di successo , tanto in Moldavia quanto in Georgia e difatti (NOTARE bene*) la copertura mediatica nelle ultime settimane si è gradualmente assottigliata fino a scomparire in prossimità di tali consultazioni elettorali che sono letteralmente scomparse dalle pagine delle testate principali.
Se il caso moldavo è stata una delusione, e lo si prevedeva, allora tanto più si sapeva che quello georgiano – più difficile per le ragioni ricordate – sarebbe andato anche peggio; così è stato. Per tale ragione non se ne sente parlare da nessuna parte, cosa strana per un evento che si diceva tanto importante.
Cosa accadrà da qui in avanti non è per nulla certo: nè come si muoverà l’ora potentissimo “Sogno georgiano”, nè come si muoveranno le opposizioni così imbarazzantemente sconfitte. La disfatta è stata troppo netta, purtroppo, per invocare con forza i brogli elettorali (cosa che comunque stanno già facendo come di rito); l’unica cosa che rimane in alternativa è un atto di forza, ossia una rivoluziona colorata, che però a questo punto determinerebbe rischi di guerra civile inenarrabile alimentata da opposti attori geopolitici esterni (penso che nemmeno il fronte liberale georgiano osi una carta del genere, ma soprattutto per l’Europa la Georgia stessa non è così importante)
FINE.

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FONDAMENTI DI STORIA ARMENA (1 e 2), di Daniele Lanza

FONDAMENTI DI STORIA ARMENA [1]
*Dalla terra dei fiumi all’alba di Urartu.
C’era una volta la mezzaluna fertile, con le sue prime forme di aggregazione umana, i suoi primi minuscoli centri abitati, i suoi embrioni rudimentali di stato…….e quindi codici scolpiti nella pietra, sovrani feroci le cui sagome si stagliano in eterno su steli di basalto, altari che brillano della luce di mille idoli e tutto il resto (i manuali scolastici ci rendono l’idea sin dall’infanzia).
Dirigendosi a nord di questo primo bagliore della civilizzazione, l’umanità si dirada, torna ai suoi albori, ma non scompare: già i monarchi accadici sono al corrente di una “presenza” stanziata ai più remoti terminali a settentrione dei propri regni mesopotamici, là dove le lande desertiche della penisola arabica vanno ad incontrare sterminate catene rocciose di Anatolia e Caucaso. Si tratta della popolazione autoctona dell’altipiano caucasico, barbari delle montagne organizzati in tribù grossomodo federate tra loro: a questa presenza si assegna il nome di “NAIRI” (Na-‘i-ru, o “terra dei fiumi”), ossia il nome che si da alla regione a partire da quest’epoca.
Abbiamo a che fare con gli antenati dell’attuale popolo armeno, come avrà già capito chi legge: l’appellativo NAIRI, verrà ancora usato dai letterati locali del XX secolo, come sinonimo poetico per “Armenia”. Costoro per lingua ed origine non rientrano nella famiglia semitica e nemmeno in quella indoeuropea (per il momento), ma in una a parte, del tutto autoctona di genere caucasico (oggi estinta).
L’utilizzo del nome “NAIRI” passa dall’era accadica a tutta la fase ASSIRA della storia del vicino oriente: i guerrieri dell’altopiano, sebbene meno sofisticati comparativamente allo standard mesopotamico, sono indomiti e rappresentano una forza incombente in tutta una fascia a settentrione, capace di mettere in pericolo gli equilibri di potere del tempo sul territorio, tanto per la potenza assira tra il Tigri e l’Eufrate, quanto per quella ittita sul versante mediterraneo (siamo a circa 1200 anni prima di Cristo): insomma, un primordiale popolo delle montagne che tende a riversarsi pericolosamente sulle pianure circostanti (…).
La federazione di tribù delle montagne, i Nairi, riesce tuttavia ad evolversi abbastanza – nel giro di alcuni secoli – da prendere le sembianze di un regno organizzato, che prende il nome di URARTU (9° secolo A.C.): i suoi eserciti avanzano su ogni punto cardinale – ma soprattutto a sud – diventando il principale rivale dell’impero assiro e arrivando a strappare regioni agli ittiti, guadagnandosi quindi uno sbocco sul mare. Il regno di URARTU è tuttavia una realtà temporanea nel corso della storia : complessivamente dura non più di 400 anni (il suo apice circa 100 anni) ma rappresenta l’autentico zenit del popolo delle montagne: teniamo a mente questo nome astruso quindi, poiché rappresenta probabilmente il massimo momento di gloria che questo popolo abbia mai avuto, in ogni epoca (sebbene si possa porre l’interrogativo se considerare i sudditi di Urartu come “armeni”, dal momento che in questa fase storica NON parlano nemmeno ancora l’idioma armeno, quanto un non bene identificato sostrato caucasico anteriore all’indo-europeità che bene o male tutti conosciamo: al tempo di Urartu si utilizza l’alfabeto cuneiforme assiro per mettere per iscritto la propria parlata autoctona. Lascio il giudizio al lettore sulla questione di identità). Dopo la fine di URARTU….la storia dei “Nairi” continuerà – sotto altri nomi e idiomi – , e con pagine di rilievo, ma quasi sempre sotto l’egida di altre potenze vicine, direttamente o meno, per il mezzo millennio a venire.
Abbreviando una ragnatela di vicende che riguarda la storia antica della regione, possiamo dire che il declino di Urartu avviene quasi subito: dopo una finestra di tempo (il suo primo centinaio di anni) di illusoria potenza, inizia a collassare in primissimo luogo sotto i colpi delle armate del tardo impero ASSIRO – opponente storico – nonchè di barbari ancora più a nord di essi (i mitici CIMMERI). Gli assiri colpiscono il cuore di Urartu, ne distruggono il tempio (a Musasir, la sua città sacra) avviando quindi un processo irreversibile di assorbimento di quel regno nella più grande compagine imperiale assira.
Un successo – quello assiro – di notevole significato per l’epoca, ma del tutto effimero: la vittoria finale contro Urartu avviene cronologicamente TARDI, ossia da parte di un impero assiro già di per sé sulla via del declino (siamo nel 7° secolo prima di Cristo). Abbiamo quindi a che fare con un paradosso geopolitico per il quale uno stato collassa e si dissolve per mano di un altro più grande, il quale tuttavia è a sua volta in fase di declino e disfacimento per altre ragioni, lasciando sul campo un TERZO concorrente, agguerrito ed energico, che raccoglie le spoglie di ENTRAMBI (…).
Il concorrente di cui si parla sono i MEDI (e quindi i persiani stessi): il tardo impero assiro finisce tecnicamente, nel 612 A.C. tra le rovine di Ninive, la sua antica capitale, lasciando il proprio grande corpo nelle mani di nuovi invasori che lo riplasmeranno sotto il nome di “impero persiano”: quest’ultimo ricomprendendo tutto ciò che gli assiri avevano costruito e conquistato……ingloba pertanto anche il regno cliente di URARTU, che a questo punto scompare in tutti i sensi, diventando una semplice provincia caucasica dell’impero.
La conclusione storica di Urartu, regno che caratterizza l’età del ferro nel vicino oriente, non rappresenta la fine di tutto, quanto invece uno snodo essenziale tra quelli che ci condurranno verso il popolo armeno delle ere successive. Il territorio in questione – l’antico Nairi – rinasce come SATRAPIA persiana che ora prende il nome di “Armina” o “Arminiya”: l’impero regola la vita di questo territorio periferico attraverso una dinastia locale, ossia gli ORONTIDI (dal greco Ὀρόντης, che tuttavia è un adattamento dell’originale persiano “Arvand”, a sua volta derivato dall’antico armeno “Eruand”. Quest’ultimo nome diventa Yervand, nell’armeno moderno, il nome della capitale stessa…..).
Etimologie a parte, la dinastia orontide per quanto destinata per ragioni “naturali” ad un ruolo subordinato (sovrani di uno stato cliente), accompagna lo sviluppo dell’ “armenità” per i successivi 300 anni, lungo i passaggi tortuosi che vedono succedersi tre differenti realtà di genere universale: la compagine imperiale ACHEMENIDE (persiana) e quella ELLENISTICA, sino alla vigilia dell’ingresso della romanità nella regione (…).
Ora, senza addentrarci in interminabili narrazioni cronologiche delle vicende antiche – che non ha senso fare qui – e concentrandoci sul piano strettamente culturale, seguiamo l’evoluzione dell’identità del popolo che da titolo al post. La satrapia d’Armenia (che gode di prestigio ed autonomia particolari) subisce un pesante influsso durante la parentesi achemenide: si innesca un processo di persianizzazione – a partire dalle elite – il cui risultato permane per secoli (anche durante l’ellenismo) che vede armeno e persiano utilizzati a corte come l’aramaico – in alfabeto cuneiforme – utilizzato a scopi amministrativi, ma cosa più importante, in questo lasso di tempo avviene una conversione religiosa che coinvolge la maggior parte della popolazione, la quale abbandona definitivamente i vecchi politeismi caucasici per abbracciare lo ZOROASTRISMO. Alla vigilia dell’avvento della cristianità – molti secoli dopo – massima parte degli armeni era ancora saldamente zoroastriana, quanto gli imperatori di Persia ormai scomparsi mezzo millennio prima (…).
La dinastia riesce a sopravvivere al cataclisma che sprofonda l’impero achemenide al passaggio delle armate di Alessandro il macedone: a partire dal 321 A.C. riacquisisce una sua indipendenza come regno, ma solo per un tempo brevissimo prima di ritornare in stato di subalternità ad una delle principali derivazioni della galassia geopolitica ellenistica (i Seleucidi), sebbene con un grado di indipendenza superiore ad altre regioni (status quo già presente in era persiana). L’antica satrapia d’Armenia – ora satrapia di un regno ellenistico – continua ad esistere nelle circostanze presenti, in sinergia con l’impero seleucide, fino al momento in cui non inizia il suo declino (in coincidenza alla collisione militare con la Roma repubblicana nel 190 A.C. e la sconfitta sul campo a Magnesia, che segna il declino della falange macedone: da quell’anno il regno d’Armenia riacquisisce una sua indipendenza, che durerà per i 150 anni a venire, all’incirca).
E’ il secondo zenit, potremmo dire, della storia armena nell’età antica, dopo i primordi di Urartu: il regno di Armenia, appena riemerso indipendente dalla parentesi seleucide, cresce in potenza fino a rappresentare – sebbene non imponente territorialmente – un’importante realtà nello scacchiere geopolitico del vicino oriente del primo secolo avanti Cristo, o più precisamente uno dei più importanti opponenti (o alleati) di Roma in oriente. La collisione con quest’ultima tuttavia diventa inevitabile e il primo secolo prima di Cristo per l’appunto, vede una serie di sconfitte politiche e militari del regno di Armenia, il quale gradualmente traversa tutti i “livelli” di subordinazione ad un’altra potenza: nel giro di poco più di 50 anni il proprio status passa da rivale ad “alleato” e quindi “regno cliente”, giusto prima della nascita di Cristo.
Ancora una volta quindi (per la terza), lo stato armeno antico cede la sua indipendenza per entrare a far parte di una realtà più grande, universale, confrontandosi questa volta con la latinità (…).
Un’Armenia romana durerà per centinaia di anni, costituendone un tormentato confine orientale: essa è il punto d’incontro (e confronto) tra la potenza imperiale romana e quella PARTICA più ad oriente. Per brevissimo tempo annessa integralmente all’impero (114-118 d.C.) è in realtà governata da dinastie locali per massima parte della propria fase romana, che rappresentano di per sé il grado indispensabile di compromesso cui Roma deve prestarsi per mantenere l’equilibrio in una zona così periferica e vulnerabile dei propri confini.
Non determinabile, non calcolabile, l’influsso romano per il plasmarsi dell’identità armena dei millenni successivi: se già l’ellenismo aveva esercitato un effetto (adagiandosi ed adattandosi tuttavia molto, per molti versi, sul sostrato orientale anteriore), il contatto con l’universo latino è quanto veramente fa virare la storia d’Armenia verso occidente, imprimendo nel suo DNA culturale quelle premesse che ne determinano un’evoluzione di lungo corso la cui traiettoria va verso un meme “mediterraneo” che non affine alle pur fiorenti (e addirittura lussureggianti) realtà dell’Asia centrale limitrofa.
Si approssima il tempo della CRISTIANITA’…………………
(CONTINUA, su può interessare).
 
FONDAMENTI DI STORIA ARMENA [2]
* La luce di Cristo, tra Persia e Bisanzio.
Sono trascorsi centinaia di anni da quando le legioni hanno messo i loro avamposti alle pendici del Caucaso.
Chi si ricorda più dei Nairi o di Urartu e delle sue divinità ? Sono nomi dimenticati già allora: la “terra dei fiumi” si chiama “Armenia” adesso ed è un minuscolo regno arroccato sullo spartiacque montuoso caucasico, formalmente indipendente, ma in realtà subordinato a quella ciclopica macchina che è la romanità imperiale, della quale costituisce un remoto confine ad oriente; gli ARSACIDI (da Arshakuni) sono la dinastia regnante armena, “approvata” dagli imperatori di Roma, che si ritrovano a dover gestire la perenne collisione di quest’ultima con la Persia sassanide (sostenuta in questa fase della tarda antichità, dalla selvaggia forza dei Parti).
Il confronto tra le due forze – come si sa – è destinato a rimanere irrisolto ed il territorio armeno finisce per essere una martoriata area grigia, un confine “mobile” che passa da un contendente all’altro svariate volte nel corso di 400 anni di contrapposizione, in media 2 volte per ogni secolo (…): un trend circolare, senza termine, perlomeno fino al momento in cui il venir meno degli interpreti e delle strutture stesse che caratterizzano la tarda antichità non cessano gradualmente di esistere, per dar vita al contesto dell’era successiva.
Tale processo di superamento può essere identificato a partire dal 387 dopo Cristo quando l’Armenia viene divisa definitivamente in due parti: quella orientale – la parte più ampia – ai sassanidi che ne fa una regione persiana abolendo la dinastia arsacide, e quella occidentale che rientra in toto tra i confini della romanità di Costantinopoli.
La tarda antichità vede quindi apparire un’Armenia persiana ad oriente, ed una occidentale sotto egida bizantina, divisione che durerà oltre un secolo, ma a questo punto è indispensabile tuttavia prestare attenzione alla dimensione culturale dell’Armenia che trascende quella prettamente geopolitica: la realtà è che a prescindere dalle subalternità che vi sono (e vi saranno in seguito), il processo di etnogenesi armeno prosegue, dando forma ad una più specifica identità collettiva e quindi nazionale che sopravvive per il millennio a venire. Più precisamente, nel mentre che il confronto romano/partico è in corso, l’Armenia in quanto area facente parte del contesto imperiale romano è coinvolta nel generale processo di diffusione della cristianità che ne caratterizza gli ultimi secoli: massima parte della popolazione armena abbraccia la nuova religione (superando il precedente zoroastrismo), al punto che il regno adotta il nuovo culto come religione di stato nel 301 dopo Cristo, ossia ben 80 anni prima che lo stesso avvenga a Roma (editto di Teodosio del 380).
San Gregorio “portatore di luce”, è considerato il fondatore della chiesa apostolica armena (*intervento a parte prossimamente).
Circa un secolo più tardi (406 dopo Cristo), un sovrano armeno autorizza un linguista ( Mesrop Mashtots, divenuto poi santo della chiesa armena) a creare un nuovo alfabeto che attecchirà nelle generazioni a venire distinguendo l’abitato culturale armeno da quelli limitrofi, tanto musulmani che caucasici.
La suddivisione politica sopramenzionata tra Armenia bizantina ed Armenia persiana non arresta questo percorso di formazione dell’identità nazionale, che addirittura ne risulta rafforzato (nell’Armenia persiana si tenta di riconvertire la popolazione all’antico zoroastrismo, ma la popolazione si solleva dando vita ad una ribellione che, nonostante la sconfitta contro gli eserciti imperiali sassanidi, garantisce la libertà di culto (484 d.C.).
All’alba del 6° secolo dopo Cristo abbiamo dunque un areale armeno, saldamente cristiano (sotto l’egida di una propria chiesa autocefala) che parla un’unica lingua, riflessa da un alfabeto proprio, nonostante i dominatori del momento sullo scacchiere geografico ( a turno impero bizantino, persiano e prossimamente….arabo).
Con queste sembianze l’Armenia fa il suo ingresso in una nuova era (benvenuti nel medioevo)
(continua)
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L’imminente defezione dell’Armenia dal CSTO rimette la Georgia nel mirino degli Stati Uniti, di ANDREW KORYBKO

L’imminente defezione dell’Armenia dal CSTO rimette la Georgia nel mirino degli Stati Uniti

ANDREW KORYBKO
4 OTT 2023

L’imminente defezione dell’Armenia dal CSTO non sarà sostanziale se la NATO non le garantirà un accesso affidabile attraverso la Georgia, ma non si prevede che le autorità in carica di quest’ultima siano d’accordo. Ecco perché si sta preparando un’altra serie di disordini della Rivoluzione Colorata con il pretesto di “protestare” contro il procedimento di impeachment del presidente liberal-globalista.

Il presidente del parlamento georgiano ha chiesto spiegazioni agli Stati Uniti dopo che i servizi di sicurezza hanno smascherato un complotto per un cambio di regime finanziato dall’USAID nella capitale Tbilisi. Tre serbi di CANVAS, l’organizzazione responsabile dell’organizzazione della “Rivoluzione Bulldozer” del loro Paese nel 2000, sono stati arrestati alla fine della scorsa settimana con il sospetto di aver insegnato ai cosiddetti “attivisti” locali come rovesciare il governo. Dopo l’interrogatorio sono partiti per l’estero, ma lo scandalo ha fatto pensare a un nuovo sforzo di destabilizzazione del Paese.

Prima di quest’ultimo incidente, la Georgia aveva accusato l’Ucraina di complottare disordini contro le sue autorità, cosa che Kiev aveva ovviamente negato. Per coincidenza, però, nel fine settimana il parlamentare ucraino Aleksey Goncharenko ha scritto su Telegram: “Siamo pronti ad essere alleati degli Stati Uniti in tutte le operazioni militari più della Gran Bretagna”. Ciò ha fatto seguito alle notizie secondo cui l’Ucraina avrebbe effettuato attacchi con i droni contro i ribelli sudanesi presumibilmente sostenuti dalla Russia, presumibilmente su ordine degli Stati Uniti, se vero.

Considerando questo contesto, le affermazioni dei servizi di sicurezza sulla complicità ucraina nell’ultimo intrigo di cambio di regime del loro Paese sono credibili anche se Kiev non è stata direttamente coinvolta nello scandalo della scorsa settimana. Sorge quindi spontaneo chiedersi perché la Georgia sia stata presa di mira, visto che si tratta di un Paese filo-occidentale che vuole ufficialmente entrare a far parte dell’UE e della NATO. Quello che sta accadendo oggi è in realtà la seconda fase dello stesso processo che è stato messo in moto mezzo anno fa.

A marzo, gli Stati Uniti hanno tentato di rovesciare il governo del Paese, sostenendo che la sua proposta di legge sugli agenti stranieri, modellata su quella americana, sarebbe stata indicativa di un desiderio segreto di avvicinamento alla Russia. Non c’era nulla di vero in questa affermazione, ma è servita a provocare una Rivoluzione Colorata, poi fallita, che mirava ad aprire un secondo fronte di guerra per procura nella Nuova Guerra Fredda. Le analisi che seguono illustrano nel dettaglio le macchinazioni strategiche in atto e svelano il falso pretesto alla base di questo complotto:

* “La Georgia è bersaglio di un cambio di regime per il suo rifiuto di aprire un ‘secondo fronte’ contro la Russia”.

* “Il ritiro da parte della Georgia della legge sugli agenti stranieri ispirata dagli Stati Uniti non porrà fine alle pressioni occidentali”.

* “La Russia ha denunciato gli Stati Uniti per i doppi standard nei confronti di Georgia-Moldova e Bosnia-Serbia”.

* “Esporre i due pesi e le due misure degli Stati Uniti nei confronti delle leggi sugli agenti stranieri simili o identiche di altri”.

Il governo conservatore-nazionalista della Georgia ha una politica sorprendentemente pragmatica nei confronti della Russia, nonostante voglia ancora ufficialmente entrare a far parte dell’Unione Europea e della NATO, tanto da rifiutarsi di imporre sanzioni contro di essa o di fare la voce grossa sull’Abkhazia e l’Ossezia del Sud. Per questo motivo, l’Occidente ha iniziato a preparare i suoi proxy liberal-globalisti alla rivolta come punizione, con l’obiettivo di fare pressione su di loro per farli tornare indietro o di sostituirli con burattini più compiacenti se si rifiutassero di farlo.

Questa campagna è stata forzata ad agire prematuramente in risposta all’imminente legislazione del governo che avrebbe permesso di gestire meglio queste crescenti minacce liberal-globaliste e quindi di neutralizzarle col tempo. L’Occidente ha ritenuto che la finestra di opportunità per aprire un secondo fronte contro la Russia attraverso la Georgia si stesse rapidamente chiudendo, motivo per cui ha dato l’ordine di iniziare le ostilità della guerra ibrida a marzo.

La crisi si è conclusa quasi subito dopo l’inizio, quando il governo ha prontamente ritirato il disegno di legge, eliminando così la base su cui i gruppi liberal-globalisti chiedevano le loro dimissioni. Il risultato finale è stato l’avvio di una sorta di cessate il fuoco in cui tutti hanno deciso informalmente di congelare la situazione per il momento, per convenienza reciproca. Il motivo per cui tutto si è scongelato nell’ultimo mese ha a che fare con una combinazione di sviluppi interni e regionali.

Sul fronte interno, il governo conservatore-nazionalista ha avviato la procedura di impeachment contro il presidente liberale-globalista del Paese, che l’opposizione sostenuta dall’Occidente considerava un gioco di potere che violava il cessate il fuoco informale di questa primavera. Allo stesso tempo, il governo liberal-globalista della vicina Armenia ha iniziato ad allontanarsi decisamente dalla Russia verso l’Occidente, il che ha rappresentato un gioco di potere regionale che ha inavvertitamente posto fine al conflitto del Karabakh, come spiegato di seguito:

* “Le tre ultime provocazioni anti-russe dell’Armenia rischiano di scatenare un altro conflitto in Karabakh”.

* Korybko ai media olandesi: La fine del conflitto in Karabakh rivoluzionerà la regione”.

* “La ‘pulizia etnica’ del Karabakh, artificiosamente costruita, è una manovra politica della diaspora”.

* Il Cremlino ha respinto le false affermazioni sulla situazione in Karabakh.

Dopo il fallimento dell’Occidente nell’aprire un secondo fronte contro la Russia nel Caucaso meridionale attraverso la Georgia, questo blocco si è orientato verso il suo “piano B” di tentare di farlo attraverso l’Armenia, provocando un altro conflitto in Karabakh che avrebbe potuto trascinare il Cremlino in una conflagrazione regionale se non fosse stato attento. Dopo il fallimento anche di questo piano, l’Occidente ha immediatamente paventato l’ipotesi di “pulizia etnica” e “genocidio”, che è servita a spaventare circa 100.000 armeni del Karabakh affinché si trasferissero volontariamente in Armenia.

Lo scopo della provocazione di questo flusso di popolazione su larga scala era quello di utilizzare queste cosiddette “armi di migrazione di massa” per esercitare pressioni sul governo armeno affinché portasse a termine il suo perno filo-occidentale anti-russo, dopo che sembrava essersi raffreddato, o lo sostituisse con una Rivoluzione Colorata in caso di rifiuto. Questo piano è ancora in corso, ma nel caso in cui venga attuato con successo e non sia compensato da una vera rivoluzione patriottica-multipolare, l’Armenia probabilmente si ritirerà dalla CSTO guidata dalla Russia.

Il Ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha già fatto pace con questo scenario, dopo averlo recentemente descritto come una “scelta sovrana” del Paese, ma le conseguenze regionali rimarranno gestibili finché la NATO non avrà un accesso affidabile all’Armenia nel periodo successivo. Qui sta la rinnovata importanza strategica della Georgia, poiché è improbabile che il suo governo pragmatico e conservatore-nazionalista faciliti il gioco di potere di quel blocco, ergo il motivo per cui è stato preso di mira per essere rimosso ancora una volta e anche in questo particolare momento.

In sintesi, l’imminente defezione dell’Armenia dal CSTO non sarà sostanziale a meno che la NATO non le garantisca un accesso affidabile attraverso la Georgia, ma non si prevede che le autorità in carica di quest’ultima siano d’accordo. Ecco perché si sta preparando un’altra serie di disordini della Rivoluzione Colorata con il pretesto di “protestare” contro il procedimento di impeachment del presidente liberal-globalista. Se l’Occidente dovesse vincere, potrebbe aprirsi un secondo fronte contro la Russia nel Caucaso meridionale, motivo per cui è imperativo che quest’ultimo gioco di potere fallisca.

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IL MONDO NON E’ COME VI APPARE, di Pierluigi Fagan

Il post è rivolto alle anime belle, quelle che la mattina si svegliano ignare del mondo, leggono alcune notizie terribili su ciò che accade nel mondo (altre no perché non vengono date) ma non distinguono notizie da giudizi, assumono entrambi come il cappuccino con la brioche.
Caricati di verità sul mondo, sono pronti a far lezione di etica e morale per la quale quelli della loro parte sono in bene e gli altri il male, hanno avuto la loro esaltazione urlante ed isterica le prime settimane del conflitto russo-ucraino. Sono loro che permettono le atrocità del mondo poiché illuminando gli angoli bui della politica internazionale e capendo almeno il minimo dovuto di ciò che succede nel mondo, il mondo sarebbe diverso, almeno un po’.
A questi ciechi chiacchieroni sentenziosi farebbe bene spendere pochi minuti per capire quanto il male del mondo dipende anche dalla loro ignoranza supponente. Ma figurati se ai pasdaran del Bene, interessa scoprire che invece militano a fianco delle file del Male.
Parliamo del breve conflitto o meglio dell’invasione manu militari della ragione Nagorno-Karabakh abitata e rivendicata dall’Armenia pur stando in territorio dell’Azerbaijan, da parte appunto degli azeri. Per ora si lamentano “solo” duecento morti ma si prospetta una pulizia etnica profonda visto che la regione è abitata per tre quarti da armeni che ne erano gli unici abitanti un secolo fa.
Impossibile qui risalire alla storia del conflitto che è complessissima e, come spesso accade, alla fine basata su ragioni di contesa valide da tutti i punti di vista e quindi priva di una verità unica, passibile solo di mediazione, aggiustamento, composizione. Ci provarono quelli dell’OSCE di Minsk (Organizzazione per la cooperazione e la sicurezza in Europa, istituzione multilaterale in condominio coi russi, ora bloccata dalle vicende ucraine), già noti per i due protocolli di pacificazione sulle questioni del Donbass tra ucraini e russi, benedetti dalla mediazione europea che un secondo dopo la firma si è disinteressata della loro applicazione. Motivo per il quale l’attuale conflitto ucraino si sarebbe potuto evitare, ma evidentemente non c’era alcun interesse ad evitarlo o meglio c’era interesse palese a lasciar andasse come è andata.
Sulla faccenda del N-G, si stabilì un accordo, poi venne rotto, poi si ridiscusse, poi si litigò di nuovo, poi -nei fatti- nessuno più, soprattutto gli azeri, hanno dato minima attenzione a questo ruolo mediatore esso stesso poco convinto di sé stesso.
I giornali di stamane, giubilano a riferire di manifestazioni armene contro il governo locale ma soprattutto contro i russi che dovevano esser loro protettori. Giorni fa giubilavano per esercitazioni armate congiunte tra armeni ed americani, un accenno di tradimento di allineamento poiché l’Armenia è parte del CSTO e della EEC russa (Lavrov, tra l’altro, è anche di origini armene).
Quindi, gli azeri invadono la regione contesa, tale ritenuta nel diritto internazionale, protetta da accordi, la colpa è dei russi che non l’hanno protetta. Se l’avessero protetta sarebbero stati accusati di imperialismo fuori dei loro confini e ne sarebbe nata una nuova guerra per il Bene. Duecento morti, accordi internazionali calpestati, pulizia etnica in arrivo? Nessun problema, il radicalismo etico spacciato a piene mani per farci sentire “giusti” oggi non si applica, si applica il “crudo realismo”, un altro fallimento russo. Vedi che tenerli sotto pressione in Ucraina li sta indebolendo?
L’Azerbaijan è la classica pedina ambigua piazzata nel fianco del nemico. Sciti amici di Erdogan, di antica origine iranico-caucasica (gli armeni sono invece cristiani indoeuropei caucasici) sono il nostro miglior amico della strategica regione, anche se ce ne vergogniamo un po’ e non diamo pubblicità al fatto. Decine i casi di violazione dei diritti umani, noti livelli stratosferici di corruzione politica e finanziaria, tortura attestata di prigionieri politici. L’Armenia è invece un paese civile e democratico (secondo i nostri standard di democrazia).
Viaggi, regali, soldi, sostanze e corpi disponibili pagati dal governo azero per la “diplomazia del caviale”, come venne denominata la loro disponibilità verso politici e funzionari occidentali. Ripagati anche dandogli l’improbabile Gran Premio di F1 che dal 2017 romba per le strade di Baku, oltreché chiudendo entrambi gli occhi su quelle effrazioni etico-morali che in altri casi valgono una guerra per “i diritti umani”. Ma ci sono umani ed umani, dipende da dove abitano per la nostra geo-etica.
L’Azerbaijan è il terminale di pompaggio e trasmissione dell’oleodotto promosso per darci una alternativa alle forniture russe, gestito da British Petroleum (ovviamente gli inglesi altrimenti irremovibili sui diritti umani e gli standard democratici, qui fanno eccezione, si sa il petrolio ed il gas rendono l’etica scivolosa ed aeriforme per contagio) e di cui noi italiani siamo i principali clienti. Noi diamo bei soldi a questa gente qua. Chissà se Mentana troverà tempo di farci una puntata del suo serial “qui c’è un aggredito ed un aggressore”, dubito. O forse Gramellini dirà che “no, non è la stessa cosa dell’Ucraina, qui la cosa è più “complessa”.
Ma sull’Azerbaijan ci sono anche progetti più ampi, come passaggio del gasdotto che partirebbe dal Turkmenistan, paese di area d’influenza russa corteggiato affinché defezioni e ci dia energia a basso costo. Così da un bel po’, con gli azeri ogni tanto ci facciamo colloqui per stabilire relazioni strette con l’UE anche se certo non possiamo farli entrare dalla porta principale perché impresentabili. Poiché la geografia li rende strategici, gli azeri ogni tanto fanno finta di avere buoni rapporti coi russi per farci sganciare qualcosa di più per trattenerli dalla nostra parte. Lo stesso fanno in tono minore con l’Iran. Ricattano, detto altrimenti. In Relazioni Internazionali, si dice “si bilanciano”.
L’Azerbaijan fu uno dei pochi paesi ad aprire lo spazio aereo per il transito dell’aviazione americana nella guerra contro Saddam, ma il loro ruolo più strategico e particolarmente scabroso è nella guerra in Afghanistan. Washington Post sosteneva in un articolo del 2016, che lì facevano tappa di trasferimento volumi di almeno un terzo di cibo, vestiti, attrezzature ed ovviamente armi, per le truppe americane in Afghanistan. Ma, come per l’Ucraina, un bel po’ di armi e non pochi soldi, hanno preso altre vie. Ultimamente, Zelensky, ha il suo bel da fare a licenziare capi amministrativi e militari che tramite oligarchi si rivendono le nostre armi inviate lì per la “resistenza”. Poi, tra un po’, ci accorgeremo a chi le hanno vendute, non certo alla camorra o la ndrangheta.
Mi interessai del caso a proposito della giornalista maltese saltata in aria una mattina mettendo in moto l’auto per andare al lavoro. Daphne Caruana aveva messo troppo il naso in un potente traffico d’armi che coinvolgeva banche maltesi (anglo-maltesi spesso), il locale potere politico ed armi che provenivano dall’Azerbaijan, armi NATO. Se ne era accorta anche una giovane giornalista bulgara che indagava in Siria, quando trovò in un covo ISIS appena conquistato e mostrato ai giornalisti, parecchie casse di armi con scritte in bulgaro, domandandosi cosa mai ci facessero lì e risalendo a quelli che ufficialmente dovevano esser flussi NATO per l’Afghanistan, via Azerbaijan. Sappiamo tutti che c’erano grossi flussi di armi NATO in favore dell’ISIS, ma guai a dirlo.
Sulla pagina wiki della Caruana trovate la lista di più di una cinquantina di “awards and honours” dati dagli europei per il suo indomito coraggio investigativo. Dopo che è morta e per altro senza definitiva verità su chi l’ha ammazzata e perché (del resto Malta è UE, UE è bene, quindi Malta è bene, siamo per la potenza delle deduzioni noi razionalisti). Siamo così, con una mano prendiamo, con l’altra diamo, la prima è invisibile, la seconda ci rassicura che siamo quelli dalla parte giusta della storia. Ci sarebbe da scrivere non un post ma un intero libro sulla faccenda dei traffici d’armi NATO via Azerbaijan, basta leggere il minimo e senza poi frequentare chissà quali fonti bizzarre, è tutto abbastanza a portata di onesto interesse, ad averci il tempo.
Ma le anime belle non hanno il tempo, hanno solo fretta di far vedere che sono informati sul mondo e sanno dare giudizi moralmente alti, cappuccino, brioche e che inizi un nuovo giorno nel dorato stile di vita occidentale, il modo giusto di stare al mondo, se non ti piace vai a vivere in Russia! Io vivo qui e ne sono contento per molti aspetti e molto meno per altri, solo, preferirei non doverlo fare accanto a loro.

“Ci sono tutti gli elementi per un massacro “26 marzo 20230, di Tigrane Yegavian

“Ci sono tutti gli elementi per un massacro “26 marzo 20230

Tigrane Yegavian (© Lydia Kasparian)

Grande come il Belgio, l’Armenia è un piccolo Stato montuoso senza sbocco sul mare, al crocevia tra il mondo orientale e quello occidentale. Oggi è la principale vittima delle ambizioni panislamiche e panturche di Ankara e Baku. Tigrane Yégavian, geopolitologo e specialista del Caucaso e del Medio Oriente, ci traccia un quadro della tragica situazione in Armenia e Artsakh.

Tigrane Yégavian: ricercatore presso il Centro francese di ricerca sull’intelligence (CF2R), professore all’Università internazionale Schiller, autore di Géopolitique de l’Arménie, Bibliomonde, 2022.

MappaMundi – Quali sono le origini politiche e storiche delle dispute tra Armenia e Azerbaigian e, più in generale, tra il popolo armeno e quello turco?

Tigrane Yegavian: Il Caucaso è stato una zona di influenza russa fin dagli albori del XIX secolo. Se la popolazione armena testimonia una continuità ininterrotta per diversi millenni nell’Artsakh (ex Nagorno-Karabakh), non è lo stesso per il resto del territorio della Repubblica d’Armenia situato sulla rotta delle invasioni selgiuchide, turcomanne, mongole, ecc.

All’inizio del XX secolo le popolazioni armene e musulmane erano molto mescolate. I Tatari del Caucaso (il nome dato agli antenati degli azeri) costituivano una grande minoranza in Armenia. Baku, invece, era una città cosmopolita, un terzo della quale era armena.

Gli azeri si basano sulla fortissima disparità etno-settaria che esisteva prima del genocidio del 1915 e della creazione degli Stati armeno, azero e georgiano nel 1918 per rivendicare ampie parti del territorio armeno come terre storicamente azere. Per diversi decenni la storiografia di Baku ha fatto di tutto per delegittimare la presenza armena nel Caucaso. Per questo motivo hanno fatto ricorso a una lettura revisionista della storia, sostenendo di essere discendenti degli albanesi del Caucaso, un antico popolo cristiano scomparso nell’VIII secolo il cui territorio si trovava più a nord dell’attuale Artsakh, negando così le loro origini centroasiatiche e selgiuchidi. Secondo la versione azera, gli armeni della Repubblica d’Armenia discendono dai profughi dell’Armenia ottomana espulsi con il genocidio del 1915, il che è parzialmente corretto, e gli armeni dell’Artsakh sono albanesi “armenizzati”.

MappaMundi – Qual è la natura delle numerose esazioni azere contro i civili armeni dal 2020? Sarebbe esagerato dire che la situazione attuale è la continuazione del genocidio del 1915?

Le esazioni hanno avuto luogo principalmente contro i civili e i soldati catturati dall’esercito azero durante e dopo la guerra del 2020. Molti casi di atrocità contro soldati armeni e yezidi di nazionalità armena sono stati compiuti da mercenari islamisti siriani reclutati dall’agenzia turca SADAT. Sono documentati casi di torture, mutilazioni, stupri e smembramenti. Purtroppo, le ONG armene per i diritti umani faticano a richiamare l’attenzione della comunità internazionale sulla detenzione arbitraria dei prigionieri armeni nelle carceri del regime di Aliyev, dove sono sottoposti a gravissimi abusi. Questi atti di tortura sono la logica conseguenza di due processi. In primo luogo, il risentimento causato dalla conquista e dall’occupazione di ampie parti del territorio azero da parte delle forze armene in Artsakh, con la conseguente espulsione di oltre 700.000 persone dalle loro case. In secondo luogo, l’odio viscerale nei confronti degli armeni, che trae origine dall’ostilità del popolo tataro nei confronti della borghesia armena di Baku, proprietaria di pozzi di petrolio. Questa armenofobia è stata impostata come ideologia nazionale e mantenuta dal regime di Ilham Aliyev per distogliere l’attenzione dall’acquisizione delle ricchezze del sottosuolo da parte del clan al potere in barba alla maggioranza della popolazione sottoposta a un regime repressivo.

Dire che la politica dell’etnocidio non è un’illusione. Consiste nello sradicare ogni vestigia, ogni chiesa, ogni lapide, ogni luogo di memoria che evochi la presenza armena, con il seguente obiettivo: un Karabagh senza armeni, così come gli armeni del Nakhchivan sono stati ripuliti etnicamente. Il prossimo obiettivo è ora il Siunik, una stretta striscia montuosa e l’ultima chiusa strategica che collega l’Armenia all’Iran e impedisce la giunzione panturca. Questa politica di sradicamento corrisponde alla continuazione del genocidio del 1915, poiché la pulizia etnica è imminente nell’Artsakh, che è sotto blocco totale dal 12 dicembre 2022. Ci sono tutti gli elementi perché si verifichi un massacro, come ha ricordato più volte negli ultimi mesi l’Istituto Lemkin per la prevenzione dei crimini di massa.

MappaMundi – Quali sono gli obiettivi di Baku? Chi sono i suoi principali alleati?

Nel 2020 l’equilibrio di potere si è chiaramente spostato a favore dell’Azerbaigian. Baku intende tradurre la vittoria militare del 2020 in una vittoria politica. A tal fine, l’Azerbaigian sta perseguendo una strategia di strangolamento dell’Artsakh armeno rimanente, esercitando la massima pressione per spingere i 120.000 armeni autoctoni ad andarsene e risolvere la questione dello status attraverso la pulizia etnica. Il secondo obiettivo era quello di ottenere un corridoio sovrano extraterritoriale che collegasse l’Azerbaigian al Nakhchivan, nel sud dell’Armenia, un mezzo per tagliare l’Armenia fuori dall’Iran e, infine, di ottenere un “accordo di pace” con l’Armenia percepito come una capitolazione da parte di Yerevan, dal momento che Baku chiedeva, oltre all’abbandono di qualsiasi status per gli armeni del Karabakh e del famoso corridoio meridionale, una ridefinizione della rotta di confine, che implicava il rosicchiamento di nuovi territori. Nel maggio e nel settembre dello scorso anno, l’Azerbaigian ha lanciato diverse offensive sul territorio sovrano dell’Armenia e l’esercito di Baku sta ora occupando alture strategiche ed esercitando una pressione sempre maggiore su Erevan per ottenere ciò che vuole. Gli azeri possono contare sul pieno sostegno della Turchia e della Russia, interessata a controllare il famoso corridoio. Ma anche del Regno Unito, il principale investitore diretto nel Paese, nonché di Israele, suo fornitore di droni e suo partner strategico. Gli israeliani considerano l’Azerbaigian come il loro cortile di casa contro l’Iran, dove la popolazione azera è doppia rispetto a quella dell’Azerbaigian. Da qui la rinnovata tensione tra i due Paesi.

MappaMundi – Dal 12 dicembre 2022, attivisti azeri che si dichiarano ambientalisti bloccano il corridoio di Latchine che collega l’Armenia all’enclave di Artsakh. Qual è la situazione attuale degli abitanti dell’Artsakh? Che posto occupa questa enclave nel conflitto?

L’obiettivo dell’Azerbaigian è ottenere con la forza un corridoio nel sud dell’Armenia e spingere i 120.000 abitanti dell’Artsakh ad andarsene rendendo impossibile la loro vita quotidiana.

Da oltre due mesi, solo la Croce Rossa può entrare in Karabakh. Ai 120.000 abitanti dell’enclave manca tutto: alimenti di base, medicinali, latte e pannolini per i bambini. Le riserve si sono esaurite, la gente ha i buoni pasto. Le scuole sono chiuse perché gas ed elettricità sono spesso interrotti. Amnesty International ha pubblicato un rapporto allarmante su questa situazione. Le persone più vulnerabili stanno soffrendo di più e possono essere evacuate solo in modo frammentario attraverso la Croce Rossa per essere curate in Armenia. L’Azerbaigian minaccia di abbattere qualsiasi aereo o elicottero che atterri a Stepanakert. La popolazione reagisce con calma e resilienza, ma le madri sono in uno stato di stress avanzato, la mancata scolarizzazione dei bambini provoca gravi disfunzioni che ad oggi non hanno smosso l’UNICEF…

MappaMundi – L’Armenia è membro del CSTO, un trattato che la lega a Mosca, che ruolo ha quest’ultima nel conflitto?

La CSTO è solo un gadget nelle mani della Russia. Ha una sicurezza collettiva solo di nome.

L’Armenia, che nel gennaio 2022 aveva inviato un contingente per sostenere il governo kazako di fronte alle rivolte, nel settembre dello stesso anno aveva fatto scattare l’articolo 4 di fronte all’offensiva azera sul proprio territorio, che è l’equivalente dell’articolo 5 della NATO. Tuttavia, nessuno dei suoi alleati ha risposto perché i loro interessi erano più a favore dell’Azerbaigian. Bielorussia e Kazakistan sono partner del regime di Aliyev e la Russia non vuole alienarsi il suo vicino meridionale, attraverso il quale transitano le sue esportazioni di gas e che elude le sanzioni internazionali. In breve, l’Armenia non può contare sul sostegno della CSTO con il cappio del boia.

MappaMundi – L’ambasciatrice armena in Francia, signora Hasmik Tolmadjian, ha denunciato lo scorso settembre che “tutta l’attenzione della comunità internazionale [è] rivolta all’Ucraina”, ritenendo che l’Armenia sia una “vittima collaterale dell’attuale grande sconvolgimento geopolitico”. Ritiene che l’indignazione occidentale sia a geometria variabile?

Ovviamente l’Armenia sta pagando il prezzo dei “due pesi e due misure” di fronte alla mobilitazione a favore dell’Ucraina, attaccata dalla Russia. Vedo diverse spiegazioni per questo. Innanzitutto, l’appartenenza dell’Armenia alla sfera d’influenza russa rende irrealistico qualsiasi trasferimento di armi da un Paese amico come la Francia. In secondo luogo, le pressioni dell’Azerbaigian, che fornisce circa l’1% del consumo di petrolio e gas dell’UE, ma intende aumentare le sue esportazioni. Infine, i leader armeni hanno una comunicazione impercettibile, a differenza dei loro omologhi ucraini che sono molto più esperti in questo campo.

MappaMundi – L’estate scorsa, l’Unione Europea ha firmato un accordo eccezionale con Baku che dovrebbe raddoppiare le sue importazioni di gas naturale entro pochi anni, definendo l’Azerbaigian un “partner affidabile”. L’UE può essere vista come ostile all’Armenia e alleata di Baku? L’Armenia viene sacrificata dagli europei sull’altare della realpolitik di Bruxelles?

L’Unione europea si sta comportando come un becchino nei confronti dell’unica democrazia del Caucaso e della regione. La signora Von der Leyen demonizza Vladimir Putin e non si fa scrupoli a legittimare un altro dittatore sanguinario. Ciò che l’UE vuole è una distensione a costi inferiori e sulle spalle degli armeni dell’Artsakh, questo “popolo in eccesso” che lei invita l’Armenia a “lasciar andare” nella speranza di un’ipotetica promessa di aiuti economici. L’unica azione positiva intrapresa dall’UE è l’invio di osservatori civili su iniziativa del Presidente E. Macron, dislocati in diversi Paesi. Macron che sono dislocati a diversi livelli del confine sul lato armeno. Il loro mandato è stato rinnovato. Questo è importante, ma non sufficiente a fermare l’aggressione azera.

MappaMundi – Nancy Pelosi ha visitato l’Armenia l’anno scorso, questo dimostra un reale sostegno di Washington a Yerevan o è semplicemente un desiderio di sfidare Mosca nella sua patria caucasica?

Gli Stati Uniti continuano la loro politica di contenimento e indebolimento della Russia ai margini del Caucaso. L’Armenia non è tanto premiata per i suoi sforzi di democratizzazione e per la sua posizione di vittima, ma è vista più come un “balcone sull’Iran”. La visita della Pelosi ha avuto il merito di mettere l’Armenia sotto i riflettori, ma non si è tradotta in aiuti militari necessari per contrastare la minaccia.

MappaMundi – Yaël Braun-Pivet, presidente dell’Assemblea nazionale, ha recentemente visitato l’Armenia. Come analizza l’attuale posizione della Francia nel conflitto? Come dovrebbe agire Parigi nel conflitto tra Armenia e Azerbaigian e sulla questione dei cristiani orientali? La Francia dovrebbe armare Yerevan come arma Kiev?

L’argomento religioso mobilita solo una frangia della destra francese e associazioni come SOS Chrétiens d’Orient. La Francia è un Paese amico ma non un alleato dell’Armenia. Sono due cose molto diverse. La dipendenza dalla NATO e lo stato dell’esercito sono un grave handicap. Parigi non ha alcun interesse o leva per agire militarmente senza una concertazione con altri due membri chiave del Consiglio di Sicurezza: gli Stati Uniti e l’India, quest’ultima che si è avvicinata all’Armenia e lotta contro il panturkismo, principale sostenitore del suo rivale pakistano.

https://www.mappamundi.fr/2023/03/tous-les-elements-sont-reunis-pour-quun.html

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Il piano della Russia per corteggiare l’Azerbaigian, Di  Ekaterina Zolotova

Il piano della Russia per corteggiare l’Azerbaigian

Mosca sta facendo del suo meglio per invogliare Baku ad unirsi alla sua alleanza eurasiatica.

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La Russia ha trascorso gran parte del 2021 cercando di ristabilire i cuscinetti persi dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Ha dispiegato truppe al confine occidentale con l’Ucraina, ha aumentato l’integrazione con la Bielorussia, ha continuato la sua missione di mantenimento della pace nel Caucaso e ha approfondito la cooperazione con le nazioni dell’Asia centrale. Nel 2022 Mosca sposterà la sua attenzione su un Paese del Caucaso meridionale che da anni è in bilico tra Occidente e Russia: l’Azerbaigian. E lo farà utilizzando l’Unione economica eurasiatica, un blocco regionale post-sovietico che domina, come strumento di coercizione.

mano nascosta

Il mese scorso, il presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev ha visitato Bruxelles su invito del segretario generale della NATO. Durante il loro incontro, Aliyev ha affermato che l’Azerbaigian è un partner affidabile della NATO e mantiene stretti legami con gli alleati della NATO, in particolare la Turchia. Commenti come questi irritano il Cremlino, che vuole limitare il più possibile la presenza della Nato lungo la sua periferia. L’Azerbaigian è una parte fondamentale di questa strategia, poiché separa la Russia dalle forze della NATO in Turchia.

Le zone cuscinetto della Russia
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Di recente, Mosca ha utilizzato una combinazione di cooperazione economica e coinvolgimento militare (nella forma della sua operazione di mantenimento della pace nel Nagorno-Karabakh) per mantenere il suo punto d’appoggio nel Caucaso. Ma considerando i suoi crescenti problemi economici e l’assortimento di altre priorità, la capacità della Russia di competere per l’influenza economica qui si sta indebolendo. Ad esempio, rappresenta solo il 5% delle esportazioni azere, mentre l’Italia e la Turchia (entrambi paesi della NATO) rappresentano rispettivamente il 30% e il 18%. Baku sta anche aumentando la cooperazione militare con la Turchia, che ha sostenuto l’Azerbaigian nella guerra del 2020 in Nagorno-Karabakh.

Mosca, però, ha una mano nascosta da giocare. L’Azerbaigian è fortemente dipendente dalle esportazioni di petrolio e gas verso l’Occidente. Oggi, circa il 68 percento delle esportazioni totali del paese sono petrolio greggio e prodotti correlati e il 15,9 percento sono gas di petrolio e altri idrocarburi gassosi. Il Cremlino, che comprende meglio della maggior parte delle insidie ​​del fare affidamento così pesantemente sulle esportazioni di energia, probabilmente prevede che Baku vorrà diversificare le sue vendite all’estero per ridurre la sua vulnerabilità economica. Ma questo sarà difficile per un paese come l’Azerbaigian, considerando il livello di concorrenza e la mancanza di domanda per i suoi prodotti non energetici. Così, alla vigilia della visita del presidente dell’Azerbaigian a Bruxelles, il Cremlino ha ricordato a Baku i vantaggi della sua partnership.

Pochi giorni prima che Aliyev partisse per la riunione della NATO, il presidente onorario del Consiglio economico eurasiatico, un organismo di regolamentazione dell’Unione economica eurasiatica, ha affermato che l’Azerbaigian potrebbe ottenere lo status di osservatore nel blocco, di cui fanno parte Russia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Armenia. L’adesione all’unione doganale del blocco potrebbe avere vantaggi significativi per l’Azerbaigian, che riceve circa il 18% delle sue importazioni dalla Russia.

Mosca ha anche fornito sottili accenni altrove sui vantaggi della sua cooperazione. Diverse pubblicazioni dei media russi hanno recentemente propagandato i forti legami tra l’Azerbaigian ei membri dell’EAEU. Ad esempio, l’affiliato azero del sito web russo Sputnik News ha pubblicato un articolo il mese scorso evidenziando i vantaggi dell’adesione. Secondo la pubblicazione, l’adesione dell’Azerbaigian alla EAEU aumenterebbe le esportazioni del settore agricolo e non petrolifero del paese di 280 milioni di dollari. Ha inoltre affermato che l’adesione potrebbe aumentare il prodotto interno lordo dell’Azerbaigian dello 0,6 percento rispetto ai livelli attuali e che ogni residente dell’Azerbaigian trarrebbe profitto di 1.013 dollari, un importo sostanziale in un paese il cui PIL pro capite è di soli 4.202 dollari.

Il Cremlino ha anche recentemente menzionato un sondaggio del 2018 del Centro analitico per il governo della Federazione Russa che ha rilevato che quasi il 40% della comunità imprenditoriale dell’Azerbaigian accoglierebbe con favore relazioni economiche più strette con l’UEE. Questi numeri, spera il Cremlino, suoneranno allettanti in un paese la cui economia si sta riprendendo dalla pandemia, ma lentamente. Sebbene l’Azerbaigian abbia sofferto meno degli effetti economici della pandemia rispetto ai suoi vicini, in gran parte a causa delle sue esportazioni di energia, la disoccupazione, la povertà e l’emigrazione (principalmente verso la Russia) rimangono problemi significativi.

Il commercio dell'Azerbaigian
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Tuttavia, la Russia sa che non può fare affidamento esclusivamente sul mercato interno dell’UEE per attirare l’Azerbaigian, poiché anche le economie di alcuni degli altri membri del blocco sono in difficoltà. Pertanto, l’EAEU è in trattative per un accordo di libero scambio permanente con l’Iran. (Le due parti hanno firmato un accordo commerciale provvisorio nel 2018.) Il blocco ha anche accordi di libero scambio con Serbia, Vietnam e Singapore, e entro il 2025, India, Israele ed Egitto saranno aggiunti all’elenco. Ciò significa che unendosi al blocco, l’Azerbaigian avrà accesso a una serie di mercati aggiuntivi, non solo a quelli dei suoi cinque membri.

Un altro vantaggio è che aiuterebbe a domare le ostilità con il rivale storico dell’Azerbaigian, l’Armenia. Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha affermato che il suo paese non si opporrà all’adesione dell’Azerbaigian se contribuirà alla pace regionale. La dichiarazione è un chiaro ramoscello d’ulivo visti i frequenti scontri tra i due Paesi.

Ostacoli

Ma ci sono anche ostacoli nel percorso della Russia per trascinare l’Azerbaigian nell’UEE. In primo luogo, acquisire l’appartenenza, o anche lo status di osservatore, può essere un processo lungo che richiede il consenso tra tutti i membri dell’EAEU. Dati i requisiti legali per l’adesione al blocco, nonché le tensioni in corso con l’Armenia, i negoziati potrebbero complicarsi. Mosca potrebbe dover provvedere per un po’ all’Azerbaigian per mantenerlo interessato, il che è difficile da fare data la concorrenza nella regione.

In secondo luogo, Baku deve considerare le reazioni degli altri suoi alleati. L’Azerbaigian sta aumentando il commercio con i paesi europei e stringendo alleati con la Turchia. Preferisce trovare un equilibrio tra Occidente e Russia, piuttosto che schierarsi.

In terzo luogo, l’EAEU ha problemi interni propri. Gli Stati membri non sono d’accordo su una serie di questioni e non sono sempre disposti a concedere per colmare le loro divisioni. È anche in competizione per l’influenza con la Comunità degli Stati Indipendenti, un’altra istituzione guidata dalla Russia che consiste di nazioni post-sovietiche. Inoltre, il mercato comune della UEE è ancora in evoluzione, con problemi sul funzionamento del mercato comune del gas e dell’energia e la migrazione dai paesi meno sviluppati a quelli più sviluppati.

In definitiva, l’Azerbaigian deve vedere i vantaggi dell’adesione; gli azeri medi devono sostenere il processo di integrazione; e non ci devono essere limiti alla libera circolazione delle merci, anche attraverso la regione del Nagorno-Karabakh, piena di conflitti. Senza che queste condizioni siano soddisfatte, è improbabile che l’Azerbaigian voglia unirsi al blocco. Sarà difficile da raggiungere nel medio termine, ma per Mosca questo è il momento migliore per fare la sua mossa, poiché Baku cerca partner affidabili per rilanciare la sua economia e i suoi partner tradizionali sono impantanati nei propri problemi. Tirare l’Azerbaigian nell’UEE sarebbe una vittoria per il Cremlino. Non è un percorso facile, ma è quello che Mosca seguirà per tutto il prossimo anno.

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le truppe russe si schierano in Nagorno-Karabakh, A cura di: Geopolitical Futures

La pesante sconfitta sul campo delle forze militari armene in Nagorno-Karabakh ha segnato apparentemente un grande smacco per la diplomazia russa.  In realtà è solo una battuta di arresto non irrimediabile. La vera sconfitta, con l’onta dell’ignominia, sia pure nell’ombra l’ha subita la Unione Europea. Il Governo armeno, distaccandosi progressivamente e discretamente dalla Russia, ha cercato in questi anni di assecondare e di appoggiarsi sempre più sulla UE e sui due principali paesi dell’Unione, ricevendone scarso sostegno economico e un sostegno diplomatico e militare del tutto illusorio e vacuo. La lezione dell’Ucraina, come pure quella della ex-Jugoslavia, evidentemente non è bastata. Da qui si comprende in parte l’atteggiamento inizialmente tiepido dei russi a sostegno degli armeni; l’altra parte è dovuto alla necessità di non deteriorare irreversibilmente i rapporti con l’Azerbaijan e di non concedere ulteriori spazi alla Turchia di Erdogan. Da qui il preoccupante e tragico isolamento e il collasso della propria presunta superiorità militare, stando agli antefatti, proprio nel momento di maggior attivismo politico-militare della Turchia a sostegno dell’Azerbaijan.

Il Governo e la popolazione armeni sono semplicemente l’ultima, purtroppo non ancora l’ultima, vittima della ecumenica retorica europeista del “volemose bene”, della illusione che la relativa forza economica sia sinonimo di indipendenza politica, autorevolezza diplomatica e forza militare.

L’ulteriore conferma che l’UE, più che una entità politico-diplomatica attiva, è una realtà finalizzata a neutralizzare ed impedire ogni rigurgito di sovranità e autorevolezza degli stati europei e a favorire i giochini opportunistici di bassa lega dei vari paesi, in primis la Germania, a completo rimorchio di strategie altrui. Tutta l’ansia e la precipitazione nel riconoscere anzitempo l’insediamento di Biden alla Casa Bianca sono la classica ciliegina sulla torta di un comportamento miserabile e controproducente persino al più ottuso dei servi._Giuseppe Germinario

le truppe russe si schierano in Nagorno-Karabakh

L’accordo di cessate il fuoco di martedì è una vittoria strategica per il Cremlino.

A cura di: Geopolitical Futures

Contesto: da settembre, Armenia e Azerbaigian sono impegnate nell’ultimo round di combattimenti per il Nagorno-Karabakh. Russia, Turchia e Iran hanno tutti interessi nella regione strategicamente importante situata nel Caucaso meridionale. La Russia, che la vede come parte della sua zona cuscinetto critica, si è bilanciata tra le due parti, mentre la Turchia è una sostenitrice chiave dell’Azerbaigian.

Cosa è successo: dopo che la Russia, l’Azerbaigian e l’Armenia hanno firmato martedì un altro accordo di cessate il fuoco, il Cremlino ha iniziato a dispiegare forze di pace in Nagorno-Karabakh come parte dell’accordo di pace. In totale, la Russia invierà 1.960 soldati con armi leggere, 90 corazzati da trasporto truppe e 380 unità di equipaggiamento nella regione. Le forze di pace saranno di stanza lì per almeno cinque anni con possibilità di proroga. Il ministero della Difesa russo prevede di creare 16 posti di osservazione lungo la linea di contatto e il corridoio di Lachin. Le truppe dispiegate hanno seguito un addestramento per il mantenimento della pace e la maggior parte in precedenza ha prestato servizio in Siria. Saranno inoltre dispiegate unità di polizia militare. Sebbene il Cremlino avrà alcune comunicazioni con la Turchia attraverso un centro di monitoraggio situato in Azerbaigian , prevede di portare avanti la missione di mantenimento della pace da solo.

Conclusione: includendo un contingente russo di mantenimento della pace come parte dell’accordo di cessate il fuoco, Mosca ha rafforzato la sua presenza nel Caucaso meridionale e, cosa più importante, ha ripristinato il suo status di attore principale nella regione. Pertanto, l’accordo è una vittoria strategica per il Cremlino: offre a Mosca l’opportunità non solo di costruire legami più forti con l’Azerbaigian e aumentare la dipendenza dell’Armenia, ma anche di monitorare le azioni future della Turchia nel Caucaso meridionale.

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Nel Karabakh, Baku disotterra l’ascia di guerra_ John mackenzie Di John Mackenzie 28 settembre 2020

Domenica, 27 settembre, nelle prime ore dell’alba, gli armeni si sono svegliati alla notizia di una vasta offensiva aerea (missili e bombardamenti di droni) guidata dall’Azerbaigian lungo tutta la linea di contatto che lo separa di Artsakh (ex Karabakh), questa repubblica autoproclamata nel 1991 e non riconosciuta dalla comunità internazionale.

Per la prima volta dalla guerra ad alta intensità del 1988-1994, Stepanakert, la capitale dell’Artsakh, fu bombardata mentre i civili si rifugiarono in rifugi.

Armenia e Karabakh in allerta generale

Nell’arco di dieci ore si sono svolti combattimenti di rara violenza in molti punti del fronte con un focus nelle regioni di Fizouli e Djebraïl che hanno causato perdite significative: 16 soldati e civili uccisi dal lato armeno. e 200 nei ranghi militari azerbaigiani. Da parte sua, la parte armena ha affermato di aver perso alcune posizioni e ha abbattuto 4 elicotteri azeri, 15 droni da combattimento, 10 carri armati e diverse batterie missilistiche. Mentre Baku ha accolto con favore la riconquista di diverse posizioni e villaggi.

Araïk AroutiounianIl presidente dell’autoproclamata piccola repubblica, sostenuta dall’Armenia, ha decretato “la mobilitazione generale degli over 18” in risposta a una grande offensiva da parte dell’Azerbaigian domenica, mentre nella vicina Armenia, volontari accorse, chi arruolare, chi donare il sangue. Dopo l’annuncio dei primi scontri domenica mattina, il premier armeno Nikol Pachinian ha decretato la “mobilitazione generale” e l’istituzione della “legge marziale”, oltre a far eco alla decisione presa dalle autorità del Karabakh . “Vinceremo. Lunga vita al glorioso esercito armeno! Il signor Pachinian ha scritto su Facebook. Il presidente azero Ilham Aliev, da parte sua, ha convocato una riunione del suo Consiglio di sicurezza durante la quale ha denunciato una “aggressione” da parte dell’Armenia.

Leggi anche: Il disastro armeno come precursore dell’esperienza europea

Appena un’ora dopo lo scoppio delle ostilità, i media azeri e turchi hanno pubblicato rapporti online sullo sviluppo delle operazioni lungo la linea di contatto, suggerendo che questa offensiva turco-azera era premeditata e pianificata per anni. settimane se non mesi.

Turchia in azione

Ci stiamo muovendo verso un conflitto regionale ad alta intensità? Ankara avrebbe pianificato questa operazione volta a stravolgere uno status quo ritenuto troppo favorevole alla parte armena e spingere la Russia ai suoi limiti?

Appena 24 ore prima dello scoppio delle ostilità, informazioni particolarmente inquietanti sono state trasmesse dalla stampa dei due paesi di lingua turca. È il caso in particolare del quotidiano Yeni Şafak , quotidiano turco filogovernativo che, il giorno prima del lancio dell’offensiva, ha denunciato in prima pagina la “collaborazione del PKK e dell’Armenia in Nagorno-Karabakh”. Il quotidiano ritiene di sapere che “dozzine di terroristi curdi del PKK addestrati nei campi di addestramento in Iraq e Siria sono stati trasferiti in Nagorno-Karabakh per occuparsi dell’addestramento delle milizie armene”. Sebbene parallelamente a queste informazioni difficili da verificare, abbiamo appreso che le forze turche che occupano la regione di Afrin nel nord-ovest della Siria, hanno aperto la scorsa settimana dueCentri di reclutamento mercenario per l’Azerbaigian .

Un vantaggio per il regime di Aliyev che, nonostante la propaganda anti-armena, lotta per mobilitare i volontari. A questo si aggiunge che la situazione socioeconomica in Azerbaigian è più che preoccupante. Le battute d’arresto militari degli azeri contro l’Armenia lo scorso luglio nella regione di Tavush hanno gonfiato la frustrazione di una popolazione riscaldata al bianco dalle arringhe di una potenza visibilmente all’erta e fortemente scossa dalle disastrose conseguenze della caduta del domanda di idrocarburi in questi tempi di pandemia.

Vedendo la sua capitale di legittimità sciogliersi al sole con il crollo dei prezzi del petrolio greggio, il regime di Aliyev ha messo il timone a drittaverso il fratello maggiore turco, anche se significa sacrificare tutta una parte della sua sovranità alla volontà degli orientamenti strategici del presidente Erdogan. Vista da Mosca, questa escalation è vista come un tentativo della Turchia di interferire in una regione precedentemente considerata come sua riserva. Non avere alcun interesse a vedere il suo cortile caucasico destabilizzato dalla Turchia, alla ricerca di nuovi fronti nel grande gioco che sta emergendo dalla Libia all’Iraq passando per Cipro, il Mar Egeo, la Russia che vende armi ai due belligeranti, vuole fare da fattore di dissuasione e limitarsi a un ruolo di mediatore. Ma questo compito sembra sempre più difficile. Ricordalo dopo la guerra dello scorso luglioche si è concluso con il collasso militare per Baku, il ministro degli Esteri azero Elmar Mamediarov, che era a capo della diplomazia azera dal 2004, reputato vicino a Mosca, era stato sostituito dall’ex ministro dell’Istruzione Jeyhun Bayramov, acquisito all’ideologia ultranazionalista del pan-turkmeno. Pochi giorni dopo, nell’enclave di Nakhitchevan, a meno di quaranta chilometri da Yerevan, capitale dell’Armenia, hanno avuto luogo importanti manovre militari tra l’esercito turco e quello azero.

Da leggere anche: l’ Armenia attraverso i secoli; Storia della resilienza

A livello regionale, Baku gode di una solidarietà sfrenata da parte del fratello maggiore e partner strategico turco in nome del pan-Turkismo. L’Armenia, da parte sua, ha integrato l’organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva (CSTO) senza però godere dell’effettivo appoggio dei suoi membri, divisi sulla questione del Karabakh. Con la presenza di una base e guardie di frontiera russe sul suo suolo. Yerevan lo vede come il pegno dell’assicurazione sulla vita, dell’ultima generazione di armi, in cambio di un rapporto sempre più asimmetrico.

Ma l’apparizione di una Turchia irregolare sulla scacchiera del Caucaso, la comprovata presenza di consiglieri militari, membri dei servizi segreti del MIT o persino droni turchi su un campo di gioco finora considerato sotto l’influenza russa, è nel processo di sconvolgere equilibri molto fragili.

Da leggere anche: Charalambos Petinos: dove sta andando la Turchia?

Addendum

Un dispaccio di Asia News informa che i mercenari che hanno combattuto in Siria sono stati inviati dall’esercito turco attraverso l’Azerbaigian per combattere in Artsakh. Sono pagati $ 1800 al mese e hanno un contratto di tre mesi.

Ciò conferma l’impegno della Turchia nel conflitto e il ruolo svolto dai mercenari jihadisti.

https://www.revueconflits.com/artsakh-karabakh-armenie-attaque/