I confini dell’Europa, di Christophe Réveillard

Christophe Réveillard è uno dei maggiori storici ed analisti europei, per altro sconosciuto in Italia. Uno dei pochissimi che già sul finire degli anni ’80 ha offerto una ricostruzione storica molto ben documentata della costruzione europea a partire dal punto di vista e dalla spinta determinante americana nel dopoguerra, ma già preparata sin dagli anni ’30. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Christophe Réveillard

Christophe Réveillard è laureato in Diritto Internazionale Pubblico, Dottorato in Storia, Membro dell’UMR Roland Mousnier (Scuola di Dottorato Moderna e Contemporanea Paris-Sorbonne Paris IV – Centre for European History and International Relations), Direttore del Seminario di Geopolitica, War School, Joint Defense College (CID), Scuola Militare, Revisore dei Conti del Center for Advanced Studies on Modern Africa and Asia (CHEAM – classe 1999), Research Engineer, European Professor-Jean Monnet

Più che in qualsiasi altro continente, il concetto di confine ha un’evidente rilevanza geopolitica in Europa. Tuttavia, è anche legato alla complessità derivante dalla storia del continente che plasma, all’interno dell’identità globale, identità particolari.

Poiché la geografia da sola non può essere sufficiente a determinare e fissare i limiti del continente, si pone la questione delle caratteristiche dell’identità collettiva europea come legittimazione o invalidazione dell’appartenenza di territori e società all’Europa. Questi sono i confini dell’appartenenza. Se le coste delimitano facilmente il nord, l’ovest e il sud dell’Europa, è nei confronti della zona orientale che l’elemento identitario e culturale, attraverso il prisma storico e politico, deve sovrapporsi agli apporti della geografia. Ovviamente, come i recenti Stati baltici, Estonia, Lettonia e Lituania, la delimitazione geografica copre la Bielorussia, la Moldova e l’Ucraina. La Russia è bicontinentale eurasiatica, ma ha una popolazione molto prevalentemente europea e soprattutto fissata ad ovest degli Urali, anche se il suo territorio è situato per il 75% in Asia; L’Europa continentale include quindi la Russia occidentale geografica. Le relazioni tra la Russia e l’Europa occidentale hanno a lungo alimentato dibattiti e continuano a scatenare passioni in Russia e in Occidente. L’europeismo russo – inteso come il modo in cui i russi comprendono l’Europa e si vedono all’interno del continente europeo – ha regolarmente agitato la società russa, la questione europea essendo indissolubilmente legata alla questione dell’identità così profondamente radicata nelle peculiarità nazionali del Paese. Seguendo Vasily Tatishchev, due famosi occidentali avevano in particolare fissato questo limite europeo per gli Urali: anche se il suo territorio è per il 75% situato in Asia; L’Europa continentale include quindi la Russia occidentale geografica. Le relazioni tra la Russia e l’Europa occidentale hanno a lungo alimentato dibattiti e continuano a scatenare passioni in Russia e in Occidente. L’europeismo russo – inteso come il modo in cui i russi comprendono l’Europa e si vedono all’interno del continente europeo – ha regolarmente agitato la società russa, la questione europea essendo indissolubilmente legata alla questione dell’identità così profondamente radicata nelle peculiarità nazionali del Paese. Seguendo Vasily Tatishchev, due famosi occidentali avevano in particolare fissato questo limite europeo per gli Urali: anche se il suo territorio è per il 75% situato in Asia; L’Europa continentale include quindi la Russia occidentale geografica. Le relazioni tra la Russia e l’Europa occidentale hanno a lungo alimentato dibattiti e continuano a scatenare passioni in Russia e in Occidente. L’europeismo russo – inteso come il modo in cui i russi comprendono l’Europa e si vedono all’interno del continente europeo – ha regolarmente agitato la società russa, la questione europea essendo indissolubilmente legata alla questione dell’identità così profondamente radicata nelle peculiarità nazionali del Paese. Seguendo Vasily Tatishchev, due famosi occidentali avevano in particolare fissato questo limite europeo per gli Urali: Le relazioni tra la Russia e l’Europa occidentale hanno a lungo alimentato dibattiti e continuano a scatenare passioni in Russia e in Occidente. L’europeismo russo – inteso come il modo in cui i russi comprendono l’Europa e si vedono all’interno del continente europeo – ha regolarmente agitato la società russa, la questione europea essendo indissolubilmente legata alla questione dell’identità così profondamente radicata nelle peculiarità nazionali del Paese. Seguendo Vasily Tatishchev, due famosi occidentali avevano in particolare fissato questo limite europeo per gli Urali: Le relazioni tra la Russia e l’Europa occidentale hanno a lungo alimentato dibattiti e continuano a scatenare passioni in Russia e in Occidente. L’europeismo russo – inteso come il modo in cui i russi comprendono l’Europa e si vedono all’interno del continente europeo – ha regolarmente agitato la società russa, la questione europea essendo indissolubilmente legata alla questione dell’identità così profondamente radicata nelle peculiarità nazionali del Paese. Seguendo Vasily Tatishchev, due famosi occidentali avevano in particolare fissato questo limite europeo per gli Urali: L’europeismo russo – inteso come il modo in cui i russi comprendono l’Europa e si vedono all’interno del continente europeo – ha regolarmente agitato la società russa, la questione europea essendo indissolubilmente legata alla questione dell’identità così profondamente radicata nelle peculiarità nazionali del Paese. Seguendo Vasily Tatishchev, due famosi occidentali avevano in particolare fissato questo limite europeo per gli Urali: L’europeismo russo – inteso come il modo in cui i russi comprendono l’Europa e si vedono all’interno del continente europeo – ha regolarmente agitato la società russa, la questione europea essendo indissolubilmente legata alla questione dell’identità così profondamente radicata nelle peculiarità nazionali del Paese. Seguendo Vasily Tatishchev, due famosi occidentali avevano in particolare fissato questo limite europeo per gli Urali:“Raduno dagli Urali a Gibilterra, dalla Tracia alle Ebridi; e seguita dalle sue processioni di imperi, [l’Europa] avrebbe potuto sfidare il mondo” (Jules Romains, Les hommes de bon will ) e il generale de Gaulle con l’obiettivo di “creare la solidarietà europea dall’Atlantico agli Urali” , ma anticipando che “l’URSS non è più quello che è, ma la Russia” . Gli Urali manifestano una scelta di europeizzazione senza fissare un termine politico, poiché Mosca conserva la scelta di proiettarsi anche sulle sue periferie orientali ( Michel Foucher ).

Dove finisce l’Europa?

La questione si pone quindi più particolarmente in primo luogo per il Caucaso meridionale, la Transcaucasia o quella che fu chiamata un tempo Asia occidentale comprendente gli Stati di Armenia, Georgia e Azerbaigian; sorge anche per l’Asia Minore o l’Anatolia, la Turchia per la maggior parte.

Il Caucaso è stato a lungo considerato l’asse di separazione tra l’Europa a nord e l’Asia a sud, ma il suo cuore georgiano e armeno beneficia del contributo di analisi storiche e politiche al servizio della profonda comprensione delle caratteristiche identitarie e culturali, per il riconoscimento europeo e respingere al fiume Araxe il vero limite con l’Oriente turco, la Persia e le sponde occidentali del Mar Caspio. La porzione di confine turco nel continente europeo è la Tracia orientale, confine politico che rappresenta meno del 3% della superficie totale del territorio turco schierato quasi esclusivamente nell’Asia anatolica. Ciò che la geografia suggerisce facilmente da questo rapporto totalmente squilibrato tra Europa e Asia è confermato dalla rigorosa linea di demarcazione tra i due continenti rappresentati dal Mar di Marmara. L’origine territoriale degli assi di penetrazione turca o ottomana in Europa è molto asiatica e si tratta di proiezioni orientali verso l’Europa fondate sul loro retroterra religioso, culturale e politico specificamente extraeuropeo, che ogni volta spiega il fallimento del tentativo di creare un continuum sul territorio europeo dalla matrice orientale. Prima potenza orientale dopo la linea di demarcazione tra Europa e Asia, la Turchia è per il continente europeo la porta d’accesso agli orizzonti vicini e mediorientali. L’origine territoriale degli assi di penetrazione turca o ottomana in Europa è molto asiatica e si tratta di proiezioni orientali verso l’Europa basate sul loro background religioso, culturale e politico specificamente extraeuropeo, che ogni volta spiega il fallimento del tentativo di creare un continuum sul territorio europeo dalla matrice orientale. Prima potenza orientale dopo la linea di demarcazione tra Europa e Asia, la Turchia è per il continente europeo la porta d’accesso agli orizzonti vicini e mediorientali. L’origine territoriale degli assi di penetrazione turca o ottomana in Europa è molto asiatica e si tratta di proiezioni orientali verso l’Europa basate sul loro background religioso, culturale e politico specificamente extraeuropeo, che ogni volta spiega il fallimento del tentativo di creare un continuum sul territorio europeo dalla matrice orientale. Prima potenza orientale dopo la linea di demarcazione tra Europa e Asia, la Turchia è per il continente europeo la porta d’accesso agli orizzonti vicini e mediorientali. il che spiega ogni volta il fallimento del tentativo di creare un continuum sul territorio europeo di matrice orientale. Prima potenza orientale dopo la linea di demarcazione tra Europa e Asia, la Turchia è per il continente europeo la porta d’accesso agli orizzonti vicini e mediorientali. il che spiega ogni volta il fallimento del tentativo di creare un continuum sul territorio europeo di matrice orientale. Prima potenza orientale dopo la linea di demarcazione tra Europa e Asia, la Turchia è per il continente europeo la porta d’accesso agli orizzonti vicini e mediorientali.

Il continente frammentato

Se Michel Foucher evoca i “frammenti d’Europa” è in particolare perché il continente ha vissuto una moltiplicazione dei suoi confini interni secondo un processo continuo e accelerato dalle crisi; inoltre, “più di ogni altro, l’Europa è il continente dei confini”  (Yves Gervaise). La creazione e poi la generalizzazione del concetto di stato-nazione è la causa principale di un periodo inaugurato a distanza dal Trattato di Westfalia.(1648), ma la cui vera portata si fonde con l’ideologia del diritto dei popoli all’autodeterminazione, favorita dal crollo dei maggiori gruppi politici storici. La scomparsa degli imperi russo, ottomano, austro-ungarico e tedesco è il risultato di un conflitto che ha visto il suo completamento la creazione di nuovi stati, in particolare Austria, Cecoslovacchia, Ungheria, i tre Stati baltici, la nuova Polonia e Jugoslavia nonché il mantenimento di rivendicazioni di indipendenza da altre minoranze nazionali o il loro manifestarsi per contestare le disposizioni dei Trattati di Versailles (anche Saint-Germain, Trianon, Sèvres). Nuovo conflitto, nuovo sconvolgimento dei confini interni del continente europeo: la sovietizzazione, poi chiamata “sovranità limitata”dell’Europa centrale e orientale e di parte dei Balcani, la divisione della Germania e il recupero dei paesi baltici da parte dell’URSS. La Guerra Fredda (1947-1991) ha rappresentato un periodo di glaciazione geopolitica per l’Europa continentale durante il quale non si sono verificati notevoli cambiamenti di confine nello spazio continentale.

Leggi anche: Russia, lo spaventapasseri dell’Europa occidentale

Poi, improvvisamente, la caduta del comunismo ha provocato una riconfigurazione dello spazio europeo, degli Stati e dei loro rispettivi confini, secondo schemi derivanti dalla storia o in un inedito quadro essenzialmente orientale. La caduta dell’impero sovietico rende la loro rilevanza politica ai confini delle regioni sotto il giogo comunista, consente la riunificazione della Germania, ma mantiene l’enclave di Kaliningrad o Koenisberg. Più tardi, la Cecoslovacchia si divise in due entità e la Germania causò la disgregazione della Jugoslavia. In totale, è stata la comparsa di una quindicina di nuovi stati al suo interno e il numero di diadi corrispondenti, a cui l’Europa continentale ha assistito senza contare gli stati di fatto e contesi, come, ad esempio, Kosovo. , Cipro del Nord, Transnistria,Repubbliche Lugansk e Donetsk , Nagorno-Karabakh, Abkhazia, Ossezia del Sud, quasi cinquanta Stati di fatto o e de jure. Va precisato che l’Unione Europea a 27, quindi, non copre, tutt’altro, l’intero territorio europeo. La principale particolarità di questa frammentazione europea, e ciò che tendiamo a dimenticare troppo, è che queste delimitazioni politiche dei confini europei sono il risultato di crisi, insediamenti postbellici e lotte di potere. Un certo numero di questi confini non sono ancora stati accettati dai popoli e portano, in tutte le loro possibili varianti, a reazioni, sia contro l’isolamento politico serbo e per l’accesso alle coste dell’Adriatico, sia per la non adeguatezza del confini politici dell’Ungheria con le popolazioni magiare per citare solo questi due esempi. Sottolineando il posto unico dell’Europa nel mondo,“89 diadi o il 28  % del totale mondiale per il 23% del numero degli stati, l’8% della popolazione e il 3% della superficie. In totale, il continente europeo è aumentato di 26.000 km dagli anni ’90. Da questo punto di vista, l’Europa è il più nuovo dei continenti”.

Il caso dell’Unione Europea

La particolarità del rapporto dell’UE con la frontiera è che “  qualsiasi riflessione che voglia fissare definitivamente i limiti dell’Unione è in contraddizione con il processo di costruzione europea che, dal 1950, è una “creazione continua”” (Pascal Fontaine) . Deriva dal processo di integrazione sul tema delle frontiere sia interne che esterne dell’UE, la cancellazione del quadro territoriale e il disuso della linea di confine a favore del concetto di grande mercato interno, l’allargamento di uno spazio deterritorializzato gestito da istituzioni integrate e da una nuova identità plurale garantita dalla cittadinanza europea da un lato, e dalla moltiplicazione dei partenariati, della politica di vicinato e della gestione dei candidati, dall’altro.

I cambiamenti geopolitici degli anni ’90 hanno portato all’adesione 2004-2007-2013 all’Unione Europea e hanno raddoppiato il numero dei suoi chilometri di frontiere esterne e diadi. Oggi l’UE condivide più di 14.500 km di confini terrestri con 21 Stati. Confini di fattofurono anche erette come quelle che delimitano la Transnistria, il Kosovo, ecc. Ci sono anche casi particolari come l’isolamento di territori non membri dell’UE nel suo spazio territoriale, come Svizzera, Liechtenstein, Kaliningrad (Russia) e i piccoli stati, Andorra, Monaco, San Marino e lo Stato del Vaticano. Anche gli Stati balcanici extra UE possono essere considerati privi di sbocco sul mare a causa del loro accerchiamento in un asse nord-ovest-sud-est, da Croazia, Ungheria, Romania, Bulgaria e Grecia, e ad ovest con la chiusura costiera dal mare Adriatico. Esiste una situazione geografica inversa con l’area senza sbocco sul mare spagnola di Ceuta e Melilla (16 km) al centro del territorio marocchino dall’indipendenza di quest’ultimo nel 1956, nonché la vicinanza dell’arcipelago delle Isole Canarie L’ondata di adesioni del 1995, Austria, Finlandia, Svezia, ha dato un confine di 1.300 km con la Russia, ampliato di ulteriori 1.000 km con l’adesione, nove anni dopo, della Polonia (Kaliningrad), della Lituania, dell’Estonia e della Lettonia. È con l’adesione della Bulgaria nel 2007 che la Turchia (446 km) può ormai condividere un confine con l’UE sulla rotta che era stata fissata nel 1923 dal Trattato di Losanna. Un altro caso particolare è l’uscita del Regno Unito dall’UE: quest’ultima perde i suoi 244.820 km 2di superficie e i vantaggi del dispositivo geopolitico globale offerto fino ad allora dalla presenza di Londra al suo interno. I negoziatori europei credevano di poter imporre, giocando sulla rete di sicurezza nordirlandese e nonostante la manifesta volontà popolare del Regno Unito per la Brexit, le regole di un’unione doganale con l’UE separando di fatto Gran Bretagna e Irlanda del Nord. Tuttavia, questo per dimenticare che la prima ragione del desiderio britannico di lasciare l’UE era il suo rifiuto del suo sistema di integrazione normativa e giudiziaria. Non va inoltre trascurato l’impatto sulla Brexit della presenza di oltre 3 milioni di stranieri europei nel Regno Unito. Ovviamente l’uscita britannica riguarda anche tutte le regioni ultraperiferiche del Regno Unito e in particolare Gibilterra.

All’interno dei meccanismi annessi alle frontiere esterne, i collegamenti tra l’Unione Europea e il continente sono realizzati sulla scala, in parte, dei Balcani occidentali; per l’altra parte dell’Europa orientale nell’ambito del partenariato orientale: Ucraina, Moldova, Bielorussia e Caucaso meridionale. Le articolazioni tra l’UE ei suoi margini esistono con la Turchia, la Russia, gli Stati del Maghreb e del Medio Oriente e l’arco di crisi mediorientale. L’UE ha svolto nella sua politica di vicinato alternativamente la ricerca realistica di poli di stabilità e l’avvio di grandi politiche di stretti accordi di associazione al servizio di una visione atlantica propositiva, soprattutto con il vicinato orientale,

È così che si conferma, su una base identitaria comune, la grandissima diversità delle caratteristiche che definiscono i territori all’interno della delimitazione dei confini dell’Europa continentale. Questa varietà europea ha radici profonde, in particolare mitiche, spirituali e culturali. Nulla può, però, garantirne la sostenibilità in modo assoluto rispetto alle diverse sfide e minacce che si sono recentemente accumulate al suo interno, senza un periodico richiamo ai limiti che ne costituiscono il quadro.

https://www.revueconflits.com/frontieres-europe-reveillard/

A proposito di difesa comune europea_ a cura di Giuseppe Germinario

Proseguiamo il dibattito avviato con i due articoli su NATO e Unione Europea http://italiaeilmondo.com/2021/08/17/la-nato-riprende-il-vantaggio-nel-suo-braccio-di-ferro-con-lue-di-hajnalkavincze/ e http://italiaeilmondo.com/2021/08/12/stati-uniti-nato-e-unione-europea-lillusione-di-un-addio-il-miraggio-dellautonomia_di-giuseppe-germinario/prendendo spunto dall’ennesima riproposizione, ricorrente nei settanta anni trascorsi, della costituzione di un esercito europeo. E’ opportuno ricordare che la proposta partì in primo luogo e non a caso dagli Stati Uniti, negli anni ’50, con il tentativo di costituzione della CED (Comunità Europea di Difesa) in fase di costituzione della NATO, antecedente alla costituzione del Patto di Varsavia. Trovò l’opposizione diffusa di numerosi ambienti militari europei, in particolare della Francia; fu ridimensionato una volta compreso dagli ambienti francesi e britannici che il pallino era passato ormai definitivamente in mano americana, non ostante le velleità franco-britanniche naufragate definitivamente con il fallimento dell’intervento congiunto sa Suez nel ’56 e che il potenziamento industriale della Germania Federale era di supporto al successo delle mire egemoniche statunitensi e al contenimento delle ambizioni anglo-transalpine. Anche in questa occasione, come pure nel congresso di Le Havre, la rumorosa ma poco significativa opzione federalista europea, intrisa di lirismo e liturgie, si rivelò uno strumento, sino ad un certo punto inconsapevole, della costruzione egemonica americana. La CED, in realtà, non si limitava ad un progetto di mera alleanza militare. Prevedeva oltre  ad un livello spinto di integrazione delle strutture militari, un analogo livello spinto di integrazione del complesso industriale legato agli interessi della difesa atlantica. Il piano Marshall era essenzialmente propedeutico a questo progetto. L’esito del confronto portò alla fine all’accordo parziale sulla NATO e sulla CECA; come noto, non si fermò nel prosieguo a quello stadio.

L’equivoco, del tutto connaturato alla prosecuzione degli attuali legami, prosegue ancora oggi confondendo in un unico calderone i propositi di autonomia con quelli di rafforzamento del legame atlantico.

Sulla falsariga di un dibattito, per altro in Italia del tutto superficiale e parolaio, sia pure con le dovute eccezioni, proponiamo alcuni interessanti articoli di militari francesi apparsi sul sito www.theatrum-belli.com. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Far convergere le esigenze dei militari in un sistema di forze.
Per il GCA (2S) Jean-Tristan VERNA, l’acquisizione di attrezzature comuni può urtare con la necessaria conservazione di una parte essenziale della sovranità in difesa. Oltre i produttori, sta ai militari riunirsi per far convergere le proprie esigenze in un sistema di forze.

Esercito europeo: la via della sovranità attraverso i
materiali?

“Difesa europea”, “difesa dell’Europa” o ancora più “esercito europeo”: qualunque sia l’ampiezza e la profondità, dibattiti, opinioni e commenti portano sempre prima o poi alla questione dell’equipaggiamento delle forze e dell’organizzazione della difesa.

Quante volte abbiamo sentito critiche ai massimi livelli, l’aberrazione
rappresentata dalla quantità dei diversi tipi di veicoli corazzati, aeroplani di combattimento, di fregate che equipaggiano gli eserciti del continente. E le ingiunzioni per creare “Airbus” per veicoli navali e blindati, ecc. seguono di conseguenza.
È da dimenticare che questa situazione è il risultato di diversi secoli di guerre intra-europee, conclusasi solo da due generazioni di decisori politici! Le basi industriali della difesa nazionale sono l’impronta lasciata dalla necessità che la maggior parte degli stati europei ha avuto per garantire la propria autonomia industriale, per preservare la lpropria integrità territoriale, realizzare le proprie ambizioni, addirittura garantire la propria neutralità, su tutto la sovranità.
Questo articolo si propone di dare un contributo alla definizione dei contorni della sovranità sull’equipaggiamento delle forze armate. Questa definizione può anche consentire un vero inventario delle sovranità; leggi nazionali che tracciano il percorso che un giorno potrebbe permetterci di mostrare questa sovranità a livello sovranazionale.
In questo campo, il primo fondamento della sovranità è la libertà di progettazione dell’attrezzatura 50. Nasce dalla libertà di sviluppo partendo da esigenze militari e di capacità.
Nei nostri giorni felici di “Pax Europea”, prima ancora della dispersione industriale, è spesso la mancata condivisione di questa esigenza che porta alla grande diversità di materiali da un paese all’altro. Quello che qualcuno considera una semplice questione di abitudine o conservatorismo
riflette piuttosto il carattere fortemente culturale che attribuisce agli eserciti nazionale a causa del loro ruolo nella strategia nazionale, la storia della loro guerre, la natura del loro reclutamento, a volte molto antico e ancorato alla cultura nazionale.
Ci ritroviamo così con linee di forza la cui inflessione non è facile: popoli del mare e antiche tribù dell’entroterra, nazioni centrate sull’Europa e conquistatori di imperi dimenticati, non tutti si ritrovano spontaneamente sulla stessa concezione dei loro bisogni militari, nonostante sette decenni
di standardizzazione della NATO. Uno metterà i suoi elicotteri da trasporto nelle forze aeree, l’altro nelle forze di terra, con notevoli differenze nell’implementazione, si prenderà di mira l’aereo da caccia versatile mentre altri costituiranno sempre flotte diversificate; una giurerà per il cingolato quando la ruota avrà il favore del vicino. Non bisogna dimenticare gli interminabili dibattiti tra fanti intorno al numero dei combattenti del cellula di combattimento di base, che alla fine determina l’architettura del veicolo che li porta a bordo!
Questa necessità di padroneggiare la progettazione iniziale dei materiali è accompagnata dal problema di poterli far evolvere secondo gli insegnamenti operativi, adottati per l’integrazione di nuove tecnologie, ecc.
Rapidamente, un pezzo di attrezzatura può prendere una configurazione molto lontana da
quello originale. Un buon esempio è la progressiva divergenza di configurazione di TRANSALL francesi e tedeschi, il cui impiego a lungo termine era molto diverso.
Infine, un materiale non può essere progettato senza il suo sistema di supporto, vale a dire come sarà realizzato il suo mantenimento in condizioni operative. La visione del supporto ha un forte impatto sulla progettazione iniziale dell’attrezzatura: il motore di un veicolo blindato deve essere sostituibile rapidamente sul campo, oppure si sceglierà un supporto di tipo industriale su base logistica, con soluzioni tecniche più vicine a quelle utilizzate per le apparecchiature ad uso civile? Se i sensori integrati verranno utilizzati o meno per tutti i tipi di materiali? Anche in questo caso, le culture militari europee sono spesso incompatibili. Alcuni eserciti favoriscono ancora il supporto più vicino alla zona di combattimento, mentre altri ritengono che questo approccio non corrisponde più alle realtà operative e tecniche.
Mantenere il controllo sulla scelta delle funzionalità operative delle apparecchiature e soluzioni tecniche che consentano di raggiungerle, avendo la libertà di evolvere, decidere come sostenerlo durante il periodo d’uso, questa è la prima base di sovranità in materia di equipaggiamento militare.
Un secondo fondamento di sovranità, sul quale non è utile indugiare a lungo come è ovvio, è la libertà di utilizzo dei materiali.
Un insieme politico sovrano, nazionale o sovranazionale, deve poter dispiegare e utilizzare liberamente i propri mezzi militari ovunque se ne presenti la necessità fatto sentire, e senza altre restrizioni che quelle imposte dalla legge internazionale. Siamo ben consapevoli dei limiti posti alla distribuzione e all’uso operativo di materiali acquistati dagli Stati Uniti in adozione della procedura FMS51. Anche la Francia li ha sperimentati con il lancia missili JAVELIN; sta acquistando, e presto armerà, i droni REAPER nonostante questi ostacoli alla sua libertà di azione.
Dovremmo fare della libertà di esportare un altro fondamento di sovranità?

C’è un dibattito sulla realtà dell’imperativo economico dell’esportazione che consentirebbe di contenere i costi di acquisizione delle attrezzature e di compensare il basso volume di serie “nazionali”. L’armonizzazione dei bisogni a livello sovranazionale sarebbe forse un argomento imperativoper superarlo.
Ma esportare non è solo una leva economica. È uno strumento di politica estera, di influenza sulla scena geopolitica, un consolidamento dei legami con gli alleati. Essere in grado di esportare o distribuire l’equipaggiamento militare secondo gli interessi strategici è quindi legato alla nozione di sovranità, ed è rilevante porre sistematicamente la questione della sua “esportabilità” quando un materiale entra nel design, quindi in produzione.
Libertà di progettazione, supporto ed evoluzione, libertà di utilizzo operativo, libertà di esportare, queste sono le basi che possono essere considerate nel definire la sovranità applicata all’equipaggiamento di un esercito, nazionale o sovranazionale che sia.
Ovviamente, ogni tipo di materiale apre sfide e difficoltà specifiche che sarebbe tedioso sviluppare: per non parlare dei mezzi di deterrenza nucleare, i materiali convenzionali innumerevoli che non presentano gli stessi problemi dei sistemi di comando e dei sistemi informativi integrati, o anche complessi sistemi di sistemi, molto in voga nel ristretto club delle nazioni tecno-connesse.
Ma ci sono abilità successive comuni a tutti i tipi di materiali: competenze umane, politiche e risorse per la ricerca e tecnologia, ormai strettamente legata alla R&T nel mondo civile, il controllo
dei diritti di proprietà intellettuale, autonomia di regolamentazione e fissazione di standard tecnici e ambientali, la decisione sulla politica di investimento e sulle procedure amministrative per allocazione dei budget e gestione del progetto di armamento, ecc.; tutte aree in cui lo sforzo complessivo è stato messo in atto in qualche decennio per costruire i mezzi di deterrenza francese
autonoma è un buon esempio storico. Cambiamento culturale di strategia che fu imposta agli eserciti francesi in quel momento oltre la celebrazione.
L’accettazione di questi fondamenti porta, in linea di principio, a tenerne conto e considerazione nella definizione della politica per l’acquisizione e la fabbricazione di materiale, se questa politica è completa o si applica a una famiglia di attrezzature, o anche ad attrezzature personalizzate.

La Francia ha provato questo esercizio con la teoria dei tre cerchi, ripresa nei suoi libri bianchi del 2008 e del 2013.
Ad un primo cerchio chiamato “della sovranità”, definendo le capacità critiche da padroneggiare a livello nazionale, si aggiunge un circolo di “interdipendenza”europeo” che presuppone una convergenza di specifiche tecniche e operative e una equilibrata condivisione industriale. Finalmente arriva il cerchio di “Ricorso al mercato mondiale”, per i mezzi la cui fornitura può essere garantita senza rotture o restrizioni.
Conosciamo le difficoltà sollevate da questa categorizzazione delle acquisizioni.
L’ambizione di sovranità portata dal “primo cerchio” passa attraverso la capacità di liberare le risorse umane ed economiche necessarie alla sua messa in opera. Se consideriamo che queste capacità di sovranità includono piattaforme complesse nucleari e le correlate spazio,
sistemi di intelligence, il dominio “cyber” e alcune altre molto sofisticate come i missili, le capacità tecnologiche per coordinare e i bilanci da mobilitare saturano abbastanza rapidamente le capacità nazionali.
Al di là delle disposizioni procedurali che esso presuppone (ad esempio, specifiche procedure di acquisizione), interdipendenza (europea) definita attraverso il secondo cerchio, è tanto più critico
rendersi conto che si tratta di attaccare due posizioni in cui è difficile irrompere: le culture degli
interessi militari e industriali, con la loro componente sociale. È da notare la forza che queste realtà impongono sul desiderio di armonizzazione e cooperazione, passata e presente.
Per quanto riguarda l’uso del mercato globale, attenzione a considerarlo come garanzia assoluta. Lo sfortunato episodio delle munizioni di piccolo calibro conosciuto dalla Francia qualche anno fa non va dimenticato. Cosa succede quando una crisi generalizzata fa precipitare tutti i poveri clienti
verso un numero limitato di produttori? La rapida saturazione di trasporto strategico durante l’ascesa o la fine delle grandi operazioni è un esempio di questi potenziali colli di bottiglia.
Tradurre il desiderio di costruire punti di forza in materiali comuni sovranazionali efficaci dal punto di vista operativo e alla portata delle capacità richiede quindi il superamento di queste difficoltà in termini di acquisizione: verso quale ambizione strategica e sovrana dobbiamo guidare la definizione delle capacità critiche? Che corpus condiviso di dottrine militari funge da riferimento per la definizione tecnica di hardware, gestione della configurazione e sistema di supporto?
Come organizzare la produzione industriale e le attività di supporto in servizio? Su quali basi politiche possiamo costruire flussi con il resto del mondo, sia per la fornitura che per l’esportazione?
Avvertimento !

La mancanza di una politica estera e di una catena di Comando europeo che si impone ai paesi membri, l’appetito per alcuni di questi verso le principali apparecchiature di origine americana, le difficoltà ricorrenti nell’organizzare un’industria delle armi a livello continentale in gran parte private e in parte di proprietà di fondi americani, sono tutti temi da trattare a livello politico in via preliminare ad ogni lancio di grandi idee relative al campo militare ben detto !
Per quanto riguarda i militari, cosa possono fare?
In primo luogo, richiamare l’imperativo del realismo: a livello nazionale, garantire che non lasciamo andare la preda delle capacità sovrane esistenti per l’ombra della costituzione delle capacità comuni dai contorni e dai metodi di attuazione mal definiti o mal concepiti. Allora, nella misura in cui il
processo politico sarebbe impegnato a condurre verso questo “esercito europeo”che periodicamente torna all’ordine del giorno, rivendicare un posto importante da far valere alle precauzioni da prendere sul campo della tecnica e dell’attrezzatura; un argomento che è facilmente assente dalle preoccupazioni dei diplomatici.
Seconda azione possibile, concentrarsi sulla proposta di soluzioni tecniche transitorie e affidabili, partendo dall’esistente. Questa azione può essere basata su una pratica antica; quella della convivenza di eserciti nazionali all’interno della NATO, anche quando la loro integrazione non è completa, come è stato il caso degli eserciti francesi per quarant’anni. Ed esistono già esempi in Europa, come il trasporto aereo europeo Comando (EATC) creato nel 2010.
Infine, senza negare le forti radici culturali di ogni esercito nazionale e senza sottovalutare l’impatto degli specifici interessi strategici di certe nazioni, i militari avranno interesse a sviluppare la condivisione dei loro approcci tecnici, tattici e logistici.
Ogni nazione imprime un marchio specifico sul proprio esercito, a seconda che si sia scelto di costruire un modello di esercito completo e autonomo, o ci si accontenti di alcune “nicchie di eccellenza”; a seconda che si chieda loro di preservare o non una capacità di “nazione quadro”.

La cultura di un esercito è ispirata con la stessa forza dalle scadenze di impegno fissate dalle
decisioni politiche, dal suo approccio nei rapporti con le popolazioni presenti in lontani teatri operativi, dalla sua capacità di comprendere le operazioni a lungo termine, il livello di integrazione di fattori umani nello sviluppo e nell’uso dei suoi materiali.
Avere una visione realistica e condivisa di questi aspetti culturali è l’unico modo per arrivare a specifiche tecnico-operative convergenti.
Occorre quindi un forum ufficiale di discussione e riflessione su questi temi, che possa apparire tecnico e militare-centrico. Infatti, se i militari hanno il loro posto nei dibattiti europei a livello politico-militare e strategico, sarà altrettanto importante fornire loro un quadro formale per
riflettere e discutere sulla preparazione di sistemi di forze condivisi tra nazioni.

50 Il termine “materiali” è comodo da usare ma è riduttivo. Tieni presente che copre anche
molti materiali numerabili, di varia complessità, sistemi d’arma la cui efficacia non può essere
solo attraverso le loro connessioni con il loro ambiente, i sistemi informativi, ecc.

https://theatrum-belli.com/wp-content/uploads/2019/06/G2S-Dossier-24-Europe-et-D%C3%A9fense-Juin-2019.pdf

Cronache del crollo: Green Pass, sorveglianza e sicurezza, di Alessandro Visalli

Cronache del crollo: Green Pass, sorveglianza e sicurezza

 

Shoshana Zuboff, nel suo noto “Il capitalismo della sorveglianza[1], racconta come il news feed[2] di Facebook sia il frutto di ricerche ed applicazioni di data science costate ciclopici investimenti che hanno finito per produrre algoritmi predittivi in grado di selezionare ed elaborare istantaneamente, e per ogni utente, oltre 100.000 elementi. Scansionando e raccogliendo, ogni volta, qualunque cosa sia stata postata nell’ultima settimana da ciascuno degli amici, quindi da chiunque venga seguito, da qualunque gruppo frequentato, e da ogni pagina con il like. Per cui il software crea e modifica costantemente un “indice di rilevanza personale” per tutti i post candidabili ad essere inseriti nel feed scelti tra migliaia per individuare e proporre nel feed solo quello che più probabilmente, scrive Will Oremus, “vi darà piangere, sorridere, cliccare, premere like, condividere o commentare”[3]. È come un guanto stretto intorno a noi, che dà sistematicamente la precedenza ai post delle persone con le quali abbiamo interagito e quelli che hanno coinvolto persone simili a quelle con le quali interagiamo.

Ogni utente ha dunque uno “specchio sociale” che provoca del tutto intenzionalmente una sorta di fusione tra noi e l’ambiente sociale modellato dal software. Si tratta, in altre parole, di un effetto espressamente progettato per ottenere, come sostiene la Zuboff, “un loop chiuso in grado di alimentare, rinforzare e amplificare le inclinazioni di un utente, per farlo fondere con il gruppo e aumentare la sua tendenza a condividere informazioni personali”. Ciò che queste meccaniche sfruttano è semplicemente la difficoltà a formarsi un sé autonomo in parte connaturato alle meccaniche sociali umane, ma in parte rafforzato enormemente in questi tempi di grande incertezza. L’ingegnerizzazione di questa forma di meccanica della sorveglianza sfrutta l’esigenza di sentirsi come altri (e quindi diversi da altri ancora), migliori di alcuni, e consente di gonfiare il proprio io alla ricerca di indispensabili forme di popolarità, autostima e quindi felicità. I social media sono perciò descrivibili come contesti artificiali pensati espressamente per indurre ed incentivare la tendenza del ritorno al branco; ci attirano in uno specchio sociale e catturano la nostra attenzione sfruttando il fascino del confronto sociale, ma nel fare ciò massimizzano la pressione sociale e la conformità (oppositiva).

 

Ci sono alcune cose rilevanti in questa terrificante descrizione:

  • Spiega perché sui social media, divenuti così centrali nella vita di tanti e quindi nella formazione del dibattito pubblico, si crei una crescente polarizzazione tra branchi reciprocamente non solo ostili, quanto proprio non comunicanti (in quanto basato sulla conoscenza di fatti ed interpretazioni del tutto diverse);
  • Spiega perché di volta in volta alcuni temi emergano con la forza di una valanga e si impongano, ricreando sempre nuovi branchi e nuove partizioni sociali (altrettanto incomunicabili delle precedenti);
  • Rende chiaro come mai vediamo sempre conferme a quel che ‘riteniamo’ di pensare (ma che è un costrutto sociale indotto dall’algoritmo).

 

Scrive il mio amico Maurizio Denaro (che conosco nella vita ‘reale’ e con il quale ho pranzato, questo antico rito che una volta definiva la vera conoscenza):

“mi piace, di tanto in tanto, ricordare quanto siano fugaci i dibattiti, di questi tempi, e di come argomenti che sembravano tali da far crollare il mondo, tornano nel dimenticatoio:

  • chi si ricorda del MES? anche quello sanitario, che senza il nostro SSN sarebbe crollato e non si sarebbe potuta affrontare la pandemia?
  • chi si può dimenticare dello spread, indice di tutti i mali del nostro paese e maestro di direzione, verso riforme salvifiche e fondamentali.
  • ed il debito pubblico? quello ogni tanto ce lo ricordano, ma non troppo, che ad oggi ne devono far debito per uscire dalla loro crisi, ma adesso far debito non è male, e non sono le prossime generazioni a doverlo ripagare, chi non lo dicono, ma tanto fa niente.
  • la legge elettorale, fondamentale, senza quella la riduzione dei parlamentari rischia di essere una puttanata, niente, non è prevista tra le riforme che ci chiede l’UE, quindi non serve, tanto della democrazia ce ne siamo dimenticati.

Allora forse non vale più neanche il tempo di litigare, che sò, sulla pandemia, che quando decideranno non sarà più rilevante, che sò, sull’Afghanistan, che ce lo eravamo dimenticati, e così sarà tra qualche settimana.

Buon fine settimana”.

 

Questo post non raccoglierà “like” da nessuno dei due branchi.

 

Fatti: la pandemia.

Questi ultimi mesi sono stati investiti da un evento straordinario, in qualunque modo lo si voglia vedere, che impatta la vita di tutti noi, ma lo fa in modo molto diverso per ciascuno. All’inizio del 2020 si è presentata infatti una pandemia subdolamente simile alle malattie polmonari alle quali siamo abituati. In essa il tasso di mortalità è abbastanza basso (anche se superiore all’operazione al cuore che subì mio padre anni fa), ma la contagiosità molto alta (e ancora più con alcune delle varianti che si sono prodotte). Da un sito che controllo talvolta[4] leggo che nel mondo ci sono stati ad ora 220 milioni di casi registrati e 4,5 milioni di morti (2% dei casi). Per fare un esempio, l’influenza “asiatica”, diffusa in tutto il mondo nel 1957, provocò un milione di morti e spinse la creazione di vaccini antinfluenzali annuali. Simile fu l’impatto della “influenza di Hong Kong”, nel 1968.

L’Italia è al nono posto per morti (ma al sedicesimo per milione di abitanti con i suoi 2.145 morti per milione di abitanti). Nel 2020 ha visto i morti per tutte le cause aumentare di centomila unità, rispetto alla media dei cinque anni precedenti, ciò su 4.035.000 casi diagnosticati[5]; si tratta del più alto livello di mortalità dal dopoguerra, con un aumento del 9%. È da segnalare che i dati anomali di mortalità in Italia, rispetto alla media dei cinque anni precedenti (ed in effetti a tutto il dopoguerra), sono limitati a poche regioni: Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia e Trento. Le altre regioni non registrano mortalità più alte della media. Inoltre è molto sbilanciata per età, nella classe 65-79 anni il 20% dei decessi è stato da connettere al Covid; infine per sesso, in quanto colpisce in particolare gli uomini.

L’epidemia, come noto, si è svolta per “ondate” (come è quasi sempre accaduto), dove la prima (che colse impreparato l’intero sistema) fu apparentemente più piccola, anche se la rilevazione era molto meno efficace, ma provocò molti morti a causa del semi-collasso del sistema sanitario nazionale.

Il confronto con il numero dei decessi restituisce, infatti, una curva del tutto diversa.

Per terminare questa analisi dei principali fatti, la distribuzione dei decessi attribuiti al Covid è enormemente sbilanciata verso le coorti di età più grandi. Il 60% circa dei morti è attribuibile a quella degli ultra ottantenni (che è normale abbiano anche altre patologie), mentre il 30 % a quella degli ultra sessantacinquenni. Solo l’8% alla classe tra cinquanta e sessantacinque anni, e solo il 1% a quella sotto i cinquanta anni.

Come si vede dal grafico i picchi di mortalità sono stati vicini ai 1.000 morti al giorno, e la campana della fase acuta superiore ai 500. Per dare un’idea in Italia muoiono normalmente circa 650.000 persone all’anno, quindi poco meno di 2.000 al giorno. Ma questo dato, di per sé rilevante, è accentuato dal fatto che le morti (e le ospedalizzazioni gravi) sono concentrate in poche regioni e province.

 

A partire dal 2021 sono disponibili alcuni vaccini, sviluppati a tempo di record ed approvati in emergenza dalle autorità sanitarie mondiali[6], somministrati[7] ormai in Italia a 38 milioni di persone, con una incidenza delle dosi somministrate molto alta (circa 90%), ed un numero di dosi per centomila abitanti di centotrentatremila che ci colloca al 35° posto nel mondo. per fasce di età gli ultranovantenni sono vicini al cento per cento (95%), gli ottantenni al 93%, i settantenni al 90%, i sessantenni al 85% ed i cinquantenni al 77%. Le coorti meno a rischio di morte dei quarantenni al 67% e via via di meno (ventenni e trentenni al 60%, sotto al 40%). La stima è che al 22 settembre si raggiungerà la soglia dell’80% dei vaccinati. Questa soglia era stata considerata nei modelli epidemiologici sufficiente per spezzare le catene di contagio e rendere la malattia tollerabile per il sistema sanitario nazionale, ma la variante “delta” che è molto più contagiosa rende questo calcolo incerto. Su questa dimensione tecnica della valutazione c’è una incomprensibile mancanza di trasparenza.

 

Divagazione: decisioni e fratture comunicative

Come capita normalmente in tutti i campi i decisori tendono alla logica DAD (Decidi, Annuncia, Difendi), invece di offrire alla discussione pubblica i motivi razionali e l’analisi delle priorità delle scelte.

Ogni politica, e soprattutto ogni azione conseguente, comporta infatti sempre la distribuzione di oneri per alcuni e spesso immediati a fronte di benefici distribuiti diversamente nel tempo e nello spazio; questa è la ragione per la quale non manca mai di sollevare ostilità e spesso reazioni organizzate. Spesso queste si organizzano in un vero e proprio conflitto che, grazie anche all’interessata infrastruttura dei social, subisce un processo di “escalazione”. Dalla divergenza di opinioni si passa all’identificazione di un “nemico”, per cui si alza una insuperabile barriera comunicativa. Ogni azione, ed ogni tentativo di comunicazione, sarà immediatamente distorto in uno schema amico-nemico e visto come tattica, inganno, menzogna etc.

Questo processo di verifica da entrambi i lati della frattura comunicativa.

Tra i fattori che rendono sempre più forte il processo di “escalazione” (cioè l’escalation del conflitto) ci sono alcuni che conviene focalizzare:

  • la riduzione della complessità cognitiva; progressivamente gli attori, per una pulsione psicologica di base alla semplificazione di quadri complessi e stressanti (difficilmente si può immaginare qualcosa di più complesso e stressante di una pandemia), tendono a farsi un’immagine sempre più sintetica del conflitto e delle sue motivazioni. Tendono a darne spiegazioni univoche ed a ricercare un colpevole ben definito. Si cercano “complotti”.
  • il cambiamento dello status dell’avversario; quando l’escalazione è arrivata ad un livello alto l’avversario viene deumanizzato e gli viene negato ogni aspetto positivo, attribuendogli solo un profilo astratto di “nemico”.
  • si attivano fenomeni di “anticipazione pessimistica” in base ai quali ognuno si attende il peggio dall’altro e con ciò lo provoca effettivamente.
  • gli attori sociali restano intrappolati dalla quantità di risorse (economiche, tecniche, sociali e politiche) che hanno investiti via via nel conflitto; ne segue che non possono più ritirarsi senza perderle (tipica è la paura di “perdere la faccia”, ovvero i follower, ma anche il tempo impegnato nella controversia).

 

Il processo stesso di “escalazione” può essere ricondotto ad alcune fasi tipiche:

  • in una prima fase gli attori pensano ancora che la controversia possa risolversi in una soluzione di mutuo beneficio (vince-vince) e quindi rimane in primo piano l’oggetto stesso di divergenza; tale fase può essere subarticolata come segue:
    • un primo momento di irrigidimento, nel quale si entra nel conflitto, si iniziano a creare le identità collettive e, conseguentemente, le percezioni si fanno sempre più selettive;
    • in un secondo, i dibattiti in corso tra le parti ed al loro interno generano polarizzazione (inizia a distinguersi tra leader, membri dei gruppi, simpatizzanti e spettatori); la comunicazione inizia ad essere usata più che per cercare soluzioni al problema per acquisire un vantaggio simbolico, inizia il duello verbale;
    • se il dibattito non porta effetti, gli attori possono passare alla politica del fatto compiuto, ovvero agire indipendentemente dalla controparte cercando di forzarle la mano; si tratta di una violazione dei rapporti di dialogo comunque esistenti nella fase precedente e del superamento di una soglia psicologica che provoca un’ulteriore escalazione; il conflitto diventa di ostacolamento.
  • in una seconda fase gli attori entrano nella prospettiva di chi pensa che la sua vittoria deve comportare la sconfitta dell’avversario (vince-perde), ad esempio non si consente più all’avversario di “salvare la faccia”; tale fase può essere subarticolata come segue:
    • ogni attore crea una propria immagine del “nemico” e simmetricamente si fa un’immagine eroica di sé; in tale fase si manifestano le anticipazioni pessimistiche e si chiudono i canali di comunicazione reale; le azioni diventano rivolte a cercare alleati ed a colpire l’avversario, non più la sua azione;
    • se il conflitto passa sul piano di azioni rivolte a far “perdere la faccia” all’avversario (cioè a colpire la sua identità sociale) si è superata una soglia psicologica fondamentale e un punto di non ritorno; da questo momento in poi è un conflitto di valori e di appartenenza che non prevede comunicazione;
    • a questo punto normalmente si passa alle minacce ed agli ultimatum che vincolano entrambe le parti a passare altre soglie di scontro o a cedere e ritirarsi (su questo passaggio si può collocare il Green Pass sotto il profilo della sua funzione nel conflitto);
  • la terza fase è quella dell’azione fisica, in essa sono possibili atti di violenza mirata o generalizzata (naturalmente non nei casi che sono qui oggetto di analisi); il conflitto entra in una fase terminale in cui gli attori ammettono di poter subire danni pur di farne di più all’avversario (perde-perde).

 

La strategia di “de-escalazione” dovrebbe passare a questo punto per il ridimensionamento dei fini degli attori (il decisore dovrebbe accettare di contenere e non eradicare il virus, rimuovendo gli eventuali fini eterogenei, e i ‘ribelli’ non vedere la cosa come un conflitto per la rivoluzione – liberale o socialista -, ma solo come una politica sanitaria complessa). Quindi per la “depolarizzazione”, che passa per la ricomplessificazione della materia (fornire da entrambe le parti descrizioni meno manichee). Tipicamente questo può passare per l’ampliamento delle soluzioni ammissibili (per cui, come vedremo al termine, la centralità vaccinale può essere attenuata e affiancata da più flessibili procedure di distanziamento, da ristrutturazione e potenziamento graduali delle capacità di cura e di trattamento anche emergenziale, di riarticolazione dei luoghi e tempi di lavoro e vita, risolvendo i nodi di sovraffollamento) anche al prezzo di forzare alcuni vincoli sistemici (la principale ragione per cui l’elenco sopra indicato non si implementa adeguatamente, e soprattutto strutturalmente, è che ci sono vincoli obiettivi di tipo europeo, sui quali torneremo dopo) e di modificare la mentalizzazione del problema (non pensare alla pandemia come un ‘cigno nero’, che passerà tornando al business-as-usual, ma come un segnale sistemico di disfunzionalità che vanno affrontate e risolte).

 

Fatti: vaccini ed effetti

Torniamo, dopo questa divagazione, alla descrizione. L’impatto positivo principale dei vaccini (e quello per il quale sono stati progettati) è di aver modificato drasticamente l’incidenza delle ospedalizzazioni, e soprattutto della mortalità, più incerto l’impatto sulle diagnosi ovvero sulla diffusione della malattia. I dati[8] direbbero comunque che si è registrata una riduzione dell’80% per il rischio di infezione (che ora impatta molto più sulle classi degli under quaranta e giovani), e del 90% e 95%, rispettivamente, per il rischio ricovero e decesso. Si tratta, ovviamente, di elaborazioni non semplici ed elaborate con il modello statistico di Poisson. Molte ricerche sembrano affermare che le persone vaccinate con successo, ovviamente non tutte, mediamente se vengono in contatto con il virus ostacolano la sua replicazione e quindi serbano una minore carica virale e per meno tempo. Qui ci sono numerosi fraintendimenti e difetti di lettura degli stessi paper scientifici (i quali non sono scritti per essere compresi da tutti, ma solo dalla comunità scientifica). È chiaro che nei grandi numeri ci siano casi di contagio da parte di vaccinati, ciò sia perché il vaccino non funziona per tutti ed in ogni caso (a grandi linee c’è un 10% di casi in cui fallisce, e che sale man mano che ci si allontana dal momento della somministrazione) sia perché le condizioni di contagio sono diverse (è molto diverso se una persona con bassa carica virale, nel quale il virus non riesce a replicarsi o lo fa poco, entra in contatto con un’altra per pochi secondi in un’area semiaperta, come un bar mentre si prende un caffè, o sta due ore in un pub affollato). Tuttavia quel che è rilevante per l’impostazione di una politica pubblica di sicurezza sanitaria non è il singolo caso, che si può tollerare, quanto l’effetto aggregato. Per cui se abbasso la probabilità di contagio, vaccinando, e riduco le occasioni di stare in contatto tra persone a diverso grado di vulnerabilità, complessivamente avrò una circolazione del virus meno rapida e quindi avrò meno pressione sul sistema sanitario. Ciò significa che potrò gestire i malati e ridurre al minimo la mortalità.

Questa è, mi pare, la base razionale delle misure di confinamento selettivo (il fatto che sia la base razionale non significa che sia la ragione dell’adozione, o che sia tutta la ragione). Né, tantomeno, che giustifichi il modo in cui è stato promosso. In effetti sembra giustificarlo molto poco (ma non abbiamo esatta contezza del grado di fragilità del sistema sanitario né delle stime dei modelli, e questa assenza di trasparenza è una delle cose più gravi della situazione).

 

Questi i fatti, per come sono descritti dalle fonti ufficiali e sulla base delle tecniche di raccolta ed elaborazione statistica normalmente adoperate.

 

Ora proviamo a raccontarli in una diversa cornice.

Il 2019 era terminato con la formazione del governo ‘bianco-giallo’ (PD e M5S) e con la riduzione dell’anomalia delle elezioni del ciclo 2016-18 (ciclo populista) un poco ovunque. Questa è una circostanza di sfondo molto importante, come proveremo a dire dopo, perché parte della rivalsa che si intravede nelle decisioni governative ne risente. In un generale clima di normalizzazione all’inizio del 2020 è cominciata a circolare la notizia di una malattia classificata inizialmente come ‘polmonite atipica’ che si diffondeva in oriente (dove si era avuta l’esperienza della Sars e della Mers), ed in particolare in Cina, in un’area di grande densità ed importanza come la regione di Wuhan (circa la dimensione demografica dell’Italia).

Con qualche sconcerto, e un malcelato e divertito senso di superiorità, i nostri media riportarono che, dopo un’esitazione iniziale, il governo centrale cinese (Pcc) rispose con misure senza precedenti di blocco assoluto delle attività nell’intera regione. Si riportava di persone chiuse in casa, distribuzione di viveri, severissimi blocchi alla circolazione, immediata chiusura di tutte le attività non indispensabili. Ma anche di un immediato supporto dal resto del paese e costruzione a tempo di record (singoli giorni) di enormi, nuovi, ospedali. Il blocco durò un paio di mesi ed fu accettato disciplinatamente dalla popolazione. Rientrata l’epidemia seguì, in tutti i paesi orientali, un maniacale tracciamento di tutto e tutti per prevenire altri focolai. Quando si sono presentati sono stati immediatamente ripristinati i blocchi (anche per milioni di persone, anche nei porti della costa), fino ad ora.

Dopo un paio di mesi la cosa, però, si presentò improvvisamente e brutalmente nel bergamasco e poi in buona parte della Lombardia. Il governo italiano, politicamente debole e con una forte opposizione (Lega e Fratelli d’Italia) dotata di un fortissimo consenso (ed al governo in quelle regioni), esitò per alcune settimane (promuovendo anche brindisi pubblici ai “navigli” di Milano), terrorizzato dal dover interrompere le attività connesse al tempo libero ed alla produzione. Come ricordiamo la Confindustria (come fa tutt’ora) si mobilitò immediatamente per scongiurare il blocco delle attività produttive. Lentamente però il progresso dell’epidemia, e l’impennata dei casi ospedalizzati in modo grave (che saturarono subito le pochissime terapie intensive sopravvissute a decenni di tagli alla sanità) costrinse il governo a dichiarare, con la costante e ferma opposizione del governo lombardo, il lock down. Un lock down, si intende, all’acqua di rose e limitato a più o meno la metà dei lavoratori e delle attività. Tuttavia, per la scala geografica totale (mal giustificata dai numeri, dato che interessava poche regioni) e l’impatto sulle vite dei cittadini si trattava di una misura senza precedenti noti (durante la spagnola ci furono lock down, ma per lo più in singole città).

 

Divagazione: impatti sociali e sociointegrazione liberale

Questo lock down parziale mise in evidenza drasticamente l’enorme differenza creata dal capitalismo contemporaneo tra coloro che sono impegnati in attività produttive, godendo di qualche protezione e garanzia residuale (alla deregolazione degli ultimi trenta anni) e l’enorme massa di coloro che sono precari, saltuari, impegnati in attività ‘deboli’ come il turismo, la ristorazione, il tempo libero (attività che l’analisi marxista, e l’economia ‘classica’, individuava come “improduttive”). Attività nelle quali, accelerando negli anni della ristrutturazione post 2007, si erano in effetti rifugiati i capitali deboli ed era proliferata una grande massa di lavoro senza garanzie e protezioni, debolissimo, supersfruttato, o al limite tra lavoro autonomo, imprenditoria e semi-dipendenza. Una costellazione che è stata colpita come da un ciclone dal dissimmetrico impatto del virus e delle misure di emergenza[9].

Una vastissima area, quindi, includendo anche il piccolo commercio fermato dal lock down, che è stata sostanzialmente abbandonata a se stessa (a causa delle esitazioni e dei vincoli imposti dal combinato della Ue e della Tesoreria). Pochi fondi e in grande ritardo sono stati destinati in un momento in cui la nuova politica della Bce avrebbe potuto consentire di accedere senza limiti all’emissione di debito (se in tale direzione non fosse operante un divieto non palese ma molto concreto)[10].

È difficile sottovalutare questa circostanza. Il tremendo colpo subito dalle parti più deboli della società del lavoro rappresenta un enorme acceleratore della crisi della democrazia. Come mostravano Durkheim e Marx (sul piano della denuncia), tra gli altri, la qualità della partecipazione dipendono in modo sostanziale dal presupposto dell’esistenza di una corretta, trasparente ed inclusiva del lavoro, non dalla sola presenza di possibilità di discussione pubblica. La coesione sociale dipende e deriva dalla società del lavoro non alienato, e da questo la possibilità di sentirsi membro della società e partecipe politico di essa. Non è la comunicazione (peraltro distrutta in radice dal medium verticistico dei luoghi ufficiali – televisione e giornali – e da quello alternativo dominato dagli algoritmi “della sorveglianza”) ad essere fonte di integrazione, che in genere nelle condizioni sociali attuali diventa piuttosto fonte di “escalazione” di conflitti, quanto la pratica nella quale membri paritari si riconoscono nella reciproca indipendenza, sviluppando un senso comune di appartenenza attraverso la cooperazione nella produzione di qualcosa nel mondo. Ovvero nell’esperienza di lavorare gli uni per gli altri. Ovviamente questa, prima di Marx, è stata la lezione di Hegel. È in questo modo che si crea il presupposto per raggiungere il senso del proprio valore. E, cosa molto importante, non è qui tanto una questione dell’entità delle entrate monetarie, ma proprio delle condizioni sociali di un lavoro che determinano la sensazione che il proprio contributo abbia un peso. La sensazione di non stare costruendo qualcosa di intellegibile nel mondo, di non produrre o farlo non comprendendo il proprio ruolo e contributo, è ciò che espelle l’individuo dal senso di essere nella società. In altre parole, più i membri di una società hanno la possibilità di svolgere compiti complessi, cooperativi, più alta è la partecipazione e più si attivano anche politicamente.

La disattivazione politica che si vede ovunque, l’indifferenza e l’individualismo dominante, l’assoluta incomprensione del sacrificio per gli altri, derivano da questo. Da una cattiva divisione del lavoro e da una società del lavoro male ordinata. Qui la critica di Marx, che reputava non a torto che il capitalismo fosse inadatto a organizzare una divisione del lavoro idonea a creare coesione ed attivazione, è centrale.

Ciò significa che la ristrutturazione necessaria delle strutture sociali di formazione della personalità e della politica dovrebbe passare per l’idea durkheimana che la società dovrebbe sforzarsi di selezionare i lavori più significati e cooperativi in modo che il singolo lavoratore sia messo in condizione di comprendere il modo in cui il proprio ruolo si incastri nell’insieme delle attività interconnesse e nella generale divisione del lavoro, trovandovi il suo posto. Dovrebbe anche significare il contrasto, cosa che è decisamente contro lo spirito del capitalismo neoliberale (e del capitalismo in generale), di tutte le forme di lavoro precario, intermittente, flessibile e umiliante, sottopagato, frammentato e svuotato di senso, monotono, routinario. Giungendo fino a potenziare il lavoro cooperativo autogestito o, al capo opposto, il servizio pubblico obbligatorio indipendente da censo o posizione sociale.

 

Reazioni

Tornando ancora al racconto, si deve ricordare che successivamente l’epidemia si attenuò e nell’anno successivo (tra l’ottobre 2020 e l’inizio del 2021) si ripresentò più forte, ed anche al sud, inducendo un altro lock down per le regioni più colpite (fu introdotta la classifica “rosso-arancio-giallo” e limitata la circolazione interna).

Nel frattempo il governo Conte negoziò l’accesso al nuovo meccanismo (New Generation Eu[11]) di sostegno per la ristrutturazione del sistema economico e sociale europeo e, immediatamente, è stato sostituito dal governo Draghi che ha l’appoggio anche della Lega.

 

In questa condizione di grande stress e di paura, la prima pienamente comprensibile reazione di molti (e di alcuni ancora oggi), veicolata e rafforzata dalla creazione di branchi che abbiamo prima descritto, è stata di dire che il Covid non esiste. Di fronte all’evidenza (ed al moltiplicarsi di casi noti nel proprio ambito di conoscenze personali) dopo settantamila morti e riscontrato che gli ospedali buttavano per strada tutti quelli che non avevano covid, una parte si è impegnata a dire che la malattia esisterà pure ma comunque non bisogna fermare la vita (che, se no, diventa “nuda”[12]) e quindi non si dovevano fare Lock Down. Uno degli argomenti, comprensibile se pure egoistico, era che chi è giovane (la grande maggioranza dei lavoratori deboli nei settori prima descritti), in fondo, non si ammala in modo grave. Nella versione più brutale, chiaramente favorita dalla ricerca ossessiva dei ‘like’ nei social, si trattava di lasciare che la natura facesse il suo corso. Alla fine nella vita si muore (ovviamente chi lo scriveva, senza vergogna, sapeva di essere al sicuro).

Qui ha fatto capolino l’idea, nella dinamica dei gruppi in fusione che progressivamente si staccavano dal generale ambiente di discorso, creando una propria rete di fonti, di rimandi, di teorie e di fatti, che in effetti c’erano (ci dovevano essere necessariamente) cure nascoste e che qualche progetto doveva (quindi) essere in corso.

Peraltro, dopo i primi settantamila morti, quando i lock down ridussero i casi (soprattutto dipendenti delle aziende private ospedaliere del nord, nelle regioni leghiste), molti operatori in cerca di visibilità mediatica cominciarono a dire che a quel punto “il virus era morto”, con poca coerenza con la precedente affermazione sull’inutilità dei blocchi. Dunque, coerentemente, se il virus era “clinicamente” morto, allora non bisognava tracciare nulla, che questo era un’insopportabile violazione della privacy (anche se brutta copia e non funzionante delle app di controllo orientali). E, ovviamente, non doveva essere imposto nessun presidio, o profilassi, come le mascherine. Ricordiamo, infatti, che di volta in volta sono state difese, nelle aree di discussione che sempre più si rafforzavano, linee di conflitto noi/loro intorno a qualunque politica di contrasto venisse avanzata. I Lock down, ovviamente, ma anche le mascherine, l’app immuni, etc.

 

Quando purtroppo è ripresa la malattia, ma nel frattempo sono stati approvati a tempo di record (data la situazione che stava, niente di meno, che mettendo a rischio l’egemonia bisecolare dell’occidente e facendo collassare il suo strumento principe: la globalizzazione) alcuni vaccini (in occidente, perché cinesi, cubani e russi avevano fatto prima e con tecniche più tradizionali), allora il repertorio si è allargato a questi: inutili, dannosi, non sperimentati, prodotto di business (cosa vera). Una parte rilevante della critica si è concentrata sulle cosiddette “cure precoci”[13]. In effetti arrivando, con poca coerenza, ad osteggiare vaccini da 20 euro una volta all’anno in favore di cure altamente complesse e costose, ad esempio a base di sieri derivati dal sangue (che, per essere affidabili richiedono lavorazioni altamente specialistiche) che, ovviamente, nel sistema capitalista in cui viviamo sarebbero comunque offerte dalle medesime ditte a costi enormemente superiori.

Ma ormai ci sono intere biblioteche di dati ed elaborazioni, ognuna con i suoi riferimenti più o meno condivisi nella ‘comunità scientifica’ (che fortunatamente genera sempre ipotesi di minoranza, anche per la spinta a differenziarsi[14]), che non comunicano. Ogni gruppo autorafforzato dagli algoritmi e dalla spinta umana ad avere riscontro, fama, conformità, ha i suoi.

 

Mentre questa polemica continua (si spera che in autunno-inverno arrivino finalmente le prime cure approvate, ma sono per lo più delle stesse ditte che producono i vaccini[15]) e viene dimostrato dai numeri che i vaccini almeno eliminano sostanzialmente le terapie intensive e i morti, è cominciata la battaglia degli esperti di statistica e degli analisti autopromossi (per lo più con formazione umanistica). Si registra quindi un profluvio di analisi su paper complessi in inglese e sui database israeliani, inglesi, svedesi, etc. senza adeguata comprensione dei dati e capacità (che è tecnicamente non banale e occorre apprenderla) di disaggregarli. Una piena applicazione del paradosso di Simpson[16].

 

In questa dinamica di progressiva distruzione del terreno comune e sociale alla fine è emersa la grande battaglia di “libertà” del Green Pass.

 

Fermiamoci qui, perché si tratta in effetti di una questione molto complessa.

 

Logica dell’argomento dei no-Green Pass

La logica dell’argomento opposto dall’area di discussione ‘ribelle’ alla confusionaria e contraddittoria politica pubblica del Green Pass si può riassumere come segue:

  1. Fatto 1. Il vaccino protegge dai casi gravi della malattia,
  2. Fatto 2. Il vaccino non impedisce il contagio,
  3. Fatto 3. I giovani non si ammalano in modo grave.
  4. Conseguenza 1. E’ ingiustificato vaccinare i giovani (under 40 anni).

Quindi:

  1. Conseguenza Costringerli in modo surrettizio è un abuso non necessario.

Infatti (argomento complementare, ma necessario):

  1. Fatto 4. I vaccini danneggiano e/o possono provocare reazioni avverse anche nei giovani,

Quindi:

  1. Conseguenza 1 (versione b). Il bilancio costi/benefici è negativo e non c’è neppure un beneficio collettivo compensativo.

e

  1. Conclusione La politica del Green Pass è quindi irrazionale e illogica

Ne consegue logicamente che:

  1. Conclusione 2. Non servendo alla lotta pandemica essa deve quindi servire a qualcosa di altro. E questo altro è da rintracciare nei suoi effetti di potere (questione “Grand Reset”[17] e questione “Dittatura sanitaria” o “tecnocratica”[18]).

 

Questa filiera logica conduce al dominio delle posizioni libertarie (e complottiste, C2) nella mobilitazione. La quale non si attiva a partire dalla obiettiva e gravissima carenza del servizio pubblico e mancanza di ristrutturazione del sistema economico (che rende tanti, ed in particolare giovani, in condizioni di debolezza tale da non poter sopportare due o tre mesi di arresto di attività) o, sui vincoli finanziari (che impediscono il supporto che in Cina è stato garantito dal primo giorno), bensì intorno a parole d’ordine coerenti con il sottostante senso comune sedimentato in questi ultimi decenni:

  • <libertà>
  • <sfiducia> (nel pubblico, si intende, ben meritata).

A questo senso comune si trovano uniti sul piano sociologico:

  • marginali (resi tali dall’organizzazione economica),
  • fortemente abbienti (spesso in posizione di imprenditori e/o di rentier che non vogliono sopportare limitazioni).

Sul piano culturale:

  • liberisti conseguenti,
  • libertari di destra e sinistra.

 

Divaricazioni ed egemonia neoliberale

Come avevo già scritto, di fronte a questa sfida si è quindi manifestata una profonda divaricazione. Una lacerazione ha attraversato diagonalmente la società e tutte quelle che sembravano, ante la crisi, delle comunità politiche in formazione. La sfida della sicurezza ha lacerato il corpo dei “contenitori dell’ira”[19], portando allo scoperto la loro matrice e cultura neoliberale. In particolare, quella che si potrebbe chiamare ‘l’area della sovranità costituzionale’, di ispirazione marcatamente euroscettica e di pratica politica -in varie forme- populista, si è lacerata ed è entrata in una fase di pronunciata “asfissia politica”. In grandissime linee l’ipotesi politica che l’aveva ispirata era di tentare un compromesso tra forze di diversa ispirazione e cultura politica intorno all’ipotesi che l’oggettivo interesse per l’espansione della “domanda interna” potesse essere punto di convergenza di una nuova maggioranza politica dalla periferia e dal basso. Ovvero che un accorto esercizio della logica oppositiva del populismo (inteso al senso di Laclau) potesse ripoliticizzare le forze sparpagliate dalla rivoluzione neoliberale intorno al “programma minimo” di una ripresa di capacità sovrana a base popolare. Il tentativo di mettere tra parentesi tante vecchie fratture, quella tra “riformisti” e “rivoluzionari”, ad esempio, per iniziare almeno di uscire dall’angolo e riprendere il cammino verso una società più decente. Secondo l’idea che un passo produce forza per fare il successivo. Una ipotesi, per intendersi, interclassista e caratterizzata da un riformismo ‘forte’ (o strutturale).

Tuttavia, nella seconda fase della crisi, già dalla metà del 2020, sotto la spinta delle conseguenze diseguali delle misure di protezione sanitaria su un sistema economico e sociale reso fortemente frammentato dal trentennio neoliberale, abbiamo assistito alle mobilitazioni delle frazioni più precarizzate e di quelle più deboli del lavoro autonomo o professionale/imprenditoriale. E questa mobilitazione si è spontaneamente rivolta contro lo Stato, accusato di esercitare un potere “biopolitico” eccedente, e contro i ceti “protetti” dei lavoratori dipendenti. Ha inseguito le più stravaganti ipotesi, ha assunto toni di aspra difesa della libertà offesa. L’ipotesi di “alleanza della domanda interna” è andata in frantumi.

 

Quel che è emerso alla luce è che buona parte dell’area si muoveva sotto la ferma egemonia di quei ceti intermedi indeboliti, attori della svolta neoliberale degli anni seguenti al riflusso ma oggi traditi nel loro affidamento ad essa. La reazione emersa ha opposto, non senza una sua quale coerenza, la risposta di protezione difensiva delle macchine statuali alla violazione della libertà individuale, identificandola quale profonda violazione dell’ordine liberale[20]. Dimentica di ogni sbandierato orientamento al socialismo sono riemersi tutti i temi libertari profondamente radicati nella società italiana e nelle sue medie borghesie, siano esse orientate a sinistra, destra o centro.

Sono esplose quelle precarie “catene di equivalenza” che, sotto l’astratto slogan della “domanda interna” facevano sembrare simili le domande di chi in effetti odia lo Stato (e specificamente lo Stato fiscale e disciplinatore) e chi al contrario lo vuole potenziare dopo un quarantennio di indebolimento; chi vuole solo ascendere alla posizione dalla quale può nuovamente, e finalmente, sfruttare il lavoro debole (di commessi, impiegati, operai) per vincere la lotta della vita e raggiungere il proprio posto in essa, e chi, magari, vorrebbe ridurre all’opposto il proprio grado di sfruttamento e guadagnare condizioni di lavoro più dignitose; chi ha bisogno di indebolire il lavoro per sfruttarlo e chi questo lavoro lo presta; chi abita le periferie e chi ne fugge disperatamente, o non vuole scivolarvi; chi si sente in basso e chi in alto.

Nei mesi tra la metà del 20 e del 21 il sistema dei media, ed in parte il frastuono dei social, hanno restituito un’immagine per la quale a mobilitarsi ‘contro’ sono micro e piccoli imprenditori, autonomi, commercianti, più che insegnanti, impiegati, operai e funzionari pubblici. In parte è una percezione deformata dai media (i quali sistematicamente hanno sovrarappresentato alcune manifestazioni ed ignorato altre), in parte dipende dal fatto che alcuni strati dei primi soffrono maggiormente le misure di protezione prese. Le subiscono senza le protezioni residuali il trentennio di espansione del welfare di cui i secondi ancora godono. Ma si muovono anche perché su di essi la cultura neoliberale ha maggiore presa. Si muovono perché per loro è più aspro lo scollamento tra la promessa di autopromozione o di elevamento nella quale sono stati formati e la realtà di scivolamento e stagnazione in cui vivono. Promessa sulla quale contano per ancorare l’autoriconoscimento in una logica di competizione verticale propria della loro soggettivazione come classe.

Insomma, in questi mesi, è riemersa una frattura strutturale che ha anche un suo versante culturale e cognitivo. La “alleanza per la domanda interna” è una astratta necessità politica, ma anche nelle condizioni odierne una concreta impossibilità. Questi ceti e gruppi, quelli che Wright Mills chiamava in mezzo al trentennio “un’insalata di occupazioni”, fatta di dirigenti, professionisti, addetti alle vendite, impiegati, artigiani, piccoli e medi imprenditori, accomunati da molto poco oltre a certi parametri di reddito rilevati ex post e il desiderio di un certo status sociale, vogliono ascendere. Vogliono staccarsi dai ceti popolari e dai lavoratori, e vogliono, anzi che questi gli servano per farlo.

 

Conclusioni sul Green Pass

Dunque:

  1. allo stato il GP è un dispositivo di distrazione a bassa efficacia e non sicura necessità (ma la distrazione è andata perfettamente a segno anche a causa della reazione), ma in linea di principio la circostanza che chi non si vaccina (e non dimostra in altro modo di non essere portatore del virus) possa essere oggetto di qualche precauzione non è sbagliata.
  2. Mentre il Fatto 1 prima descritto è sostanzialmente vero, i Fatti 2 e 3, in diversa misura, non sono correttamente espressi. In questa forma lavorano con una logica binaria troppo semplificata tipica di un processo di “escalazione” indotto dai social sul fondo della sfiducia e della disgregazione della personalità sociale. E’ illogico, oltre che non sufficientemente dimostrato, che chi è vaccinato ed ha avuto una normale reazione contagi nello stesso modo, e questa considerazione pesa nella forma aggregata che devono prendere le politiche di pianificazione pubblica. I giovani e molto giovani potrebbero essere esposti alle controindicazioni di lungo periodo, anche gravi, la scelta di vaccinarli va quindi ponderata in modo molto attento (inclino a pensare che non sia opportuno, l’unico argomento solido è che potrebbero contagiare gli over 50 non ancora vaccinati che sono molti).
  3. Naturalmente ciò non implica che tutte le misure siano logiche ed appropriate (non lo sono mai, in quanto esito di una logica ibrida come quella politica). Ad esempio, non mi sembrano necessarie le mascherine per i professori vaccinati, andrebbe evitata qualsiasi stigmatizzazione dei lavoratori non vaccinati e moltissime delle misure disciplinari che si propongono non sono affatto giustificate e mostrano altre “agende” all’opera (ci sono forze, cioè, che stanno cercando di cogliere l’occasione per aumentare il disciplinamento sociale dei lavoratori, e non solo).
  4. E’ grave la costruzione di una simbolica e di una separazione tra ‘puri’ ed ‘impuri’ che va combattuta aspramente evidente, infatti, la decisione di vaccinare è sempre una scelta dalla potente funzione mistica, esibisce i simboli della competenza, distingue tra buoni e cattivi (o tra puri ed impuri), e divide. Ma soprattutto unisce. Ovvero funge da dispositivo di potere e creazione di coesione, indicando un nemico interno sul quale concentrare il male. Si tratta di un dispositivo tipico del politico[21].
  5. Dunque, il vaccino è un dispositivo tecnico efficace, necessario, compatibile con le nostre ‘libertà’ (anzi volte a salvaguardale nella misura del possibile), ma ANCHE un regolatore sociale e un produttore di potere.

 

Come si reagisce? Non urlando <libertà> (perché questa è sempre, nella sua più intima essenza sociale) e immaginandosi come ‘ribelli’ che combattono lo Stato (il quale in sostanza non fa nulla di diverso da quel che deve fare, anche se lo dovrebbe fare diversamente e soprattutto con altre forme di comunicazione e mobilitazione). Svolgendo una critica razionale, ordinata, non reattiva (rispondendo dichiarando ‘impuro’ quel che altri chiamano ‘puro’ e viceversa), e cercando di mettere il potere di fronte alle proprie reali contraddizioni che sono:

  • la mancanza di investimenti strutturali,
  • la conservazione di aree di privilegio intoccabili come le imprese,
  • il rifiuto di riorganizzare la produzione e riproduzione sociale per rendere più capace il mondo di affrontare le crisi, non solo sanitarie.

 

La necessaria ristrutturazione: dal calice di cristallo alla coppa di ferro

Infatti il nostro problema essenziale non è che abbiamo incontrato il “cigno nero” della pandemia, quello è solo il fattore scatenante finale. Il nostro problema è che l’intero sistema produttivo e riproduttivo nel quale viviamo, altamente finanziarizzato e interconnesso, è come un calice di cristallo. È esile, elegante, sottile, durissimo e fragile.  È stato lasciato crescere per decenni sulla base della ricerca costante, sotto la spinta di una concorrenza più o meno manipolata e secondo il principio della massima accumulazione a brevissimo termine. Il sistema di premi e punizioni che il sistema ha elargito ai suoi attori (a partire dai manager fino all’ultimo lavoratore) puntava parossisticamente sul rendimento a brevissimo termine, come se mai potesse arrivare una crisi.

È bastata la minaccia (resa credibile non solo da astratti modelli matematici, che spesso hanno sbagliato per difetto o per eccesso, quanto dallo spettacolo di alcuni sistemi sanitari di ‘eccellenza’ messi in ginocchio in poche settimane) di una malattia infettiva che, se ben curata, uccide pochi, ma capace in potenza di mettere contemporaneamente nella necessità di avere bisogno di cure rare e costose per sopravvivere (un posto in terapia intensiva costa circa millecinquecento euro al giorno e all’avvio della crisi ne erano disponibili poco più di tremila), per mettere davanti all’evidenza di non avere margini. Nell’antico Egitto le ricorrenti carestie avevano insegnato ad una casta sacerdotale e politica avveduta la necessità di mettere da parte, anno su anno, ingenti scorte per affrontarle. Limitavano la crescita, certo, ma rappresentavano l’assicurazione che la carestia, con il correlato di epidemie, invasioni, sommosse, rivoluzioni, non sarebbe arrivata un brutto giorno a distruggere tutto.

La nostra furbissima economia neoliberale, e i governi di quegli Stati che per decenni abbiamo descritto come residui di epoche passate e sostanzialmente inutili e dannosi, hanno pensato che pagare il costo assicurativo di avere una robusta sanità ed efficienti servizi territoriali di prevenzione fosse uno spreco. Li abbiamo quindi lentamente smantellati. Tenere ospedali di riserva per quando sarebbe giunta una emergenza, formare più medici, potenziare la rete dei medici di prossimità, creare ambulatori, avere industrie strategiche, anche se leggermente meno competitive, che potessero garantire le forniture di ciò che sarebbe stato necessario, è sembrato un lusso superfluo. Come in ogni altro settore.

E, sotto la pressione del sistema di vincoli in parte autoinflitto che ci sovrasta, ancora lo pensiamo. Altrimenti gli investimenti andrebbero in altra direzione e il numero chiuso a medicina sarebbe stato rimosso.

 

Il calice di cristallo si sta dunque rompendo, piccole fessure si intravedono, ma i nostri decisori (ovvero il complesso sistema d’azione costituito dalle élite nazionali e da quelle internazionali connesse e dominanti, dalle tecnostrutture specializzate non solo sanitarie, dai gruppi di pressione e partiti politici) cercano di guardare altrove.

E, soprattutto, cercano di distrarci.

A questo serve il modesto dispositivo tecnico del Green Pass. Viene esacerbato e accompagnato da dichiarazioni fuori luogo e polarizzanti, in un gioco tra opposti che si sostengono a vicenda, allo scopo di non farci guardare che i nodi giungono al pettine.

 

Da decenni ogni fabbrica produce i suoi beni utilizzando prodotti intermedi di terzi e appoggiandosi su una rete di servizi che è spesso estesa su più nazioni e continenti, e che è condivisa con tante altre, di settori merceologici del tutto diversi. Ogni azienda, inoltre, si appoggia su servizi finanziari condivisi con tante altre. Non è sempre stato così, una volta le aziende erano più integrate verticalmente, poi si è detto che dovevano concentrarsi sul “core business”; una volta investivano con risorse proprie, poi si è detto che la liquidità andava impiegata nella finanza che rendeva di più, e tanto per tutto il resto c’era la “leva”; una volta si privilegiavano gli investimenti sul territorio, o comunque nella stessa area amministrativa, poi si è detto che la frontiera era la delocalizzazione; una volta i lavoratori erano trattenuti e ci si investiva, poi si è detto che l’organizzazione flessibile ed il lavoro agile erano il futuro. Tutta questa interconnessione è servita a porre il mondo del lavoro sotto costante ricatto di delocalizzazione, a cercare di ottenere ovunque le condizioni migliori, a guadagnare sempre di più, inseguendo il più marginale sconto di prezzo ovunque fosse.

Ma, al contempo, tutta questa interconnessione fa sì che se oggi chiudo un settore economico (quello metallurgico come quello dei mobili) potrei assistere all’imprevista chiusura anche di quelli che ho lasciato aperti, perché l’intero ecosistema produttivo collasserebbe. Ad esempio, la fonderia che chiudo d’autorità potrebbe essere indebitata con una banca la quale per reagire alla perdita potrebbe stringere il credito anche alla fabbrica tessile che non ho chiuso, o potrebbe essere il cliente fondamentale di un fornitore anche dell’impianto tessile. Quando questo fornitore dovesse chiudere, costringerebbe il nostro tessile a sostituirlo d’urgenza, in un momento in cui gli scambi internazionali faticano a riprendersi ed il costo di molte materie prime e semilavorati è aumentato.

 

Quel che dovremmo fare è sostituire il calice di cristallo con un coppa di ferro.

 

E’ per non farlo vedere che si stimola l’istinto individuale, colpendo i suoi luoghi simbolici e compensativi, con misure ad alto impatto simbolico come il Green Pass.

Dovremmo imparare che un sistema economico deve avere una parziale indipendenza, per non subire le conseguenze di interruzioni per i più diversi motivi di beni o servizi essenziali. L’organizzazione a rete leggera delle imprese dovrebbe essere vista come un lusso che non ci possiamo sempre permettere. I magazzini semivuoti egualmente. La mondializzazione senza limiti deve essere inquadrata come un errore di percorso (o meglio, un progetto sbagliato).

Quel di cui avremmo bisogno, ben oltre le misere e spesso sbagliate misure del Pnrr, è che le attività produttive vengano irrobustite, le catene logistiche radicalmente accorciate o comunque rese ridondanti, i magazzini rinforzati. Bisognerà affrontare la tendenza, intrinseca alla traiettoria di sviluppo tecnologico, di potenziare le tecnologie di controllo cosiddette “industria 4.0” e di sostituzione del lavoro, di erogare i servizi in remoto, di smantellare l’inefficiente ma cruciale per il tessuto civile e urbano piccola distribuzione. Farsi carico dell’enorme problema del ripensamento e riqualificazione della città e del territorio[22].

 

La via di uscita è una profonda razionalizzazione degli apparati produttivi, riducendo l’inutile differenziazione dei prodotti e le tante fonti di lavoro improduttivo, ampliando l’indipendenza del paese e la sua robustezza, garantendo la partecipazione di tutti alla produzione, alla sua organizzazione, ai suoi frutti.

 

La posizione politica: oltre il populismo

Per questo, al di là della polarizzazione in corso, che leggo essenzialmente come rivelatore e come cortina fumogena ad un tempo (rivela la vera natura di molte forze che sembravano agire per il cambiamento, mentre cercavano solo di tornare ai tempi d’oro e dal lato dell’intenzionalità dei promotori nasconde le necessità di reale cambiamento), il punto dirimente deve essere inquadrato come politico. E deve partire dalla percezione della frattura che la crisi pandemica ha aperto.

Una frattura che si è manifestata anche sul piano della tattica politica. Abbiamo visto esaurire il ciclo del “neopopulismo” ad immediato ridosso della crisi. Si trattava di potenti tecniche per aggregare in poco tempo “contenitori dell’ira” capaci di effetti elettorali significativi e anche, in alcuni casi irripetibili[23], vincenti. Ma al fine di una reale politica antisistemica sono esempi inservibili. Se hanno fallito la trasformazione in “contenitori di potere” è per ragioni interne e inaggirabili. Il potere non è contenuto nella figura organizzativa formalmente apicale, in nessun caso e tanto meno nella macchina pubblica statuale. Il potere, quello effettivo, ovvero quello di cambiare, è contenuto nelle relazioni circolanti in un molto più vasto sistema ed ha carattere continuo, non discontinuo. Nessuna “catena equivalenziale” può quindi fare il miracolo di evitare il duro lavoro della “guerra di posizione” e della costruzione di effettiva egemonia[24].

 

Molti seguono sistematicamente ogni e qualsiasi mobilitazione, pensando di appropriarsene, ma è un errore grave e molto noto. Lenin, in “Che fare?” lo chiamò “codismo”[25].

La questione è piuttosto di capire, in una situazione dinamica, non tanto chi si muove oggi, ma chi è nella posizione di fare leva per agire nel vero conflitto in essere contrastandone la forza motrice. Contrastandola per indurre l’avvio di un riequilibrio dei rapporti di forze che possa indurre degli elementi di socialismo, dei quali c’è assoluto bisogno. Senza i quali nessuna soluzione potrà essere trovata neppure ai dilemmi sistemici sommariamente descritti. Per fare questo non si deve partire dalla mera fotografia dell’esistente, immaginando che chi oggi è attivo o inattivo lo resti sempre, e non bisogna immaginare la questione del potere come un episodio singolo. Una “presa”. Bisogna comprendere, e bene, cosa è per noi il popolo e cosa sono i suoi nemici. Sapendo che verso i nemici si combatte, verso il popolo si lavora a creare unità di interesse e sentire.

E bisogna aver fermo e compreso che in sé la contraddizione tra chi intende elevarsi abbassando gli altri, ovvero aumentando il saggio di sfruttamento a proprio vantaggio, e chi ne subisce l’azione sistemica è una contraddizione antagonista. Che può sia scivolare in una relazione con nemici, sia essere ricondotta ad una dimensione organicamente equilibrata, ma solo se viene trattata espressamente. Inserendo i desideri, le pulsioni, e le ambizioni delle diverse soggettività sociali in un quadro non competitivo, socialista, appunto. Si tratta allora di distinguere tra inimicizia e divergenza (di rappresentazione, teoria delle funzioni sociali, prospettiva temporale). Tra la lotta e la discussione.

 

Per emergere dunque dalle contraddizioni e dai conflitti che questi due anni hanno fatto venire allo scoperto, bisogna liberarsi dell’idea che l’assetto sociale postmoderno, creato dalle specifiche forze introdotte dall’equilibrio del dopoguerra su generazioni che questa avevano subito e consolidato in cultura appresa dalle nuove generazioni, sia di fatto irreversibile. Ma non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, è più vero il contrario, l’essere sociale determina la loro coscienza. C’è infatti una contraddizione inscritta profondamente, nelle ossa stesse, che lavora a scalzare la coscienza postmoderna la quale paralizza l’azione sociale: l’individualismo edonista ha perso le condizioni di sicurezza ed affidamento che lo rendevano possibile. Nelle condizioni del lavoro contemporaneo ed in quelle della vita della grandissima parte della popolazione, in particolare di coloro che non possono scaricare su altri, o sperare di farlo, i propri pesi, si affaccia la semplice logica che solo l’azione collettiva, nuovamente, può o potrà rimettere in questione i rapporti di forza.

È tutta, sempre questione di rapporti di forza. E ciò nel paese, non al suo esterno. Altrimenti si resta prigionieri del gattopardo neoliberale, nei suoi numerosi travestimenti (uno dei quali, lo ribadisco, è la mobilitazione sul Green Pass). Mentre si giocherella con la pietra filosofale, sperando di essere finalmente l’avanguardia rivoluzionaria tanto attesa, il senso comune neoliberale, la coscienza data, lavorerà a riprodursi travestito. La cosa non potrebbe essere più seria.

 

Abbiamo passato alcuni anni ad indicare nella struttura di nessi e dominazione dei trattati europei il punto archimedeo da scalzare per rimettere in gioco e rendere contendibile le istanze di giustizia civile e popolare in Europa. Su questa parola d’ordine, o con il linguaggio di Laclau, intorno a questa “catena equivalenziale” abbiamo aggregato forze eterogenee. L’esperienza mostra che si è trattato di un effimero consenso.

Ora alcuni pensano di ripetere la mossa del “neopopulismo”, raccogliendolo intorno al significante vuoto <libertà>. Ma non è vuoto, è occupato dal nemico.

Inoltre la coscienza postmoderna è ormai scalzata dalle sue contraddizioni interne, e permane solo come zombie. Ci vorrà tempo perché produca i suoi effetti, e bisognerà restare forse a lungo nelle trincee, ma l’unica strada feconda è quella che si sforza di oltrepassare l’impolitico neoliberale e tutti i suoi travestimenti e recepire il nuovo bisogno di collettivo e di umanità, dandogli forma. Che ha pazienza di lavorare sulle fratture che si aprono, giorno dopo giorno. Tessendo e cucendo, senza perdere il filo dell’interesse da difendere. Ovvero del miglior interesse del paese, che è sempre quello dei suoi lavoratori. Che si sforza di identificare i luoghi ed i temi nei quali, intorno agli assi ordinatori centro/periferia ed alto/basso si stanno comunque polarizzando estetiche, linguaggi, priorità e valori, quindi soggettività di gruppo incompatibili con lo stato delle cose presenti. È capace di non farsi ingolosire da immediate traduzioni elettorali, ma di lavorare alla cultura politica, ovvero alla creazione di una struttura sociale densa e ad una rete di impegni e riconoscimenti con la necessaria decisione e passo. Conquistando una piazzaforte dopo l’altra e fidando che l’essere sociale ha ricominciato a lavorare a nostro favore.

 

Questo resta dunque il punto politico da porre (cosa che non significa sia l’unico)[26]. Tutte le mobilitazioni reattive, guidate dalle forze sociali che sono state cresciute e coltivate dalla svolta neoliberale, e da questa ora tradite, sembrano essere nuove e ‘ribelli’, ma accrescono solo l’egemonia neoliberale nelle sue fondamenta più intime. Quando il sistema potrà erogare qualche spicciolo, riattivando un anche piccolo ciclo di crescita tale da far gocciolare qualcosa, rientreranno immediatamente. E di questo svezzamento alla politica gli resterà solo l’ostilità per ogni iniziativa pubblica, per ogni politica collettiva, per lo Stato. Ostilità che sono proprie della egemonia neoliberale, la costituiscono.

Gli resterà l’idea di essere portatori di diritti inalienabili a fronte di qualunque interesse collettivo di qualsiasi genere, di essere i possessori unici di un concetto e pratica di ‘libertà’ che termina esattamente ai confini del proprio corpo e non si interessa di altro. “Libertà” secondo la classica nozione liberale.

La prima esperienza di mobilitazione sarà anche l’ultima, a meno che non si imponga una prospettiva socialista nel paese. Allora li ritroveremo dall’altra parte della barricata, ma non saranno loro ad essere cambiati, saremo noi a non aver mai capito per cosa si battevano.

 

 

 

[1] – Shoshana Zuboff, “Il capitalismo della sorveglianza”, Luiss 2019.

[2] – La pagina che si apre quando si clicca sul simbolo a sinistra in alto e mostra i post selezionati dall’algoritmo.

[3] – Zuboff, p. 475.

[4]https://www.worldometers.info/coronavirus/

[5] – Dati istat. https://www.istat.it/it/files//2021/06/Report_ISS_Istat_2021_10_giugno.pdf

[6] – La cosa è oggetto di furiose polemiche, in parte per la comprensibile paura dei vaccini (costante, dato che si tratta di farmaci che si prendono quando si è sani, mentre se si ha, ad esempio, mal di testa non ci si preoccupa di prendere farmaci come l’Aulin dalle controindicazioni note ed attestate), in parte per una latente tecnofobia (si tratta di vaccini elaborati, almeno alcuni, con una tecnica a Rna – che molti confondono con una tecnica che manipola il Dna non avendo fatto biologia al liceo – in sperimentazione da 30 anni ma sinora applicata per cure contro il cancro etc.), in parte per ostilità anticapitalista e antimonopolista (la quale, tuttavia, se applicata in questo modo porterebbe per coerenza a dover tornare nei boschi con l’arco a cacciare), infine per sfiducia nelle procedure pubbliche (accentuata dalla urgenza ben comprensibile con la quale sono state esperite).

[7]https://lab24.ilsole24ore.com/numeri-vaccini-italia-mondo/

[8]https://www.epicentro.iss.it/

[9] – Richard Sennett, con le sue note ricerche sul lavoro evidenzia il potere erosivo per la personalità del lavoro debole, intermittente, senza prospettive e senza capacità di un racconto sensato e continuo, nel quale sono intrappolati con la società neoliberale la maggioranza dei lavoratori contemporanei (quando non sono disoccupati). Le persone che svolgono solo lavori temporanei, sottolinea il sociologo, si sentono svalutati e non possono integrare il proprio lavoro nella propria storia di vita. Come ricorda anche Honneth questa circostanza distrugge anche la capacità di sentirsi membri solidali ed attivi della società politica. Produce un senso potente di “deragliamento personale” e rende impossibile, questo è importante, provare senso di solidarietà per gli altri. Il lavoro senza scopo produce quindi una personalità chiusa, difensiva, interamente individualista, e, Honneth dirà, anche impolitica. Storie troppo brevi, e le tattiche del moderno management (volte a creare disciplinamento interno di gruppo e mascherare il potere del capo) che spesso creano e distruggono gruppi di lavoro, punendoli collettivamente per i fallimenti individuali, rendono impossibile sentirsi solidali e creare unità sociali coese e immersive. Il lavoro mobile, flessibile e temporaneo “sospende la realtà” e induce a pensare solo al presente, in modo strettamente individuale. Si veda Axel Honnett, Richard Sennett, Alain Supiot, “Perché lavoro?”, 2020.

[10] – E’ evidente che l’Italia è sotto una tutela particolarmente stretta, per cui l’accesso alle risorse economiche aggiuntive che i programmi di acquisto di titoli pubblici (che, nella sostanza, li annullano) della Bce è soggetto a strettissimi vincoli negoziali. Negoziati che si svolgono sotto traccia, tenuti nascosti anche al Parlamento, e che impediscono a tutta evidenza di destinare risorse alla ristrutturazione sistemica (della sanità, ma non solo) di cui ci sarebbe bisogno. Si veda, per una ricognizione generale dei temi connessi, “Spartiacque, il 2020”.

[11] – Si veda “Bastone e carota”.

[12] – Faccio riferimento, ovviamente, alle esternazioni di Agamben.

[13] – Mi spiego meglio. Una cura precoce implica che sia erogata fuori degli ospedali, a chiunque sia positivo, prima dei sintomi, e sostanzialmente ‘fai da te’ (se va bene sotto la guida di un medico generico che non ha le necessarie specializzazioni ed esperienza). Talvolta sono cure erogate con farmaci ad alto impatto, alcuni dalle gravissime controindicazioni, persone che magari potrebbero cavarsela con due giorni di febbre. Il rischio è che il mix di farmaci produca nel suo complesso danni notevolmente maggiori (per la platea di applicazione) dell’evoluzione della malattia dei pochi. Si ricorda che si tratta di una malattia che normalmente conduce all’ospedalizzazione il 3,5% ca. dei contagiati (https://www.agenas.gov.it/covid19/web/index.php?r=site%2Fgraph1) e che quindi per il 96,5% dei casi si risolverebbe comunque con pochi giorni di febbre o poco più.

[14] – Anche se il presupposto del dibattito alternativo (che è stato soggetto al processo di “escalazione”) è che le voci di minoranza nel dibattito scientifico, essendo non “mainstream”, sono per definizione più libere, il clima competitivo entro la comunità scientifica potrebbe anche indurre alcuni ad esasperare la propria posizione per semplice tattica opportunista. Non, quindi, per convinzione quanto per emergere e trovare un ‘seguito’ (amplificato da social e media) in grado di promuoverlo e farlo emergere dall’anonimato.

[15] – Pfizer e Astra Zeneca, ad esempio.

[16]https://it.wikipedia.org/wiki/Paradosso_di_Simpson

[17] – Si veda Klaus Schwab, Thierry Malleret, “Covid 19: The Great reset”, 2020.

[18] – Tema molto ampio, sul quale dovremo tornare. Uno dei modi di affrontarlo è cercare di comprendere quale oggetto, soggetto e processo sia qualificabile come democratico in una società reale e complessa (non nel modello implicito e ipersemplificato che ce ne facciamo sulla base dell’esperienza saltuaria di qualche episodio deliberativo a piccola scala). Se è vero che una ragione procedurale in grado di essere qualificata come democratica deve essere in linea di principio capace di procedere in giudizio contro se stessa restando permeabile alle critiche, tuttavia nelle condizioni delle nostre società nazionali complesse ed inserite in tecnomacchine altamente delicate ciò che si autoorganizza è in prima battuta la comunità giuridica e non una qualche omogenea fusione di senso, di scopo o di sangue. Una simile comunità vive di due piani di legittimità: del sistema normativo nel suo insieme e delle singole norme. La riscattabilità di principio delle pretese di validità normativa delle norme è quindi articolata su entrambi i piani. Quando avviene (ed avviene di rado) si unisce validità di fatto e legittimità e quindi si attiva una funzione socio-integrativa che dovrebbe essere una delle prestazioni essenziali della democrazia giuridicamente istituita. Cosa è essenziale, a questo riguardo? Parecchie cose, tra queste che le ragioni valide non siano ristrette in modo pregiudiziale. Tuttavia ciò non significa che tutto possa essere detto ed ogni enunciato valga per argomento in ogni contesto. Le ragioni in grado di contare restano relative alla logica del problema da affrontare. Ecco che fa capolino la questione che, frettolosamente, si iscrive come “tecnocrazia” (quando si staglia sul modello implicito dell’assemblea). Ciò che bisogna ottenere per sviluppare una dinamica all’altezza della necessità di gestione di una società sia democratica sia complessa è di chiarire di volta in volta criteri ed interessi legittimi e accordarsi circa gli aspetti rilevanti per trattare l’eguale in modo eguale ed il diseguale in modo diseguale. Dunque articolare intorno al singolo problema, e coerentemente con la natura di questo, il nesso tra diritto e politica. In altre parole, quando si dà una produzione normativa (leggi o regolamenti) la sua legittimità non si deve commisurare solo alla giustezza dei giudizi morali, ma anche (tra l’altro) alla disponibilità, alla pertinenza, rilevanza e completezza delle informazioni fornite; quindi all’adeguatezza con cui si propone che queste interpretino correttamente le diverse situazioni e prospettino i problemi e soprattutto all’equità dei compromessi raggiunti. Chiaramente l’autodeterminazione democratica dei cittadini che si consultano supera, sul piano della capacità sociointegrativa e della legittimazione etica, la mera prestazione data dalla normazione costituzionale d’una società mercantile che – aspirando a soddisfare semplicemente le aspettative di felicità d’individui privati economicamente attivi – tenti di garantire (fallendo) un bene comune minimale, sostanzialmente inteso come non politico. Al contrario l’autodeterminazione si sostanzia e dipende dalla capacità di istituzionalizzare e rendersi permeabile a quelle che si potrebbero descrivere come procedure e presupposti comunicativi, e quindi dall’interazione delle consultazioni istituzionalizzate e non con le opinioni pubbliche informali. Si potrebbe dire che essa punta ad una sorta di intersoggettività di livello superiore, ma, attenzione, che resta incorporata nelle procedure democratiche nella misura in cui contengono in forma implicita processi d’intesa e/o nella rete comunicativa delle sfere pubbliche politiche. Si tratta di non farsi catturare né dal modello mercantile liberale, né dal modello anarcoide (al fondo anche esso liberale) dell’assemblea. Cosa che implica prestare attenzione alla necessaria, ineliminabile, interazione tra il sistema politico istituzionalizzato, che è l’unico in grado davvero di agire, e le strutture comunicative della sfera pubblica che sono rappresentabili come una diffusa rete di “sensori” i quali reagiscono alla pressione delle situazioni problematiche complessive con il sollecitare opinioni influenti.

Ora, la questione di democrazia e tecnocrazia sta in questa delicata relazione, che non si risolve con un taglio secco, tra due sfere d’azione tra le quali agisce una sorta di “chiusa idraulica” (l’immagine è di Habermas, 1996) rappresentata dai presupposti e dai procedimenti comunicativi per la formazione democratica dell’opinione e della volontà. La questione della “tecnocrazia” non si risolve tutta d’un pezzo, bisogna spenderla nella moneta di piccolo taglio di una discussione di merito ed adeguatezza.

[19] – Si veda il post “Dai contenitori dell’ira ai contenitori di potere”.

[20] – Si veda Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, Meltemi 2020

[21] – Altro punto su cui si dovrebbe tornare. Una decisione pubblica non è mai solo un calcolo. Non è, nella sua essenza, l’espressione di una volontà. Non è il risultato di un voto. In una decisione pubblica c’è sempre l’attivazione di un’arena di conflitto e lo spegnimento di qualche altra. Ci sono sempre attori valorizzati ed altri oscurati. C’è sempre una posta palese ed altre invisibili; ogni attore ne ha, e non sempre collimano. Una decisione pubblica non è mai logica. Ha sempre un contenuto emotivo ed un significato politico. Produce, riproduce e celebra dei valori sociali, e dunque è il risultato (e la matrice) di una società esistente o nascente. Ogni decisione interpreta il flusso della storia dell’organizzazione o del milieu che è stato attivato per strutturarla e giustificarla, essa crea sempre alleanze (e non sarebbe concepibile senza di esse), nasce nel conflitto e lo delimita. Articola una sua legittimità e dispiega i simboli della competenza e della reputazione. Per arrivare a definire una decisione strutturante (ad esempio, come quella di entrare o uscire dall’Euro) bisogna accedere ai problemi, definirli, riconoscerli tali, traguardarne l’esito. Il “setting decisionale” inquadra le identità valide nel campo decisionale, i soggetti riconoscibili e gli attori, le Istituzioni attivate e quelle inibite. Per arrivarci bisogna selezionare l’informazione pertinente e le tecniche “valide”. Il punto è che ogni decisione viene presa in condizioni di scarsità di tempo, di attenzione, di chiarezza ed è un processo sociale e politico importante in sé. Una sorta di “rituale sacro”, come scriveva James March (“Decisioni e organizzazioni”, Il Mulino 1993). Ogni decisione è in parte mera applicazione di routine e norme, in parte attivazione di memoria selettiva, in parte intuizione di nuove possibilità, in parte imitazione, in parte tradizione e fede. Lavora con scopi, conseguenze future, preferenze future (che sono sempre gestite strategicamente), con l’informazione (che è fonte di potere, di garanzia ritualistica, oggetto di strategie, riserva di senso, …). Ci sono due principali “finzioni” (che svolgono una fondamentale funzione di legittimazione sociale) che vanno considerate per non immaginare che sia questione solo di definire una buona e razionale “soluzione”: che le scelte siano ricondotte ai decisori; che i problemi siano ricondotti alle scelte.

Il processo decisionale è essenzialmente un confronto-scontro che fa uso dei materiali disponibili (tra cui, sia bene inteso, hanno grande importanza le “riserve di senso” incorporate nelle norme e nei discorsi normativi) per attivare impulsi di forza, contrattare, formare coalizioni, stimolare lealtà, riscuotere crediti. I risultati dipendono dalle preferenze di partenza degli attori e dal potere che può essere mobilitato da ognuno. Le scelte sono quindi piuttosto da ricondurre alla sedimentazione (o agglomerazione) di un “sistema d’azione” efficace (più dei concorrenti) e non ai “decisori”. I problemi sono definiti insieme alle scelte (non di rado sono le scelte a individuare i “loro” problemi. Un ottimo esempio è la stringa <l’offerta crea la domanda>, nel momento in cui chi la propone “decide” implicitamente di includere nel suo “sistema d’azione” l’organizzazione degli industriali ed escludere altri). Il significato della decisione assunta, o che si predilige, incorpora quindi sempre l’informazione solo se questa è collegabile a storie coerenti e raccontabili. Se fa sistema.

Informazioni e processo decisionale consolidano una struttura di significati nella quale si collocano; che le sostiene e le crea. In questo senso l’attività decisionale pubblica (ma anche quella privata) è una sorta di “rituale sacro” e comporta attività “altamente simboliche”. Come scrive March, “essa esalta i valori fondamentali di una società, in particolare il concetto che l’esistenza è alla mercé della volontà umana e che tale controllo si esercita mediante scelte, individuali e collettive, fondate su un’esplicita previsione di alternative e sui loro probabili effetti”. Decisione e potere sono indissolubilmente uniti per via di questa caratteristica simbolica ineliminabile.

Allora il processo decisionale non è un luogo “tecnico” (molto spesso, nella lunga polemica sulla Moneta Unica ed il processo di costruzione europeo, abbiamo sentito la lamentazione circa l’irrazionalità tecnica-economica della decisione “politica” assunta), è più la palestra per esercitarsi in valori sociali, far mostra di autorità, esibire comportamenti distintivi rispetto al costrutto ideologico centrale (nella nostra cultura occidentale) di <scelta intelligente e consapevole>. La decisione è politica in questo senso.

Interagire con questa complessa dinamica richiede saggezza ed intuito, richiede percezione ed empatia per le forze in campo e quelle mobilitabili (che in campo possono entrare), richiede una strategia rivolta a spingere l’intero apparato di dati informativi, aspettative ed opzioni disponibili in una direzione nella quale si dimostri produttiva. Cercando di sviluppare in una sola mossa ciò che è produttivo e gli strumenti per conseguirlo (insieme agli attori).

Dunque si potrebbe argomentare, che la crisi che attraversiamo non è solo un malfunzionamento essenziale della finanza nel suo ruolo di mediazione tra risparmio ed impieghi produttivi, che ha avuto sin dal medioevo; non è solo uno scollamento tra la crescita della produttività e l’occupabilità o la rendita del lavoro; non è solo lo spaccamento della società in enclave incomunicanti ed il rifiuto della parte fortunata di condividere le sue ricchezze tornate a livelli ottocenteschi; non è solo prevalenza della competizione e dell’egoismo sulla cooperazione e solidarietà, senza la quale la società precipita nel caos e nell’odio. La crisi è soprattutto una rottura di razionalità nel capitalismo a rete. E’ la dimostrazione che le routine e le soluzioni consolidate nella tradizione sono ormai spiazzate, che anche le nuove non funzionano più.

[22] – In questa direzione la Iot territoriale e le smart cities, della cui ambiguità ho parlato in “Le città intelligenti e la distopia del lavoro perduto”.

[23] – Il riferimento è, ovviamente, alla parabola del Movimento 5 Stelle.

[24] – Si veda “Guerre di movimento e guerre di posizione”.

[25] – Scrive in “L’inizio dell’ascesa del movimento spontaneo”: “vi è spontaneità e spontaneità. Anche negli anni sessanta e settanta (e persino nella prima metà del secolo) vi furono in Russia degli scioperi accompagnati da distruzioni “spontanee” di macchine e simili. In confronto con queste “rivolte”, gli scioperi avvenuti dopo il 1890 potrebbero perfino essere chiamati “coscienti”, tanto è importante il passo in avanti fatto nel frattempo dal movimento operaio. Ciò prova che in fondo l'”elemento spontaneo” non è che la forma embrionale della coscienza. Anche le rivolte primitive esprimevano già un certo risveglio di coscienza: gli operai perdevano la loro fede secolare nella solidità assoluta del regime che li schiacciava; cominciavano… non dirò a comprendere, ma a sentire la necessità di una resistenza collettiva e rompevano risolutamente con la sottomissione servile all’autorità. E tuttavia questa era ben più una manifestazione di disperazione e di vendetta che una lotta. Gli scioperi della fine del secolo, invece, rivelano bagliori di coscienza molto più numerosi: si pongono rivendicazioni precise, si cerca di prevedere il momento più favorevole, si discutono i casi e gli esempi noti delle altre località, ecc. Mentre prima si trattava semplicemente di una rivolta di gente oppressa, gli scioperi sistematici rappresentavano già degli embrioni – ma soltanto degli embrioni – di lotta di classe. […] Abbiamo detto che gli operai non potevano ancora possedere una coscienza socialdemocratica. Essa poteva essere loro apportata soltanto dall’esterno.” Viceversa “lo sviluppo spontaneo del movimento operaio fa sì che esso si subordini all’ideologia borghese […] In ogni caso, la funzione della socialdemocrazia non è di trascinarsi alla coda del movimento: cosa che nel migliore dei casi è inutile, e, nel peggiore, estremamente nociva per il movimento stesso. Il Raboceie Dielo, da parte sua, non si limita a seguire questa «tattica-processo», ma la erige a principio, sicché la sua tendenza deve essere definita non tanto opportunismo quanto (dalla parola: coda) codismo.” Vladimir Ilic Lenin, “Che fare?”, 1902.

[26] – Trovo, ad esempio rilevante e ben scelto il punto posto da Roberto Buffagni in un recente post su Facebook. “Alla radice del conflitto sui vaccini: liofilizzo una ipotesi. Perché è così aspro il conflitto sui vaccini? È un conflitto importante, anzi decisivo, oppure una diversione rispetto ai conflitti reali? Benvenute le critiche anche radicali purché cortesi, è una cosa difficile e mi manca la preparazione adeguata. Diciamo che ci provo. Ecco l’ipotesi liofilizzata: Fatta la tara (una grossa tara) della forza d’inerzia mediatica e della consueta dinamica della polarizzazione politica, il conflitto sui vaccini è aspro e importante, anzi decisivo, perché è un conflitto in merito alla legittimazione dell’ordine sociale e ideologico. La posta in gioco del conflitto sui vaccini è: chi ha il diritto di stabilire che cos’è la verità, anzi la Verità con la maiuscola? (In forma degradata e comico-grottesca, è una replica, a parti rovesciate, del conflitto tra Bellarmino e Galilei). Scrivo “Verità con la maiuscola” perché nel senso comune confusamente relativista oggi egemone, unica fonte della Verità è “la scienza”. Epistemologicamente è una sciocchezza, ma tant’è, è una sciocchezza che ce l’ha fatta. Ora, però, “la scienza” non solo non è in grado di fornire alcuna “Verità”, che è un concetto filosofico o religioso, ma è una pratica sociale in cui la formazione del consenso della comunità scientifica è laboriosa, difficile, influenzabile, e sempre soggetta a possibili revisioni anche radicali, come esige appunto il metodo scientifico. In breve, “la scienza” vera e propria non è per nulla adatta a sfornare Verità su ordinazione, come maritozzi. Invece, i powers that be hanno bisogno, molto bisogno di Verità su ordinazione (beninteso, ordinazione loro), perché è molto difficile esercitare un minimo di controllo sociale su masse di persone che: a) hanno introiettato il principio liberale, inaugurato contro le religioni, che “non esistono verità assolute”, l’altro principio liberale che “la mia libertà finisce dove comincia la tua”, ossia non si sa dove, e in attesa di capirlo io faccio quel cazzo che mi pare; e, ciliegina sul gelato, danno per scontato che il principio di autorità valga solo per gli stupidi e gli arretrati; b) vivono in una condizione ossimorica di permanente precarietà senza precedenti storici, per quanto attiene il proprio ruolo sociale, la propria identità personale, insomma sono tutti, chi più chi meno, degli sradicati; c) nonostante a) e b), devono contribuire, ciascuno per la propria parte grande o piccola, a garantire il funzionamento di una macchina sociale – di una Zivilisation – quanto mai complicata, delicata, interconnessa a livello mondiale.

In persone cosiffatte, la nascita, lo sviluppo organico, la stabilizzazione della norma interiore, insomma la Bildung, sono, inevitabilmente, assai problematici. In qualsiasi società, il controllo sociale viene garantito al 90% dalla norma interiore, e solo per il 10% dalla norma esteriore (polizia, tribunali, etc.). La necessità aguzza l’ingegno. Nel corso della pandemia da Covid19, i powers that be sono stati sospinti, anche dalla logica dell’ideologia da loro universalmente condivisa, lo scientismo, a fare un vero e proprio grande reset. No, non è il Grande Reset dei novax. È il grande reset della legittimazione dell’ordine sociale, oggi in corso d’opera; ossia la fondazione di una teologia civile fotocopiata – credo inconsapevolmente – dal programma politico, sociale e teologico positivista di Auguste Comte (vedere Wikipedia, c’è tutto il necessario). Per impiantare questa nuova teologia civile, c’è un requisito indispensabile: l’accordo reciproco preliminare del potere spirituale, la Scienza, e del potere temporale, l’Autorità Politica Positiva Tecnica). Profetico, Comte ha previsto tutto un secolo e mezzo fa, delegando il potere spirituale a un Consiglio degli Scienziati, e il potere temporale a un Consiglio degli Industriali (il programma comtiano è una parodia scientista del cattolicesimo).

Se la scienza continua ad essere quel che è nata per essere, questo accordo reciproco preliminare tra Scienza e Autorità Politica Positiva (Tecnica) semplicemente non c’è: per la banale ragione che a) l’accordo scientifico unanime in merito a qualcosa che sia immediatamente rilevante per la decisione politica è molto raro o addirittura inesistente b) dunque, quando si tratta di decidere politicamente qualcosa, ciascuna delle parti in conflitto pesca i pareri scientifici che più le convengono, e/o paga e promuove pareri scientifici a sé favorevoli, trovandoli sempre.

Quindi, si ritorna alla casella di partenza, in cui le decisioni politiche rilevanti si prendono per ragioni che certo tengono conto della “scienza” (nessun decisore prende misure che ignorano la legge di gravitazione universale) ma che la scienza mai potrà garantire come certe e “Vere” al 100%. Insomma, nella realtà effettuale il decisore decide con uno sforzo previsionale, nell’incertezza, e si assume la responsabilità di conseguenze che non sono mai, ripeto mai, interamente prevedibili. Ma l’accordo preliminare tra “Scienza” e Autorità Politica Positiva (Tecnica), tra potere spirituale e temporale è necessario per garantire il controllo e la coesione sociale, e la performatività del sistema. Si assiste dunque, oggi, a una grottesca riedizione della “lotta per le investiture” tra scienza (potere spirituale) e autorità politica (potere temporale), in cui paradossalmente il potere spirituale – la scienza – per come la rappresenta la grande maggioranza della comunità scientifica, NON combatte, e anzi esulta e festeggia l’aggressione dell’avversario: perché di vera e propria minaccia esistenziale alla scienza si tratta, quando il potere politico pretende di stabilire “Verità scientifiche” ufficiali, di farle oggetto di “fede” [sic] e di sanzionare chi non vi aderisca.

Le ragioni di questa paradossale esultanza, di questa sindrome di Stoccolma della comunità scientifica sono tante. Salto le più facilmente identificabili (vanità, timore, interessi) e mi concentro sulle meno visibili. Secondo me le ragioni meno visibili della sindrome di Stoccolma della comunità scientifica sono: a) NON si sono accorti che l’autorità politica sta trasformando la scienza in una religione, sia perché sono scientisti non pochi scienziati, specie ai livelli meno avanzati della ricerca, sia perché, lavorando sul serio come scienziati, sanno benissimo che la scienza effettualmente esistente è tutt’altra e incompatibile cosa rispetto a qualsivoglia religione, e non li sfiora il pensiero che qualcuno possa provarci sul serio b) non essendosene accorti, non ne hanno dedotto le possibili, anzi probabili conseguenze, che per la scienza effettualmente esistente sono devastanti: se alla pressione degli interessi economici e politici tradizionali si aggiunge la pressione del ruolo di garante ideologico dell’intero sistema sociale, la libertà di ricerca si riduce al lumicino e lo scienziato può venir chiamato di colpo a fare l’eroe, se vuole continuare ad essere scienziato c) l’opposizione all’insediamento della nuova teologia civile scientista, come si manifesta nel presente conflitto sivax/novax, è a dir poco, anzi a dir pochissimo, molto confusa.

Tralasciando i veri e propri mattoidi irrazionali (non pochi) l’asse ideologico principale conforme al quale gli oppositori combattono le autorità politiche è “la libertà”, come la intende il senso comune liberale (v. sopra). Ora, questo è un errore colossale, perché è evidente a chiunque non sia irrazionale che qualora ve ne sia un fondato motivo, l’autorità politica ha non solo il diritto, ma il preciso dovere di limitare, anche molto più gravemente di come oggi accada, la libertà dei cittadini. Il problema è se ve ne sia il fondato motivo, e il calcolo previsionale rischi/benefici in ordine al quale si giustifica la limitazione di libertà. Per capire se ve ne sia il fondato motivo, e per fare un calcolo rischi/benefici della limitazione di libertà da imporre, è indispensabile che la scienza, e ovviamente la comunità scientifica senza la quale la scienza non esiste, siano libere, ossia che siano liberi di argomentare il proprio fondato parere, e sottoporlo al dibattito tra pari, tutti i membri della comunità scientifica che operano in settori rilevanti per la decisione. Essi però non possono farlo, sennò si compromette la legittimazione dell’autorità politica. Dunque, in un mondo migliore, l’asse ideologico principale del conflitto con l’autorità politica in merito ai vaccini dovrebbe essere proprio la difesa della scienza e della libertà di ricerca + la difesa delle forme legali e sostanziali in cui deve avvenire ogni decisione politica. Noi però non siamo in un mondo migliore, siamo in questo qui.

Che cosa succede dopo? Succede che i powers that be vincono a mani basse, perché in un conflitto politico tra sicurezza e libertà, comunque intese (anche nel modo più stupido) la sicurezza vince sempre; e perché “per il solo fatto di esserlo, il ribelle perde metà della sua forza” (Richelieu): specie poi se il ribelle sbaglia di grosso la ribellione. Il processo di insediamento della teologia civile scientista continuerà, integrandosi agevolmente con la legittimazione dell’ordine sociale sinora in vigore (fascismo/antifascismo, progressismo/reazione, UE-mondialismo/nazionalismo-populismo). Tranne errori catastrofici immediatamente evidenti (es., e Deus avertat, se fra un anno o due si scopre che i vaccini provocano effetti imprevisti gravi in quote importanti dei vaccinati) anche le peggiori sciocchezze dette e fatte sinora dalle autorità passeranno in cavalleria.

Succederà però anche un’altra cosa, ominosa; e succederà per così dire automaticamente, di default, perché l’imposizione di una Verità Ufficiale a cui si deve prestare fede, pena sanzioni legali, la produce sempre: produrrà eretici, produrrà esclusioni, produrrà condanne implicite o esplicite alla morte civile, produrrà insomma tutti gli effetti collaterali sgradevoli e “medievali” ai quali il liberalismo classico s’era giustamente vantato di aver posto fine. E poi, ovviamente, produrrà retroazioni cibernetiche a catena nella comunità scientifica e nella scienza, nessuna favorevole. Le scienze più direttamente esposte alla pressione dell’autorità politica, quelle a cui più spesso e urgentemente sarà chiesto di fornire legittimazione al potere temporale, ossia le scienze sociali, saranno esposte a una pressione da fondere il granito. In bocca al lupo a chi vi opera, arrivano tempi interessanti”.

https://tempofertile.blogspot.com/2021/09/cronache-del-crollo-green-pass.html?fbclid=IwAR1Q4XjlGEdQCNRHTt-I6ijyWJ9C6JcBelzNW80jZtb3gJ-93ZaKYK6lgmM

TALEBANI E RIVOLUZIONE PASSIVA, di Teodoro Klitsche de la Grange

TALEBANI E RIVOLUZIONE PASSIVA

Mentre Kabul cadeva dinanzi all’offensiva dei talebani, molti ricordavano come la “dottrina” dell’espansione del modello democratico occidentale con la forza fosse stata condivisa – a quanto si leggeva – da almeno tre Presidenti U.S.A.: Clinton, Bush jr. e Obama e i loro consiglieri sia di destra che di sinistra.

Taluni ritenevano – non infondatamente, che fosse una derivazione degli interessi di potenza – politica ed economica – degli U.S.A. soprattutto, se non dell’intero mondo occidentale.

Nessuno – che mi risulti – ha ricordato, come da oltre due secoli, in varie formulazioni e declinazioni quella concezione è stata ripetuta. Esportava gli immortali principi dell’89, facendo la guerra alle monarchie europee (ed alle classi dirigenti) già la Convenzione francese nel 1792, sintetizzandola in una  frase efficace: “guerra ai castelli, pace alle capanne”, con il decreto del 15/12/1792.

Il che a prescindere dalle buone intenzioni (e dalla buona fede) era nient’altro che un programma di guerra civile europea. Che infatti infiammò il continente per quasi un quarto di secolo: le armate rivoluzionarie e poi napoleoniche trovavano molti alleati nei paesi conquistati, ma anche un “nuovo” nemico: i combattenti partigiani controrivoluzionari. I quali, ebbero un ruolo non secondario nella caduta di Napoleone. Fabrizio Ruffo, Empecinado, Andreas Hofer furono l’altro volto di una ostilità “irregolare” quanto profonda che, nel pensiero di Clausewitz, l’avvicinava alla guerra assoluta. Il richiamo agli immortali principi dell’89, servì a suscitare nemici almeno quanto a trovare alleati-seguaci, e fu comunque fertile nel provocare e aggravare l’ostilità. Non tanto perché presentarsi a casa d’altri con le baionette inastate e i cannoni rombanti non è propriamente il modo migliore e più rassicurante per farlo; ma soprattutto perché quegli immortali principi erano poco o punto condivisi dalle popolazioni invase.

Già lo aveva capito Vincenzo Cuoco il quale spiegava la breve esistenza della Repubblica partenopea (quattro mesi) col concetto di “rivoluzione passiva” destinato ad una notevole fortuna nel pensiero  politico italiano (a cominciare da Gramsci). Scriveva il pensatore napoletano che le idee importate dalla rivoluzione francese erano lontane ed astratte dagli usi e dai bisogni delle popolazioni meridionali, onde queste le consideravano estranee; per di più condivise da minoranze afrancesade: “le vedute de’ patrioti e quelle del popolo non erano le stesse: essi avevano diverse idee, diversi costumi e finanche due lingue diverse”. In questa situazione mancava il principale fattore aggregante dell’unità politica: l’idem sentire de re publica.

Nell’epoca delle rivoluzioni Sieyés e Thomas Paine confidarono nella condivisione di idee, valori, interessi, bisogni e costumi tra francesi e americani per sostenere la rivoluzione e le Costituzioni dei nuovi ordinamenti nonché delimitare i “confini” con chi non li condivideva (sia all’esterno che all’interno della sintesi politica). Renan ne avrebbe formulato, nel di esso concetto di nazione, una denotazione esauriente.

Il problema si presenta ancor più difficile quando nella storia moderna tale pratica si è collegata allo “scontro di civiltà”. Se a popoli facenti parte della stessa civiltà era ostico esportare certi principi, soprattutto con le armi, non era da meno, data la maggiore distanza, tra popoli di civiltà diverse; Toynbee ricorda i principali casi e personaggi che l’hanno tentato e, spesso, realizzato. In senso positivo (cioè riuscito), Pietro il Grande e gli statisti giapponesi della rivoluzione Meiji.

Tuttavia i tentativi riusciti avevano di solito due caratteri: di essere d’iniziativa interna, e spesso del potere legittimo (lo Zar o il Tenno), e non d’importazione armata. Anche se generarono rivolte e repressioni (gli Strelizzi e i Samurai) al limite della guerra civile, non c’erano “terzi interessati” a fomentare, indirizzare, sostenere i contendenti, e trasformare così il conflitto in guerra partigiana (contro il nemico esterno e interno). L’altro, che si proponevano di introdurre novità sì profonde nelle società tradizionali, ma non totali. Il fatto che fosse il potere legittimo ad introdurle era una garanzia a favore della non totalità delle innovazioni: cambia l’ordine, ma non l’ “ordinatore”. Oltretutto i cambiamenti erano comunque parziali, e volti ad acquisire ed utilizzare la tecnica e la scienza (e modelli istituzionali) occidentale, in funzione degli interessi e del sistema di valori delle nazioni in via di modernizzazione.

Questi elementi non ricorrono nella guerra afgana né nella fase anti-sovietica né in quella anti-americana, perché sia il comunismo che il capitalismo globalizzatore comportano la sostituzione del “sistema di valori” delle società tradizionali, con quello d’importazione; e così dei titolari del potere legittimo. A farne le spese è in particolare la religione, onde la guerra che ne consegue presenta un accentuato carattere di conflitto di religione, che Croce già notava nelle insorgenze anti-francesi del 1799.

I talebani, data la loro formazione di studenti di teologia, si può dire che in questo hanno un vantaggio culturale sui loro avversari, i quali pensano che la superiorità tecnico-scientifica occidentale possa sostituire (o depotenziare, anche se di molto) la fede.

Errore antico e ripetuto. Suscita stupore che, allorquando circa vent’anni fa furono decise le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq, si fosse anche teorizzato il contrario, di poter esportare con la forza la democrazia e lo Stato di diritto in società  così distanti da quella del cristianesimo occidentale di cui fa parte la potenza “liberatrice”; il tutto in qualche decennio e con i gendarmi alla porta.

Ma fare ciò significa pensare di ripetere in pochi lustri quanto da noi è stato concepito e realizzato in più di tredici secoli: dalla lotta per le investiture alla tolleranza, dalla Magna Charta alla dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, dall’editto di Rotari al Code civil.

Oltretutto è sopravvalutato il ruolo che  un “sistema di valori”, per quanto appetibile, può avere rispetto ai fondamenti di un potere efficace ossia l’autorità o la legittimità, che non si vede come possa avere un occupante straniero, anche se liberatore.

Neanche in una società occidentale democratica il potere di un occupante– o del di esso Quisling – è legittimo perché carente di qualsiasi riferimento al popolo sia ideale che procedurale (e concreto). E non si comprende perché l’Afghanistan dovrebbe fare eccezione.

Concludendo, la caduta di Kabul induce due considerazioni.

La prima è che se gli afgani (o buona parte di essi) è riuscita a vincere due guerre partigiane con le maggiori superpotenze del pianeta, difendendo la propria in-dipendenza, non è detto che la marcia, fino a qualche anno fa (asseritamente) trionfante della globalizzazione non possa trovare altre battute d’arresto, si spera in modi meno cruenti.

La seconda  che l’impresa iniziata dopo l’11 settembre era difficile. Oggi si risponde che è comodo e facile giudicare col…senno di poi.

Ma in realtà, qua si trattava di senno di prima. Cioè di valutare gli eventi del passato, le riflessioni che avevano generato da un lato (le difficoltà delle rivoluzioni passive) nel conformare (anche) le istituzioni politiche, le controindicazioni all’uso della forza, dall’altro i fatti più recenti (come la vittoria sull’occupazione sovietica). Tutti ben noti e determinanti per capire che il tentativo di esportare la democrazia e diritti umani con eserciti stranieri, quisling, collaborazionisti non sarebbe andato a buon fine. Neanche – anzi forse ancor più – se non fosse stato un ipocrita involucro per occultare la volontà ed interessi di potenza (politica ed economica). Perché, come scriveva Machiavelli, a credere questo si va appresso non alla realtà dei fatti ma all’ “immaginazione” che se ne ha – o se ne vuole avere, col risultato di trovare la ruina propria, cioè la sconfitta sul campo. Puntualmente avvenuta.

Teodoro Klitsche de la Grange

FONDAMENTI DI STORIA AFGANA (1 e 2 di 4)_di Daniele Lanza

FONDAMENTI DI STORIA AFGANA (1 di 4)
Come di regola – ma nelle presenti circostanze è anche comprensibile – le bacheche di tutti i social esibiscono una variopinta carovana di considerazioni e commenti per ogni gusto e livello di comprensione. Non so esattamente quanti abbiano la visione d’insieme della storia di questo areale geostrategico : quanti hanno a mente le sequenza di eventi politici e militari che plasmano lo stato che vediamo oggi sulle carte (assieme a tutti i suoi nodi irrisolti ?)
Non si può certo rimediare da un’ennesima bacheca (!), ma tenterò di offrire una cronologia illustrata e ragionata almeno…
Prestare attenzione dunque : la sagoma politico-amministrativa che prende il nome di AFGHANISTAN sugli atlanti è una creatura relativamente recente (per il metro storico). Per esprimerla in modo molto grezzo e oltremodo sintetico, altro non è che una derivazione della decadenza e disfacimento delle potenze regionali circostanti (Persia in primissimo luogo) in età moderna – ultimi 200 anni circa – : da tale evento di lungo termine affiora l’aggregato territoriale fondamentale i cui contorni interni ed esterni sono ulteriormente temprati e rifiniti dalla pressione oceanica di due grandi forze contrapposte ovvero quella zarista da nord, in discesa dall’Asia centrale e quella britannica da sud, in avanzata dal sub-continente indiano……..tra le quali il neonato Afganistan ha la sfortuna di ritrovarsi.
Andiamo in ordine tuttavia, partiamo dal principio.
La scintilla di tutto deflagra tanto, tanto tempo fa (300 anni)…..giusto agli inizi del XVIII° secolo, quando la Persia Safavide incontra una delle sue più gravi crisi sin dalla rinascita imperiale di due secoli e mezzo prima : all’estrema periferia orientale dell’impero – nella zona che oggi sarebbe la fascia più meridionale dell’Afganistan – vi è un variegato complesso tribale autoctono, in generale appartenente all’indoeuropeo (ed iranico) ceppo PASHTUN, tra cui primeggia la tribù dei Ghilzay (غلزی)…..combattenti intrepidi dei deserti di roccia da cui emergono, lontani dallo sfarzo della corte persiana di cui non condividono nemmeno l’islam sciita/duodecimano, rimanendo ancorati alla più tradizionale Sunna (…). Tra quella gente spicca il nobile clan HOTAK (da ricordare) – che si distingue per influenza e ricchezza, tanto che il capo del casato è il rappresentante della città di Kandahar (eccoci) ed interagisce direttamente col governatore inviato dalla capitale : quest’ultimo, un georgiano convertito all’islam (ve ne erano molti nell’amministrazione imperiale) perpetua la tradizione di brutalità dei suoi predecessori fino a provocare una grande rivolta – guidata dal capo della famiglia Hotak – che si innesca nell’anno 1709 del calendario occidentale.
La rivolta inizia a KANDAHAR per l’appunto – dove il governatore viene presto ucciso -, ma anziché rimanere limitata al suo ambito regionale come ci si aspetterebbe, dilaga invece a buona parte dell’areale iranico sotto il controllo safavide, sino a minacciarne le sue più nevralgiche città tra cui la capitale, complice la debolezza del potere centrale : non c’è dubbio che siamo di fronte ad una manifestazione di grandi proporzioni della decadenza imperiale persiana, del capolinea naturale della sua dinastia dopo 250 anni di regno. Una dopo l’altra le varie roccaforti cadono fino al punto da creare una situazione surreale : l’impero safavide è letteralmente divorato dal suo interno da questa improvvisa insurrezione tribale Pashtun che arriva ad occupare buona parte del suo territorio….si parla sui manuali di storia dell’Asia centrale di un “impero HOTAK” di brevissima durata e che prende il nome del condottiero che la orchestra.
Questo stato di disordine interno – analogo forse ai barbari germani già da tempo entro i confini dell’impero romano d’occidente, ma che colgono l’occasione per ribellarvisi invaderlo dal suo interno – durerà lo spazio di una generazione : per una trentina di anni la Persia cerca di ripristinare l’ordine precedente impegnandosi in una lunga e difficile guerra contro questi audaci insorti che già si pongono come difensori di una nuova monarchia. La situazione è ancor più drammatica se si tiene conto che altre potenze – RUSSIA in primis – realizzando lo stato di estrema debolezza in cui versa lo stato safavide si fanno avanti ai 4 punti cardinali conquistando e reclamando regioni di confine (una per tutte la “campagna caspica” di Pietro il grande nel 1721-22 che rischia di strappare allo Scià tutta la costa iranica sul mare Caspio)
L’impero di questo passo potrebbe anche cessare di esistere, si intravede uno smembramento territoriale sempre più inarrestabile……tutto sembra perduto.
Eppure avviene il miracolo : questo miracolo porta il nome di Nader Shah Afshar. Costui è un condottiero militare di immenso genio strategico (pare esista una legge arcana dell’equilibrio nella storia degli stati che fa comparire un salvatore quando si è prossimi al baratro) che rimette in piedi l’impero, invertendo il processo di decadenza in corso (…). Non è persiano (ed anzi è di certo più simile agli insorti Pashtun come cultura guerriera, benchè in realtà lui sia di origine turcomanna, OGHUZ per essere precisi : quei popoli seminomadi di confine da tempo immemore incorporati nelle gerarchie militari persiane. Ammira Tamerlano e lo stesso Gengis che sono suoi modelli) Con lui inizia un lungo ciclo di guerre che tuttavia avranno esito positivo non soltanto salvando la Persia, ma anzi riportandola all’attacco su tutti i fronti prefigurando una versione allargata dell’impero come non esisteva da ere : nel giro di 20 anni di fatto neutralizza tutte le minacce interne ed esterne al paese, respingendo russi, ottomani, indiani da occidente ad oriente (si spinge fino a Bukhara e arriva persino a passare all’offensiva contro l’altrettanto decadente India Mughal, dal canto suo prossima alla colonizzazione anglo-francese)……..ma soprattutto annientando la minaccia HOTAK all’interno che imperversa da decenni.
Per ridurre all’osso una lunga vicenda militare, Nader SCONFIGGE ripetutamente gli insorti pashtun fino a ricacciarli là da dove erano partiti : nel 1738, dopo molti anni di battaglie, arriva alle mura di Kandahar che verrà assediata e presa. Con la caduta della sua capitale, la dinastia Hotak si dissolve e molti dei suoi antichi sostenitori (molti l’avevano già fatto) passano dalla parte di Nader : uno di essi – tra i più fedeli e valorosi – è un generale e capoclan pashtu di nome DURRANI (questo è il nome chiave, ci ritorniamo dieci righe più in basso) . Quest’ultimo ha rimesso insieme l’impero persiano e l’ha reso più forte di prima (di quanto fosse mai stato nella sua fase moderna. Ha letteralmente capovolto la traiettoria storica che pareva instaurata irreversibilmente, portando una nazione dall’orlo della scomparsa sulla mappe alla prospettiva di un nuovo impero continentale) : il paese gli è talmente debitore (e i regnanti precedenti talmente screditati) che è acclamato lui stesso come nuovo Scià e iniziatore di una nuova dinastia che prende il suo nome (Afshar ovvero. Sarà dunque il tempi di “Nader Shah Afshar”).
Non pensiate che vada troppo fuori del seminato : questo interessante excursus di storia persiana è indispensabile per ricostruire la nascita dei potentati che prenderanno poi il nome di Afganistan. Sorvoliamo alcune vicende andando al punto cruciale di svolta : Nader Shah Afshar, nuovo e potente monarca di Persia, cade prematuramente, assassinato in un complotto militare durante una campagna contro i curdi (siamo nell’anno 1747). Con la fine di questo astro della storia militare persiana si esaurisce ipso facto anche lo zenit di espansione territoriale raggiunto per poco tempo : molte regioni da poco conquistate si riprendono l’indipendenza perduta, un po come i regni ellenistico orientali che fanno capolino dopo la morte di Alessandro il macedone, sebbene su scala minore. In realtà l’impero persiano NON si dissolve (l’ascesa di una dinastia Zand stabilizza relativamente le cose), ma ritorna semplicemente ad essere quanto era prima di Nader Shah…..una discreta potenza regionale che non va oltre il suo limite e portata comunque verso la decadenza in un clima di arretratezza rispetto alle grandi potenze dell’occidente che giocano sul piano planetario oramai (…).
In questo clima generale di ridimensionamento persiano dopo un brevissimo zenit di gloria, si forma una nuova entità, anch’essa che porta il nome del proprio fondatore : è in questo momento che ci focalizziamo nuovamente sull’areale specificamente afgano, tornando a quel DURRANI di cui ho accennato (il generale pashtun fedele a Nader)
Ancor prima di proseguire premettiamo che questo Durrani – Ahmad Shāh Durrānī – è oggi considerato il PADRE DELL’AFGANISTAN (inteso come nazione afgana nel senso storico più ampio del termine e non dello stato contemporaneo che abbiamo davanti agli occhi)
Se a qualcuno interessa, mi faccia un cenno che proseguo coi capitoli (con questo caldo procedo solo se ne vale la pena, perdonatemi…)
CONTINUA (?)
FONDAMENTI DI STORIA AFGANA (2 di 4)
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Allora, ricapitolando il paragrafo precedente : un impero persiano che versa in gravissima crisi (inizio XVIII° sec.) si vede eroso dall’interno da una rivolta tribale PASHTUN che parte da Kandahar nel cuore dell’odierno Afganistan meridionale, e dilaga fino alla stessa capitale imperiale, incapace di domarla o anche solo arginarla. L’emergenza interna rende la Persia safavide vulnerabile anche dall’esterno, facendosi avanti praticamente tutte le potenze confinanti per approfittare del momento – dallo tsar di Russia ai rajah Mughal dell’India – e avvantaggiarsi territorialmente. Sull’orlo del tracollo totale…………le sorti di Persi provvidenzialmente si invertono con l’affermarsi di un leader politico-militare di grande spessore (NADER SHAH, generale di origine turca oghuz in servizio all’impero) : quest’ultimo , praticamente il Napoleone Bonaparte nel contesto persiano della prima metà del 700, modifica il corso della storia ripristinando l’unità del paese sconfiggendo TUTTI gli avversari interni ed esteri in tutti i teatri di guerra. L’azione di Nader è talmente efficace che non soltanto viene riportata la sicurezza (assente sotto la debole dinastia safavide), ma addirittura si ritorna all’attacco e all’espansione ai 4 punti cardinali che fa presagire una nuova età d’oro da Samarkand alla Mesopotamia all’Hindustan (…). Pare sia nato il nuovo Tamerlano dopo secoli. Non a caso manda in pensione la vecchia dinasti a safavide dando inizio alla propria. L’incredibile capovolgimento di situazione non dura oltre la vita di Nader stesso che cade vittima di un complotto di ufficiali persiani, dopo una stagione storica di successi sfolgoranti. Tutto tornerà (quasi) come prima.
Questa serie di eventi ci porta al 1747.
A questo punto facciamo un piccolo passo indietro sottolineando un fatto : NADER (il grande !) nel corso della sua straordinaria ascesa e affermazione porta molti che pure si erano ribellati al decadente impero safavide ad unirsi a lui sotto il suo vessillo vincente. Una tra queste forze erano le tribù ABDALI : trattasi di una parte (la più grande) dei Pashtun ovvero la sua frazione demograficamente più consistente e combattiva. Malgrado la rivolta antipersiana di una generazione prima fosse partita proprio da una tribù pashtun, gli abdali invece si uniranno a Nader Shah una volta compreso la sua forza e il suo genio (a differenza dei suoi predecessori)……arrivando a diventare i suoi più stretti ALLEATI. Tra di essi vi è un giovane di notevoli capacità di nome Ahmad Shāh Durrānī (احمد شاه دراني) .
Lui e il fratello verranno reintegrati come gli altri abdali tra le forze imperiali di Nader, facendo una rapida carriera : al tempo della caduta di Kandahar (che pone fine alla trentennale ribellione pashtun, 1738) ha oramai guadagnato un prestigio tale che da quel momento in poi sarà aiutante di campo dello Scià e successivamente comandante di un corpo d’elite composto di abdali che segue il monarca nella sua campagna contro l’India Mughal (…). Ahmad Durrani è un brillante ufficiale, estremamente apprezzato da Nader. Quando, nel 1747, Nader Shah viene assassinato durante una campagna militare la situazione si fa di nuovo caotica : il breve “super-impero” di Nader si ridimensione rapidamente e svariate sue regioni e provincie conquistate tornano ai possessori oppure cercano l’indipendenza. Quest’ultimo è il caso delle provincie più orientali che occupano l’odierno Afganistan del sud : DURRANI (presente al momento dell’assassinio di Nader) si trova improvvisamente in una situazione di incertezza che tuttavia si chiarisce subito……….considerato estinto con Nader il suo giuramente di fedeltà alla Persia, si allontana dal campo con tutto il suo reggimento di cavalleria portando con sé il sigillo reale del defunto sovrano. Quella stessa estate viene scelto da un grande consiglio (“Ioya Jirga”) di capitribù pashtun come condottiero di tutta la nazione pashtu/afgana.
Questo è letteralmente l’INIZIO. Come leader unico acclamato dalla sua gente, Ahmad Durrani inizia subito la sua opera di conquista, approfittando tra l’altro degli anni di relativa instabilità e debolezza del potere centrale immediatamente successivi alla morte di Nader.
Durrani con una rapida serie di campagne rende definitivamente indipendenti le provincie più orientali dell’impero persiano – corrispondenti all’Afganistan del sud, il cui epicentro era Kandahar – ma questa volta in maniera più stabile rispetto alla ribellione di 40 anni prima ossia con una visione politica assai più definita e concreta : in parole povere cessa l’era dei potentati tribali tributari dell’impero persiano (a volte in rivolta) e inizia l’era di una realtà geopolitica INDIPENDENTE dalla Persia , tanto quanto dall’India Mughal adiacente. Si forma una NAZIONE AFGANA a cavallo tra la Persia imperiale ad ovest e il sub-continente indiano a sud-est : Ahmad Durrani è ritenuto nella storiografia generale come il “pater patriae”.
Durrani si conferma il brillante stratega che già lo Scià persiano aveva notato : nel giro di una manciata di anni non soltanto rende indipendente l’Afganistan propriamente detto all’epoca, ma ne estende i confini, soprattutto ad oriente andando ad intaccare l’areale geopolitico indiano allora ancora sotto lo scettro Mughal (questi già in decadenza in realtà, duramente provati dal confronto con i nativi potentati Maharata nonché con le avanguardie della colonizzazione occidentale sia inglese che francese). Tra il 1747 e il 1755 – ossia alla vigilia della guerra dei 7 anni in Europa e nord America – Durrani penetra in profondità a sud, attacca 4 volte di seguito l’India e arriva a saccheggiare DELHI, staccando fisicamente una larga porzione dell’India Mughal ai suoi legittimi regnanti : una fascia territoriale equivalente all’odierno PAKISTAN (!) più il Kashmir entra a far parte di quello che prende ufficialmente il nome di “IMPERO DURRANI”.
In breve è venuta ad affermarsi in un brevissimo lasso di tempo un’entità politica distinta da Persia e India e temuta da entrambi : in particolare dall’INDIA ora, verso le cui ampie risorse (scarsamente difese) i condottieri afgani paiono attratti. Attorno alla metà del XVIII° sec. i monarchi indiani (Maharati o Mughal che siano) paiono impotenti contro i raid di questi predoni del nord, comparativamente tanto quanto i regni indiani dell’antichità più remota lo furono di fronte alle ondate d’invasione indo-aria (…). Persino la CINA della dinastia Quing è nel mirino dei Durrani che sperano di far insorgere i sudditi musulmani e turchi del celeste impero (le campagne contro l’India tuttavia prosciugano già tutte le risorse a disposizione e non si potrà continuare, dando preminenza a quest’ultima). L’Hindu Kush è a portata di mano per qualsiasi invasione, così come la stessa Delhi sembra essere bersaglio facile di un blitz di questi cavalieri degli altipiani iranici : orbene FARE ATTENZIONE ! E’ da questo momento che si inizia a percepire l’Afganistan (o impero Durrani o comunque lo si voglia appellare) come minaccia per il sub-continente indiano o chiunque lo controlli. Dal punto di vista indiano (e quindi BRITANNICO, dato che nel secolo a venire il “protettore” dell’areale sarà la corona d’Inghilterra) l’entità afgana è equiparabile ad un falco minaccioso….sparuto in termini numerici, ma capace di penetrare all’improvviso sino ai punti più nevralgici del grande HINDUSTAN : non una forza militare sufficiente ad annettere certo………ma sufficiente eventualmente ad innescare pericolose rivolte tra la popolazione autoctona indiana contro i suoi governanti inglesi (ed in questa opera di destabilizzazione eventualmente “aiutato” da un’ulteriore potenza europea o euroasiatica come la Russia zarista : ecco, dal punto di vista di quest’ultima invece, l’entità afgana assume, viceversa, le sembianze di un’utile lancia puntata contro il cuore dell’impero indiano di proprietà del rivale britannico. Una “lancia” che può essere aiutata….). La dinastia Durrani dura per generazioni : il suo successore stabilirà per la prima volta KABUL come capitale del regno (e Peshawar come capitale d’inverno).
A questo periodo risalgono anche i più pesanti attriti con entità non islamiche : fondamentale il confronto armato tra afgani e SIKH nel nord dell’India. Allora iniziano sistematiche distruzioni a danno della cultura induista Sikh cui seguirà una fase di conflitti regolari che terminano solo con la perdita del Kashmir nel 1819 (verso la fine dell’impero Durrani). Si tratta forse dei prodromi di un’animosità che ancora oggi si nota nella popolazione musulmana afgana contro i simboli del buddismo (?) Durrani medesimo scompare nel 1772 lasciando la sua importante eredità e generazioni di successori per i 50 anni a venire, prima che nuovi contesti storici mettano al trono una nuova dinastia : siamo alle porte di un nuovo secolo……….che vede l’uomo occidentale inserirsi nella pugna monopolizzandola al punto di farla divenire un proprio riflesso (ma nel far questo, sfruttando e servendosi di conflitti secolari sempre esistiti tra popolazioni confinanti e rivali come quelli che abbiamo intravisto)

L’Afghanistan, è un territorio fondamentale dell’Asia centrale per la costruzione dei grandi spazi delle potenze mondiali, a cura di Luigi Longo

L’Afghanistan, è un territorio fondamentale dell’Asia centrale per la costruzione dei grandi spazi delle potenze mondiali

a cura di Luigi Longo

Una piccola premessa con Manlio Dinucci “[…] WASHINGTON considerava la nascente alleanza tra Cina e Russia una minaccia agli interessi statunitensi in Asia, nel momento critico in cui gli Stati Uniti cercavano di occupare, prima di altri, il vuoto che la disgregazione dell’Unione Sovietica aveva lasciato in Asia Centrale. «Esiste la possibilità che emerga in Asia un rivale militare con una formidabile base di risorse», avvertiva allora il Pentagono in un rapporto del 30 settembre 2001.

Quale fosse la reale posta in gioco lo dimostrava il fatto che, nell’agosto 2003, la Nato sotto comando Usa assumeva con un colpo di mano «il ruolo di leadership dell’Isaf», la «Forza internazionale di assistenza alla sicurezza» creata dalle Nazioni Unite nel dicembre 2001, senza che in quel momento avesse alcuna autorizzazione a farlo. Da quel momento oltre 50 paesi, membri e partner della Nato, partecipavano sotto comando Usa alla guerra in Afghanistan. […]” (Manlio Dinucci, Nessuna lezione dalla catastrofe afghana, www.ilmanifesto.it, del 20/8/2021).

In relazione a questa premessa propongo tre letture per una riflessione sulla situazione esplosa in Afghanistan da leggere all’interno del conflitto strategico tra le potenze mondiali: la prima di carattere storico, è uno scritto di Friedrich Engels del 1857, a cura di Eros Barone, pubblicato sul sito www.sinistrainrete.info del 17/8/2021; la seconda di carattere economico, è uno scritto di Marco Lupis apparso su www.huffingtonpost.it del 12/8/2021; la terza di carattere geopolitico, è una intervista ad Alberto Negri a cura di Ventuno news uscita su www.ariannaeditrice.it del 18/8/2021.

 

La prima lettura

LA TRAPPOLA DELL’AFGHANISTAN, 180 ANNI FA

Uno scritto di Friedrich Engels

a cura di Eros Barone

 «Non è affatto una bizzarria pubblicare questo testo di Friedrich Engels sull’Afghanistan, scritto nell’estate del 1857 per la New American Cyclopœdia.» Così Valentino Parlato presentava tale testo in un suo articolo di dieci anni fa. E proseguiva dichiarando di essere convinto che sull’Afghanistan dominasse ancora una clamorosa ignoranza della sua storia e della sua geografia. Giova allora ricordare che dopo il disastroso intervento militare sovietico nel paese, un prestigioso generale dell’Urss ebbe a dire: «Se avessimo letto Engels, mai e poi mai ci saremmo imbarcati in questa avventura».

Sarebbe stato opportuno consigliare la lettura di questo scritto del “Generale” a tutti quelli che, nel corso di questi ultimi 180 anni, hanno voluto intervenire in Afghanistan, ma è noto che la storia è una maestra severa quanto inascoltata. Del resto, in Afghanistan dai tempi di Engels a oggi assai poco è cambiato: l’unico cambiamento rilevante è la diffusione della coltura del papavero da oppio, di cui oggi l’Afghanistan è il maggior produttore mondiale, mentre i maggiori importatori sono i paesi dell’Occidente capitalistico, ‘in primis’ gli Stati Uniti. Sennonché la lettura dello scritto engelsiano sarebbe stata utile ed istruttiva, al netto del livello culturale ed intellettuale dell’attuale responsabile della Farnesina, anche per gli altri responsabili del governo italiano.

* * * *

Afghanistan: vasto paese dell’Asia, a nord-ovest dell’India. In una direzione si estende tra la Persia e le Indie, nell’altra tra l’Hindukush e l’Oceano Indiano. In passato comprendeva le province persiane del Khorasan e del Kohistan, oltre che le regioni di Herat, Belucistan, Kashmir, Sind e una considerevole porzione del Punjab.

All’interno dei suoi attuali confini probabilmente non vi sono più di 4 milioni di abitanti. La superficie dell’Afghanistan è molto irregolare – elevati altipiani, grandi montagne, profonde vallate e gole. Come tutti i paesi tropicali montagnosi, presenta ogni varietà di clima. Nell’Hindukush la neve copre le alte cime per tutto l’anno, mentre nelle vallate il termometro arriva fino a 130°F (54°C, ndt)… Sebbene la differenza tra temperature estive e invernali, e tra temperature diurne e notturne, sia alquanto pronunciata, il paese è generalmente salubre. Le principali malattie che si contraggono sono febbri, catarro e oftalmia. Occasionalmente si diffondono devastanti epidemie di vaiolo.

Il suolo manifesta una fertilità esuberante. Le palme da dattero crescono rigogliosamente nelle oasi dei deserti sabbiosi; la canna da zucchero e il cotone nelle calde vallate; le frutta e gli ortaggi europei prosperano lussureggianti sulle terrazze dei fianchi montani fino a un’altitudine di 6.000 o 7.000 piedi. Le montagne sono coperte di splendide foreste abitate da orsi, lupi e volpi, mentre il leone, il leopardo e la tigre si trovano nelle regioni più adatte alle loro caratteristiche. Né mancano gli animali utili per l’uomo. Si alleva una bella varietà di pecora di razza persiana, o con la coda lunga. I cavalli sono di buone dimensioni e razza. Come bestie da soma si usano il cammello e l’asino, e si trovano capre, cani e gatti in notevole quantità. Oltre all’Hindukush, che costituisce una prosecuzione dell’Himalaya, nella parte sud-occidentale si erge la catena dei Monti Sulaiman e, tra l’Afghanistan e Balkh, quella del Paropamiso (…). I fiumi scarseggiano: i più importanti sono l’Helmand e il Kabul, i quali nascono entrambi dall’Hindukush. Il Kabul scorre verso oriente e si immette nell’Indo nelle vicinanze di Attock; l’Helmand scorre verso occidente e, dopo aver attraversato il distretto di Sistan, sfocia nel lago di Zirrah. (…)

Le città principali dell’Afghanistan sono: Kabul, la capitale, Ghazni, Peshawar e Qandahar. Kabul è una bella città, situata a 340° di latitudine N e 60° 43° di longitudine E, sull’omonimo fiume. Gli edifici sono costruiti in legno, sono puliti e spaziosi, e la città, essendo circondata da bei parchi, ha un aspetto molto gradevole. Nei suoi dintorni sorgono diversi villaggi, nel mezzo di un’ampia pianura attorniata da basse colline. Il monumento principale è la tomba dell’imperatore Babur. Peshawar è una grande città, con una popolazione stimata intorno ai 100.000 abitanti. Ghazni, centro di antica fama, un tempo capitale del gran sultano Mahmud, ha subito un notevole declino ed è attualmente un povero villaggio. Nelle sue vicinanze è sepolto Mahmud. La fondazione di Qandahar è relativamente recente e risale al 1754. La città sorge sulle rovine di un antico insediamento e per qualche anno fu capitale; nel 1774 la sede del governo fu trasferita a Kabul. (…) Nei pressi si trova la tomba dello Shah Ahmed, fondatore della città, un luogo talmente sacro che neanche il re può ordinare la cattura di un criminale che si sia rifugiato tra le sue mura.

Rilevanza politica

La posizione geografica dell’Afghanistan e la particolare natura del suo popolo conferiscono al paese una rilevanza politica che, nell’ambito degli affari dell’Asia centrale, non sarà mai troppo sottolineata. La forma di governo è la monarchia, ma l’autorità di cui il sovrano gode sui suoi turbolenti e focosi sudditi è di tipo personale e molto indefinito. Il regno è diviso in province, ciascuna controllata da un rappresentante del sovrano, il quale raccoglie le tasse e le invia alla capitale. Gli afghani sono coraggiosi, intrepidi e indipendenti; si occupano esclusivamente di pastorizia e agricoltura, rifuggendo il commercio e gli scambi che sdegnosamente lasciano agli indù e ad altri abitanti delle città. Per loro la guerra è un’impresa eccitante e una distrazione dalla monotonia delle abituali attività. Gli afghani sono divisi in clan, sui quali i vari capi esercitano una sorta di supremazia feudale. Soltanto un odio irriducibile per l’autorità e l’amore per l’indipendenza individuale impediscono loro di diventare una nazione potente; ma questa stessa irregolarità e incertezza nell’azione li rende dei pericolosi vicini, capaci di essere sballottati dai venti più mutevoli o istigati da politici intriganti che eccitano astutamente le loro passioni.

Le due tribù principali sono i durrani e i ghilzai, sempre in lotta l’una con l’altra (entrambe di etnia pashtun). I durrani sono i più potenti e, in virtù di tale supremazia, il loro amir o khan si è proclamato re dell’Afghanistan. Il suo reddito è di circa 10 milioni di dollari. Gode di autorità suprema solo all’interno della sua tribù. I contingenti militari sono forniti principalmente dai durrani; il resto dell’esercito è composto da membri degli altri clan o da soldati di ventura che si uniscono alle truppe sperando nella paga o nel bottino. Nelle città la giustizia è amministrata dai cadì, ma gli afghani raramente ricorrono alla legge. Le sanzioni decretate dai khan si estendono fino al diritto di vita e di morte. La vendetta di sangue è un dovere familiare; tuttavia, si dice che gli afghani siano un popolo liberale e generoso quando non vengono provocati, e che i diritti di ospitalità siano a tal punto sacri che se un nemico mortale riesce, anche con uno stratagemma, a mangiare pane e sale del suo ospite, egli diventa inviolabile, e può perfino pretendere la protezione di quest’ultimo contro ogni altro pericolo. Di religione sono maomettani sunniti, ma non intolleranti, e le alleanze tra sciiti e sunniti non sono affatto infrequenti.

L’Afghanistan è stato soggetto alternativamente al dominio dei moghul e dei persiani. Prima che gli inglesi si insediassero sulle coste indiane tutte le invasioni straniere che spazzarono le pianure dell’Indostan provenivano immancabilmente dall’Afghanistan. Seguirono quella via il sultano Mahmud il Grande, Gengis Khan, Tamerlano e Nadir Shah. Nel 1747, dopo la morte di Nadir, Ahmed Shah, che aveva appreso l’arte della guerra al comando di quell’avventuriero, decise di liberarsi dal giogo persiano. Sotto il regno di Ahmed l’Afghanistan raggiunse l’apice della grandezza e della prosperità in tempi moderni. Ahmed apparteneva alla famiglia dei suddosi, e la sua prima azione fu quella di impadronirsi del bottino che il suo defunto capo aveva raccolto in India. Nel 1748 riuscì a cacciare il governatore moghul da Kabul e Peshawar e, dopo aver attraversato l’Indo, conquistò il Punjab. Il suo regno si estendeva dal Khorasan a Delhi, ed egli incrociò le armi anche con i potenti marathi. Tutte queste grandi imprese non gli impedirono tuttavia di coltivare alcune arti parifiche ed egli fu anche apprezzato poeta e storico. Morì nel 1772 e lasciò la corona al figlio Timur, che però non si dimostrò all’altezza del gravoso compito.

Questi abbandonò la città di Qandahar, che era stata fondata dal padre ed era diventata in pochi anni una città ricca e popolosa, e trasferì la sede del governo a Kabul. Durante il suo regno ripresero vigore i dissensi tra le tribù, in passato repressi dalla mano ferma di Ahmed Shah. Timur morì nel 1793 e gli successe Siman. Questo principe accarezzava l’idea di consolidare il potere maomettano in India e il suo progetto, che avrebbe potuto mettere in serio pericolo i possedimenti britannici, fu considerato così rilevante che Sir John Malcolm raggiunse la frontiera con il compito di tenere gli afghani sotto controllo nel caso in cui avessero effettuato qualche movimento; al tempo stesso vennero avviate trattative con la Persia in modo da stringere gli afghani tra due fuochi.

Queste precauzioni non furono comunque necessarie; Siman Shah era più che occupato dalle cospirazioni e dai disordini in patria, e i suoi grandi progetti furono stroncati sul nascere. Il fratello del re, Mohammed, si gettò su Herat con l’intenzione di costituire un principato indipendente, ma, fallendo nel suo tentativo, fuggì in Persia.

Siman Shah era salito al trono con l’aiuto della famiglia dei Barakzay, il cui capo era Sheir Afras Khan. La nomina di un visir impopolare da parte di Siman accese l’odio dei suoi vecchi sostenitori, i quali ordirono una congiura che fu scoperta e portò alla condanna a morte di Sheir Afras. I cospiratori richiamarono allora Mohammed, Siman fu fatto prigioniero e accecato. In opposizione a Mohammed, che era sostenuto dai durrani, i ghilzai avanzarono la candidatura di Sujah Shah, che fu re per qualche tempo ma fu infine sconfitto, principalmente a causa del tradimento dei suoi stessi fautori, e costretto a cercare rifugio presso i sikh.

Nel 1809 Napoleone aveva inviato in Persia il generale Gardanne, nella speranza di indurre lo scià a invadere l’India; il governo indiano da parte sua aveva inviato un rappresentante alla corte di Sujah Shah per creare un fronte di opposizione contro la Persia. Fu in quest’epoca che Ranjit Singh acquistò potere e fama. Era un capotribù sikh e, grazie al suo genio, guadagnò al suo paese l’indipendenza dagli afghani e fondò un regno nel Punjab, assumendo il titolo di maharaja e conquistandosi il rispetto del governo anglo-indiano. L’usurpatore Mohammed, tuttavia, non era destinato a godere a lungo della sua vittoria. Il vizir Futteh Khan, che, spinto dall’ambizione o da interessi contingenti, aveva oscillato continuamente tra Mohammed e Sujah Shah, fu catturato da Kamran, figlio del re, accecato e quindi crudelmente assassinato. La potente famiglia del vizir ucciso giurò di vendicare la sua morte.

Di nuovo fu avanzata la candidatura del fantoccio Sujah Shah e decretato l’esilio di Mohammed. Ma poiché Sujah Shah si rese responsabile di un’offesa, fu immediatamente deposto e al suo posto fu incoronato un fratello. Mohammed fuggì a Herat, di cui mantenne il possesso, e alla sua morte nel 1829 il figlio Kamran gli successe al governo di quel distretto. La famiglia dei Barakzay, conquistato il potere supremo, divise il territorio tra i propri membri i quali, secondo l’abitudine nazionale, continuarono a litigare tra di loro riunendosi soltanto di fronte a un nemico comune. Uno dei fratelli, Mohammed Khan, ricevette la città di Peshawar, per la quale pagava un tributo a Ranjit Singh; un altro ebbe Ghazni e un terzo Qandahar, mentre a Kabul dominava Dost Muhammad, il più potente della famiglia.

Come gli inglesi persero Kabul

Nel 1835 – in un periodo nel quale Russia e Inghilterra ordivano intrighi reciproci in Persia e in Asia centrale – presso Dost Muhammad, dominatore di Kabul, fu inviato come ambasciatore il capitano Alexander Burnes. Burnes presentò l’offerta di un’alleanza che Dost sarebbe stato lieto di accogliere, ma il governo angloindiano pretendeva tutto e non era disposto a dare niente in cambio.

Nel frattempo, sostenuti e consigliati dai russi, i persiani posero l’assedio a Herat, città chiave per l’Afghanistan e per l’India; giunsero a Kabul un agente persiano e uno russo, e Dost, constatato il continuo rifiuto da parte dei britannici di prendere impegni concreti, fu infine praticamente costretto ad accettare le proposte dell’altra parte. Burnes lasciò Kabul e Lord Auckland, allora governatore generale dell’India, influenzato dal proprio segretario W. Macnaghten, decise di punire Dost Muhammad per ciò che egli stesso lo aveva obbligato a fare. Stabilì di detronizzarlo e di sostituirlo con Sujah Shah, che ormai si trovava sul libro paga del governo indiano. Fu così concluso un trattato con Sujah Shah; questi cominciò a radunare un esercito, pagato e comandato dai britannici, e una forza anglo-indiana fu concentrata sul Sutlej. Macnaghten, con Burnes come suo vice, doveva accompagnare la spedizione in qualità di delegato per l’Afghanistan. Nel frattempo, però, i persiani avevano tolto l’assedio a Herat e così venne a mancare l’unica valida ragione per intervenire in Afghanistan; nel dicembre del 1838, l’esercito marciò quindi sul Sind, regione che fu costretta all’obbedienza e al pagamento di un tributo in favore dei sikh e di Sujah Shah.

L’esercito passa l’Indo

Il 20 febbraio 1839, l’esercito britannico passò l’Indo. Era composto di circa 12.000 soldati, con un seguito di oltre 40.000 persone, oltre alle nuove truppe di Sujah Shah. In marzo fu attraversato il passo di Bolan; iniziò ad avvertirsi la mancanza di provviste e foraggio: i cammelli cadevano a centinaia e gran parte del bagaglio andò perduta. Il 7 aprile l’esercito arrivò al passo di Kojuk, lo attraversò senza incontrare resistenza e il 25 aprile entrò a Qandahar, che i principi afghani fratelli di Dost Muhammad avevano abbandonato. Dopo una sosta di due mesi, il comandante Sir John Keane avanzò verso nord con il corpo principale dell’esercito, lasciando a Qandahar una brigata al comando di Nott. Ghazni, la roccaforte inespugnabile dell’Afghanistan, fu conquistata il 22 luglio, dopo che un disertore ebbe informato i britannici che la porta di Kabul era l’unica a non essere stata murata; di conseguenza la città fu presa d’assalto in quel punto. Dopo questa disfatta l’esercito raccolto da Dost Muhammad sbandò immediatamente, e il 6 agosto si aprirono anche le porte di Kabul. Sujah Shah fu insediato nella sua carica, ma la vera direzione del governo rimase nelle mani di Macnaghten, il quale pagava anche tutte le spese di Sujah Shah attingendo alle casse indiane.

La conquista dell’Afghanistan sembrava compiuta, e così gran parte delle truppe fu rispedita indietro. Ma gli afghani non erano affatto contenti di essere governati dai Feringhee Kaffirs (infedeli europei) e nel corso di tutto il 1840 e del 1841 le insurrezioni si susseguirono in ogni parte del paese. Le truppe anglo-indiane erano sempre all’erta. Tuttavia, Macnaghten dichiarò che per la società afghana si trattava di una situazione normale e inviò dispacci affermando che tutto procedeva bene e che il potere di Sujah Shah si stava consolidando. Fu vano ogni ammonimento dei militari e dei rappresentanti politici. Dost Muhammad, che si era arreso ai britannici nell’ottobre del 1840, fu tradotto in India; tutte le insurrezioni dell’estate del 1841 furono represse con successo e verso il mese di ottobre Macnaghten, nominato governatore di Bombay, si preparò a partire per l’India con un altro contingente militare. Fu allora che scoppiò la tempesta.

L’occupazione dell’Afghanistan costava alle casse indiane 1.250.000 sterline all’anno: si dovevano pagare 16.000 soldati, tra anglo-indiani e truppe di Sujah Shah, di stanza nel paese; poi c’erano altri 3.000 uomini nel Sind e al passo di Bolan; gli sfarzi regali di Sujah Shah, i salari dei suoi funzionari e tutte le spese della corte e del governo, erano coperti dal denaro indiano e, inoltre, da questa stessa fonte si sovvenzionavano, o meglio si corrompevano i capi afghani affinché si tenessero fuori dalla mischia. Essendo stato informato dell’impossibilità di proseguire su questi livelli di spesa, Macnaghten tentò di arginare le uscite, ma l’unico modo praticabile sarebbe stato quello di tagliare gli appannaggi dei capi locali. Il giorno stesso in cui il tentativo fu messo in atto i capi ordirono una congiura diretta allo sterminio dei britannici e, di conseguenza, fu proprio Macnaghten a causare la concentrazione delle forze insurrezionali che fino ad allora avevano lottato isolatamente, senza unità né accordo, contro gli invasori. Tuttavia, è anche certo che, a quel punto, tra gli afghani l’odio per la dominazione britannica aveva raggiunto il suo apice. A Kabul gli inglesi erano comandati da Elphinstone, un anziano generale gottoso, irresoluto e molto confuso, i cui ordini erano perennemente in contraddizione l’uno con l’altro. Le sue truppe occupavano una sorta di accampamento fortificato, talmente esteso che i soldati della guarnigione riuscivano a malapena a coprirne il perimetro, e men che meno avrebbero potuto distaccare qualche unità per il combattimento sul campo.

Assurdità militari

Come se non bastasse, l’accampamento si trovava praticamente a tiro di schioppo dalle alture circostanti e, per coronare l’assurdità di una simile disposizione, tutto il materiale di approvvigionamento e quello sanitario erano depositati in due forti distaccati, a una certa distanza dall’accampamento, al di là di giardini cinti di mura e di un altro fortino non occupato dagli inglesi. Baia Hissar, la cittadella di Kabul, avrebbe potuto offrire all’intero esercito un acquartieramento invernale splendido e sicuro, ma per compiacere Sujah Shah, gli inglesi non ne presero possesso. Il 2 novembre 1841 ebbe inizio l’insurrezione. L’abitazione di Alexander Burnes, nel centro della città, fu assaltata e lui stesso assassinato. Il generale britannico non si mosse e la rivolta crebbe vigorosa grazie all’impunità. Elphinstone, assolutamente incapace di reagire, e in balia dei consigli più contrastanti, fece ben presto precipitare la situazione in quello stato confusionale che Napoleone descriveva con tre parole: ordre, contreordre, désordre. Si continuò a non occupare Baia Hissar. Contro le migliaia di insorti furono mandate alcune compagnie che, naturalmente, furono battute; ciò rese gli afghani ancora più intraprendenti. Il 3 novembre essi occuparono i fortini nei pressi dell’accampamento. Il giorno 9 conquistarono il forte del commissariato, riducendo gli inglesi alla fame. Il 5 Elphinstone aveva già parlato di negoziare un pagamento per lasciare il paese. Verso la metà di novembre la sua indecisione e la sua incapacità avevano talmente demoralizzato le truppe che né i soldati europei né i sepoy (truppe mercenarie indiane comandate da inglesi, ndt) erano ormai in grado di affrontare gli afghani in campo aperto. Quindi iniziarono le trattative, durante le quali, nel corso di una riunione con i capi afghani, Macnaghten fu assassinato. La neve cominciò a cadere, le provviste scarseggiavano. Il 1° gennaio si giunse alla capitolazione. Tutto il denaro, 190.000 sterline, doveva essere consegnato agli afghani, oltre a 140.000 sterline in promesse sottoscritte di pagamento. L’artiglieria e le munizioni, a parte 6 pezzi da sei libbre e 3 cannoni da montagna, dovevano essere lasciate in loco. Tutto l’Afghanistan doveva essere evacuato. I capitribù, da parte loro, promisero un salvacondotto, rifornimenti e bestiame per il trasporto. Il 5 gennaio gli inglesi si misero in marcia con 4.500 soldati e un seguito di 12.000 persone; una marcia durante la quale sparirono anche gli ultimi residui di ordine, con militari e civili che si confondevano in maniera irreparabile rendendo impossibile qualsiasi tipo di resistenza. Il freddo e la neve, e la mancanza di cibo, agirono come durante la ritirata di Napoleone da Mosca. Ma invece che dai cosacchi che si mantenevano a debita distanza, gli inglesi furono incalzati dai furibondi tiratori scelti afghani piazzati su ogni altura e armati con fucili a miccia a lunga gittata. I capi che avevano firmato la capitolazione non potevano né volevano tenere sotto controllo le tribù montane. Il passo di Kurd-Kabul divenne così la tomba di quasi tutto l’esercito, e i pochi superstiti (tra cui meno di 200 europei) caddero all’ingresso del passo di Jugduluk. Un solo uomo, il dottor Brydon, riuscì a raggiungere Jalalabad e a raccontare ciò che era accaduto. Molti ufficiali, tuttavia, erano stati catturati dagli afghani e fatti prigionieri. Jalalabad era presidiata dalla brigata di Sale. Gli fu intimata la resa, ma egli rifiutò di abbandonare la città; lo stesso fece Nott a Qandahar. Ghazni era caduta; in città non c’era nessuno che s’intendesse di artiglieria, e i sepoy della guarnigione avevano ceduto a causa delle condizioni climatiche.

Nel frattempo, appena venute a conoscenza della disfatta di Kabul, le autorità britanniche di stanza lungo la frontiera avevano concentrato a Peshawar alcune truppe destinate a portare soccorso ai reggimenti in Afghanistan. Ma mancavano i mezzi di trasporto e i sepoy caddero ammalati in gran numero. In febbraio il comando fu assunto dal generale Pollock, il quale ricevette nuovi rinforzi alla fine di marzo del 1842. Egli quindi si aprì la strada attraverso il passo di Khaybar e puntò su Jalalabad per andare a soccorrere Sale.

Riguadagnare l’onore nazionale

Lord Ellenborough, nuovo governatore generale dell’India, ordinò l’immediato ritiro delle truppe, ma sia Nott sia Pollock addussero come scusa la mancanza di mezzi di trasporto. Infine, ai primi di luglio l’opinione pubblica in India costrinse Lord Ellenborough a prendere provvedimenti per riguadagnare l’onore nazionale e il prestigio dell’esercito britannico; egli quindi autorizzò l’avanzata su Kabul da Qandahar e da Jalalabad. Verso la metà di agosto Pollock e Nott si accordarono sui rispettivi movimenti e il giorno 20 Pollock mosse verso Kabul; raggiunse Gundamuk, sbaragliò un corpo di afghani il 23, superò il passo di Jugduluk l’8 settembre, sconfisse le truppe nemiche riunite a Tezin il 13 e si accampò il 15 sotto le mura di Kabul. Nott nel frattempo aveva lasciato Qandahar il 7 agosto, dirigendosi a Ghazni con tutti gli uomini a sua disposizione. Dopo alcuni scontri di minore entità, sgominò un notevole contingente di afghani il 30 agosto, prese possesso il 6 settembre di Ghazni, che era stata abbandonata dal nemico, distrusse le fortificazioni della città, sconfisse nuovamente gli afghani nella loro roccaforte di Alydan e il 17 settembre giunse nei pressi di Kabul, dove si mise in contatto con Pollock.

Sujah Shah era stato assassinato già da tempo da un capotribù e, da quel momento in poi, l’Afghanistan non aveva avuto alcun governo regolare, anche se nominalmente il re era Futteh Jung, il figlio di Sujah Shah. La distruzione del bazar di Kabul fu decisa come atto di ritorsione e in tale circostanza i soldati saccheggiarono parte della città e massacrarono numerosi civili. Il 12 ottobre i britannici lasciarono Kabul e marciarono, attraverso Jalalabad e Peshawar, in direzione dell’India. Futteh Jung, disperando per la sua sorte, si unì a loro. Dost Muhammad fu liberato e fece ritorno nel suo regno. Così si concluse il tentativo dei britannici di creare con le loro mani un sovrano per l’Afghanistan.

(Scritto nel mese di luglio e nella prima decade di agosto del 1857. Pubblicato in The New American Cyclopœdia, vol. I, 1858)

La seconda lettura

AUTOSTRADE ED ENERGIA: COSÌ LA CINA SI COMPRA I TALEBANI

Il progetto di Pechino: allungare all’Afghanistan il corridoio Cina-Pakistan. Con tanti saluti agli Usa

di Marco Lupis

Nel novembre del 1982, l’allora presidente cinese Deng Xiaoping disse: “I problemi in Afghanistan sono di importanza strategica globale. Cina e Afghanistan hanno un confine comune. Pertanto, l’Afghanistan rappresenta una minaccia che potrebbe circondare, anche geograficamente, la Cina”.

Certamente, la situazione di entrambi i paesi – e soprattutto quella della nuova superpotenza cinese – è radicalmente cambiata dai tempi del grande riformista Deng, ma non l’interesse e l’estrema attenzione verso l’area afgana, e nei confronti di ciò che accade in quello che oggi è conosciuto come “Il Paese dei barbuti”: i Talebani. La massiccia offensiva delle ultime ore, che ha visto il gruppo estremista islamico riconquistare pezzo dopo pezzo, territorio dopo territorio, città dopo città, larghe parti dell’Afghanistan, ha riportato di estrema attualità il ruolo di Pechino negli equilibri geopolitici dell’Asia centrale, una parte di Mondo sulla quale la Cina ha sempre cercato di estendere il proprio controllo. E non ha mai nascosto le proprie ambizioni in tal senso.

In realtà, Il confine che la Cina divide con l’Afghanistan è il più breve tra i confini che il paese – ormai nuovamente in mano ai Talebani – spartisce con altri 5 suoi vicini: Iran, Pakistan, Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan. Tuttavia, questo breve confine di soli 90 chilometri (Wakhan Corridor), difficile da attraversare a causa delle condizioni del terreno, potrebbe essere la prima regione in cui si concretizzerà la nuova ondata di radicalizzazione. I talebani, che dopo il ritiro degli Usa controllavano circa due terzi del Paese, ormai hanno raggiunto il confine montuoso con la Cina, dominando la provincia di Badakhshan.

I colloqui tra il governo afghano e le squadre negoziali talebane, iniziati lo scorso settembre, hanno fatto scarsi progressi oltre a quello che i media hanno annunciato come una ” svolta ” nel dicembre 2020, che stabilisce regole e procedure. Da allora, mentre le parti si sono incontrate più volte, non è stata concordata un’agenda reciproca e i talebani hanno continuato ad accumulare successi militari. A fine luglio, i rappresentanti del governo afghano e dei talebani si sono incontrati di nuovo a Doha ma ancora una volta non sono riusciti a compiere progressi.

Ma il fallimento dei colloqui di Doha è passato in secondo piano rispetto alla frenetica attività del capo negoziatore dei talebani, il mullah Abdul Ghani Baradar, che di recente ha incontrato il ministro degli Esteri cinese Wang Yi a Tianjin. L’incontro di Baradar con Wang è arrivato solo due giorni dopo la visita nella stessa città del vicesegretario di Stato americano Wendy Sherman, per quelli che si sono rivelati ennesimi colloqui inconcludenti. E il ministero degli Esteri cinese ha subito dichiarato che “Il ritiro precipitoso delle truppe statunitensi e della NATO dall’Afghanistan segna in realtà il fallimento della politica statunitense nei confronti di quel Paese”. Il capo della diplomazia di Pechino, Wang, ha sottolineato che “i talebani afghani sono un’importante forza militare e politica in Afghanistan e si prevede che svolgano un ruolo importante nel processo di pace, riconciliazione e ricostruzione del Paese”. Mentre da parte sua, il mullah Baradar avrebbe assicurato alla Cina che i talebani afghani “non avrebbero mai permesso a nessuna forza di utilizzare il territorio afghano per compiere atti dannosi per la Cina”. Sembrerebbero tutti elementi per un nuovo “idillio” tra Pechino e i feroci estremisti Barbuti, ma è effettivamente così?

Di fatto la Cina sta cercando di trovare un modo per prevenire l’instabilità ambientale e la minaccia terroristica che potrebbe diffondersi nel suo territorio attraverso l’Afghanistan: un’aspirazione che hanno coltivato in molti, ma che sicuramente Pechino non vorrebbe attuare attraverso un’azione militare, ben consapevole che tutti gli attori che sono intervenuti militarmente fino ad oggi in Afghanistan hanno fallito, consentendo al Paese di guadagnarsi la reputazione di “cimitero degli imperi”.

L’amministrazione di Pechino desidera migliorare l’economia e la prosperità della regione sviluppando relazioni commerciali con il Paese dei Barbuti e avviando progetti infrastrutturali. In questo modo, pur aumentando la sua influenza, la Cina eviterà i rischi di un’operazione militare. L’interesse del Dragone infatti – come accadde ormai da tempo in qualsiasi contesto e scenario internazionale – è prettamente economico. Pechino vuole realizzare in Afghanistan qualcosa di simile al Corridoio Economico Cina-Pakistan, o quantomeno estendere questo corridoio fino a Kabul, così da garantire i propri rilevanti interessi nel Paese – in costante aumento attraverso lo sviluppo di importanti progetti – e garantire la sicurezza di una sperata “tappa afgana” dell’attraversamento est-ovest utile allo sviluppo del grande progetto della Nuova Via della Seta. Di conseguenza, la stabilità dell’Afghanistan agli occhi della Cina è la chiave principale per il successo dei progetti di infrastrutture energetiche e di trasporto nelle regioni economiche dell’Asia meridionale e centrale. Per questo motivo, di recente, i funzionari cinesi hanno rilasciato importanti dichiarazioni, che mostrano la loro volontà di estendere il corridoio economico Cina-Pakistan all’Afghanistan nell’ambito appunto della Belt and Road Initiative.

Pechino prevede di investire in Afghanistan in molti settori, soprattutto nelle risorse sotterranee e nel potenziale idroelettrico, e nelle sue dichiarazioni, il portavoce dei talebani Süheyl Şahin ha affermato senza mezzi termini che i talebani accoglierebbero con favore gli investimenti della Cina in Afghanistan, suggerendo così la concreta possibilità di un significativo riavvicinamento tra Cina e Talebani in quest’area.

Con la sua Belt and Road Initiative (BRI), quindi, la Cina è pronta a entrare in esclusiva nell’Afghanistan post-americano. Secondo i rapporti di intelligence più credibiili, le autorità di Kabul stanno intensificando il loro impegno con la Cina per l’estensione del Corridoio economico Cina-Pakistan da 62 miliardi di dollari (CPEC), il progetto di punta della BRI. Il progetto prevede la costruzione di autostrade, ferrovie e condutture energetiche tra il Pakistan e la Cina, fino all’Afghanistan. In particolare, sul tavolo ci sarebbe la costruzione di una strada principale sostenuta dalla Cina tra l’Afghanistan e la città nordoccidentale del Pakistan, Peshawar, che è già collegata alla rotta CPEC: Collegare Kabul a Peshawar su strada significherebbe infatti l’adesione formale dell’Afghanistan al CPEC.

La Cina intende collegare l’Asia con l’Africa e l’Europa tramite reti terrestri e marittime che coprono 60 paesi come parte della sua strategia BRI. La strategia non solo promuoverebbe la connettività interregionale, ma aumenterebbe anche l’influenza globale della Cina al costo stratosferico – ma perfettamente gestibile dalla gigantesca economia cinese – di 4 trilioni di dollari. Grazie alla sua posizione, l’Afghanistan può fornire alla Cina una base strategica per diffondere la sua influenza in tutto il mondo, situato com’è in una posizione ideale per fungere da hub commerciale che collega il Medio Oriente, l’Asia centrale e l’Europa.

Appare chiaro che, per realizzare i suoi ambiziosi piani economici, Pechino ha bisogno di pace e stabilità nella Regione, e in particolare proprio in Afghanistan.

Con ogni evidenza, però, nella partita afgana Pechino ha anche un’altra ambizione, meno “materialistica”: vuole dimostrare che la sua ideologia e le sue politiche possono portare stabilità anche nelle geografie più impegnative del mondo, sviluppando economicamente e rendendo stabile l’Afghanistan, proprio laddove gli stati occidentali, in particolare gli Usa, hanno completamente fallito. Quello afgano, insomma, sarebbe un tassello di primaria importanza nella vasta strategia di Soft-power del Dragone.

Xi Jinping ha dichiarato questa strategia fin dal 2014 quando, partecipando alla “Conference on Cooperation and Confidence-Building Measures in Asia”, disse: “I problemi dell’Asia dovrebbero essere risolti dagli asiatici in ultima istanza e la sicurezza dell’Asia dovrebbe essere garantita da asiatici”.

E gli americani [gli Stati Uniti d’America, mia precisazione LL], staranno a guardare?

 

 

La terza lettura

AFGHANISTAN. FALLIMENTO POLITICO-MILITARE MA ANCHE IDEOLOGICO

di Alberto Negri

Il fallimento in Afghanistan? Politico-militare ma anche ideologico. Dopo i sovietici, i talebani hanno sconfitto anche gli occidentali, pur con importanti differenze. E ora costruiranno l’Emirato II, con nuovi partner e una nuova struttura statale. Per capirne qualcosa di più, Ventuno ne ha parlato con Alberto Negri, giornalista tra i massimi esperti di esteri, che conosce l’Afghanistan – dove è stato una dozzina di volte a partire dagli anni ’80 – come le sue tasche. Editorialista de Il Manifesto, quotidiano che ha compiuto 50 anni, Negri è stato a lungo inviato di guerra per Il Sole 24 Ore, seguendo in prima linea, tra le altre, le guerre nei Balcani, in Somalia, in Afghanistan e in Iraq.

Cosa sta succedendo in Afghanistan?

«Per dirlo in maniera dettagliata bisognerebbe essere sul posto. Abbiamo sempre un taglio della realtà afghana che proviene soprattutto da Kabul, la capitale. Sappiamo poco, però, di quello che accade nelle province. Questo è un limite dell’informazione attuale che ci dovrebbe far riflettere, perché la storia dell’Afghanistan non è solo quella di una guerra sbagliata, ma anche di una narrativa sbagliata. Per esempio si ignora che i talebani controllavano già il 40-50% del territorio quattro-cinque anni fa. Soprattutto nelle province. Questo spiega perché c’è stata una loro rapida avanzata, dovuta ovviamente alla dissoluzione dell’esercito nazionale afghano, ma anche al fatto che in questi anni i talebani hanno consolidato la loro presenza, stando molto più attenti che in passato ai rapporti con la popolazione civile».

Come?

«Il Mullah Baradar, che ha rappresentato i talebani nel negoziato di Doha e che gli americani conoscono benissimo – fu arrestato nel 2010, tenuto in prigione in Pakistan fino al 2018 e liberato su richiesta degli stessi americani – è autore di un codice di comportamento in cui si chiedeva ai combattenti di non fare attentati o azioni militari che mettessero troppo a rischio la popolazione civile innocente. Questo ha aiutato a consolidare il movimento talebano, che poi ha allargato le sue alleanze, anche superando in alcuni casi alcune barriere etniche settarie che hanno sempre contraddistinto l’Afghanistan. La sconfitta del 2001 è stata la sconfitta non solo dell’Emirato, ma anche dei pashtun, cioè dell’etnia maggioritaria (con il 40%) dell’intero Paese. Questa è un po’ la rivincita anche da quella disfatta di 20 anni fa».

Qual è la narrativa sbagliata?

«Avere scambiato Kabul, Herat o Mazar-i-Sharif per tutto l’Afghanistan. Molte donne afghane in questi vent’anni avevano potuto tornare a scuola o entrare in politica, ma molto spesso nelle province le donne afghane hanno continuato a vivere secondo regole tradizionali oscurantistiche che hanno dominato la vita dell’Afghanistan nei secoli. E non solo con i talebani. Inoltre, si è pensato alla modernizzazione del Paese ma rivolgendosi soprattutto a un’élite politico-economica che poi ha dato vita a governi altamente corrotti. Questo, uno degli aspetti più superficiali della politica americana e occidentale in Afghanistan, ha determinato il fatto che la stragrande maggioranza degli afghani rimanesse fuori dal circuito economico e dalle aspirazioni a una vita migliore di un popolo che vive con un dollaro e mezzo al giorno. Ecco perché non solo si è disgregato l’esercito nazionale, ma addirittura le nuove generazioni afghane – su cui gli occidentali pensavano di puntare – alla fine hanno invece appoggiato i talebani. E non hanno fatto alcuna resistenza alla loro avanzata. Quindi la sconfitta americana e occidentale in Afghanistan non è solo militare ma anche ideologica, perché il processo di modernizzazione è completamente fallito. E oggi i jihadisti possono vantare due vittorie in 40 anni contro due superpotenze: una contro i sovietici, cioè contro il comunismo con l’appoggio degli americani, l’altra contro il sistema liberal-capitalistico».

Questa è stata una guerra sbagliata, quindi?

«Sono sempre sbagliate tutte le guerre che non si possono vincere. E soprattutto sono sbagliate le guerre che nella propaganda occidentale mirano a esportare la democrazia, ma dove nella realtà dei fatti c’è ben altro».

Ecco. Cos’altro c’è, nella realtà dei fatti?

«La missione del 2001 avrebbe dovuto “vendicare” l’11 settembre. Se si fosse limitata a quello, puntando soprattutto su Al Qaeda, si sarebbero risparmiati molto tempo e molti morti. Invece si è pensato, abbattendo il regime dei talebani, di imporre un modello occidentale a un Paese che ha rifiutato questi modelli e li aveva già rifiutati nella storia. In realtà, gli americani avevano pensato di mettere una postazione strategica nel cuore dell’Asia, ai confini con l’Iran e con la Cina, nell’area di influenza della Russia e vicino al Pakistan, paese che ha creato i talebani – con il governo di Benazir Bhutto – come strumento di penetrazione in Asia centrale. Erano in Pakistan, non a caso, i generali che avevano i contatti con i talebani e con Osama Bin Laden: io ho intervistato capi talebani e jihadisti in clandestinità, nella lista nera degli Usa, alla periferia di Islamabad, non di Kabul. Quindi è stata un’operazione sbagliata anche da quel punto di vista!»

Che Afghanistan vedremo con questo Emirato II?

«Mentre il primo Emirato – che aveva la sua capitale a Kandahar – lo conoscevamo poco e male, questo secondo lo conosciamo perfettamente. Gli americani ci hanno combattuto per anni contro e poi ci hanno trattato a Doha. Oltretutto questo secondo Emirato ha una rete di relazioni internazionali molto più estesa del precedente. A trattare con i talebani in Qatar andavano turchi, iraniani, russi, cinesi… Non stupisce infatti che questi paesi abbiano ancora le ambasciate perfettamente funzionanti. Questo Emirato probabilmente sarà radicale nei metodi e nell’ideologia, come il precedente, ma più pragmatico nei rapporti internazionali».

Perché?

«Perché dovrà governare il Paese. Dovrà assicurare la stabilità e il controllo sul territorio, ma dovrà anche far funzionare la macchina statale. E per questo servono i soldi. Finora i soldi arrivavano da statunitensi ed europei».

E ora quali saranno i partner dei talebani?

«La Cina è uno dei partner più probabili dal punto di vista economico. Con la Via della Seta sta investendo dozzine di miliardi di dollari in Pakistan (il maggior alleato dei talebani) e in Iran, ha già investito nelle miniere in Afghanistan ed è politicamente interessata acché gli afghani non destabilizzino la popolazione musulmana degli uiguri nel confinante Xinjiang».

Quali altri?

«La Russia vorrà avere la sua influenza. Poi l’Iran, che ha incontrato e forse appoggiato più volte i talebani e che ora si aspetta un comportamento più corretto nei confronti della popolazione afghana sciita. Poi ci sono i paesi arabi del Golfo: prima di tutto gli Emirati Arabi Uniti (già oggi il maggior partner commerciale dell’Afghanistan), il Qatar e l’Arabia Saudita. Su di loro i talebani puntano per fare cassa».

Come potrà essere strutturato questo Emirato II?

«Il primo ruotava intorno alla figura carismatica del Mullah Omar. Questo è un po’ diverso, perché non c’è un leader carismatico. C’è un leader, l’emiro Akhundzada, che è capo politico-militare ma anche religioso. Poi c’è una parte più pragmatica, costituita da suoi vice: Baradar, la rete Haqqani, Yaqoob (il figlio del Mullah Omar) … Quindi si può delineare una struttura in due modi: un capo supremo e una struttura di governo che si occupa delle questioni politiche e di gestione del Paese, un po’ all’iraniana».

In questi giorni si parla molto della condizione delle donne e si vedono immagini dell’esperienza socialista afghana di alcuni decenni fa, con donne a viso completamente scoperto per esempio, che stridono con la situazione attuale…

«La presenza sovietica in Afghanistan è stata molto forte ed è durata a lungo, anche negli anni ’60-’70. Il partito comunista afghano (il Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan) nel 1979 chiese aiuto all’Urss, che invase l’Afghanistan il 24 dicembre 1979 per sostenere la guerra contro i mujaheddin allora sostenuti dagli Stati Uniti, dall’Arabia Saudita e dal Pakistan. C’erano già dei forti piani di modernizzazione all’epoca, prima dell’intervento dell’Urss: la riforma agraria e dell’istruzione per esempio. L’attuale università di Kabul è a forma di stella rossa! In quell’università era da vent’anni che andavano a studiare non solo gli uomini ma anche le donne, che giravano a capo scoperto e persino con la minigonna. Nel 1975 a Kabul ci fu il primo concerto rock dell’Asia centrale! Se è vero che i russi furono costretti a ritirarsi nel 1989, il governo afghano resistette per tre anni prima di cadere, fino al 1992. Poi le truppe dei mujaheddin entrarono a Kabul e impiccarono l’ex presidente Najibullah a un lampione».

Questo cosa ci dice di oggi?

«Allora, come in questi ultimi 20 anni, anche i russi puntarono a creare un’élite per tenere in piedi lo stato afghano. Ma quell’élite era molto più convinta, coesa e larga di quella creata dagli americani, altrimenti quel governo non sarebbe resistito da solo, senza l’aiuto di Mosca, per tre anni. Invece la modernizzazione applicata negli ultimi 20 anni si è sciolta come neve al sole, perché questa élite è subito scappata e non ha difeso le istituzioni impiantate dagli occidentali».

Ci sono coincidenze tra la fuga da Saigon, in Vietnam, nel 1975 e quella di questi giorni da Kabul?

«No. L’apparenza delle immagini ci fa sfuggire tantissime differenze. Innanzitutto quella guerra fu combattuta dagli Usa con un esercito di leva e ci morirono decine di migliaia di soldati americani. La guerra in Afghanistan invece non ha coinvolto gli americani emotivamente. Contro la guerra in Vietnam, poi, c’era un grande coinvolgimento nelle proteste, anche qui in Italia. Per l’Afghanistan quante manifestazioni si sono viste?»

Le colture di oppio erano state quasi azzerate prima dell’intervento degli Usa del 2001. Poi è andata diversamente…

«Oggi la produzione è 10-12 volte superiore a quella del primo Emirato talebano, con un’estensione quasi pari a quella della Lombardia. La produzione di oppio è una delle basi “economiche” del Paese, oltre all’estrazione mineraria. In Afghanistan ci sono diversi minerali che fanno gola alla Cina».

Si può dire, in definitiva, che la guerra in Afghanistan è il più grosso fallimento della Nato?

«L’Alleanza atlantica, a dispetto del nome, è andata a fare guerre ben lontane, ma gli errori non finiscono. Ora la missione Usa in Iraq sarà sostituita da una missione Nato, il cui prossimo comando sarà preso dall’Italia. Il fallimento Usa e Nato in Afghanistan dovrebbe far riflettere su come noi accettiamo supinamente missioni militari e guerre senza mai opporci».

Chi si opponeva era Gino Strada, morto pochi giorni fa.

«Gli ipocriti che hanno incensato Gino Strada in questi giorni sono gli stessi che sostennero gli interventi militari americani nel 2001 e soprattutto nel 2003, oltretutto sulla base della fake news più colossale della storia: le armi di distruzione di massa che non vennero mai trovate. Cosa andiamo a fare in queste guerre? A esportare la democrazia? I diritti umani? Questi argomenti sono ridicoli, servono a giustificare le cannonate su interi paesi che potremmo aiutare senza sparare un colpo».

Come?

«Per esempio con aiuti alla cooperazione, con aiuti sanitari o con aiuti nel campo dell’istruzione. In Afghanistan è difficile andare a scuola non solo per le ragazze ma anche per i ragazzi, perché il sistema scolastico statale è completamente crollato in questi 20 anni. E dove andavano a studiare i ragazzi? Nelle madrasse, le scuole islamiche. Ecco un altro motivo che ci spiega perché i talebani hanno fatto larga propaganda. L’Afghanistan è il motore concreto dei fallimenti successivi: in Iraq, in Libia, in Siria etc. Queste guerre mascherate da interventi umanitari hanno ridotto intere regioni nel caos. La “strategia del caos” l’ha teorizzata Hillary Clinton da Segretario di Stato Usa. E gli effetti di questi disastri li vediamo qui nel Mediterraneo».

 

La NATO riprende il vantaggio nel suo braccio di ferro con l’UE, di HajnalkaVincze

Proseguiamo ad approfondire il tema cruciale della politica estera e di difesa del mondo occidentale. Il link dei precedenti articoli: http://italiaeilmondo.com/2021/08/12/stati-uniti-nato-e-unione-europea-lillusione-di-un-addio-il-miraggio-dellautonomia_di-giuseppe-germinario/

http://italiaeilmondo.com/2021/08/12/il-modo-giusto-per-dividere-cina-e-russia-washington-dovrebbe-aiutare-mosca-a-lasciare-un-cattivo-matrimonio-di-charles-a-kupchan/

Qui sotto un interessante e documentato saggio, con testo originale in calce, sulle dinamiche in via di trasformazione tra la NATO e la UE. Molto accurato e del tutto condivisibile tranne che per l’auspicio irrealizzabile che la Unione Europea sia lo sbocco naturale di una politica autonoma di difesa. La traduzione e l’impaginazione non sono perfette. Il tempo disponibile è poco. I contenuti meritano sicuramente una dose aggiuntiva di pazienza vista la scarsità di testi critici ma documentati sull’argomento. Buona lettura_Giuseppe Germinario

La NATO riprende il vantaggio nel suo braccio di ferro con l’UE
Hajnalka
Vincze  https://hajnalka-vincze.com/list/etudes_et_analyses/600-lotan_reprend_lavantage_dans_son_bras_de_fer_avec_lue
Senior Fellow presso il Foreign Policy Resarch Institute (FPRI)

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Non abbiamo mai parlato così tanto e così pubblicamente di autonomia strategica europea come durante l’anno 2020, e raramente in precedenza i limiti politici di detta autonomia erano
apparsi anche senza mezzi termini. Un paradosso ampiamente in linea con l’oscillazione della postura americana: mentre sotto l’amministrazione Trump, anche il più atlantista degli europei
non poteva più sfuggire a una certa consapevolezza, dopo l’arrivo dell’amministrazione Biden, invece, gli sforzi sono mirati soprattutto per provvedere che nelle relazioni transatlantiche
cambiasse solo il tono. Con il brutale passaggio tra il “cattivo ragazzo” Donald Trump e il “benevolo” Joseph Biden, le costanti sono tanto più evidenti. Il comportamento degli europei
appare per quello che è, di una ossequiosità infallibile e comunque davanti all’alleato americano. Sotto Trump, si fanno concessioni per paura, per placare il presidente degli Stati Uniti, sotto Biden, è per sollievo, per ringraziarlo di non non mettere in discussione apertamente i fondamenti della
alleanza.
Lo sviluppo parallelo, nel periodo 2021-2022, di due documenti chiave – la bussola strategica dell’UE e il nuovo concetto strategico della NATO – sarà quindi fatto alla luce di questa esperienza recente. Entrambi testimoniano lo stesso tentativo di “Adattamento” al nuovo ambiente internazionale, segnato dalla ricerca di un modus vivendi, finora non trovato, tra gli sforzi dell’autonomia europea e la leadership americana ereditata dalla Guerra Fredda. Il tutto in un contesto caratterizzato dal risorgere dell’idea di autonomia: dal
Strategia globale dell’UE che ne ha fatto il suo principio guida nel 2016 fino alla nuova Commissione che si autodefinisce “Geopolitica”
2
. Il prestigioso istituto di ricerca paneuropeo, il Consiglio europeo per le relazioni internazionali (European Council on Foreign Relations: ECFR), aveva avviato, nell’estate 2018, un programma su “Sovranità europea” e autonomia strategica. Da allora non contiamo più le analisi e i discorsi dedicati a questo argomento. Quello che un tempo era il termine tabù per eccellenza, è diventata la parola d’ordine di cui parliamo sempre.
La pandemia di coronavirus ha rafforzato questa tendenza aggiornando vulnerabilità europee nude di ogni tipo; tanti segni di avvertimento sui pericoli della dipendenza. A prima vista, questa evoluzione dovrebbe portare a un riequilibrio tra le due parti dell’Oceano Atlantico: un’acquisizione europea che andrebbe insieme a una rifocalizzazione sugli elementi essenziali della NATO.

Guardando bene gli sviluppi concreti, nulla è però meno certo.
Da un lato, l’Alleanza Atlantica aggiunge ai suoi attributi militari una dimensione politica che sconfina sempre più nella libertà di manovra dell’Unione e dei suoi Stati membri. Dall’altro, il
il concetto di autonomia strategica europea si sta allontanando gradualmente dal dominio militare: un aggiornamento benvenuto e quanto mai necessario, ma che, nelle presenti circostanze, può venire al costo di una diluizione della base originale. Quegli sviluppi simultanei portano al perpetuarsi di una situazione malsana: una disalleanza transatlantica dove gli europei figurano non alleati per convinzione ma alleati per debolezza.
1- La marcia in avanti della NATO
Le linee principali dello sviluppo futuro dell’Alleanza sono sviluppate nel rapporto intitolato NATO 2030: United for a nuova era3, che servirà da base per le proposte del Segretario Generale per il nuovo Concetto Strategico (l’ultimo risale al 2010). Il think tank responsabile della stesura del rapporto era in sintonia con i tempi: i dieci partecipanti sono stati scelti con cura irreprensibile: cinque uomini e cinque donne… (N.B. Stati Uniti, Francia, Germania, Regno Unito e la Turchia hanno lasciato ad altri la gloria di far vibrare lo spirito di parità). In ogni caso, la riflessione tra alleati ha uno solo di importanza molto relativa. L’ex ministro degli Esteri Hubert Védrine, in rappresentanza della Francia, ha descritto il risultato come un “buon compromesso”. Il che significa, in termini diplomatici, che le proposte americane non furono prese alla lettera, ma leggermente riformulate. Lo stesso Védrine ha ammesso: “Ho potuto verificare quanto le idee francesi fossero isolate all’interno dell’Alleanza Atlantica”
1
. In effetti, il rapporto conferma solo le tendenze già all’opera su iniziativa degli Stati Uniti.
11- Un’espansione a tutto campo.
È soprattutto un’estensione di competenze allo stesso tempo negli aspetti geografici e funzionali dell’Alleanza Atlantica2
. Il rapporto
La NATO 2030 considera già i problemi posti da “Una Russia ostinatamente aggressiva” e “l’ascesa della Cina “. Alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco nel 2021, il segretario generale della NATO inserisce formalmente la Cina al primo posto delle sfide3. Jens Stoltenberg dice, non senza ragione,
che “la Cina è una sfida per tutti gli alleati”, ma lo è per confermare che, quindi, “la NATO è ancora più importante di prima “4.

Tuttavia, a meno che tu non voglia fare un remake della guerra fredda – con gli europei in un ruolo ausiliario di fronte a un avversario che non è nemmeno, questa volta, nella loro prossimità
immediato – risulta difficile capire perché. Consultazione tra alleati sarebbe utile, anche il coordinamento tra le politiche sovrane dove è fattibile, ma per questo la NATO guidata dagli Stati Uniti non è certamente l’altoparlante ideale.
Il rapporto NATO 2030 sostiene anche il continuo rafforzamento di competenze dell’Alleanza in campi così diversi e vari come clima, comunicazione, pandemie, energia e spazio. Nel luglio 2018, gli alleati europei hanno già concordato “consultazioni regolari” e un ruolo rafforzato per la NATO
in termini energetici, anche se l’oggetto del gasdotto Nord Stream 2 ha evidenziato, per anni, il conflitto tra interessi europei e americani in questo settore1
. In dicembre 2019, per assicurarsi ulteriormente le grazie del presidente Trump, gli alleati hanno riconosciuto, su insistenza degli Stati Uniti, lo spazio esterno come un ambiente operativo della NATO2.

Dettaglio gustoso: il nuovo Centro di Eccellenza NATO per lo spazio sarà situato a Tolosa -nell’edificio dedicato al futuro centro operativo del comando spaziale militare (CDE) nazionale, entro il 2025.
Una situazione che ricorda quella del Comando Centro di trasformazione della NATO (ACT) con sede a Norfolk, Virginia nel 2003, nelle immediate vicinanze del Comando delle forze congiunte statunitensi. Questo comando nazionale americano era responsabile di sviluppare, per gli Stati Uniti, i concetti e le dottrine “Trasformazionale” – ma la co-locazione ha solo rafforzato la sua influenza decisiva sul lavoro della NATO. La dinamica dello scenario, visto l’equilibrio di forze, rischia di ripetersi in direzione opposta a Tolosa. Il Centro di eccellenza della NATO sarà
sotto una forte influenza americana – come a Tallinn dove il Centro per la difesa informatica è sotto costante pressione per adottare standard e progetti d’oltreAtlantico.3
La vicinanza al centro spaziale della NATO, responsabile dello sviluppo di dottrine e convalida di concetti, rischia di essere come il tarlo nel frutto e influenzare il lavoro del CDE francese. Non senza evocare lo spettro di una “fagocitosi concettuale e teorica”» di cui ha parlato Hubert Védrine nella sua relazione al Presidente sul ritorno della Francia nelle strutture NATO integrate4
.
La Francia potrebbe, ha detto, “mescolarsi” con il pensiero della Nato e perdere la propria capacità di riflessione e di analisi. è un rischio anzi – per la Francia come per gli europei nel suo insieme – in tutte le aree che l’Alleanza decide attirare nel suo campo. Tuttavia, un numero crescente di settori è
nel suo mirino. Secondo il Segretario Generale: “La NATO dovrebbe
effettuare consultazioni più ampie, anche su questioni importanti per la nostra sicurezza, ma che non sempre sono puramente militari. Ad esempio, problemi economici che hanno chiare conseguenze sulla sicurezza sono aspetti sui quali ci dovremmo consultare”. Con questo in mente, sarebbe necessario, secondo lui, «convocare non solo i ministri della difesa, ministri degli esteri e capi di stato e governo come facciamo regolarmente, ma anche, per esempio, consiglieri per la sicurezza nazionale, ministri dell’interno, al fine di ampliare l’agenda della NATO e rafforzare le consultazioni all’interno dell’Alleanza”1

12- Una camicia di forza politica
Non contento di estendere le proprie competenze a nuove aree aree geografiche (soprattutto l’Indo-Pacifico) e nuovi settori (come lo spazio e l’energia), l’Alleanza interferisce sempre di più direttamente anche nelle politiche interne degli Stati membri. Il Segretario Generale della NATO si è arrogato il diritto di intervenire nella controversia tra i partiti della coalizione di governo in Germania sull’uso (o meno) dei droni armati, dichiarando: “Questi droni [armati] possono supportare le nostre truppe sul campo e, ad esempio, ridurre il numero di piloti che stiamo mettendo in pericolo”
2
Più in generale, con l’arrivo dell’amministrazione Biden l’idea finora congelata di una NATO per monitorare il rispetto dei “valori” democratici “negli Stati membri è ancora una volta rilevante.
Il Centro per la resilienza democratica è stato offerto nel 2019 in una relazione dell’Assemblea parlamentare della NATO, firmata dal deputato democratico degli Stati Uniti Gerald Connolly, allora presidente della delegazione americana e da allora è diventato presidente dell’assemblea. Egli afferma: “Le minacce ai valori della NATO provengono non solo dai suoi avversari. Movimenti politici con scarso rispetto per le istituzioni della democrazia o lo stato di diritto stanno guadagnando slancio in molti paesi membri dell’Alleanza. Questi movimenti sostengono la preferenza nazionale alla cooperazione internazionale. Le democrazie liberali sono minacciate da movimenti e personaggi politici ostili all’ordine costituito che si trovano a destra e sinistra nello spettro politico”. Il rapporto suggerisce quindi che “la NATO deve dotarsi dei mezzi necessari a
rafforzare i valori in questione nei paesi membri”, istituendo “un centro di coordinamento della resilienza democratica”
1
.
L’idea sta prendendo forma. Un mese dopo l’assunzione della funzione di presidente di Biden, Connolly insiste: “Dobbiamo rafforzare e proteggere costantemente la democrazia contro chi tenta di indebolirla – sia all’interno che all’esterno. La NATO ha un meccanismo ben oliato incentrato su
questioni militari, ma manca un corpo che sia interamente dedito alla difesa della democrazia. Deve
cambiare ”
2
. L’Assemblea finì per costituire un gruppo di lavoro dedito alla creazione di questo “centro NATO per la resilienza democratica”
3
.
Il concetto è presente anche nel rapporto NATO 2030, ma questo va oltre e considera tutti i tipi di differenze politiche – interno ed esterno – tra alleati così come problematico: “Differenze politiche all’interno della NATO rappresentano un pericolo perché consentono ad attori esterni, e più in particolare alla Russia e alla Cina, di continuare a giocare nei dissensi interni e nelle manovre con alcuni paesi tra i membri dell’Alleanza in un modo che compromette la sicurezza e gli interessi collettivi. »Le differenze quindi non si vedono neanche come espressione di situazioni geografiche, tradizioni, scelte elettorali storiche diverse, ma come pericoloso disallineamento. E il rapporto conclude: “Perché possano le sfide del prossimo decennio essere vinte, tutti gli alleati devono inequivocabilmente fare del mantenimento della coesione una priorità politica, che modella il loro comportamento, anche a prezzo di eventuali vincoli”1.

13 – Un’integrazione sempre più stretta
Per incoraggiare questa disciplina, si fa appello a ciò che l’anziano ambasciatore di Francia presso l’Alleanza identifica come “la logica integrazionista a cui la Nato è spesso incline”.
2
Detta logica si è ritirata durante gli anni di Trump ma sta facendo un forte ritorno oggi in due aree in particolare:
rafforzamento dei finanziamenti in comune e flessione della regola del consenso, con il pretesto dell’efficienza. Quanto all’aumento e all’estensione del finanziamento collettivo, la domanda si ripresenta tanto più facilmente a partire dal 2021 in quanto la quota degli Stati Uniti in questo finanziamento passa dal 22% al 16%, a seguito di una concessione ottenuta dal presidente Trump. Senza sorpresa, il Segretario Generale della NATO sceglie quindi questo momento per proporre di estendere questo finanziamento congiunto alle attività di deterrenza e difesa. Sostituirà così, in parte, la regola secondo la quale “le spese sono a carico dei loro autori”, in virtù della quale chi dispiega una capacità si fa carico di tutti i relativi costi.
La Francia si è sempre opposta a tale sviluppo. Finanziare implementazioni ed esercitazioni da un budget comune favorirà soprattutto quelli tra gli alleati che sono riluttanti a spendere, a livello nazionale, per la loro difesa, ma chi si precipiterà a fare dimostrazioni di fedeltà a spese, principalmente, di altri Stati membri. Inoltre, l’espansione del perimetro di finanziamento in comune della NATO ha il rovescio della medaglia (o il vantaggio) di deviare la spesa per la difesa dei paesi europei direttamente all’Alleanza. Una volta in pentola comune, questi soldi saranno spesi secondo le priorità americano-NATO. Quindi ci sono così tante risorse in meno a cui dedicare ambizioni autonome (sia all’interno di un quadro europeo, sia attraverso ciascuna Nazione). Jens Stoltenberg ha ragione quando dice: “Pagando insieme di più, noi rafforziamo la nostra coesione”1.
L’altro modo per rafforzare la coesione della NATO è rivisitare le regole del processo decisionale. Certo, il Segretario Generale conferma che “la NATO rimarrà un’organizzazione basata sul consenso”, ma il diavolo sta nell’aggiungere un piccolo dettaglio: “noi cerchiamo modi per prendere decisioni in maniera più efficiente “2. Tranne che l’argomento dell’efficienza del processo decisionale nasconde male l’intenzione principale che è quella di passare oltre alle riserve politiche e alla riluttanza di un particolare paese membro e garantire così un allineamento di fatto con la posizione del “garante” definitivo”. Questo è quindi un argomento cardine, e il rapporto NATO 2030 gli dedica una parte significativa. Il testo afferma che in “Un’era segnata da una crescente rivalità sistemica”, l’Alleanza deve accelerare e razionalizzare il suo meccanismo di decisione se vuole mantenere la sua rilevanza e utilità agli occhi dei suoi Stati membri.
A tal fine, raccomanda diverse strade: ridurre il potere di veto da parte di un determinato Stato membro (limitando questo diritto al livello ministeriale e vietandolo in fase di esecuzione); la possibilitàdi creare coalizioni di volenterosi (chi può schierarsi sotto la bandiera della NATO anche se tutti i paesi membri non aderiscono); aumentare i poteri del Segretario Generale (può prendere decisioni da solo in domande di routine ed emettere solleciti all’ordine, in caso di blocco politico, in nome della coesione). Queste proposte non segnano, da soli, un cambio di paradigma, ma riflettono un movimento fondamentale: nel contesto particolare la NATO riesce come minimo a erodere le prerogative degli Stati membri e rafforza il controllo dei più potenti di loro nel corso di tutta l’Alleanza. Inoltre, con le critiche alla lentezza e all’inefficienza vediamo ricomparire la ben più esplosiva questione della delega di autorità, in tempo di crisi, al comandante supremo di NATO (SACEUR, un generale americano che riceve i suoi ordini direttamente dal Pentagono e dalla Casa Bianca) 1.

Un tema molto delicato su cui l’amministrazione Obama ha continuato a insistere, ma che è stato poi congelato durante i quattro anni della presidenza Trump. I successivi rapporti all’Assemblea parlamentare della NATO mostrano chiaramente la pressione per ampliare il “grado di autonomia operativa” del Comandante dell’Alleanza Suprema. Così, dal 2015, apprendiamo che “SACEUR ha l’autorità di allertare, organizzare e preparare le truppe in modo che siano pronte a intervenire una volta che la decisione politica viene presa dal CAN [Consiglio Nord Atlantico]. SACEUR ha, tuttavia, proposto di poter avviare il dispiegamento delle forze prima di ricevere l’autorizzazione dal CAN, perché ritiene che sarebbe prudente, da un punto di vista militare, disporre di una capacità di reazione così rapida. Questa misura di «Attenzione, preparazione e distribuzione “è stata rifiutata da CAN, che ha chiaramente affermato che la decisione di procedere con qualsiasi movimento
di forza rimarrà una decisione politica”
2
.
Un anno dopo, “Il Consiglio prosegue il dibattito sulla questione del
sapere fino a che punto potrebbe, pur mantenendo il suo status dell’ultima autorità politica, delegata al comandante supremo delle Forze alleate in Europa (SACEUR) il processo di allerta, attesa e dispiegamento delle forze”3. Alla conferenza di Riga nel 2019, l’ex vicesegretario generale della NATO sottolinea che la regola del consenso alla CAN pone problemi di reattività in caso di conflitto. Tuttavia, Vershbow è rassicurante: un certo grado di autorità è già stato delegato alla SACEUR, che permette di avviare la preparazione delle truppe, le misure di pre-dispiegamento anche se la CAN a Bruxelles esita. Il SACEUR, ha detto, non è solo lì seduto a non fare nulla, in attesa del semaforo verde da CAN.4
Resta da vedere se tale agitazione, nel pieno di un periodo di tensione, a monte di una decisione collettiva e sotto l’esclusivo ordine degli Stati Uniti, non rischi di porre i rappresentanti degli altri paesi membri di fronte a un fatto compiuto.
L’Alleanza Atlantica, attraverso il suo movimento simultaneo di espansione e integrazione può rapidamente spingere l’UE fuori dai giochi.La NATO è in arrivo sempre più apertamente su terreni normalmente riservati a livello nazionale o dell’UE, trovando i mezzi di integrare sempre più strettamente i suoi paesi membri. Almeno coloro che gli avevano quasi completamente delegato la loro difesa, quindi tutti, ad eccezione di Stati Uniti, Turchia e Francia.1
In queste circostanze, è difficile vedere come il PSDC (Politica di sicurezza e di difesa comune dell’Unione Europea) potrebbe ritagliarsi un posto a fianco di una NATO sempre più avvolgente e assorbente.
2- La svalutazione del PSDC
La preparazione del documento dal titolo “Bussola strategica”, in corso dal 2020 con adozione prevista per l’inizio del 2022, mostra i suoi obiettivi di “rafforzamento dell’autonomia strategica” dell’UE.
Tuttavia, dall’inizio del 2020 abbiamo assistito a un cambiamento del concetto di autonomia strategica, originariamente apparso nel PSDC, ad altri settori non militari. Allo stesso tempo, il
tentativo di conciliare apertura e interdipendenza consustanziale al progetto europeo con l’imperativo dell’autonomia strategica appare sempre più chiaramente come la quadratura
del cerchio. Da qui l’ultima scoperta del volapük di Bruxelles: il concetto di “autonomia aperta”
21 – Il concetto di “autonomia strategica” emergente dalla difesa
La pandemia di Covid-19 ha fatto luce sui legami tra i diversi settori come la prosperità, la salute, l’industria, la tecnologia, sicurezza e commercio. Divenne chiaro che di fronte a ricatti e pressioni geoeconomiche, l’UE, a causa del mercato unico e dei poteri che le erano stati trasferiti,
sarebbe in linea di principio particolarmente ben posizionata per reagire.
Parallelamente, l’aggravarsi delle tensioni internazionali (con la Turchia, Russia, Cina) e il comportamento unilaterale dell’alleato americano (sotto il presidente Biden e sotto l’amministrazione Trump) sollecitano un ripensamento del ruolo dell’Unione in un mondo caratterizzato dal ritorno trionfante delle relazioni su basi di forza. Come afferma uno studio del Parlamento europeo: “L’Unione rischia infatti di diventare il ‘campo da gioco’ per le grandi potenze mondiali, in un mondo sempre più dominato dalla geopolitica. Costruire autonomia strategica in modo orizzontale e trasversale gli permetterebbe di
rafforzare la sua azione multilaterale e ridurre la sua dipendenza da attori esterni”1.

Il testo esamina quindi la necessità di autonomia strategica in settori diversi e diversificati come clima, energia, mercati finanziari, commercio, euro, industria, tecnologia digitale oltre al settore tradizionalmente associato che è la difesa. Specifica inoltre che è necessario “rafforzare la capacità dell’Unione di agire in autonomia, non solo con la Cina, ma anche con altri partner”. Gli autori sembrano ispirati dalla visione francese, e in particolare dai recenti discorsi del presidente Emmanuel Macron, quando affermano: “L’autonomia strategica, sostenuta dal linguaggio del potere, un linguaggio che richiama chiaramente gli interessi dell’Unione. e ne tutela i valori, nonché i mezzi e gli strumenti per rendere credibile questo linguaggio, sono condizioni necessarie per evitare che l’Unione sia coinvolta, suo malgrado, nella rivalità strategica sempre esacerbata tra Stati Uniti e Stati Uniti. La Cina, e la loro rispettivi valori e interessi”. 2 Salvo che il “linguaggio” del potere e dell’indipendenza è diametralmente opposto al DNA stesso della costruzione europea, per non parlare della maggioranza degli Stati membri che sono diventati impermeabili a questo tipo di considerazioni a forza di affidarsi ad essa esclusivamente alla NATO. Per fare il punto delle difficoltà, anche in un contesto di consapevolezza, basta leggere la “Nota ispano-olandese sull’autonomia strategica e la conservazione dell’apertura economica” del marzo 20211. Entrambi i paesi riconoscono i rischi di dipendenze asimmetriche nei settori strategici, ma per rimediare a questa offerta offrono un’autonomia strategica aperta che descrivono come segue: “Piuttosto che l’indipendenza, l’autonomia strategica deve promuovere una maggiore resilienza e sviluppo. ‘l’interdipendenza, nel contesto della globalizzazione, dove l’interoperabilità deve prevalere sull’uniformità”. Capire chi può. Il Consiglio europeo, dal canto suo, si accontenta di affermare: “Raggiungere l’autonomia strategica preservando un’economia aperta è un obiettivo chiave dell’Unione”. 2 Certamente, l’identificazione dei rischi legati alla “eccessiva dipendenza” e l’obiettivo di “riduzione delle vulnerabilità”, il tutto in un quadro che vuole essere geopolitico, è un nuovo approccio a livello europeo che può essere salutato. Testimonia una sorta di “consapevolezza”. Ci sono però due avvertimenti da fare. In primo luogo, gli eventi recenti mostrano che, in una situazione di crisi, o siamo pienamente autonomi in tutti i settori e settori cruciali, oppure siamo in balia delle decisioni degli altri. Non è “un certo grado di autonomia”, come la formulano i testi europei, che farà dell’Europa una potenza e la libererà dalla scelta fatale tra diverse tutele straniere. Per parafrasare Marie-France Garaud, consigliere dei presidenti Pompidou e Chirac: “essere indipendenti è come essere incinta, o lo sei o non lo sei”. Inoltre, la proliferazione della parola rischia di nascondere la cancellazione della cosa. Anche se nell’Ue il termine “autonomia strategica”, un tempo tabù, è oggi citato senza ritegno e nei più svariati settori, il suo dominio originario, quello della difesa, si sta visibilmente atrofizzando. Le iniziative della PSDC sono ostinatamente prive di ambizione e alcune si spostano addirittura al di fuori dell’Unione. Potrebbe essere questo un segno che i forum di Bruxelles a 27 (sia essa la Commissione o il Consiglio) non sono in definitiva il livello giusto per cooperare in un campo che coinvolge il cuore stesso della sovranità delle Nazioni?

22 – Il magro primato della PSDC e la sua fuga fuori dall’UE

Dal rilancio nel 2016, una serie di iniziative nell’ambito della PSDC dovrebbero dare sostanza alla nozione di autonomia europea. Sono impressionanti per ingegnosità istituzionale e per numero, ma è chiaro che dal punto di vista di qualsiasi autonomia il PSDC è lontano dal segno. Non è nemmeno necessariamente diretto nella giusta direzione. Come rileva il citato studio del Parlamento europeo: “È possibile che le soluzioni tecniche si dimostrino insufficienti se gli Stati membri non ampliano il consenso politico esistente per concordare l’obiettivo e le esigenze di uno strumento di difesa europeo”. Insomma, nonostante il proliferare di iniziative, la difesa europea è tornata al punto di partenza: bloccata dall’assenza di una visione condivisa e dalla mancanza di volontà politica. In termini di capacità operative, l’UE resta ben al di sotto dell'”obiettivo globale” fissato a Helsinki nel dicembre 1999, sulla base della dichiarazione di Saint-Malo che prevedeva “una capacità di azione autonoma, sostenuta da forze militari credibili, con la significa utilizzarli ed essere pronti a farlo per rispondere alle crisi internazionali”. Riguardo alle circa 40 operazioni avviate da allora, l’Institut Montaigne osserva: “le missioni e le operazioni del PSDC forniscono solo risposte molto parziali alle crisi attuali” 1. Possono aver avuto effetti benefici molto limitati qua e là, ma certamente non sono all’altezza delle sfide internazionali. Per questo, dovranno cambiare la loro natura e logica. Jolyon Howorth, il massimo esperto di difesa europea e relazioni transatlantiche ha recentemente osservato correttamente: le operazioni dell’UE “fanno poco per far avanzare la causa dell’autonomia” 2. Quanto al magnifico terzetto di iniziative post 2016 che avrebbero dovuto galvanizzare la PSDC, su ciascuno dei tre aspetti le ambizioni sono state riviste al ribasso, gli obiettivi iniziali stemperati. La Coordinated Annual Defense Review (CARD) è solo un’ulteriore variazione sul tema dello “sviluppo delle capacità”, con l’obiettivo di identificare e colmare le lacune nelle capacità militari degli Stati membri degli Stati Uniti. Con i risultati che conosciamo: sono le stesse carenze che sono state elencate sin dal primo esercizio di questo tipo, 20 anni fa. Secondo Sven Biscop dell’Istituto Egmont, il piano di capacità dell’UE non è vincolante quanto quello della NATO, “quindi non sorprende che abbiano solo un’influenza marginale sulla pianificazione della difesa nazionale”1. Ignorare le priorità di CARD, aggiunge, non comporta nemmeno i pochi scomodi momenti di autogiustificazione come accade nell’Alleanza. La Cooperazione Strutturata Permanente (PSC), nata originariamente per creare una sorta di avanguardia di paesi volontari con mezzi capaci, ha perso ogni suo significato a causa della richiesta di “inclusività” formata dalla Germania. . Pertanto ora conta 25 dei 27 Stati membri (tutti tranne Malta e Danimarca). Infine, anche il Fondo europeo per la difesa (FES), concepito per fornire il cofinanziamento di progetti europei di armamenti in cooperazione, ha visto ridimensionarsi i propri obiettivi. Sia in termini di denaro (dei 13 miliardi di euro inizialmente previsti per il periodo 2021-2027, il Fondo ne avrà solo 7 miliardi) sia in termini di ambizioni strategiche (contraddette dal rifiuto di stabilire la preferenza europea e dalla tolleranza verso l’entrismo da parte paesi terzi). Contemporaneamente a questo disfacimento della PSDC, si nota uno spostamento di alcune iniziative al di fuori del quadro dell’UE. Anche senza Londra, i 27 hanno difficoltà a trovare un accordo e spesso è impossibile per loro trovare una risposta comune a questa o quella situazione. O perché alcuni sono riluttanti a dare troppa importanza all’Ue in materia militare (per paura di licenziare la Nato), o perché altre divergenze politiche complicano i negoziati sul mandato, sui mezzi per ingaggiare o sul comando. In tale contesto, per evitare che tutte le iniziative operative sfuggano all’UE, il Consiglio ha avviato il progetto pilota del “concetto di presenze marittime coordinate” nel Golfo di Guinea. Questo nuovo concetto è espressamente “distinto dalle missioni e operazioni PSDC”. L’idea è quella di designare “un’area di interesse marittimo” e garantire un migliore coordinamento delle attività nazionali degli Stati membri1. Da parte loro, Germania, Belgio, Danimarca, Francia, Grecia, Italia, Paesi Bassi e Portogallo hanno preso l’iniziativa di creare, nel gennaio 2020, la Missione europea di sorveglianza marittima nello Stretto di Hormuz (EMASOH) con l’intenzione di contribuire alla riduzione dell’instabilità e alla messa in sicurezza del traffico marittimo. Come promemoria, gli otto paesi hanno tutti aderito all’Iniziativa di intervento europea (EII), lanciata da Parigi al di fuori della PSDC. Dodici paesi hanno già aderito all’IEI, tra cui Danimarca e Regno Unito, nella speranza di rendere operativa la cooperazione in materia di difesa tra i paesi europei. Questo è un ulteriore segno del pragmatismo imperante, e riflette la volontà di preservare le questioni militari lontane dalle istituzioni del 27, in quadri flessibili, tra volontari “capaci e pronti”. Lo European Air Transport Command (CTAE/EATC) che raggruppa sette paesi è l’esempio più riuscito in termini di condivisione in una logica rispettosa delle sovranità nazionali. Inaugurato nel settembre 2010, il CTAE ha consentito alla Francia, già nel dicembre dello stesso anno, di inviare tre compagnie da combattimento in Costa d’Avorio utilizzando aerei olandesi, belgi e tedeschi. Secondo la cosiddetta procedura di Reverse Transfer of Authority, “in assenza di un impegno nazionale, tali risorse possono essere messe a disposizione dei partner a termini e condizioni che prevedano, se necessario, un subentro sotto comando nazionale” 2. Un rapporto del Senato sull’autonomia strategica europea commenta sul CTAE: “il principio dovrebbe essere esteso ad altri settori (elicotteri, assistenza medica, per esempio)” 3. Insomma, Realpolitik sta tornando forte, sia nella consapevolezza, più o meno, della necessità di un’autonomia strategica su scala europea per i settori più diversi, sia nella rivalutazione delle logiche intergovernative nella cooperazione tra Stati. Resta però un grosso problema. Per quanto riguarda il campo stesso della difesa, i partner europei della Francia rifiutano di pensarci davvero in termini di autonomia, sia nell’ambito dell’UE che in formazioni multilaterali. Tuttavia, finché l’autonomia strategica non diventerà il principio guida in materia di difesa, i loro sforzi in altri settori rimarranno quindi effimeri e vani. Come sottolinea Charles A. Kupchan, direttore degli affari europei presso il Consiglio di sicurezza nazionale sotto i presidenti Clinton e Obama, “la supervisione della sicurezza è il fattore decisivo nel determinare chi è al comando”1.

3- Il ritorno in vigore dell’eterno trittico delle relazioni NATO-UE Dal 2016, la cooperazione tra UE e NATO si è notevolmente intensificata, come testimoniano due dichiarazioni congiunte (nel 2016 e nel 2018) e l’individuazione di ben 74 azioni per essere attuato congiuntamente. Questa impennata delle attività di conciliazione non è estranea alla ripartenza, proprio nel 2016, della difesa europea. Come ha rilevato l’ultimo rapporto dedicato a questo argomento all’Assemblea parlamentare della NATO: uno dei principali fattori alla base di questo “boom nella cooperazione” è “il nuovo ciclo di iniziative di sicurezza europee al di fuori dell’UE. Quadro NATO ”2. Infatti, poiché l’autonomia strategica europea diventa il leitmotiv di queste nuove iniziative, l’Alleanza cerca di non lasciarle sfuggire alla sua morsa. Il Segretario Generale si oppone apertamente alle due: “solidarietà strategica con la NATO” è preferibile ad “autonomia strategica con l’UE” 1. Tornano dunque alla ribalta i limiti politici posti fin dall’inizio alla Psdc dagli Stati Uniti. Certo, queste restrizioni, note come 3D, sono state un colpo da maestro da parte della diplomazia americana. Il requisito della non duplicazione copre tutte le aree critiche dal punto di vista dell’autonomia: pone limiti rigorosi alla capacità di azioni autonome degli europei sia a livello operativo (pianificazione e gestione) che strutturale (industria degli armamenti e della tecnologia) e strategico (difesa collettiva). Il non disaccoppiamento serve alla prevenzione: agli europei viene chiesto di non pensare e decidere nemmeno insieme, al di fuori della NATO, su queste questioni. La non discriminazione funziona come un blocco di sicurezza. Nel caso in cui, nonostante tutte queste precauzioni, un’iniziativa europea assumesse dimensioni inaspettate, l’obbligo di includere alleati extracomunitari consente di intervenire direttamente per richiamare all’ordine i recalcitranti.

31 – Non disaccoppiamento?

Il criterio del non disaccoppiamento del processo decisionale ha rivelato ancora una volta i suoi limiti durante le tensioni greco-turche nel 2020

2. Dato il grado di conflitto tra questi due paesi membri della NATO – di cui uno fa parte dell’Unione Europea, l’altro no – la distinzione tra i due fori assume tutto il suo significato. Si ricorda, quando è stata lanciata la PSDC, qualsiasi progresso istituzionale nella nascente politica di difesa europea è stato sospeso alla conclusione degli accordi tra l’UE e la NATO, conclusione a sua volta ritardata dalla controversia tra Grecia e Turchia. Una delle condizioni poste da Ankara era la promessa che le forze dell’Unione Europea non saranno mai usate contro uno Stato membro dell’Alleanza. La Turchia voleva impedire alla Grecia, poi affiancata da Cipro dopo la sua adesione all’UE, di poter coinvolgere militarmente l’intera Unione nelle loro controversie. Dopo due anni di trattative, è stata fatta la promessa, con lo strano impegno, richiesto dalla Grecia in nome del principio di reciprocità, che la Nato non attaccherà mai nemmeno un Paese dell’Unione Europea. Ad ogni modo, questi dettagli dicono molto sulla netta distinzione tra le due organizzazioni. Nonostante il fatto che 21 Stati siano membri di entrambi allo stesso tempo, l’UE e la NATO non sono la stessa cosa, un fatto dimostrato in modo spettacolare durante le recenti tensioni sulle riserve di idrocarburi nel Mediterraneo orientale. Essendo Grecia e Cipro membri dell’Unione Europea, ogni tentativo di rosicchiare i loro confini, marittimi e non, mette in discussione quelli dell’UE. Di conseguenza, a seguito delle azioni turche nella regione, il ministro degli Esteri greco ha potuto argomentare: “La Grecia difenderà i suoi confini nazionali ed europei, la sovranità ei diritti sovrani dell’Europa”. 1 Una comunità di destini sottolineata anche dal Segretario di Stato francese per gli affari europei, Clément Beaune: “La Turchia persegue una strategia che consiste nel mettere alla prova i suoi immediati vicini, Grecia e Cipro e, attraverso di loro, l’intera Unione Europea”. 2 Va da sé che l’Alleanza non è la sede ideale per difendere l’integrità territoriale degli Stati europei contro un paese alleato. Fin dall’inizio, la Francia vede quindi in essa un’opportunità per affermare una politica europea di solidarietà “verso qualsiasi Stato membro la cui sovranità possa venire contestata” 3. Questa nota ufficiale dell’Eliseo ricorda, sullo sfondo, l’implicita difesa collettiva che è stata nascosta nei trattati europei sin da quello di Amsterdam del 1997. Tra gli obiettivi di politica estera e di sicurezza c’è già la “salvaguardia dell’Unione europea “.integrità dell’Unione”, ovvero la difesa delle frontiere esterne. Questo elemento – spesso ignorato, eppure pieno di possibili ramificazioni – fu aggiunto a suo tempo su esplicita richiesta di Atene, con il pieno appoggio di Parigi.

32 – Non duplicazione?

Il criterio di non duplicazione tra NATO e UE prevede tradizionalmente tre divieti: non può esserci “duplicazione” funzionale (la PSDC non deve toccare il monopolio della NATO sulla difesa collettiva); nessuna duplicazione di capacità (in termini di armamenti, si chiede agli europei di continuare a privilegiare l’acquisto di armamenti americani, invece di pensare in termini di autonomia per il BITDE – base industriale e tecnologica per la difesa europea); né duplicazione delle risorse progettuali e gestionali (in altre parole, nessuna Sede per il PSDC) 1. I primi due temi – difesa collettiva e acquisto di armi – sono sempre stati, più o meno implicitamente, intrecciati tra loro. Perché è un dato di fatto: fin dalla creazione della Nato, gli alleati che si sentono protetti dall’ombrello americano, come ha osservato l’amministratore delegato di Dassault Aviation, «un vero desiderio di comprare americano qualunque sia il prezzo, qualunque sia l’esigenza operativa»2. Tuttavia, la recente incertezza sull’affidabilità delle garanzie americane sta mettendo a dura prova questa logica transazionale. Il rilancio della PSDC nel 2016 ha sollevato preoccupazioni negli ambienti della NATO, in particolare per quanto riguarda una possibile ricaduta della nuova dinamica europea verso la difesa collettiva, appannaggio dell’Alleanza. Da allora, il segretario generale della Nato ha passato la maggior parte del suo tempo a lanciare avvertimenti ea insistere sul fatto che “l’Europa non può difendersi”. Per sua sfortuna, per quattro anni ha dovuto farlo mentre il presidente Trump, dal canto suo, non ha mai smesso di dubitare della garanzia di difesa della Nato. Questa messa in discussione dell’articolo 5, da parte del presidente americano, ha chiarito anche al più atlantista degli europei che, appunto, potrebbe venire un giorno in cui si troveranno soli a difendersi. Un’ipotesi che suscita aspre polemiche pubbliche, ma anche un abbondante dibattito di esperti di entrambe le sponde dell’Atlantico. Uno degli scambi più interessanti si è sviluppato sulle colonne della rivista britannica Survival, nota pubblicazione sotto l’egida dell’IISS, International Institute for Strategic Studies. Nell’aprile 2019, un team dell’IISS ha pubblicato uno studio secondo cui gli alleati europei della NATO non sarebbero stati in grado di far fronte all’aggressione russa: gli Stati Uniti dovrebbero venire in loro soccorso. Alla fine del 2020, Barry R. Posen, direttore del Security Studies Program presso il prestigioso Massachusetts Institute of Technology (MIT), ha espresso il punto di vista opposto alle ipotesi e alle affermazioni di questo studio in un articolo dal titolo eloquente: “L’Europa può difendersi” 2. Il dibattito non è stato senza suscitare reazioni, quali mettere in discussione la pertinenza degli scenari scelti, quali mettere in discussione le motivazioni ei messaggi politici dei giornali. Da un lato, lo studio dell’IISS è stato visto da alcuni come tempestivo per screditare qualsiasi idea di autonomia. Posen, invece, è stato accusato di essere indulgente verso le debolezze europee solo per sostenere meglio la tesi del suo recente libro che auspica una politica estera di “restrizione” per gli Stati Uniti3. Comunque sia, tre elementi del dibattito meritano attenzione. In primo luogo, gli oratori di entrambe le parti concordano sul fatto che l’importo necessario per colmare le lacune di capacità degli europei (in vista di una minaccia russa convenzionale) è di circa 300 miliardi di euro. Tuttavia, come sottolineano anche i ricercatori dell’IISS: solo colmando il gap con l’obiettivo del 2% del PIL che gli alleati europei si erano impegnati nel quadro della NATO, spenderebbero 100 miliardi di euro in più… all’anno.4 Secondo, François Heisbourg ha introdotto nel dibattito la dimensione nucleare, che fino ad allora era stata del tutto messa da parte. Come giustamente rimarca: “il rischio di una guerra in Europa non può essere analizzato indipendentemente dal fattore nucleare [perché] la Russia non prevede alcuna operazione nel teatro europeo senza qualche legame che una minaccia nucleare russa implicava”. Pertanto, la “dissuasione estesa” sarebbe “un elemento indispensabile di qualsiasi sforzo per contrastare l’aggressione militare russa” 5. Un’occasione d’oro per Posen per ricordare la fragilità del concetto stesso di deterrenza estesa: “Anche il rapporto di deterrenza estesa tra Stati Uniti ed Europa è sempre stato un’ipotesi problematica”1. Infine, il dibattito sulla difesa dell’Europa si concentra solo sulle carenze europee e ignora la questione della capacità degli Stati Uniti di venire in aiuto. Dopo la Guerra Fredda, il documento di base del Pentagono, il Quadrennial Defense Review (QDR) ha stabilito che gli Stati Uniti devono essere in grado di combattere (e vincere) due guerre alla volta, la condizione sine qua non dello status di superpotenza 2. Questo approccio è stato la posizione ufficiale fino alla Strategia del 2012, dove l’amministrazione Obama ha sostituito la cosiddetta dottrina del “due meno”: l’obiettivo di vincere una guerra, imponendo costi inaccettabili a un aggressore su un altro teatro3. In definitiva, la Strategia del 2018, sotto il presidente Trump, ha tratto conclusioni dall’ascesa al potere della Cina e ora mira a una sola guerra alla volta, facendo affidamento sulla deterrenza in un secondo teatro. Uno sviluppo che non è certo vicino a rassicurare gli alleati europei. Tanto più che non fa che rafforzare i dubbi, già espressi nel Rapporto della British Trident Commission – composta da ex ministri della Difesa e degli Esteri, ex ambasciatori e capi di stato maggiore – sulla volontà e la capacità degli Stati Uniti di difendere l’Europa5. Tuttavia, l’altro grande aspetto del divieto di non duplicazione, l’armamento, è direttamente legato alla percezione delle garanzie di difesa. Il senatore degli Stati Uniti Chris Murphy ha chiarito la logica del dare e avere quando si è preoccupato sotto il presidente Trump per l’impatto della sfida all’articolo 5 sulla vendita di armi. Questo democratico eletto nel Connecticut ha spiegato, durante una conferenza, come la garanzia della Nato porti un vantaggio economico al suo Stato, a patto che gli europei ci credano: “grazie a questa stretta alleanza, è molto più probabile che gli europei acquistino prodotti da Sikorsky e Pratt & Whitney”. Murphy critica Donald Trump per aver messo in dubbio l’impegno americano per la difesa collettiva, perché a seguito di ciò “gli alleati europei stanno iniziando a esplorare altre opzioni per l’acquisto del loro equipaggiamento militare, comprese iniziative preoccupanti. che escluderebbero gli Stati Uniti”1. Si tratta del Fondo europeo per la difesa destinato, come abbiamo visto, a cofinanziare i progetti europei di armamento a carico del bilancio comunitario. La partecipazione di terzi – soprattutto quella di potenti industriali americani sostenuti dal loro governo – sarebbe controproducente rispetto all’obiettivo dichiarato dell’autonomia. Le divisioni tra europei in questo senso si riflettono nello spettacolare taglio del budget (da 13 miliardi a 7 miliardi per il prossimo quadro pluriennale). Fino a quando gli Stati Uniti non otterranno l’accesso alle proprie condizioni, i suoi più stretti alleati europei si opporranno al rafforzamento di questo strumento. Al contrario, se hanno successo e gli Stati Uniti diventano ammissibili ai finanziamenti del FES (in un modo o nell’altro, ad esempio attraverso la partecipazione al CSP), è la Francia che dovrebbe normalmente ridurre il proprio impegno nei suoi confronti. Perché questo trasformerebbe il budget del FES in un setaccio che consente alle aziende di paesi terzi, in particolare americani, di dirottare la spesa europea come meglio credono. Tanto più che questa logica si applica già agli acquisti di armi in generale. Come sottolinea un recente rapporto dell’Institut Montaigne, “Oggi non c’è ancora nessuna preferenza europea per l’acquisizione di attrezzature (…) l’acquisizione di attrezzature americane consuma i bilanci della difesa degli Stati. i budget rimanenti per gli industriali europei e consente alcune interferenze americane negli affari della difesa dell’UE ”2. Il rapporto fa l’esempio degli aerei da combattimento: “Nel settore aereo, ad esempio, la partecipazione al programma F35 di paesi come l’Italia, i Paesi Bassi o più recentemente il Belgio indebolisce l’industria europea” 3. Per la cronaca, è questo stesso aereo che il ministro Florence Parly ha evocato per rifiutare il legame stabilito da Washington tra garanzie della difesa e acquisto di armi: “La clausola di solidarietà della NATO si chiama Articolo 5, e non Articolo F-35”1.

33 – Non discriminazione? 

Il campo degli armamenti continua ad essere il tema principale della terza D, quella del divieto di ogni discriminazione nei confronti degli alleati non membri dell’UE. Trattandosi di un argomento delicato, questo divieto è, per una volta, invocato direttamente e pubblicamente per garantire la presenza degli Stati Uniti nelle iniziative europee. La saga dell’accesso al FES è proseguita, in questo spirito, per tutto il 2020.2 Come osserva un rapporto dell’Assemblea nazionale: “Le discussioni sono particolarmente tese sulla questione dell’ammissibilità delle imprese di paesi terzi, in particolare quelle del Regno Unito e del Stati Uniti, all’EDF. Gli Stati membri sono divisi sulla questione e, per alcuni che ospitano filiali di società statunitensi, sotto forte pressione da parte degli Stati Uniti per una maggiore flessibilità nei criteri di ammissibilità”. E agli autori del rapporto di spiegare: “Va da sé che se il FES dovesse essere ampiamente aperto alle imprese di paesi terzi, tanto meno sarebbero i finanziamenti per raggiungere l’obiettivo dell’autonomia strategica” 3. Pochi mesi dopo, il Segretario di Stato per gli Affari Europei, Clément Beaune, rassicura: “Il Fondo europeo per la difesa sta finanziando i nostri progetti per l’autonomia strategica europea. È impossibile finanziare paesi terzi. La cooperazione strutturata permanente, che è la cooperazione a progetto, prevede la possibilità di integrare paesi terzi a bordo di determinati progetti, con regole per l’approvazione da parte dei paesi dell’Unione europea caso per caso ”4. In effeti, in base al compromesso messo insieme sotto la Presidenza tedesca dell’UE, “Stati terzi” possono entrare in un particolare progetto di PSC a condizione che vi sia una decisione politica in merito e finché non ci sono fondi comuni europei a posta in gioco – almeno in linea di principio. Come promemoria, il CSP e la FED sono stati creati per essere complementari l’uno all’altro. Il CSP può essere visto da alcuni attori esterni come una possibile porta d’ingresso o un diritto di blocco nei confronti del FES: sia per accedervi in ​​qualità di terzi, sia per riuscire a escluderne un determinato programma come risultato. la propria partecipazione al progetto corrispondente. Inoltre, il Segretario di Stato Beaune si guarda bene dal precisare se la Francia sia riuscita a imporre, come sine qua non, le sue due condizioni iniziali per l’accesso di terzi al CSP. Vale a dire: considerare come presupposto non negoziabile il fatto che la proprietà intellettuale ei diritti di esportazione debbano rimanere, senza alcuna ambiguità, sotto il controllo europeo. O, invece, sono state ridotte le condizioni generali, come suggerisce il comunicato Ue, che il terzo partecipante “deve condividere i valori su cui si fonda l’Unione, non deve ledere gli interessi dell’Unione e dei suoi Stati membri in materia di sicurezza”. e difesa e deve aver concluso un accordo per lo scambio di informazioni classificate con l’UE.”1 Perché se così fosse, l’obiettivo iniziale di non dipendenza è obsoleto e il CSP si svuota definitivamente della sua sostanza. Il rischio è tanto maggiore dato che l’approccio scelto dalla nuova amministrazione Biden è straordinariamente intelligente. Gli Stati Uniti usano il “nuovo inizio” nelle relazioni transatlantiche, dopo gli anni di Trump, come pretesto per ribaltare la situazione e presentare la propria domanda di accesso come segno di un nuovo impegno. È quindi per il desiderio di rafforzare i legami tra gli alleati che desiderano onorare le iniziative europee con la loro presenza. La manovra è ancora più abile dal momento che Washington avanza a tappe. Invece di puntare immediatamente alle questioni più delicate, gli Stati Uniti si collegheranno prima al progetto di mobilità militare, che è anche uno dei circa 50 progetti di CSP2. Ma la portavoce del Pentagono ammette che questo è solo il primo passo: “Un passo cruciale per identificare come gli Stati Uniti e l’UE possono lavorare insieme in altri progetti PUC e per esplorare la possibile cooperazione tra gli Stati Uniti e l’UE in altre iniziative di advocacy. l’UE”. Jessica Maxwell aggiunge che Washington vede la tempestiva approvazione della partecipazione degli Stati Uniti da parte dell’UE come un segno promettente di “impegno dell’UE e degli Stati membri a mantenere aperte le iniziative di difesa dell’UE agli Stati Uniti”1. Messa è stata detta.

 4- Unione, quale unione?

 Più l’Ue parla di autonomia, più si moltiplicano le richieste di “più integrazione”. In questa narrazione, il passaggio alla maggioranza qualificata creerebbe, con il colpo di una bacchetta magica, un’Europa potente che parla con una sola voce, in grado di svolgere il proprio ruolo nello scacchiere geopolitico. Ma una visione così semplicistica tende a confondere forma e sostanza. Non è a causa della regola dell’unanimità che l’UE è incapace di avere una politica di potere indipendente, al contrario. La posizione maggioritaria tra i partner europei è sempre stata quella di ignorare o addirittura diffamare i concetti di potere e indipendenza. Se dipendesse da loro, l’Europa sarebbe, per molto tempo, un 51° Stato americano o addirittura, domani, una 24° provincia cinese. Il requisito dell’unanimità è l’unica salvaguardia che resta per i pochi, spesso la sola Francia, che sono attaccati all’idea di essere padroni del proprio destino e di fare le proprie scelte. L’eccellente articolo di Hubert Védrine “Advancing with open eyes” (scritto nel 2002, ma chi non è invecchiato un po’ da allora) riassume perfettamente le opzioni. L’ex ministro degli Esteri invoca “onestà intellettuale” prima di avviare le prossime tappe della costruzione europea: “Una delle due cose: o accettiamo, perché crediamo che l’ambizione europea prevalga su tutte le altre o perché crediamo che l’Europa quadro è ormai l’unico che ci permette di difendere i nostri interessi, di fonderci gradualmente in questo insieme. E così stiamo giocando a pieno titolo la partita europea, rafforzando le istituzioni europee e comunitarie, generalizzando il voto a maggioranza. E accettiamo in anticipo tutte le conseguenze. Oppure, considerando che non potremo conservare con il 9% dei voti in Consiglio, il 9% dei membri del Parlamento, un commissario su 25, posizioni e politiche che riteniamo fondamentali, rifiutiamo questo salto istituzionale”1. Tra queste posizioni fondamentali, impossibili da preservare in un’Europa sovranazionale governata dalla logica della maggioranza, c’è la richiesta di autonomia e di potere. Un episodio recente illustra perfettamente la solitudine della Francia ei pericoli per lei di cedere alle sirene europeiste nella speranza di una potenza immaginaria dell’Europa. Questo è il passaggio d’armi, alla fine del 2020, tra il presidente Macron e il ministro della Difesa tedesco Annegret Kramp-Karrenbauer (AKK) 2. Quest’ultimo dichiara, alla vigilia delle elezioni presidenziali americane, che “devono finire le illusioni sull’autonomia strategica europea” 3. Su cosa, ribatte il presidente francese: Soprattutto non dobbiamo perdere il filo europeo e questa autonomia strategica, questa forza che l’Europa può avere per se stessa. Si tratta di pensare i termini della sovranità europea e dell’autonomia strategica, per poterci pesare e non diventare vassalli di questo o quel potere e non dire più la nostra». 4. L’Akk insiste e firma: “L’idea di autonomia strategica europea va troppo oltre se implica che saremmo in grado di garantire la sicurezza, la stabilità e la prosperità dell’Europa senza la Nato e senza gli Stati Uniti. È un’illusione”5. Come prevedibile, altri paesi europei si sono schierati con la Germania. Il ministro della Difesa polacco Mariusz Błaszczak ha concluso che “dobbiamo essere più vicini che mai agli Stati Uniti”, e il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez ha chiarito: “Sono con la visione tedesca”. Il ministro della Difesa italiano, Lorenzo Guerini, vede nell’autonomia strategica europea la “conferma del ruolo dell’Europa come pilastro dell’architettura di sicurezza collettiva basata sul patto transatlantico”. Il suo omologo portoghese, João Gomes Cravinho, avverte: “Cercare di far diminuire l’autonomia strategica dell’Ue all’interno della Nato o tentare di separarsi dalla Nato sarebbe, a nostro avviso, un grave errore”. Difficile non vedere, dietro questi discorsi, il posizionamento l’uno dell’altro rispetto a Washington. Così come ognuno è determinato secondo la propria visione del mondo in relazione a Pechino, Ankara o Mosca. I ricercatori dell’istituto tedesco SWP, che consiglia il governo federale sulle questioni di sicurezza, trovano: le relazioni bilaterali tra gli Stati membri dell’UE e le grandi potenze sono guidate da “lealtà disparate e interessi in competizione”, il che rende difficile un approccio comune all’autonomia strategica, se non inconcepibile1. Lo scrittore-filosofo inglese GK Chesterton espose brillantemente, cento anni fa, la vacuità degli argomenti a favore di un’unione tra entità diverse: “L’unione è forza, l’unione è anche debolezza. Trasformare dieci nazioni in un impero può essere tanto realizzabile quanto trasformare dieci scellini in un semi-sovrano [oggi: dieci pence in una sterlina]. Ma può anche essere assurdo come trasformare dieci tane in un unico mastino. La questione in ogni caso non è una questione di unione o disunione, ma di identità o mancanza di identità. Per certe cause storiche e morali, due nazioni possono essere così unite che nel complesso si sostengono a vicenda. Ma per certe altre cause morali e per certe altre cause politiche, due nazioni possono unirsi e solo ostacolarsi a vicenda; le loro linee si scontrano e non sono parallele. Abbiamo quindi uno stato di cose che nessun uomo sano di mente si sognerebbe mai di voler continuare se non fosse stato stregato dal sentimentalismo della semplice parola ‘unione’”2. Nell’Europa di oggi, continuare significa il livellamento verso il basso e la diluizione delle ambizioni

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1 Vision partagée, action commune: Une Europe plus forte – Une stratégie globale pour la politique étrangère et de sécurité de l’Union européenne, juin 2016. 2 Lettre de mission de la part de la présidente de la Commission, Ursula von der Leyen au Commissaire Thierry Breton, 1er décembre 2019. 3 OTAN 2030 : Unis pour une nouvelle ère, Analyse et recommandations du Groupe de réflexion constitué par le secrétaire général de l’OTAN, 25 novembre 2020.

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1 Jean-Dominique Merchet, « Hubert Védrine: ‘J’ai pu vérifier que les idées françaises étaient isolées au sein de l’Alliance atlantique’ », L’Opinion, 15 décembre 2020. 2 Sur le sujet de l’extension géographique et fonctionnelle, voir de l’auteur: « Une OTAN de plus en plus englobante », Note IVERIS, 18 octobre 2019. 3 Remarks by NATO Secretary General Jens Stoltenberg at the Munich Security Conference 2021, 19 février 2021. 4 Presenting the POLITICO 28 Class of 2021, POLITICO Events, Entretien filmé de David Herszenhorn avec le Secrétaire général Jens Stoltenberg, 7 décembre 2020.

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1 Déclaration du sommet de Bruxelles par les chefs d’État et de gouvernement participant à la réunion du Conseil de l’Atlantique Nord tenue à Bruxelles les 11 et 12 juillet 2018 (Par.78). 2 Déclaration de Londres par les dirigeants des pays de l’OTAN, Londres les 3 et 4 décembre 2019 (Par.6). 3 Audition du contre-amiral Arnaud Coustillière, officier général en charge de la cyberdéfense à l’état-major des armées, Commission de la défense nationale et des forces armées de l’Assemblée nationale, 12 juin 2013. 4 Hubert Védrine, Rapport pour le Président de la République française sur les conséquences du retour de la France dans le commandement intégré de l’OTAN, sur l’avenir de la relation transatlantique et les perspectives de l’Europe de la défense, 14 novembre 2012.

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1 Conférence de presse du Secrétaire général de l’OTAN Jens Stoltenberg, 15 février 2021. 2 NATO chief wades into fiery German debate on armed drones, Defense News, 23 décembre 2020

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1 Gerald E. Connolly, « 70 ans de l’OTAN : Pourquoi l’Alliance demeure-t-elle indispensable ? », Rapport de l’Assemblée parlementaire de l’OTAN, septembre 2019. 2 Plus de 60 législateurs se penchent sur le nouvel agenda pour les relations transatlantiques et l’OTAN, Assemblée parlementaire de l’OTAN, 26 mars 2021. 3 La commission permanente crée un groupe de travail sur la création d’un centre de l’OTAN pour la résilience démocratique, Assemblée parlementaire de l’OTAN, 29 mars 2021.

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1 OTAN 2030 : Unis pour une nouvelle ère, Analyse et recommandations du Groupe de réflexion constitué par le secrétaire général de l’OTAN, 25 novembre 2020, p.10. 2 Audition de M. Philippe Errera, ambassadeur, représentant permanent de la France à l’OTAN, Commission des affaires étrangères, de la défense et des forces armées du Sénat, 22 janvier 2013.

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1 Conférence de presse du Secrétaire général de l’OTAN Jens Stoltenberg, 15 février 2021. 2 Entretien du Secrétaire général de l’OTAN, Jens Stoltenberg, avec Politico, 7 décembre 2020

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1 Pour davantage de détails sur cette épineuse question, voir de l’auteur : L’OTAN cherche à contourner la règle du consensus, Note IVERIS, 25 août 2015 et Après Varsovie : l’OTAN au sommet de ses contradictions, in Défense & Stratégie n°40, automne 2016. 2 Xavier Pintat, Le plan d’action ‘Réactivité’ de l’OTAN: assurance et dissuasion pour la sécurité après 2014, Rapport, Assemblée parlementaire de l’OTAN, 10 octobre 2015. 3 Joseph A. Day, La nouvelle posture de dissuasion de l’OTAN : du Pays de Galles à Varsovie, Projet de rapport général, Assemblée parlementaire de l’OTAN, 19 septembre 2016. 4 The Rīga Conference 2019, Coffee break conversation between Alexander Vershbow and Julian Lindley-French, 14 octobre 2019, enregistrement vidéo

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1 Comme l’a expliqué le Secrétaire général adjoint de l’Alliance, Camille Grand : «C’est frappant lorsqu’on arrive dans l’OTAN en tant que Français que pour 26 alliés sur 29, la politique de sécurité et de défense se fait à l’OTAN à 90 % ou à 99 %. Il y a trois exceptions : les États-Unis, la France, et la Turquie qui a toujours gardé la volonté de disposer d’un outil de défense qui puisse fonctionner en dehors de l’Alliance atlantique ». Propos tenus à la Table ronde à l’Assemblée nationale : « Avenir de l’Alliance atlantique », 27 novembre 2019. NB : Avec l’adhésion du la Macédoine du Nord depuis, en mars 2020, l’Alliance compte 30 pays membres aujourd’hui

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1 Sur le chemin de l’autonomie stratégique – L’Union européenne dans un environnement géopolitique en mutation, Etude du Service de recherche du Parlement européen, septembre 2020. 2 Idem. Emmanuel Macron parle de retrouver « la grammaire de la puissance » dans son interview à The Economist en novembre 2019 et précise que « l’Europe, si elle ne se pense pas comme puissance, disparaîtra ». A la conférence des ambassadeurs en 2019, il met en garde : « Nous aurons le choix entre des dominations », soit américaine, soit chinoise

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1 Spain-Netherlands non-paper on strategic autonomy while preserving an open economy, Gouvernement des Pays-Bas www.rijksoverheid.nl , 25 mars 2021. 2 Conclusions du Conseil européen, 1er et 2 octobre 2020.

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1 Défense européenne : le défi de l’autonomie stratégique, Rapport d’information N°626 du Sénat (par R. Le Gleut et H. Conway-Mouret), 3 juillet 2019. 2 Jolyon Howorth, “Europe and Biden –Towards a New Transatlantic Pact? ”, Wilfried Martens Center, janvier 2021

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1 Sven Biscop, EU and NATO Strategy: A Compass, a Concept; and a Concordat, Egmont Institute, Security Policy Brief n°141, mars 2021

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1 Conclusions du Conseil portant lancement du projet pilote du concept de présences maritimes coordonnées dans le golfe de Guinée, 25 janvier 2021 : « Les Etats membres continuent d’améliorer la coordination sur une base volontaire des actions menées par les moyens qu’ils déploient dans la zone d’intérêt maritime sous le commandement national ». 2 Voir de l’auteur : « Les politiques d’armement en Europe à travers l’exemple de l’affaire BAE Systems-EADS », Défense & Stratégie n°33, automne 2012 3 Défense européenne : le défi de l’autonomie stratégique, Rapport d’information N°626 du Sénat (par Ronan Le Gleut et Hélène Conway-Mouret), 3 juillet 2019. L’échange de droits au sein de l’EATC se fait dans un cadre multilatéral d’ensemble et est basé sur la notion d’EFH (Equivalent Flying Hour). La référence est le prix de revient d’une heure de vol de C130 ou C160 (EFH = 1). D’après l’exemple donné par le CTAE/EATC : « Le néerlandais KDC-10 exécute une mission de ravitaillement en vol au nom de l’Espagne ; en parallèle l’espagnol KC130 propose une mission de parachutage en Allemagne ; tandis que le personnel militaire allemand et le fret italien sont transportés par un A400M français ; un Learjet luxembourgeois procède à une évacuation aéromédicale d’un soldat belge blessé dans des zones de crise ; l’italien C27J transporte une cargaison hollandaise ; et le belge Embraer transporte les soldats français ». Source : www.eatc-mil.com

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1 Charles A. Kupchan, The End of the American Era, Vintage Books, 2003, p.267. 2 Le partenariat OTAN-UE dans un contexte mondial en mutation, Rapport de l’Assemblée parlementaire de l’OTAN, par Sonia Krimi, 19 novembre 2020, §16.

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1 Laurent Lagneau, « Le secrétaire général de l’Otan critique l’idée d’autonomie stratégique européenne, 5 mars 2021 », site Zone militaire Opex360.com ; ‘The EU cannot defend Europe’: NATO chief, AFP, mars 2021. 2 Voir de l’auteur : La Turquie dans l’OTAN, entre utilité et hostilités, Note IVERIS, 26 novembre, 2020.

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1 Les alliés de l’OTAN s’affrontent en Méditerranée, Fr24news, 26 août 2020. 2 Audition de Clément Beaune, secrétaire d’État chargé des affaires européennes, à la Commission des Affaires européennes de l’Assemblée nationale, 17 septembre 2020. 3 Communiqué de l’Elysée, 12 août 2020.

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1 Sur ce dernier point, peu de changements sont à signaler depuis l’état des lieux dressé dans le dernier numéro de Défense & Stratégie (n°44, pp23-24). L’exercice qui aurait dû valider la Capacité militaire de planification et de conduite (MPCC en anglais) pour des missions dites « exécutives », avec emploi de la force militaire, fut reporté en raison de la pandémie de Covid-19. Voir : Lt. Colonel Stylianos Moustakis, “Military Planning and Conduct Capability – A Review of 2020”, in Impetus n°30, hiver-printemps 2021, p.18. 2 Voir de l’auteur : « Dassault Aviation, Eric Trappier ironique sur l’achat des F-35 par les Etats européens », Theatrum Belli, 17 mars 2014.

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1 Douglas Barrie et al, Defending Europe : Scenario-based Capability Requirements for NATO’s European Members, IISS Research Paper, avril 2019. 2 Barry R. Posen, « Europe Can Defend Itself », Survival vol.62 n°6, décembre 2020 – janvier 2021. 3 Barry R. Posen, Restraint – a New Foundation for U.S. Grand Strategy, Cornell University Press, 2015. 4 Douglas Barrie et al, « Europe’s Defence Requires Offence », Survival, vol.63 n°1, février-mars 2021. 5 François Heisbourg, « Europe Can Afford the Cost of Autonomy », Survival, vol.63 n°1, février-mars 2021.

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1 Barry R. Posen, « In Reply: To Repeat, Europe Can Defend Itself », Survival, vol.63 n°1, février-mars 2021. 2 Quadrennial Defense Review, Département de la Défense des Etats-Unis, 1997. 3 Sustaining U.S. Global Leadership: Priorities for 21st Century Defense, Département de la Défense, 2012. 4 National Defense Strategy, Département de la Défense, 2018. Pour une analyse de cette nouvelle approche, voir Hal Brands – Evan Braden Montgomery, « One War Is Not Enough: Strategy and Force Planning for Great-Power Competition », Texas National Security Review, vol.3, n°2 printemps 2020. 5 The Trident Commission, Concluding Report, juillet 2014.

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1 L’intervention du sénateur américain Chris Murphy au CSIS (Center for Strategic and International Studies): The Midterm Elections’ Implications for the Transatlantic Agenda, Washington, le 14 novembre 2018. 2 Repenser la défense face aux crises du 21e siècle, Rapport de l’Institut Montaigne, février 2021, p.141. 3 At the Vanguard – European Contributions to NATO’s Future Combat Airpower, RAND Report, 2020

pag 22

1 Discours de Florence Parly à l’Atlantic Council: “The US- French relationship in a changing world”, Washington, 18 mars 2019. 2 Sur les antécédents de ce bras de fer, voir « Le double anniversaire OTAN – Défense européenne : « Plus ça change et plus c’est la même chose ! », in Défense & Stratégie n°44, hiver 2019, pp. 27-30. 3 Françoise Dumas & Sabine Thillaye, Rapport d’information sur la relance dans le secteur de la défense, N°3492, Commission de la défense nationale et des forces armées de l’Assemblée nationale, le 6 novembre 2020. 4 Audition à la commission des affaires étrangères, de Clément Beaune, secrétaire d’État chargé des affaires européennes, 16 février 2021

pag 23

1 Coopération de l’UE en matière de défense: le Conseil fixe les conditions de la participation d’États tiers à des projets CSP, Communiqué du Conseil de l’UE, 5 novembre 2020. 2 “U.S. ready to help EU speed up troop movement to meet Russia challenge”, Reuters, 2 mars 2021. La mobilité militaire est un des initiatives phares de l’UE. Elle vise à « lever les obstacles entravant les mouvements d’équipements et de personnel militaires dans l’ensemble de l’UE, afin de faciliter et d’accélérer leur mobilité, leur permettant ainsi de réagir rapidement et efficacement à des crises internes et externes ». Elle comporte trois volets: un projet CSP mené par les Pays-Bas, une communication conjointe de la Commission européenne relative à la mobilité militaire dans l’UE financée par le mécanisme pour l’interconnexion en Europe, et une initiative commune de l’Union et de l’OTAN

pag 24

1 Sebastian Sprenger, “Pentagon pushes to partake in EU military mobility planning”, Defense News, 2 mars 2021; “US-EU cooperation pitch on military mobility gets positive response”, Defense News, 15 mars 2021.

pag 25

1 Hubert Védrine, Europe : avancer les yeux ouverts, Le Monde, 27 septembre 2002. 2 Voir de l’auteur, Germany’s Transatlantic Ambiguities, FPRI Analysis, 5 mars 2021. 3 Annegret Kramp-Karrenbauer, Europe still needs America, Politico, 2 novembre 2020. 4 La doctrine Macron : une conversation avec le Président français, Le Grand Continent, 16 novembre 2020. 5 Allocution de la ministre allemand de la défense Annegret KrampKarrenbauer à l’Université Helmut Schmidt à Hambourg, 19 novembre 2020.

pag 26

1 B. Lippert, N. von Ondarza, V. Perthes (eds.), European Strategic Autonomy – Actors, Issues, Conflicts of Interests, The German Institute for International and Security Affairs (SWP), Research Paper, mars 2019. 2 Gilbert Keith Chesterton, Heretics, recueil d’essais publié en 1905.

L’OTAN reprend l’avantage dans son bras de
fer avec l’UE
Hajnalka Vincze
Senior Fellow au Foreign Policy Resarch Institute (FPRI)1
Jamais on n’a autant parlé et aussi publiquement de l’autonomie
stratégique européenne que pendant l’année 2020, et rarement
auparavant les limites politiques de ladite autonomie étaient
apparues aussi crûment. Un paradoxe largement en phase avec
l’oscillation de la posture américaine : tandis que sous
l’administration Trump même les plus atlantistes des Européens ne
pouvaient plus échapper à une certaine prise de conscience, après
l’arrivée de l’administration Biden, en revanche, les efforts visent
surtout à escamoter le fait que dans les relations transatlantiques
seul le ton change. Avec la bascule brutale entre le « méchant »
Donald Trump et le « bienveillant » Joseph Biden, les constantes
sont d’autant plus flagrantes. Le comportement des Européens
apparaît pour ce qu’il est, d’une obséquiosité à toute épreuve, et en
toutes circonstances, devant l’allié américain. Sous Trump, les
concessions se font par peur, pour amadouer le président des EtatsUnis, sous Biden, c’est par soulagement, pour le remercier de ne
pas remettre ouvertement en question les fondamentaux de
l’Alliance.
L’élaboration en parallèle, durant 2021-2022, de deux documents
clés – la Boussole stratégique de l’UE et le nouveau Concept
stratégique de l’OTAN – se fera donc à la lumière de cette
expérience récente. Les deux témoignent d’une même tentative
« d’adaptation » au nouvel environnement international, et sont
marquées par la recherche d’un modus vivendi, jusqu’ici introuvable,
entre les efforts d’autonomie européenne et le leadership américain
hérité de la guerre froide. Le tout dans un contexte qui se
1
Nota: Le contenu de l’article n’engage que son auteur et ne reflète pas
nécessairement la position du Foreign Policy Research Institute.
Défense & Stratégie Printemps 2021 – N°45
7
caractérise par la recrudescence de l’idée d’autonomie : depuis la
Stratégie globale de l’UE qui en a fait son fil directeur en 20161
,
jusqu’à la nouvelle Commission qui se décrit comme étant
« géopolitique »
2
. Le prestigieux institut de recherche pan-européen,
le Conseil européen pour les relations internationales (European
Council on Foreign Relations : ECFR), avait initié, dès l’été 2018, un
programme sur la « souveraineté européenne » et l’autonomie
stratégique. Depuis, on ne compte plus les analyses et les discours
dédiés à ce sujet. Ce qui fut naguère le terme tabou par excellence,
est devenu le mot à la mode que l’on évoque à tout bout de champ.
La pandémie du coronavirus a renforcé cette tendance par la mise à
nu des vulnérabilités européennes en tous genres, autant de signaux
d’alerte sur les dangers de la dépendance. Au prime abord, cette
évolution devrait conduire à un rééquilibrage entre les deux côtés
de l’océan Atlantique : une reprise en main européenne qui irait de
pair avec un recentrage sur l’essentiel de l’OTAN. A bien regarder
les développements concrets, rien n’est moins certain pourtant.
D’un côté, l’Alliance atlantique ajoute à ses attributs militaires une
dimension politique qui empiète toujours davantage sur la liberté de
manœuvre de l’Union et de ses Etats membres. De l’autre, le
concept de l’autonomie stratégique européenne s’éloigne
progressivement du domaine militaire : un aggiornamento bienvenu et
ô combien nécessaire, mais qui, dans les circonstances actuelles,
risque de se faire au prix d’une dilution du socle originel. Ces
évolutions simultanées entraînent la perpétuation d’une situation
malsaine : une mésalliance transatlantique où les Européens font
figure non pas d’alliés par conviction mais d’alliés par faiblesse.
1- La marche en avant de l’OTAN
Les grandes lignes de l’évolution future de l’Alliance sont
développées dans le rapport intitulé OTAN 2030 : Unis pour une
nouvelle ère3
, qui servira de base aux propositions du Secrétaire
général pour le nouveau Concept stratégique (le dernier datant de
2010). Le groupe de réflexion chargé de l’élaboration du rapport fut
dans l’air du temps : les dix participants ont été choisis avec un soin
1 Vision partagée, action commune: Une Europe plus forte – Une stratégie globale pour la
politique étrangère et de sécurité de l’Union européenne, juin 2016. 2 Lettre de mission de la part de la présidente de la Commission, Ursula von
der Leyen au Commissaire Thierry Breton, 1er décembre 2019.
3 OTAN 2030 : Unis pour une nouvelle ère, Analyse et recommandations du
Groupe de réflexion constitué par le secrétaire général de l’OTAN, 25
novembre 2020.
Défense & Stratégie Printemps 2021 – N°45
8
au-dessus de tout reproche : cinq hommes et cinq femmes… (N.B.
les Etats-Unis, la France, l’Allemagne, le Royaume-Uni et la
Turquie ont laissé aux autres la gloire de faire vibrer l’esprit de
parité). De toute manière, la réflexion entre alliés n’a qu’une
importance toute relative. L’ancien ministre des affaires étrangères
Hubert Védrine, représentant la France, a qualifié le résultat de
« bon compromis ». Ce qui signifie, en termes diplomatiques, que
les propositions américaines n’ont pas été reprises mot à mot, mais
légèrement reformulées. Védrine a lui-même admis : « J’ai pu
vérifier que les idées françaises étaient isolées au sein de l’Alliance
atlantique »
1
. En effet, le rapport ne fait que confirmer les
tendances déjà à l’œuvre à l’initiative des Etats-Unis.
11- Une expansion tous azimuts
Il s’agit avant tout d’une extension des compétences à la fois
géographiques et fonctionnelles de l’Alliance atlantique2
. Le rapport
OTAN 2030 considère déjà à parts égales les problèmes posés par
« une Russie obstinément agressive » et « la montée en puissance de
la Chine ». A la Conférence de sécurité de Munich de 2021, le
Secrétaire général de l’OTAN nomme formellement la Chine en
première place des défis3
. Jens Stoltenberg affirme, non sans raison,
que « la Chine constitue un défi pour tous les alliés », mais il s’en
sert pour dire que, par conséquent, « l’OTAN est encore plus
importante qu’avant »4
. Or, à moins de vouloir faire un remake de la
guerre froide – avec les Européens en rôle d’auxiliaires face à un
adversaire qui n’est même pas, cette fois-ci, dans leur proximité
immédiate – difficile de voir pourquoi. La consultation entre alliés
serait utile, voire la coordination entre politiques souveraines là où
c’est faisable, mais pour cela l’OTAN dirigée par les Etats-Unis
n’est certainement pas l’enceinte idéale.
Le rapport OTAN 2030 soutient aussi le renforcement continu des
compétences de l’Alliance dans des domaines aussi divers et variés
que le climat, la communication, les pandémies, l’énergie et l’espace
extra-atmosphérique. En juillet 2018, les alliés européens ont déjà
1
Jean-Dominique Merchet, « Hubert Védrine: ‘J’ai pu vérifier que les idées
françaises étaient isolées au sein de l’Alliance atlantique’ », L’Opinion, 15
décembre 2020.
2
Sur le sujet de l’extension géographique et fonctionnelle, voir de l’auteur:
« Une OTAN de plus en plus englobante », Note IVERIS, 18 octobre 2019.
3 Remarks by NATO Secretary General Jens Stoltenberg at the Munich Security
Conference 2021, 19 février 2021.
4
Presenting the POLITICO 28 Class of 2021, POLITICO Events, Entretien
filmé de David Herszenhorn avec le Secrétaire général Jens Stoltenberg, 7
décembre 2020.
Défense & Stratégie Printemps 2021 – N°45
9
accepté des « consultations régulières » et un rôle accru de l’OTAN
en matière énergétique, alors même que le sujet du gazoduc Nord
Stream 2 met en évidence, depuis des années, le conflit entre
intérêts européens et américains dans ce domaine1
. En décembre
2019, pour s’assurer encore les bonnes grâces du Président Trump,
les alliés ont reconnu, sur l’insistance des Etats-Unis, l’espace extraatmosphérique comme milieu d’opérations de l’OTAN2
. Détail
savoureux : le nouveau Centre d’excellence de l’OTAN pour
l’espace sera localisé à Toulouse – dans le bâtiment dédié au futur
centre opérationnel du commandement militaire de l’espace (CDE)
national, d’ici 2025.
Une situation qui n’est pas sans rappeler celle du Commandement
de la Transformation de l’OTAN (ACT) installé à Norfolk, en
Virginie en 2003, dans le voisinage immédiat de l’US Joint Forces
Command. Ce Commandement national américain était chargé de
développer, pour les Etats-Unis, les concepts et doctrines
« transformationnels » – or, la co-localisation n’a fait que renforcer
son influence déterminante sur les travaux de l’OTAN. Compte
tenu des rapports de force, le scénario risque de se reproduire en
sens inverse à Toulouse. Le Centre d’excellence de l’OTAN sera
soumis à une forte influence américaine – comme à Tallin où le
Centre pour la cyberdéfense subit une pression constante pour
adopter les normes et conceptions d’outre-Atlantique.3
La
proximité de centre otanien pour l’espace, chargé de l’élaboration
des doctrines et la validation des concepts, risque d’être comme le
ver dans le fruit et influer sur les travaux du CDE français. Non
sans évoquer le spectre d’un « phagocytage conceptuel et théorique
» dont Hubert Védrine parlait dans son rapport au Président sur le
retour de la France dans les structures intégrées de l’OTAN4
.
La France pourrait, disait-il, « se fondre » dans la pensée de
l’OTAN et perdre sa propre capacité de réflexion et d’analyse. En
1 Déclaration du sommet de Bruxelles par les chefs d’État et de gouvernement
participant à la réunion du Conseil de l’Atlantique Nord tenue à Bruxelles les
11 et 12 juillet 2018 (Par.78).
2 Déclaration de Londres par les dirigeants des pays de l’OTAN, Londres les 3
et 4 décembre 2019 (Par.6).
3 Audition du contre-amiral Arnaud Coustillière, officier général en charge de la
cyberdéfense à l’état-major des armées, Commission de la défense nationale et
des forces armées de l’Assemblée nationale, 12 juin 2013.
4
Hubert Védrine, Rapport pour le Président de la République française sur les
conséquences du retour de la France dans le commandement intégré de l’OTAN, sur l’avenir
de la relation transatlantique et les perspectives de l’Europe de la défense, 14 novembre
2012.
Défense & Stratégie Printemps 2021 – N°45
10
effet, c’est un risque – pour la France comme pour les Européens
dans leur ensemble – dans tous les domaines que l’Alliance décide
d’attirer dans son champ. Or, un nombre croissant de secteurs est
dans son viseur. D’après le Secrétaire général : « l’OTAN devrait
mener des consultations plus larges, aussi sur des questions
importantes pour notre sécurité, mais qui ne sont pas toujours
purement militaires. Par exemple, les questions économiques ayant
des conséquences claires sur la sécurité sont des questions sur
lesquelles nous devrions nous consulter ». Dans cet esprit, il
faudrait, selon lui, « convoquer non seulement les ministres de la
défense, les ministres des affaires étrangères et les chefs d’État et de
gouvernement comme nous le faisons régulièrement, mais aussi,
par exemple, des conseillers à la sécurité nationale, des ministres de
l’intérieur, afin d’élargir l’agenda de l’OTAN, et de renforcer les
consultations au sein de l’Alliance »
1
.
12- Un carcan politique
Non contente d’étendre ses compétences à de nouvelles aires
géographiques (notamment l’Indopacifique) et à de nouveaux
secteurs (tels l’espace et l’énergie), l’Alliance s’immisce de plus en
plus directement jusque dans les politiques internes des Etats
membres. Le Secrétaire général de l’OTAN s’est arrogé le droit
d’intervenir dans la polémique entre les partis de la coalition
gouvernementale en Allemagne sur l’utilisation (ou pas) de drones
armés, en déclarant : « Ces drones [armés] peuvent soutenir nos
troupes sur le terrain, et, par exemple, réduire le nombre de pilotes
que nous mettons en danger»
2
Plus généralement, avec l’arrivée de
l’administration Biden l’idée – jusqu’ici gelée – d’un centre de
l’OTAN pour la surveillance du respect « des valeurs
démocratiques » dans les Etats membres redevient d’actualité.
Le Centre pour la résilience démocratique fut proposé en 2019 dans
un rapport de l’Assemblée parlementaire de l’OTAN, signé du
député démocrate américain Gerald Connolly, alors président de la
délégation américaine et devenu président de l’Assemblée depuis. Il
y affirme : «Les menaces qui pèsent sur les valeurs de l’OTAN ne
proviennent pas seulement des adversaires de celle-ci. Des
mouvements politiques peu respectueux des institutions
démocratiques ou de la primauté du droit prennent de l’ampleur
dans de nombreux pays membres de l’Alliance. Ces mouvements
1 Conférence de presse du Secrétaire général de l’OTAN Jens Stoltenberg, 15
février 2021.
2 NATO chief wades into fiery German debate on armed drones, Defense News,
23 décembre 2020.
Défense & Stratégie Printemps 2021 – N°45
11
préconisent la préférence nationale à la coopération internationale.
Les démocraties libérales sont menacées par des mouvements et
des personnalités politiques hostiles à l’ordre établi qui se situent à
droite comme à gauche sur l’échiquier politique». Le rapport
suggère donc que « l’OTAN doit se doter des moyens nécessaires
pour renforcer les valeurs en question dans les pays membres », en
établissant « un centre de coordination de la résilience
démocratique»
1
.
L’idée est en train de prendre forme. Un mois après la prise de
fonction du président Biden, Connolly insiste : « Nous devons
constamment renforcer et protéger la démocratie contre les
tentatives visant à la miner – que celles-ci soient internes ou
externes. L’OTAN dispose d’une machinerie bien huilée axée sur
les questions militaires, mais il lui manque un organe qui soit
pleinement consacré à la défense de la démocratie. Cela doit
changer »
2
. L’Assemblée a fini par mettre sur pied un groupe de
travail sur la création de ce « centre de l’OTAN pour la résilience
démocratique »
3
.
Le concept est présent dans le rapport OTAN 2030 aussi, mais
celui-ci va plus loin et considère toute sorte de différences
politiques – internes et externes – entre alliés comme
problématique : « Les divergences politiques au sein de l’OTAN
représentent un danger car elles permettent à des acteurs extérieurs,
et plus particulièrement à la Russie et à la Chine, de jouer sur les
dissensions internes et de manœuvrer auprès de certains pays
membres de l’Alliance de façon à compromettre la sécurité et les
intérêts collectifs. » Les divergences sont donc vues non plus
comme l’expression de situations géographiques, traditions
historiques, choix électoraux différents, mais comme une
dangereuse absence d’alignement. Et le rapport de conclure : « Pour
que les défis de la prochaine décennie puissent être surmontés, tous
les Alliés doivent, sans ambiguïté, faire du maintien de la cohésion
1
Gerald E. Connolly, « 70 ans de l’OTAN : Pourquoi l’Alliance demeure-t-elle
indispensable ? », Rapport de l’Assemblée parlementaire de l’OTAN,
septembre 2019.
2
Plus de 60 législateurs se penchent sur le nouvel agenda pour les relations
transatlantiques et l’OTAN, Assemblée parlementaire de l’OTAN, 26 mars
2021.
3 La commission permanente crée un groupe de travail sur la création d’un
centre de l’OTAN pour la résilience démocratique, Assemblée parlementaire de
l’OTAN, 29 mars 2021.
Défense & Stratégie Printemps 2021 – N°45
12
une priorité politique, qui façonne leur comportement, même au
prix d’éventuelles contraintes »
1
.
13 – Une intégration de plus en plus étroite
Pour encourager cette discipline, on fait appel à ce que l’ancien
ambassadeur de la France auprès de l’Alliance identifie comme « la
logique intégrationniste à laquelle l’OTAN est souvent encline ».
2
Ladite logique s’est mise en retrait pendant les années Trump mais
revient en force aujourd’hui dans deux domaines en particulier : le
renforcement du financement en commun et les entorses à la règle
du consensus, sous prétexte d’efficacité. Pour ce qui est de
l’augmentation et l’extension des financements en commun, la
question réapparaît d’autant plus facilement qu’à partir de 2021 la
part des Etats-Unis dans ces financements passe de 22% à 16%,
suite à une concession obtenue par le président Trump. Sans
surprise, le Secrétaire général de l’OTAN choisit donc ce moment
pour proposer d’étendre ce financement en commun aux activités
de dissuasion et de défense. Il se substituera ainsi, en partie, à la
règle selon laquelle « les coûts sont imputés à leurs auteurs », en
vertu de laquelle celui qui déploie une capacité prend en charge tous
les frais y afférents.
La France s’est toujours opposée à une telle évolution. Financer les
déploiements et les exercices à partir d’un budget commun
favorisera surtout ceux des alliés qui rechignent à dépenser, au
niveau national, pour leur défense, mais qui se précipiteront pour
faire des démonstrations d’allégeance aux frais, majoritairement, des
autres Etats membres. De surcroît, l’accroissement du périmètre du
financement en commun de l’OTAN a l’inconvénient (ou
l’avantage) de détourner les dépenses de défense des pays
européens directement vers l’Alliance. Une fois dans le pot
commun, cet argent sera dépensé suivant les priorités américanootaniennes. C’est donc autant de moyens en moins à consacrer à
des ambitions autonomes (soit dans un cadre européen, soit par
chaque Nation). Jens Stoltenberg ne s’y trompe pas quand il
1 OTAN 2030 : Unis pour une nouvelle ère, Analyse et recommandations du
Groupe de réflexion constitué par le secrétaire général de l’OTAN, 25
novembre 2020, p.10.
2 Audition de M. Philippe Errera, ambassadeur, représentant permanent de la
France à l’OTAN, Commission des affaires étrangères, de la défense et des
forces armées du Sénat, 22 janvier 2013.
Défense & Stratégie Printemps 2021 – N°45
13
déclare : « En payant ensemble pour plus de choses, nous
renforçons notre cohésion »
1
.
L’autre manière de renforcer la cohésion à l’OTAN est de revisiter
les règles de la prise de décision. Certes, le Secrétaire général
confirme que « l’OTAN restera une organisation basée sur le
consensus », mais le diable est dans l’ajout d’un petit détail: « nous
allons chercher des moyens pour rendre la prise de décision plus
efficace »2
. Sauf que l’argument de l’efficacité du processus de prise
de décision dissimule mal l’intention principale qui est de passer
outre les réserves et réticences politiques de tel ou tel pays membre,
et garantir ainsi un alignement de fait sur la position du « garant
ultime ». Il s’agit donc d’un sujet cardinal, et le rapport OTAN 2030
lui consacre une part non négligeable. Le texte affirme que dans
« une époque marquée par une rivalité systémique croissante »,
l’Alliance doit accélérer et rationaliser son mécanisme de prise de
décision si elle veut conserver sa pertinence et son utilité aux yeux
de ses Etats membres.
A cet effet, il préconise plusieurs pistes : la réduction du pouvoir de
blocage de tel ou tel Etat membre (en confinant ce droit au niveau
ministériel et l’interdisant dans la phase d’exécution) ; la possibilité
de mettre en place des coalitions de volontaires (qui pourront se
déployer sous la bannière de l’OTAN même si tous les pays
membres ne sont pas partants) ; l’accroissement des pouvoirs du
Secrétaire général (celui-ci pourra prendre seul des décisions sur les
questions de routine et lancer des rappels à l’ordre, en cas de
blocage politique, au nom de la cohésion). Ces propositions ne
marquent pas, à elles seules, un changement de paradigme, mais
elles traduisent un mouvement de fond : dans le contexte particulier
de l’OTAN même le moindre grignotage sur les prérogatives des
Etats membres renforce l’emprise du plus puissant d’entre eux sur
l’ensemble de l’Alliance.
Qui plus est, avec les reproches sur la lenteur et l’inefficacité on voit
réapparaître la question, autrement plus explosive, de la délégation
d’autorité, en temps de crise, vers le commandant suprême de
l’OTAN (le SACEUR, un général américain qui reçoit ses ordres
1 Conférence de presse du Secrétaire général de l’OTAN Jens Stoltenberg, 15
février 2021.
2 Entretien du Secrétaire général de l’OTAN, Jens Stoltenberg, avec Politico, 7
décembre 2020.
Défense & Stratégie Printemps 2021 – N°45
14
directement du Pentagone et de la Maison Blanche)1
. Un sujet
éminemment sensible sur lequel l’administration Obama n’avait pas
cessé d’insister, mais qui fut gelé ensuite pendant les quatre années
de la présidence Trump. Les rapports successifs à l’Assemblée
parlementaire de l’OTAN montrent clairement la pression
américaine pour élargir « le degré d’autonomie opérationnelle » du
Commandant suprême de l’Alliance. Ainsi, dès 2015, on apprend
que « Le SACEUR dispose de l’autorité pour alerter, organiser et
préparer des troupes afin qu’elles soient prêtes à intervenir une fois
la décision politique prise par le CAN [Conseil de l’Atlantique
Nord]. Le SACEUR a toutefois proposé de pouvoir entamer le
déploiement des forces avant de recevoir l’autorisation du CAN, car
il estime qu’il serait prudent, d’un point de vue militaire, de disposer
d’une telle capacité de réaction rapide. Cette mesure ‘Alerte,
Préparation et Déploiement’ a été refusée par le CAN, qui a
clairement déclaré que la décision de procéder à tout mouvement
de forces demeurera une décision politique »
2
.
Un an plus tard, « Le Conseil poursuit le débat sur la question de
savoir jusqu’à quel point il pourrait, tout en conservant son statut
d’autorité politique ultime, déléguer au commandant suprême des
forces alliées en Europe (SACEUR) le processus de mise en alerte,
de mise en attente et de déploiement des forces »
3
. A la conférence
de Riga de 2019, l’ancien Secrétaire général adjoint de l’OTAN
souligne que la règle du consensus au CAN pose des problèmes de
réactivité en cas de conflit. Toutefois, Vershbow se veut rassurant :
un certain degré d’autorité a déjà été délégué au SACEUR, ce qui lui
permet de commencer la préparation des troupes, les mesures de
pré-déploiement même si le CAN à Bruxelles hésite. Le SACEUR,
dit-il, n’est pas juste là tranquillement assis à ne rien faire, en
attendant le feu vert du CAN.4
Il reste à savoir si une telle agitation,
en pleine période de tensions, en amont de la décision collective et
1
Pour davantage de détails sur cette épineuse question, voir de l’auteur :
L’OTAN cherche à contourner la règle du consensus, Note IVERIS, 25 août 2015 et
Après Varsovie : l’OTAN au sommet de ses contradictions, in Défense &
Stratégie n°40, automne 2016. 2
Xavier Pintat, Le plan d’action ‘Réactivité’ de l’OTAN: assurance et
dissuasion pour la sécurité après 2014, Rapport, Assemblée parlementaire de
l’OTAN, 10 octobre 2015.
3
Joseph A. Day, La nouvelle posture de dissuasion de l’OTAN : du Pays de
Galles à Varsovie, Projet de rapport général, Assemblée parlementaire de
l’OTAN, 19 septembre 2016.
4
The Rīga Conference 2019, Coffee break conversation between Alexander
Vershbow and Julian Lindley-French, 14 octobre 2019, enregistrement vidéo.
Défense & Stratégie Printemps 2021 – N°45
15
sous l’ordre exclusif des Etats-Unis, ne risquerait-elle pas de placer
les représentants des autres pays membres devant le fait accompli.
L’Alliance atlantique, de par son mouvement simultané d’expansion
et d’intégration pourra vite écarter l’UE du jeu. L’OTAN s’aventure
de plus en plus ouvertement sur des terrains normalement réservés
soit à l’échelon national soit à l’UE, tout en trouvant le moyen
d’intégrer toujours plus étroitement ses pays membres. Du moins
ceux qui lui avaient presque complètement délégué leur défense,
donc tous, à l’exception des Etats-Unis, de la Turquie et de la
France.1
Dans ces circonstances, il est difficile de voir comment la
PSDC (la Politique de sécurité et de défense commune de l’Union
européenne) pourrait se tailler une place à côté d’une OTAN de
plus en plus englobante et absorbante.
2- La dévaluation de la PSDC
L’élaboration du document intitulé « Boussole stratégique », en cours
depuis 2020 avec adoption prévue début 2022, affiche parmi ses
objectifs « le renforcement de l’autonomie stratégique » de l’UE.
Or, depuis le début de l’année 2020 on assiste à un déplacement du
concept d’autonomie stratégique, originellement apparue dans la
PSDC, vers d’autres secteurs non-militaires. Parallèlement, la
tentative de concilier l’ouverture et l’interdépendance
consubstantielles au projet européen avec l’impératif d’autonomie
stratégique apparaît de plus en plus clairement comme la quadrature
du cercle. D’où la dernière trouvaille du volapük bruxellois : le
concept de « l’autonomie ouverte ».
21 – Le concept d’ « autonomie stratégique » sorti de la
défense
La pandémie de Covid-19 a mis en lumière les liens entre différents
domaines tels la prospérité, la santé, l’industrie, la technologie, la
sécurité et le commerce. Il est clairement apparu que face aux
chantages et pressions de type géoéconomique, l’UE, du fait du
1
Comme l’a expliqué le Secrétaire général adjoint de l’Alliance, Camille Grand :
«C’est frappant lorsqu’on arrive dans l’OTAN en tant que Français que pour
26 alliés sur 29, la politique de sécurité et de défense se fait à l’OTAN à 90 %
ou à 99 %. Il y a trois exceptions : les États-Unis, la France, et la Turquie qui a
toujours gardé la volonté de disposer d’un outil de défense qui puisse
fonctionner en dehors de l’Alliance atlantique ». Propos tenus à la Table ronde
à l’Assemblée nationale : « Avenir de l’Alliance atlantique », 27 novembre 2019.
NB : Avec l’adhésion du la Macédoine du Nord depuis, en mars 2020,
l’Alliance compte 30 pays membres aujourd’hui.
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16
marché unique et des compétences qui lui avaient été transférées,
serait en principe particulièrement bien placée pour réagir.
Simultanément, l’aggravation des tensions internationales (avec la
Turquie, la Russie, la Chine) et le comportement unilatéral de l’allié
américain (sous le président Biden tout autant que sous
l’administration Trump) incitent à repenser le rôle de l’Union dans
un monde caractérisé par le retour en triomphe des rapports de
force. Comme le formule une étude de Parlement européen :
« L’Union court en effet le risque de devenir le ‘terrain de jeu’ pour
les grandes puissances globales, dans un monde de plus en plus
dominé par la géopolitique. Construire l’autonomie stratégique
européenne de façon horizontale et transversale lui permettrait de
renforcer son action multilatérale et de réduire sa dépendance
envers les acteurs externes »
1
.
Le texte examine donc le besoin d’autonomie stratégique dans des
secteurs divers et variés comme le climat, l’énergie, les marchés
financiers, le commerce l’euro, l’industrie, le numérique en outre du
domaine traditionnellement y associé qu’est la défense. Il précise
aussi qu’il convient de « renforcer la capacité de l’Union à agir de
manière autonome, non seulement avec la Chine, mais aussi avec
d’autres partenaires ». Les auteurs semblent inspirés par la vision
française, et notamment par0 les récents discours du président
Emmanuel Macron, lorsqu’ils affirment : « L’autonomie stratégique,
appuyée par le langage de la puissance, un langage qui rappelle
clairement les intérêts de l’Union et protège ses valeurs, ainsi que
les moyens et les outils pour rendre ce langage crédible, sont des
conditions nécessaires pour éviter que l’Union ne se trouve
impliquée, malgré elle, dans la rivalité stratégique sans cesse
exacerbée entre les États-Unis et la Chine, et leurs valeurs et
intérêts respectifs ».
2
Sauf que « le langage » de la puissance et de l’indépendance est
diamétralement opposé à l’ADN même de la construction
européenne, sans parler de la majorité des Etats membres devenus
imperméables à ce genre de considérations à force de s’en remettre
1 Sur le chemin de l’autonomie stratégique – L’Union européenne dans un environnement
géopolitique en mutation, Etude du Service de recherche du Parlement européen,
septembre 2020.
2
Idem. Emmanuel Macron parle de retrouver « la grammaire de la puissance »
dans son interview à The Economist en novembre 2019 et précise que « l’Europe,
si elle ne se pense pas comme puissance, disparaîtra ». A la conférence des
ambassadeurs en 2019, il met en garde : « Nous aurons le choix entre des
dominations », soit américaine, soit chinoise.
Défense & Stratégie Printemps 2021 – N°45
17
exclusivement à l’OTAN. Pour prendre la mesure des difficultés,
même dans un contexte de prise de conscience, il n’y a qu’à lire la
« Note hispano-néerlandaise sur l’autonomie stratégique et la
préservation de l’ouverture économique » de mars 20211
. Les deux
pays y reconnaissent les risques des dépendances asymétriques dans
les secteurs stratégiques, mais pour y remédier proposent
l’autonomie stratégique ouverte qu’ils décrivent ainsi : « Plutôt que
l’indépendance, l’autonomie stratégique doit favoriser une plus
grande résilience et l’interdépendance, dans le contexte de la
mondialisation, où l’interopérabilité doit prévaloir sur l’uniformité ».
Comprenne qui pourra. Le Conseil européen, de son côté, se
contente d’affirmer : « Parvenir à une autonomie stratégique tout en
préservant une économie ouverte est un objectif clé de l’Union ».
2
Certes, l’identification des risques liés à la « dépendance excessive »
et l’objectif de « réduction des vulnérabilités », le tout dans une
grille de lecture qui se veut géopolitique, est une approche nouvelle
à l’échelle européenne qu’il convient de saluer. Elle témoigne d’une
sorte de « prise de conscience ». Il y a deux réserves à émettre,
néanmoins. Premièrement, les événements récents montrent que,
dans une situation de crise, soit on est pleinement autonome sur
l’ensemble des secteurs et des filières cruciaux, soit on est à la merci
des décisions des autres. Ce n’est pas « un certain degré
d’autonomie », comme le formulent les textes européens, qui va
faire de l’Europe une puissance et la libérer du funeste choix entre
différentes tutelles étrangères. Pour paraphraser Marie-France
Garaud, conseillère des présidents Pompidou et Chirac : « être
indépendant, c’est comme être enceinte, soit on l’est, soit on ne l’est
pas ».
De surcroît, la prolifération du mot risque de cacher l’effacement de
la chose. Alors même que dans l’UE le terme « autonomie
stratégique », jadis tabou, est maintenant évoqué sans retenue et
dans les secteurs les plus variés, son domaine originel, celui de la
défense, s’atrophie à vue d’œil. Les initiatives de la PSDC manquent
obstinément d’ambition, et certaines se déplacent même en dehors
de l’Union. Serait-ce un signe que les enceintes bruxelloises à 27
(que ce soit la Commission ou le Conseil) ne sont finalement pas le
bon échelon pour coopérer dans un domaine qui engage le cœur
même de la souveraineté des Nations ?
1 Spain-Netherlands non-paper on strategic autonomy while preserving an
open economy, Gouvernement des Pays-Bas www.rijksoverheid.nl , 25 mars
2021.
2 Conclusions du Conseil européen, 1er et 2 octobre 2020.
Défense & Stratégie Printemps 2021 – N°45
18
22 – Le maigre bilan de la PSDC et sa fuite hors de l’UE
Depuis la relance de 2016, une série d’initiatives dans le cadre de la
PSDC sont censées donner corps à la notion d’autonomie
européenne. Elles sont impressionnantes en ingéniosité
institutionnelle et en nombre, mais force est de constater que du
point de vue d’une quelconque autonomie la PSDC est loin du
compte. Elle ne se dirige même pas forcément dans la bonne
direction. Comme le remarque l’étude précitée du Parlement
européen : « Il est possible que les solutions techniques se révèlent
insuffisantes si les États membres n’élargissent pas le consensus
politique existant pour convenir de l’objectif et des besoins d’un
instrument de défense européen ». En somme, malgré la
prolifération des initiatives la défense européenne se retrouve à la
case départ : bloquée par l’absence de vision partagée et le manque
de volonté politique.
En matière de capacités opérationnelles, l’UE reste très en deçà de
« l’objectif global » fixé à Helsinki en décembre 1999, sur la base de
la déclaration de Saint-Malo qui prévoyait « une capacité autonome
d’action, appuyée sur des forces militaires crédibles, avec les
moyens de les utiliser et en étant prête à le faire afin de répondre
aux crises internationales ». Au sujet des quelque 40 opérations
lancées depuis, l’Institut Montaigne constate : « les missions et
opérations de la PSDC n’apportent que des réponses très partielles
aux crises actuelles »
1
. Elles ont, certes, pu avoir des effets
bénéfiques très circonscrits ici ou là, mais elles ne font certainement
pas le poids face aux enjeux internationaux. Il leur faudra, pour cela,
changer de nature et de logique. Jolyon Howorth, l’éminent
spécialiste de la défense européenne et des relations transatlantiques
a récemment fait remarquer à juste titre : les opérations de l’UE «
ne font pas grand-chose pour faire avancer la cause de
l’autonomie »
2
.
Pour ce qui est du magnifique trio d’initiatives post-2016 qui
auraient dû galvaniser la PSDC, sur chacun des trois volets les
ambitions ont été revues à la baisse, les objectifs initiaux dilués.
L’examen annuel coordonné en matière de défense (CARD en
anglais) n’est qu’une énième variation sur le thème du
« développement des capacités », en vue de déterminer et de
1 Défense européenne : le défi de l’autonomie stratégique, Rapport d’information N°626
du Sénat (par R. Le Gleut et H. Conway-Mouret), 3 juillet 2019. 2
Jolyon Howorth, “Europe and Biden –Towards a New Transatlantic Pact? ”,
Wilfried Martens Center, janvier 2021.
Défense & Stratégie Printemps 2021 – N°45
19
combler les failles dans les capacités militaires des États membres
de l’Union. Avec les résultats que l’on connaît : ce sont les mêmes
lacunes qui sont énumérées depuis le premier exercice de ce type, il
y a 20 ans. D’après Sven Biscop, de l’Institut Egmont, le plan de
capacités de l’UE est tout aussi non-contraignant que celui de
l’OTAN, « il n’est donc pas surprenant qu’ils n’ont qu’une influence
marginale sur les planifications nationales de défense »
1
. Ignorer les
priorités du CARD, ajoute-t-il, n’entraîne même pas les quelques
inconfortables moments d’auto-justification comme c’est le cas
dans l’Alliance.
La Coopération structurée permanente (CSP), originellement mise
en place pour créer une sorte d’avant-garde de pays volontaires
avec des moyens capacitaires, a perdu tout son sens du fait de
l’exigence « d’inclusivité » formée par l’Allemagne. Elle compte
donc aujourd’hui 25 des 27 Etats membres (tous sauf Malte et le
Danemark). Finalement, le Fonds européen de défense (FED),
conçu pour assurer un cofinancement aux projets d’armement
européens en coopération, a aussi vu ses objectifs réduits. Tant sur
le plan pécuniaire (des 13 milliards d’euros initialement prévus pour
la période 2021-2027, le Fonds n’aura que 7 milliards) qu’en matière
d’ambitions stratégiques (contredites par le refus d’instaurer la
préférence européenne et par la tolérance envers l’entrisme de pays
tiers).
Simultanément à ce détricotage de la PSDC, on remarque un
déplacement de certaines initiatives hors du cadre de l’UE. Même
sans Londres, les 27 ont du mal à se mettre d’accord et il leur est
souvent impossible de trouver une réponse commune à telle ou
telle situation. Soit parce que certains rechignent à confier trop
d’importance à l’UE en matière militaire (de peur de rendre
l’OTAN redondante), soit parce que d’autres divergences d’ordre
politique compliquent les négociations sur le mandat, sur les
moyens à engager ou sur le commandement. Dans ce contexte,
pour éviter que toutes les initiatives opérationnelles ne fuissent
l’UE, le Conseil a lancé le projet pilote du « concept de présences
maritimes coordonnées », dans le golfe de Guinée. Ce nouveau
concept est expressément « distinct des missions et opérations
PSDC ». L’idée est de désigner « une zone d’intérêt maritime » et y
1
Sven Biscop, EU and NATO Strategy: A Compass, a Concept; and a Concordat,
Egmont Institute, Security Policy Brief n°141, mars 2021.
Défense & Stratégie Printemps 2021 – N°45
20
assurer une meilleure coordination des activités nationales des Etats
membres1
.
De leur côté, l’Allemagne, la Belgique, le Danemark, la France, la
Grèce, l’Italie, les Pays-Bas, et le Portugal ont pris l’initiative de
créer, en janvier 2020, la Mission européenne de surveillance
maritime dans le détroit d’Ormuz (EMASOH) avec l’intention de
contribuer à la réduction de l’instabilité et sécuriser le trafic
maritime. Pour rappel, les huit pays ont tous adhéré à l’Initiative
européenne d’intervention (IEI), lancée par Paris en dehors de la
PSDC. Douze pays ont déjà adhéré à l’IEI, y compris le Danemark
et le Royaume-Uni, dans l’espoir d’opérationnaliser la coopération
de défense entre pays européens. C’est un signe supplémentaire du
pragmatisme ambiant, et traduit la volonté de préserver les
questions militaires à l’écart des institutions à 27, dans des cadres
souples, entre volontaires « capables et prêts ».
Le Commandement du transport aérien européen (CTAE/EATC)
regroupant sept pays est l’exemple le plus abouti en matière de
mutualisation dans une logique respectueuse des souverainetés
nationales. Inauguré en septembre 2010, le CTAE a permis à la
France, dès le mois de décembre de la même année, d’envoyer trois
compagnies de combat en Côte d’Ivoire en utilisant des avions
néerlandais, belges et allemands. Conformément à la procédure dite
de Reverse Transfer of Authority, « en l’absence d’engagement national,
ces moyens peuvent être mis à la disposition de partenaires selon
des modalités prévoyant une reprise sous commandement national
en cas de besoin »2
. Un rapport du Sénat sur l’autonomie
stratégique européenne remarque au sujet du CTAE : « le principe
mériterait d’être étendu à d’autres domaines (hélicoptères, soutien
médical, par exemple) »
3
.
1
Conclusions du Conseil portant lancement du projet pilote du concept de
présences maritimes coordonnées dans le golfe de Guinée, 25 janvier 2021 : «
Les Etats membres continuent d’améliorer la coordination sur une base
volontaire des actions menées par les moyens qu’ils déploient dans la zone
d’intérêt maritime sous le commandement national ».
2
Voir de l’auteur : « Les politiques d’armement en Europe à travers l’exemple
de l’affaire BAE Systems-EADS », Défense & Stratégie n°33, automne 2012
3 Défense européenne : le défi de l’autonomie stratégique, Rapport d’information N°626
du Sénat (par Ronan Le Gleut et Hélène Conway-Mouret), 3 juillet 2019.
L’échange de droits au sein de l’EATC se fait dans un cadre multilatéral
d’ensemble et est basé sur la notion d’EFH (Equivalent Flying Hour). La
référence est le prix de revient d’une heure de vol de C130 ou C160 (EFH =
1). D’après l’exemple donné par le CTAE/EATC : « Le néerlandais KDC-10
exécute une mission de ravitaillement en vol au nom de l’Espagne ; en parallèle
Défense & Stratégie Printemps 2021 – N°45
21
En somme, la Realpolitik revient en force, à la fois dans la prise de
conscience, peu ou prou, de l’exigence d’autonomie stratégique à
l’échelle européenne pour les secteurs les plus divers, et dans la
revalorisation de la logique intergouvernementale dans la
coopération entre les Etats. Il reste, néanmoins, un problème de
taille. Pour ce qui est du domaine de la défense proprement dite, les
partenaires européens de la France refusent de le penser réellement
en termes d’autonomie, que ce soit dans le cadre de l’UE ou dans
des formations multilatérales. Or, tant que l’autonomie stratégique
ne devient pas le principe directeur en matière de défense, leurs
efforts dans d’autres domaines resteront donc éphémères et vains.
Comme le souligne Charles A. Kupchan, directeur des affaires
européennes au Conseil de sécurité nationale sous les présidents
Clinton et Obama, « le contrôle en matière de sécurité est le facteur
décisif pour déterminer qui est aux commandes »
1
.
3- Le retour en force de l’éternel triptyque des
relations OTAN-UE
Depuis 2016, la coopération entre l’UE et l’OTAN s’est
remarquablement intensifiée, comme en témoigne deux
déclarations conjointes (en 2016 et 2018) et l’identification de non
moins de 74 actions à mettre en œuvre en commun. Cette
recrudescence des activités de rapprochement n’est pas sans lien
avec le redémarrage, en 2016 justement, de la défense européenne.
Comme le note le dernier rapport consacré à ce sujet à l’Assemblée
parlementaire de l’OTAN : un des facteurs principaux à l’origine de
cet « essor de la coopération » est « le nouveau cycle d’initiatives
européennes de sécurité en dehors du cadre de l’OTAN »
2
. En
effet, à mesure que l’autonomie stratégique européenne devient le
leitmotiv de ces nouvelles initiatives, l’Alliance cherche à ne pas les
laisser échapper de son emprise. Le Secrétaire général oppose

l’espagnol KC130 propose une mission de parachutage en Allemagne ; tandis
que le personnel militaire allemand et le fret italien sont transportés par un
A400M français ; un Learjet luxembourgeois procède à une évacuation
aéromédicale d’un soldat belge blessé dans des zones de crise ; l’italien C27J
transporte une cargaison hollandaise ; et le belge Embraer transporte les
soldats français ». Source : www.eatc-mil.com. 1
Charles A. Kupchan, The End of the American Era, Vintage Books, 2003, p.267. 2 Le partenariat OTAN-UE dans un contexte mondial en mutation, Rapport de
l’Assemblée parlementaire de l’OTAN, par Sonia Krimi, 19 novembre 2020,
§16.
Défense & Stratégie Printemps 2021 – N°45
22
ouvertement les deux : « la solidarité stratégique à l’OTAN » est
préférable à « l’autonomie stratégique à l’UE »
1
.
Les limites politiques fixées à la PSDC dès le départ par les EtatsUnis reviennent donc sur le devant de la scène. Il faut admettre que
ces restrictions, connues sous le nom des 3D, ont été un coup de
maître de la part de la diplomatie américaine. L’exigence de nonduplication couvre tous les domaines critiques du point de vue de
l’autonomie : elle met des limites strictes à la capacité d’actions
autonomes des Européens à la fois sur le plan opérationnel (la
planification et conduite), structurel (l’industrie d’armement et
technologie) et stratégique (la défense collective). Le non-découplage
sert la prévention : les Européens sont priés de ne même pas
réfléchir et décider ensemble, hors OTAN, sur ces questions. La
non-discrimination, elle, fonctionne comme un verrou de sécurité.
Dans l’hypothèse où, malgré toutes ces précautions, une initiative
européenne prendrait une ampleur inattendue, l’exigence de
l’inclusion des alliés non-UE permet d’intervenir directement pour
rappeler à l’ordre les récalcitrants.
31 – Non-découplage ?
Le critère de non-découplage de la prise de décision a, une fois de
plus, révélé ses limites lors des tensions gréco-turques en 20202
.
Compte tenu du degré de conflictualité entre ces deux pays
membres de l’OTAN – dont l’un fait partie de l’Union européenne,
l’autre non – la distinction entre les deux enceintes prend,
justement, tout son sens. Pour rappel, au moment du lancement de
la PSDC, toute avancée institutionnelle de la politique de défense
européenne naissante fut suspendue à la conclusion d’accords entre
l’UE et l’OTAN – cette conclusion étant elle-même retardée par la
dispute entre la Grèce et la Turquie. Une des conditions posées par
Ankara était la promesse que les forces de l’Union européenne ne
seront jamais employées contre un Etat membre de l’Alliance. La
Turquie voulait éviter que la Grèce, rejointe plus tard par Chypre
après l’adhésion de celle-ci à l’UE, ne puisse impliquer l’ensemble
de l’Union, de manière militaire, dans leurs disputes. Au bout de
deux ans de négociations, la promesse a été faite, avec l’engagement
étrange, exigé par la Grèce au nom du principe de réciprocité, que
1
Laurent Lagneau, « Le secrétaire général de l’Otan critique l’idée d’autonomie
stratégique européenne, 5 mars 2021 », site Zone militaire Opex360.com ; ‘The
EU cannot defend Europe’: NATO chief, AFP, mars 2021.
2
Voir de l’auteur : La Turquie dans l’OTAN, entre utilité et hostilités, Note
IVERIS, 26 novembre, 2020.
Défense & Stratégie Printemps 2021 – N°45
23
l’OTAN non plus n’attaquera jamais un pays de l’Union
européenne.
Quoi qu’il en soit, ces détails en disent long sur la nette distinction
entre les deux organisations. Malgré le fait que 21 Etats sont
membres des deux à la fois, l’UE et l’OTAN ne se confondent
point – un fait démontré de façon spectaculaire à l’occasion des
tensions récentes autour des réserves d’hydrocarbures en
Méditerranée orientale. La Grèce et Chypre étant membres de
l’Union européenne, toute tentative de grignotage sur leurs
frontières, maritimes ou autre, revient à remettre en cause celles de
l’UE. Par conséquent, suite aux agissements turcs dans la région, le
ministre grec des affaires étrangères a pu faire valoir : « La Grèce
défendra ses frontières nationales et européennes, la souveraineté et
les droits souverains de l’Europe ».
1
Une communauté de destin
soulignée aussi par le secrétaire d’Etat français aux affaires
européennes, Clément Beaune : « La Turquie mène une stratégie
consistant à tester ses voisins immédiats, la Grèce et Chypre et, à
travers eux, l’ensemble de l’Union européenne ».
2
Il va de soi que l’Alliance n’est pas l’enceinte idéale pour défendre
l’intégrité territoriale des Etats européens contre un pays allié.
D’emblée, la France y voit donc une occasion pour affirmer une
politique européenne de solidarité « envers tout Etat membre dont
la souveraineté viendrait à être contestée »
3
. Cette remarque
officielle de l’Elysée rappelle, en filigrane, la défense collective
implicite qui se cache dans les traités européens depuis celui
d’Amsterdam de 1997. Parmi les objectifs de la politique étrangère
et de sécurité y figure déjà la « sauvegarde de l’intégrité de l’Union »,
autrement dit la défense des frontières extérieures. Cet élément –
souvent ignoré, et pourtant plein de ramifications possibles – fut
ajouté à l’époque à la demande explicite d’Athènes, avec le plein
soutien de Paris.
32 – Non-duplication ?
Le critère de la non-duplication entre l’OTAN et l’UE comporte
traditionnellement trois interdictions : il ne peut pas y avoir de
« dédoublement » fonctionnel (la PSDC ne doit pas toucher au
monopole de l’OTAN sur la défense collective) ; pas de duplication
1
Les alliés de l’OTAN s’affrontent en Méditerranée, Fr24news, 26 août 2020.
2
Audition de Clément Beaune, secrétaire d’État chargé des affaires
européennes, à la Commission des Affaires européennes de l’Assemblée
nationale, 17 septembre 2020.
3
Communiqué de l’Elysée, 12 août 2020.
Défense & Stratégie Printemps 2021 – N°45
24
capacitaire (en matière d’armement, les Européens sont priés de
continuer à prioriser l’achat d’armements américains, au lieu de
réfléchir en termes d’autonomie pour la BITDE – base industrielle
et technologique de défense européenne) ; ni duplication des
moyens de planification et de conduite (autrement dit, pas de
Quartier général pour la PSDC)1
. Les deux premiers sujets – la
défense collective et les achats d’armement – ont toujours été, plus
ou moins implicitement, imbriqués l’un dans l’autre. Car c’est un
fait : depuis la création de l’OTAN, les alliés qui se sentent protégés
par le parapluie américain, affichent comme l’a remarqué le PDG
de Dassault Aviation, « une vraie volonté d’acheter américain quels
que soient les prix, quel que soit le besoin opérationnel »2
. Or
l’incertitude, ces derniers temps, autour de la fiabilité des garanties
américaines met à rude épreuve cette logique transactionnelle.
La revigoration en 2016 de la PSDC a suscité des inquiétudes, dans
les milieux de l’OTAN, en particulier quant à un éventuel
débordement de la nouvelle dynamique européenne vers la défense
collective, chasse gardée de l’Alliance. Depuis, le Secrétaire général
de l’OTAN passe le gros de son temps à lancer des mises en garde
et martèle que « l’Europe ne peut pas se défendre ». A son malheur,
pendant quatre ans il a dû le faire alors que le président Trump, de
son côté, n’a cessé de jeter des doutes sur la garantie de défense de
l’OTAN. Cette remise en cause de l’Article 5, par le président
américain, a fait comprendre même aux plus atlantistes des
Européens que, justement, il pourra bien arriver un jour où ils se
retrouveront tous seuls pour se défendre. Une hypothèse qui donne
lieu à d’âpres polémiques publiques, mais aussi à un foisonnant
débat d’experts de part et d’autre de l’Atlantique.
L’un des échanges les plus intéressants s’est développé sur les
colonnes de la revue britannique Survival, une publication de renom
sous l’égide de l’IISS, International Institute for Strategic Studies. En avril
2019, une équipe de l’IISS a publié une étude estimant que les alliés
européens de l’OTAN ne seraient pas capables de faire face à une
1
Sur ce dernier point, peu de changements sont à signaler depuis l’état des
lieux dressé dans le dernier numéro de Défense & Stratégie (n°44, pp23-24).
L’exercice qui aurait dû valider la Capacité militaire de planification et de
conduite (MPCC en anglais) pour des missions dites « exécutives », avec
emploi de la force militaire, fut reporté en raison de la pandémie de Covid-19.
Voir : Lt. Colonel Stylianos Moustakis, “Military Planning and Conduct
Capability – A Review of 2020”, in Impetus n°30, hiver-printemps 2021, p.18. 2
Voir de l’auteur : « Dassault Aviation, Eric Trappier ironique sur l’achat des
F-35 par les Etats européens », Theatrum Belli, 17 mars 2014.
Défense & Stratégie Printemps 2021 – N°45
25
agression russe – les Etats-Unis devraient venir à leur rescousse1
.
Fin 2020, Barry R. Posen, le directeur du Programme d’Etudes de
Sécurité au prestigieux Massachusetts Institute of Technology (MIT), a
pris le contre-pied de l’hypothèse et des affirmations de cette étude
dans un article au titre parlant : « L’Europe peut se défendre »
2
. Le
débat n’était pas sans susciter des réactions, qui pour mettre en
cause la pertinence des scénarii choisis, qui pour questionner les
motivations et les messages politiques des papiers. D’un côté,
l’étude de l’IISS fut vue par certains comme tombant à pic pour
discréditer toute idée d’autonomie. De l’autre, Posen fut accusé
d’être indulgent envers les faiblesses européennes uniquement pour
mieux étayer la thèse de son récent livre qui préconise une politique
étrangère de « retenue » pour les Etats-Unis3
.
Quoi qu’il en soit, trois éléments du débat méritent que l’on s’y
arrête. Premièrement, les intervenants des deux côtés s’accordent
pour dire que le montant nécessaire pour combler les lacunes
capacitaires des Européens (en vue d’une menace russe de type
conventionnel) se situe aux alentours de 300 milliards d’euros. Or,
comme le font remarquer même les chercheurs de l’IISS : rien
qu’en comblant l’écart avec l’objectif de 2% du PIB sur lequel les
alliés européens s’étaient engagés dans le cadre de l’OTAN, ils
dépenseraient 100 milliards d’euros de plus… par an.4
Deuxièmement, François Heisbourg a introduit dans le débat la
dimension nucléaire jusqu’alors complètement mise de côté.
Comme il remarque, à juste titre : « le risque d’une guerre en
Europe ne peut pas être analysée indépendamment du facteur
nucléaire [car] la Russie n’envisage pas la moindre opération sur le
théâtre européen sans un certain lien avec un menace nucléaire
russe implicite ». Par conséquent, une « dissuasion élargie » serait
« un élément indispensable de tout effort pour contrer une
agression militaire russe »
5
. Une occasion en or, pour Posen, de
rappeler la fragilité du concept même de dissuasion élargie : « La
1
Douglas Barrie et al, Defending Europe : Scenario-based Capability Requirements for
NATO’s European Members, IISS Research Paper, avril 2019. 2
Barry R. Posen, « Europe Can Defend Itself », Survival vol.62 n°6, décembre
2020 – janvier 2021.
3
Barry R. Posen, Restraint – a New Foundation for U.S. Grand Strategy, Cornell
University Press, 2015.
4
Douglas Barrie et al, « Europe’s Defence Requires Offence », Survival, vol.63
n°1, février-mars 2021.
5
François Heisbourg, « Europe Can Afford the Cost of Autonomy », Survival,
vol.63 n°1, février-mars 2021.
Défense & Stratégie Printemps 2021 – N°45
26
relation de dissuasion élargie entre les Etats-Unis et l’Europe a
toujours été, elle aussi, une hypothèse problématique »
1
.
Finalement, le débat sur la défense de l’Europe se focalise
uniquement sur les lacunes européennes et fait abstraction de la
question de la capacité des Etats-Unis de venir en aide. Après la
guerre froide, le document de référence du Pentagone, le
Quadrennial Defense Review (QDR) a déterminé que les Etats-Unis
devaient être en mesure de mener (et de remporter) deux guerres à
la fois, la condition sine qua non du statut de superpuissance2
. Cette
approche fut la position officielle jusqu’à la Stratégie de 2012, où
l’administration Obama y substitua une doctrine dite de « deuxmoins » : l’objectif de remporter une guerre, tout en imposant des
coûts inacceptables à un agresseur sur un autre théâtre3
. Finalement,
la Stratégie de 2018, sous le président Trump, a tiré les conclusions
de la montée en puissance de la Chine et ne vise plus qu’une seule
guerre à la fois, s’en remettant à la dissuasion sur un second
théâtre4
.
Une évolution qui n’est certainement pas près de rassurer
les alliés européens. D’autant qu’elle ne fait que renforcer les
doutes, déjà exprimés dans le Rapport de la Commission Trident
britannique –composée d’anciens ministres de la défense et des
affaires étrangères, d’ex-ambassadeurs et chefs d’état-major – sur la
volonté et la capacité des Etats-Unis de défendre l’Europe5
.
Or, l’autre grand volet de l’interdiction de la non-duplication,
l’armement, est directement lié à la perception des garanties de
défense. Le sénateur américain Chris Murphy a clairement exposé la
logique du donnant-donnant lorsqu’il s’est inquiété, sous le
président Trump, de l’impact de la remise en cause de l’Article 5 sur
les ventes d’armement. Cet élu démocrate du Connecticut a
expliqué, lors d’une conférence, comment la garantie de l’OTAN
apporte un bénéfice économique à son Etat, à condition que les
Européens y croient : « grâce à cette alliance étroite, il est beaucoup
plus probable que les Européens achètent des produits de Sikorsky
et de Pratt & Whitney ». Murphy reproche à Donald Trump d’avoir
1
Barry R. Posen, « In Reply: To Repeat, Europe Can Defend Itself », Survival,
vol.63 n°1, février-mars 2021. 2 Quadrennial Defense Review, Département de la Défense des Etats-Unis, 1997.
3 Sustaining U.S. Global Leadership: Priorities for 21st Century Defense, Département
de la Défense, 2012.
4 National Defense Strategy, Département de la Défense, 2018. Pour une analyse
de cette nouvelle approche, voir Hal Brands – Evan Braden Montgomery,
« One War Is Not Enough: Strategy and Force Planning for Great-Power
Competition », Texas National Security Review, vol.3, n°2 printemps 2020.
5
The Trident Commission, Concluding Report, juillet 2014.
Défense & Stratégie Printemps 2021 – N°45
27
jeté des doutes sur l’engagement américain pour la défense
collective, car suite à cela « les alliés européens commencent à
explorer d’autres options pour l’achat de leurs équipements
militaires, y compris des initiatives préoccupantes qui excluraient les
Etats-Unis »
1
.
Il fait référence au Fonds européen de défense conçu, comme on l’a
vu, pour cofinancer les projets d’armement européens à partir du
budget communautaire. La participation de tiers – surtout celle des
puissants industriels américains appuyés par leur gouvernement –
serait contre-productive par rapport à l’objectif affiché
d’autonomie. Les divisions entre Européens à cet égard sont
reflétées dans la coupe spectaculaire du budget (de 13 milliards à 7
milliards pour le prochain cadre pluriannuel). Tant que les EtatsUnis n’obtiendront pas d’accès selon leurs propres termes, ses alliés
européens les plus proches s’opposeront au renforcement de cet
instrument. Inversement, s’ils obtiennent gain de cause et que les
Etats-Unis deviennent éligibles au financement du FED (d’une
manière ou d’une autre, par le truchement de la participation à la
CSP par exemple), c’est la France qui devrait normalement y réduire
son engagement. Car cela transformerait le budget du FED en une
passoire permettant aux entreprises d’Etats tiers, en particulier
américains, de siphonner à leur guise les dépenses européennes.
Ceci d’autant plus que cette logique s’applique déjà pour les achats
d’armement en général. Comme le souligne un rapport récent de
l’Institut Montaigne « Il n’existe toujours pas aujourd’hui de
préférence européenne lors de l’acquisition d’équipement (…)
l’acquisition de matériels américains consomme les budgets de
défense des États, impacte les budgets restants pour les industriels
européens et permet une certaine ingérence américaine dans les
affaires de défense de l’UE »
2
. Le rapport donne l’exemple des
avions de combat : « Dans le domaine aérien par exemple, la
participation au programme F35 de pays comme l’Italie, les PaysBas ou plus récemment la Belgique fragilise l’industrie
européenne »
3
. Pour mémoire, c’est ce même avion que la ministre
Florence Parly évoqua pour refuser le lien établi par Washington
1
L’intervention du sénateur américain Chris Murphy au CSIS (Center for
Strategic and International Studies): The Midterm Elections’ Implications for
the Transatlantic Agenda, Washington, le 14 novembre 2018. 2 Repenser la défense face aux crises du 21e siècle, Rapport de l’Institut Montaigne,
février 2021, p.141.
3 At the Vanguard – European Contributions to NATO’s Future Combat
Airpower, RAND Report, 2020.
Défense & Stratégie Printemps 2021 – N°45
28
entre garanties de défense et achats d’armement : « La clause de
solidarité de l’OTAN s’appelle Article 5, et non pas Article F-35 »
1
.
33 – Non-discrimination ?
Le domaine de l’armement continue d’être l’enjeu majeur du
troisième D, celui de l’interdiction de toute discrimination envers
les alliés non membres de l’UE. S’agissant d’un sujet névralgique,
cette interdiction est, pour une fois, directement et publiquement
invoquée pour assurer la présence des Etats-Unis dans les initiatives
européennes. La saga de l’accès au FED s’est poursuivie, dans cet
esprit, tout au long de l’année 2020.2
Comme le note un rapport de
l’Assemblée nationale : « Les discussions sont particulièrement
tendues sur la question de l’éligibilité des entreprises des pays tiers,
notamment celles du Royaume-Uni et des États-Unis, au FED. Les
États membres sont divisés sur la question et, pour certains qui
hébergent des filiales d’entreprises américaines, soumis à une forte
pression des États-Unis pour une plus grande souplesse dans les
critères d’éligibilité ». Et aux auteurs du rapport d’expliquer : « Il va
de soi que si le FED devait être largement ouvert aux entreprises
des pays tiers, c’est autant de financement en moins pour atteindre
l’objectif de l’autonomie stratégique »
3
.
Quelques mois plus tard, le Secrétaire d’Etat aux affaires
européennes, Clément Beaune, se veut rassurant : « Le fonds
européen de défense vient financer nos propres projets
d’autonomie stratégique européenne. Il est exclu de financer les
pays tiers. La coopération structurée permanente, qui est une
coopération de projet, inclut la possibilité d’intégrer des pays tiers à
bord de certains projets, avec des règles d’approbation par les pays
de l’Union européenne au cas par cas »
4
. En effet, aux termes du
compromis bricolé sous la présidence allemande de l’UE, des
« Etats tiers » peuvent entrer dans tel ou tel projet CSP à condition
qu’il y ait pour cela une décision politique, et tant qu’il n’y a pas de
fonds commun européen en jeu – du moins en principe. Pour
1 Discours de Florence Parly à l’Atlantic Council: “The US- French relationship
in a changing world”, Washington, 18 mars 2019.
2
Sur les antécédents de ce bras de fer, voir « Le double anniversaire OTAN –
Défense européenne : « Plus ça change et plus c’est la même chose ! », in
Défense & Stratégie n°44, hiver 2019, pp. 27-30.
3
Françoise Dumas & Sabine Thillaye, Rapport d’information sur la relance dans le
secteur de la défense, N°3492, Commission de la défense nationale et des forces
armées de l’Assemblée nationale, le 6 novembre 2020.
4
Audition à la commission des affaires étrangères, de Clément Beaune,
secrétaire d’État chargé des affaires européennes, 16 février 2021.
Défense & Stratégie Printemps 2021 – N°45
29
rappel, la CSP et le FED ont été créés pour être complémentaires
l’un de l’autre. La CSP peut être vue par certains acteurs extérieurs
comme une éventuelle passerelle vers, ou un droit de blocage
contre, le FED : soit pour accéder à celui-ci en tant que tiers, soit
pour parvenir à en exclure tel ou tel programme du fait même de sa
propre participation au projet correspondant.
De surcroît, le Secrétaire d’Etat Beaune se garde bien de préciser si
la France avait réussi à imposer, en tant que critère sine qua non,
ses deux conditions initiales pour l’accès d’un tiers à la CSP. A
savoir : considérer comme un préalable non négociable le fait que la
propriété intellectuelle et le droit d’exportation doivent rester, sans
ambiguïté aucune, sous contrôle européen. Ou bien, au lieu de cela,
les conditions générales ont été réduites, comme le laisse penser le
communiqué de l’UE, à ce que le participant tiers « doit partager les
valeurs sur lesquelles l’Union est fondée, ne doit pas porter atteinte
aux intérêts de l’Union et de ses États membres en matière de
sécurité et de défense et doit avoir conclu un accord pour échanger
des informations classifiées avec l’UE »
.1
Car si c’est le cas, l’objectif
initial de non-dépendance est caduc et la CSP définitivement vidée
de sa substance.
Le risque est d’autant plus grand que l’approche choisie par la
nouvelle administration Biden est remarquablement intelligente. Les
Etats-Unis tirent prétexte du « nouveau départ » dans les relations
transatlantiques, après les années Trump, pour retourner la situation
et présenter leur revendication d’accès comme le signe d’un nouvel
engagement. C’est donc par désir de resserrer les liens entre alliés
qu’ils souhaitent honorer de leur présence les initiatives
européennes. La manœuvre est encore plus habile puisque
Washington avance par paliers. Au lieu de viser tout de suite les
questions les plus sensibles, les Etats-Unis vont se connecter
d’abord au projet sur la mobilité militaire, qui fait lui aussi partie des
quelque 50 projets de la CSP2
. Mais la porte-parole du Pentagone
1
Coopération de l’UE en matière de défense: le Conseil fixe les conditions de
la participation d’États tiers à des projets CSP, Communiqué du Conseil de
l’UE, 5 novembre 2020.
2
“U.S. ready to help EU speed up troop movement to meet Russia challenge”,
Reuters, 2 mars 2021. La mobilité militaire est un des initiatives phares de l’UE.
Elle vise à « lever les obstacles entravant les mouvements d’équipements et de
personnel militaires dans l’ensemble de l’UE, afin de faciliter et d’accélérer leur
mobilité, leur permettant ainsi de réagir rapidement et efficacement à des crises
internes et externes ». Elle comporte trois volets: un projet CSP mené par les
Pays-Bas, une communication conjointe de la Commission européenne relative
à la mobilité militaire dans l’UE financée par le mécanisme pour
Défense & Stratégie Printemps 2021 – N°45
30
admet que ce n’est que le premier pas : « une étape cruciale pour
identifier comment les États-Unis et l’UE peuvent travailler
ensemble dans d’autres projets de la CSP, et pour explorer une
éventuelle coopération entre les États-Unis et l’UE dans d’autres
initiatives de défense de l’UE ». Jessica Maxwell ajoute que
Washington voit dans l’approbation rapide par l’UE de la
participation américaine un signe prometteur quant aux
« engagements de l’UE et des États membres à garder les initiatives
de défense de l’UE ouvertes aux États-Unis »
1
. La messe est dite.
4- Union, quelle union ?
Plus l’UE parle d’autonomie, plus les appels à « plus d’intégration »
se multiplient. Dans cette narration, le passage à la majorité
qualifiée créerait, d’un coup de baguette magique, une Europepuissance parlant d’une seule voix, à même de jouer son propre rôle
sur l’échiquier géopolitique. Mais une telle vision simpliste a
tendance de confondre la forme et le fond. Ce n’est pas du fait de la
règle de l’unanimité que l’UE est incapable d’avoir une politique de
puissance indépendante, bien au contraire. La position majoritaire
parmi les partenaires européens a toujours été d’ignorer, voire
vilipender les concepts de puissance et d’indépendance. S’il ne
tenait qu’à eux, l’Europe serait, depuis fort longtemps, un 51ème
Etat américain voire, demain, une 24ème province chinoise.
L’exigence de l’unanimité est le seul garde-fou qui reste pour les
quelques-uns, souvent la France seule, qui sont attachés à l’idée
d’être maîtres de leur destin et faire leurs propres choix.
L’excellent article d’Hubert Védrine « Avancer les yeux ouverts »
(écrit en 2002, mais qui n’a pas pris une ride depuis) résume
parfaitement les options. L’ancien ministre des affaires étrangères y
plaide pour « l’honnêteté intellectuelle » avant d’entamer les
prochaines étapes de la construction européenne : « De deux choses
l’une : ou bien nous acceptons, parce que nous estimons que
l’ambition européenne prévaut sur toutes les autres ou parce que
nous jugeons que le cadre européen est désormais le seul qui nous
permette de défendre nos intérêts, de nous fondre progressivement
dans cet ensemble. Et alors nous jouons à fond le jeu européen, le
renforcement des institutions européennes et communautaires, la

l’interconnexion en Europe, et une initiative commune de l’Union et de
l’OTAN.
1
Sebastian Sprenger, “Pentagon pushes to partake in EU military mobility
planning”, Defense News, 2 mars 2021; “US-EU cooperation pitch on military
mobility gets positive response”, Defense News, 15 mars 2021.
Défense & Stratégie Printemps 2021 – N°45
31
généralisation du vote à la majorité. Et nous en acceptons par
avance toutes les conséquences. Ou bien, considérant que nous ne
pourrons pas préserver avec 9 % des voix au Conseil, 9 % des
membres du Parlement, un commissaire sur 25, des positions et des
politiques que nous jugeons fondamentales, nous refusons ce saut
institutionnel »
1
.
Parmi ces positions fondamentales, impossibles à préserver dans
une Europe supranationale régie par la logique de la majorité, se
trouve l’exigence d’autonomie et de puissance. Un épisode récent
illustre à la perfection la solitude de la France et les dangers pour
elle à céder aux sirènes européistes dans l’espoir d’une Europepuissance imaginaire. Il s’agit de la passe d’arme, fin 2020, entre le
président Macron et la ministre allemande de la défense Annegret
Kramp-Karrenbauer (AKK)2
. Celle-ci déclare, à la veille de la
présidentielle américaine, que les « illusions d’autonomie stratégique
européenne doivent cesser »3
. Sur quoi, le président français
rétorque : « Il ne faut surtout pas perdre le fil européen et cette
autonomie stratégique, cette force que l’Europe peut avoir pour
elle-même. Il s’agit de penser les termes de la souveraineté et de
l’autonomie stratégique européennes, pour pouvoir peser par nousmêmes et non pas devenir le vassal de telle ou telle puissance et ne
plus avoir notre mot à dire.»
4
. AKK persiste et signe : « L’idée de
l’autonomie stratégique européenne va trop loin si elle implique que
nous serions capables de garantir la sécurité, la stabilité et la
prospérité de l’Europe sans l’OTAN et sans les Etats-Unis. C’est
une illusion »
5
.
Comme on pouvait s’y attendre, les autres pays européens se sont
rangés du côté de l’Allemagne. Le ministre polonais de la défense
Mariusz Błaszczak en a conclu que « nous devons être plus proches
des Etats-Unis que jamais », et le Premier ministre espagnol Pedro
Sánchez a fait savoir sans équivoque : « Je suis avec la vision
allemande ». Le ministre italien de la défense, Lorenzo Guerini, voit
1
Hubert Védrine, Europe : avancer les yeux ouverts, Le Monde, 27 septembre
2002.
2
Voir de l’auteur, Germany’s Transatlantic Ambiguities, FPRI Analysis, 5 mars
2021.
3
Annegret Kramp-Karrenbauer, Europe still needs America, Politico, 2
novembre 2020.
4 La doctrine Macron : une conversation avec le Président français, Le Grand
Continent, 16 novembre 2020.
5 Allocution de la ministre allemand de la défense Annegret KrampKarrenbauer à l’Université Helmut Schmidt à Hambourg, 19 novembre 2020.
Défense & Stratégie Printemps 2021 – N°45
32
dans l’autonomie stratégique européenne la « confirmation du rôle
de l’Europe en tant que pilier de l’architecture de sécurité collective
basée sur le pacte transatlantique ». Son homologue portugais, João
Gomes Cravinho, met en garde : « Essayer de faire en sorte que
l’autonomie stratégique de l’UE fasse moins au sein de l’OTAN ou
tenter de se séparer de l’OTAN serait, à notre avis, une grave
erreur ». Difficile de ne pas voir, derrière ces discours, le
positionnement des uns et des autres par rapport à Washington.
Tout comme chacun se détermine en fonction de sa propre vision
du monde par rapport à Pékin, Ankara ou Moscou. Les chercheurs
de l’institut allemand SWP, qui conseille le gouvernement fédéral
sur les questions de sécurité, constatent : les relations bilatérales
entre les États membres de l’UE et les grandes puissances sont
guidées par des « loyautés disparates et des intérêts
contradictoires », ce qui rend une approche commune de
l’autonomie stratégique difficile, pour ne pas dire inconcevable1
.
L’écrivain-philosophe anglais, G. K. Chesterton a brillamment
exposé, il y a cent ans, la vacuité des arguments en faveur d’une
union entre entités différentes : « L’Union c’est la force, l’union
c’est également la faiblesse. Transformer dix nations en un seul
empire peut s’avérer aussi réalisable que de transformer dix shillings
en un demi-souverain [aujourd’hui : dix pièces de dix pence en un Pound].
Mais cela peut également être aussi absurde que de transformer dix
terriers en un seul mastiff. La question dans tous les cas n’est pas
une question d’union ou d’absence d’union, mais d’identité ou
d’absence d’identité. En raison de certaines causes historiques et
morales, deux nations peuvent être si unies que dans l’ensemble
elles se soutiennent. Mais à cause de certaines autres causes morales
et de certaines autres causes politiques, deux nations peuvent être
unies et ne faire que se gêner l’une l’autre; leurs lignes entrent en
collision et ne sont pas parallèles. Nous avons alors un état de
choses qu’aucun homme sain d’esprit ne songerait jamais à vouloir
continuer s’il n’avait pas été ensorcelé par le sentimentalisme du
seul mot ‘union’ »
2
. Dans l’Europe d’aujourd’hui, continuer signifie
le nivellement par le bas et la dilution des ambitions.
1
B. Lippert, N. von Ondarza, V. Perthes (eds.), European Strategic Autonomy –
Actors, Issues, Conflicts of Interests, The German Institute for International and
Security Affairs (SWP), Research Paper, mars 2019.
2
Gilbert Keith Chesterton, Heretics, recueil d’essais publié en 1905.

Il modo giusto per dividere Cina e Russia Washington dovrebbe aiutare Mosca a lasciare un cattivo matrimonio Di Charles A. Kupchan

Questo articolo, del quale avevamo già annunciato la traduzione http://italiaeilmondo.com/2021/08/12/stati-uniti-nato-e-unione-europea-lillusione-di-un-addio-il-miraggio-dellautonomia_di-giuseppe-germinario/ rappresenta la perfetta fotografia delle contraddizioni e della confusione imperante nei centri decisori statunitensi. Della serie: “conosciamo i problemi dei nostri avversari; contiamo sul fatto che saranno dirimenti nel creare fratture insanabili; agiremo per questo; non abbiamo nulla da offrire a uno dei due contendenti perché ciò avvenga”. Può darsi che i due ci caschino; mi pare però che prevalga in entrambi, giustificatamente, la diffidenza riguardo l’affidabilità del presunto portatore di carte. A meno che la classe dirigente statunitense non abbia la certezza di un’ulteriore implosione della Russia. A quel punto non resterebbe che spartirsi il bottino con una Cina strettamente contenuta sul Pacifico e con una valvola di sfogo a nord-ovest. Non pare una ipotesi fondata e nemmeno auspicabile dagli stessi avversari visto l’arsenale disponibile e la dimensione del “che fare” dopo. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Mentre Washington cerca una strategia efficace per gestire l’ascesa della Cina, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha ragione a fare affidamento su uno dei vantaggi più evidenti degli Stati Uniti: la sua rete globale di alleanze. Ma anche se Biden costruisce una coalizione per domare Pechino, deve anche lavorare dall’altra parte dell’equazione indebolendo le partnership internazionali della Cina. Non può fermare l’ascesa della Cina, ma può limitarne l’influenza cercando di allontanare dalla Cina il suo principale collaboratore: la Russia.

La partnership sino-russa accresce significativamente la sfida che l’ascesa della Cina pone agli Stati Uniti. Il lavoro di squadra tra Pechino e Mosca amplifica l’ambizione e la portata della Cina in molte regioni del mondo, nella battaglia per il controllo delle istituzioni globali e nella competizione mondiale tra democrazia e alternative illiberali. Appoggiarsi al crescente potere della Cina consente alla Russia di superare il suo peso sulla scena globale e dà energia alla campagna di Mosca per sovvertire il governo democratico in Europa e negli Stati Uniti.

Il legame tra Cina e Russia sembra essere forte, ma ci sono crepe sotto la superficie. È una relazione asimmetrica, che associa una Cina ascendente, fiduciosa e egocentrica con una Russia stagnante e insicura. Questa asimmetria offre a Biden un’apertura: per mettere distanza tra i due paesi, la sua amministrazione dovrebbe sfruttare i dubbi della Russia sul suo status di partner minore della Cina. Aiutando la Russia a correggere le vulnerabilità che le sue relazioni con la Cina hanno messo in netto rilievo, in effetti, aiutando la Russia ad aiutare se stessa, Biden può incoraggiare Mosca ad allontanarsi da Pechino. Separare la Russia dalla Cina metterebbe fine alle ambizioni di entrambi i paesi,

UNA PARTNERSHIP INEGUAGLIATA

Cina e Russia possono essere in un matrimonio di convenienza, ma è molto efficace. La Cina generalmente va da sola sulla scena internazionale, preferendo rapporti transazionali e di libera concorrenza con altri paesi. Eppure fa un’eccezione per la Russia. Oggi Pechino e Mosca hanno stretto un rapporto che è “simile ad un’alleanza”, per usare il termine del presidente russo Vladimir Putin. Comprende l’approfondimento dei legami economici, compresi gli sforzi per ridurre il dominio del dollaro USA nell’economia globale; l’uso congiunto della tecnologia digitale per controllare e sorvegliare i cittadini cinesi e russi e seminare il dissenso all’interno delle democrazie mondiali; e la cooperazione in materia di difesa, come esercitazioni militari congiunte e il trasferimento di sistemi e tecnologie d’arma avanzati dalla Russia alla Cina.

L’inclinazione della Russia verso la Cina ha accompagnato il suo allontanamento dall’Occidente, che si è approfondito con l’estensione della frontiera orientale della NATO al confine occidentale della Russia. Il contatto di Mosca con Pechino si è intensificato dopo che l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni alla Russia a seguito dell’annessione della Crimea del 2014 e dell’intervento militare nell’Ucraina orientale. Pechino ha ricambiato, appoggiandosi a Mosca per amplificare l’influenza della Cina nel mezzo della crescente rivalità economica e strategica con gli Stati Uniti. Da quando Xi Jinping è diventato presidente della Cina nel 2013, lui e Putin si sono incontrati o si sono parlati al telefono circa 40 volte.

La relazione sino-russa è fondata su una visione realistica del mondo, ed entrambi i paesi ne traggono benefici reciproci e individuali. Il lavoro di squadra diplomatico porta avanti il ​​loro obiettivo unificante di resistere a ciò che vedono come l’invadente ambizione geopolitica e ideologica dell’Occidente. La partnership consente alla Russia di concentrare la sua attenzione strategica sulla sua frontiera occidentale e alla Cina di concentrarsi sul suo fianco marittimo. La Russia ottiene notevoli entrate dalla vendita di energia e armi alla Cina, e la Cina alimenta l’espansione della sua economia e aumenta la sua capacità militare con l’aiuto delle armi russe.

Il rapporto tra Cina e Russia ha cominciato a somigliare allo stretto accoppiamento cinese-sovietico degli anni ’50.

Ma i due paesi non sono partner naturali; storicamente, sono stati concorrenti, e le fonti della loro rivalità di lunga data non sono certo scomparse per sempre. Il Cremlino è estremamente sensibile alle realtà del potere e sa benissimo che una Russia fiacca di circa 150 milioni di persone non può competere con una Cina dinamica di quasi un miliardo e mezzo di persone. L’economia cinese è circa dieci volte più grande di quella russa e la Cina è in una lega completamente diversa quando si tratta di innovazione e tecnologia. La Belt and Road Initiative (BRI) della Cina ha fatto breccia nella tradizionale sfera di influenza della Russia in Asia centrale, e il Cremlino è giustamente preoccupato che la Cina abbia anche progetti sulla regione artica.

Che la Russia sia ancora attaccata alla Cina nonostante tali asimmetrie è un potente segno della disaffezione di Mosca dall’Occidente. Eppure lo squilibrio crescerà solo nel tempo e diventerà una fonte di disagio sempre più grande per il Cremlino. Washington ha bisogno di capitalizzare su quel disagio e convincere la Russia che sarebbe meglio geopoliticamente ed economicamente se si proteggesse dalla Cina e si inclinasse verso l’Occidente.

Una mossa del genere non sarà facile da realizzare. Putin ha rafforzato a lungo la sua presa in casa giocando al nazionalismo russo e tenendo testa all’Occidente. Lui e i suoi apparatchik potrebbero dimostrarsi troppo risoluti nei loro modi e non disposti a sostenere una politica estera che non si basi su tale atteggiamento. Di conseguenza, l’amministrazione Biden deve avvicinarsi a Mosca con gli occhi ben aperti; mentre cerca di attirare la Russia verso ovest, non può acconsentire al comportamento aggressivo del Cremlino o permettere a Putin di sfruttare la mano tesa di Washington.

La sfida di Biden sarà più complicata di quella affrontata dal presidente degli Stati Uniti Richard Nixon negli anni ’70, quando si avvicinò alla Cina e riuscì a turbare le relazioni sino-sovietiche e ad indebolire il blocco comunista. Al momento della visita di Nixon in Cina nel 1972, Pechino e Mosca si erano già separate. Nixon ha avuto vita facile; il suo compito era costruire, non iniziare, una frattura. Biden affronta l’ostacolo più alto di rompere una partnership intatta, motivo per cui la sua migliore scommessa è alimentare le tensioni latenti nella relazione cinese-russa.

LA STRANA COPPIA

La Cina e la Russia hanno a lungo gareggiato per il territorio e lo status. Il confine terrestre tra i due paesi attualmente corre per più di miglia 2,600 e le loro controversie sul territorio, l’influenza nelle regioni di confine e il commercio risalgono a secoli fa. Durante i secoli XVII e XVIII, la Cina ha avuto il sopravvento e generalmente ha prevalso. La situazione è cambiata nel diciannovesimo e ventesimo secolo, con la Russia e altre potenze europee che ricorrono a un mix di predazione militare e diplomazia coercitiva per strappare il controllo del territorio alla Cina e imporre condizioni di sfruttamento dello scambio.

L’avvento al potere del Partito Comunista Cinese (PCC) nel 1949 ha aperto la strada a un periodo storicamente senza precedenti di cooperazione strategica tra Cina e Unione Sovietica. Basandosi sul loro comune impegno per il comunismo, i due paesi conclusero un’alleanza formale nel 1950. Migliaia di scienziati e ingegneri sovietici si trasferirono in Cina, condividendo tecnologia industriale e militare e persino aiutando i cinesi a sviluppare un programma di armi nucleari. Durante la guerra di Corea, i sovietici fornirono alla Cina rifornimenti, consiglieri militari e copertura aerea. Il commercio bilaterale è cresciuto rapidamente, rappresentando il 50 percento del commercio estero della Cina entro la fine del decennio. Il leader cinese Mao Zedong ha affermato che i due Paesi avevano “un rapporto stretto e fraterno.

Sembra che il compagno di Xi non giochi bene in casa per Putin.

Ma l’alleanza si è presto erosa con la stessa rapidità con cui si era formata. Mao e Krusciov iniziarono a separarsi nel 1958. Il loro litigio derivava in parte da differenze ideologiche. Mao cercò di mobilitare i contadini, alimentando il fervore rivoluzionario e lo sconvolgimento sociale in patria e all’estero. Krusciov, al contrario, sostenne la moderazione ideologica, il socialismo industrializzato e la stabilità politica in patria e all’estero. I due paesi hanno iniziato a competere per la leadership del blocco comunista, con Mao che ha osservato che Krusciov “teme che i partiti comunisti . . . del mondo non crederà in loro, ma in noi».

Tali differenze sono state amplificate dal disagio della Cina per le asimmetrie di potere che hanno decisamente favorito l’Unione Sovietica. In un discorso del 1957, Mao accusò l’Unione Sovietica di “sciovinismo delle grandi potenze”. L’anno seguente, si lamentò con l’ambasciatore sovietico a Pechino che “pensi di essere in grado di controllarci”. Secondo Mao, i russi consideravano la Cina “una nazione arretrata”. Krusciov, da parte sua, incolpò Mao per la scissione. Dopo che le truppe cinesi e indiane si scambiarono il fuoco attraverso il confine conteso nel 1959, Krusciov commentò che Pechino “desiderava la guerra come un gallo da combattimento”. A una riunione dei capi di partito del blocco comunista, ha deriso Mao definendolo “un ultra-sinistra, un ultra-dogmatista”.

Questa rottura tra i due leader ha portato al disfacimento della collaborazione sino-sovietica. Nel 1960, i sovietici ritirarono i loro esperti militari dalla Cina e interruppero la cooperazione strategica. Nei due anni successivi, il commercio bilaterale è crollato di circa il 40%. Il confine è stato remilitarizzato e i combattimenti scoppiati nel 1969 hanno quasi innescato una guerra su vasta scala. All’inizio degli anni ’70, Nixon ha capitalizzato e ha esacerbato la spaccatura raggiungendo la Cina, un processo che è culminato nella normalizzazione delle relazioni tra Stati Uniti e Cina nel 1979. Solo dopo il crollo dell’Unione Sovietica le relazioni tra Mosca e Pechino si riprenderebbe.

CERCANDO DI FARE BELLO

Dopo la fine della Guerra Fredda, Cina e Russia hanno cominciato a sistemare le cose. Nel corso degli anni ’90, i due paesi hanno risolto una serie di controversie sui confini rimanenti e nel 2001 hanno firmato il Trattato di buon vicinato e cooperazione amichevole. Hanno gradualmente approfondito la cooperazione militare e i legami commerciali, con il primo oleodotto dalla Russia alla Cina completato nel 2010. Pechino e Mosca hanno anche iniziato ad allineare le loro posizioni presso le Nazioni Unite e hanno collaborato a iniziative volte a contrastare l’influenza occidentale, come la creazione dello Shanghai Organizzazione per la Cooperazione nel 2001 e il cosiddetto raggruppamento economico BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) nel 2009.

Questi passi incrementali verso la cooperazione bilaterale si sono approfonditi e accelerati sotto Xi e Putin, alimentati dalla rottura di Mosca con l’Occidente a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina e della crescente rivalitàtra Stati Uniti e Cina. Negli ultimi anni, il rapporto tra Cina e Russia ha iniziato a somigliare allo stretto accoppiamento cinese-sovietico degli anni ’50. Basandosi sulla cooperazione militare iniziata negli anni ’90, la Russia ha aiutato la Cina ad affrontare le sue principali priorità di difesa fornendo caccia a reazione, sistemi di difesa aerea all’avanguardia, missili antinave e sottomarini. Negli ultimi anni circa il 70% delle importazioni di armi cinesi è arrivato dalla Russia. La vendita di petrolio e gas alla Cina sostiene l’economia russa e riduce la dipendenza della Cina da rotte di approvvigionamento marittimo più vulnerabili. La Russia ora rivaleggia con l’Arabia Saudita come principale fornitore di petrolio della Cina e la Cina ha sostituito la Germania come principale partner commerciale della Russia. Sotto Xi e Putin, Cina e Russia hanno unito le forze per contrastare le norme liberali negli organismi internazionali e diffondere un marchio di governance basato sul governo autocratico e sul controllo statale delle piattaforme di informazione. In molte parti del mondo, le campagne di disinformazione e le operazioni di intelligence russe si stanno combinando con la leva coercitiva offerta dagli investimenti cinesi per sostenere i regimi illiberali.

Questa cooperazione su più dimensioni è impressionante e consequenziale. Ma poggia su una base fragile e manca di un fondamento di fiducia reciproca, come ha fatto il partenariato sino-sovietico all’inizio della Guerra Fredda. Negli anni ’50, gli stretti legami tra la Cina e l’Unione Sovietica erano altamente personalizzati, rendendoli vulnerabili ai capricci del rapporto tra Mao e Krusciov. Oggi, la cooperazione sino-russa dipende fortemente dalla relazione imprevedibile tra due individui, Xi e Putin. Durante il primo decennio della Guerra Fredda, Mosca ha cercato stabilità in patria e all’estero, mentre Pechino ha favorito la rivoluzione continua. Oggi Pechino punta sulla stabilità interna e internazionale per accelerare la sua ascesa, mentre Mosca mostra i muscoli oltre i suoi confini per favorire il disordine. Durante gli anni Cinquanta, Il dominio di Mosca sulla partnership ha alimentato il risentimento a Pechino. Oggi la Cina ha il sopravvento e le forti asimmetrie di potere assalgono la Russia.

Il divario di potere è particolarmente difficile da ingoiare per il Cremlino; sembra che il compagno di Xi non giochi bene in casa per Putin, il cui marchio politico si basa sul suo tentativo di riportare la Russia allo status di grande potenza. Ma la disparità tra i due paesi è lampante e crescente. Il commercio con la Cina rappresenta oltre il 15% di tutto il commercio estero della Russia, mentre il commercio con la Russia rappresenta circa l’1% del commercio estero della Cina. E questo squilibrio sta aumentando con l’avanzare del settore high-tech cinese. Nell’Estremo Oriente della Russia, circa sei milioni di russi vivono oltre il confine da circa 110 milioni di cinesi nelle tre province della Manciuria, e la regione sta diventando sempre più dipendente da beni, servizi e manodopera cinesi. Dmitri Trenin, un importante analista russo,

La Russia ha aiutato e favorito la modernizzazione militare della Cina, forse a proprie spese.

È passato molto tempo da quando i due paesi hanno litigato apertamente per il territorio e l’influenza nelle regioni di confine. Ma il nazionalismo e l’etnocentrismo sono profondi in entrambe le culture politiche e potrebbero riaccendere dispute territoriali di vecchia data. Il South China Morning Post ha recentemente pubblicato un commento sostenendo che “il corteggiamento di Mosca da parte di Xi non ha senso perché ignora l’animosità che ha definito le relazioni sino-russe dal . . . XVII secolo”. E il sentimento anti-cinese in Russia continua a prendere piede, alimentato, come altrove, dalle origini cinesi del COVID-19. Ma tali pregiudizi sono antecedenti alla pandemia, sostenuti in parte dagli stessi pregiudizi razziali di cui Mao si lamentò circa sei decenni fa.

La crescente dipendenza economica della Russia dalla Cina la rende sempre più esposta alla leva coercitiva di Pechino e approfondisce la dipendenza della Russia dall’esportazione di combustibili fossili, la cui vendita rappresenta oltre i due terzi delle entrate delle esportazioni russe e un terzo del bilancio federale. Questo difficilmente rappresenta una buona scommessa sul futuro mentre il mondo si rivolge a fonti di energia rinnovabili. La BRI cinese sta diffondendo investimenti e infrastrutture in tutta l’Eurasia, ma l’iniziativa aggira principalmente la Russia, fornendole pochi vantaggi. Negli ultimi anni sono stati aperti solo pochi nuovi valichi di frontiera e gli investimenti cinesi in Russia sono stati irrisori.

I russi prevedono di collegare la propria Unione economica eurasiatica alla BRI, ma i due sistemi competono più che complementari. Nel 2017, l’EAEU ha proposto alla Cina 40 progetti di trasporto e Pechino li ha rifiutati tutti. Il ministro degli Esteri russo non si è presentato a una riunione ad alto livello sulla BRI lo scorso anno, indicando, secondo Ankur Shah, un analista che si concentra sulle relazioni russo-cinese, che Mosca “non si sente più obbligata a inchinarsi davanti alla cintura di Pechino e Strada.” La Cina ha di fatto sostituito la Russia come potenza economica dominante in Asia centrale e l’interesse di Pechino a sfruttare lo sviluppo economico e nuove rotte marittime nell’estremo nord, quella che la Cina chiama “la via della seta artica”, pone una chiara sfida alla strategia della Russia nel regione. I piani della Cina per l’Artico sono apparentemente complementari a quelli russi,

Nel frattempo, il rapporto di difesa tra Cina e Russia ha perso parte del suo slancio precedente. L’esercito cinese ha beneficiato dei trasferimenti di armi e tecnologie russe e Mosca ha accolto con favore le entrate e la cooperazione militare risultanti. Tuttavia, i progressi nell’industria della difesa cinese, resi possibili in parte dal furto della tecnologia bellica russa da parte delle aziende cinesi, stanno rendendo la Cina meno dipendente dalle importazioni russe. Anche l’acquisizione da parte della Cina di missili a raggio intermedio (apparentemente destinati a contrastare la presenza avanzata degli Stati Uniti) rappresenta un’ipotetica minaccia per il territorio russo. E Mosca sta senza dubbio monitorando da vicino l’arsenale in espansione della Cina di missili intercontinentali e la costruzione di nuovi silos di lancio nella Cina occidentale. La Russia ha aiutato e favorito la modernizzazione militare della Cina, forse a proprie spese.

AIUTA LA RUSSIA AIUTA SE STESSA

Se la Russia deve essere attirata verso ovest, non risulterà dalle aperture o dall’altruismo di Washington, ma dalla fredda rivalutazione del Cremlino sul modo migliore per perseguire il proprio interesse personale a lungo termine. Un’offerta di Washington per ridurre le tensioni con l’Occidente non avrà successo da sola; dopotutto, Putin fa affidamento su tali tensioni per legittimare la sua ferrea presa politica. Invece, la sfida che deve affrontare Washington è quella di cambiare il più ampio calcolo strategico del Cremlino dimostrando che una maggiore cooperazione con l’Occidente può aiutare la Russia a correggere le crescenti vulnerabilità derivanti dalla sua stretta collaborazione con la Cina.

Il primo passo di Washington dovrebbe essere quello di abbandonare la definizione della strategia statunitense “democrazia contro autocrazia”. Gli Stati Uniti e i suoi partner ideologici, ovviamente, devono assicurarsi di poter offrire ai propri cittadini e superare le alternative illiberali. Ma definire la competizione in termini apertamente ideologici serve solo a spingere la Russia e la Cina più vicine. Invece, l’amministrazione Biden dovrebbe avere una discussione sincera con Mosca sulle aree in cui gli interessi nazionali a lungo termine degli Stati Uniti e quelli della Russia si sovrappongono, anche quando si tratta della Cina.A dire il vero, Russia e Stati Uniti rimangono in disaccordo su molti fronti. Ma piuttosto che accontentarsi di un continuo allontanamento, Washington dovrebbe cercare di trovare un terreno comune con Mosca su una vasta gamma di questioni, tra cui la stabilità strategica, la sicurezza informatica e il cambiamento climatico. Questo dialogo, anche in assenza di rapidi progressi, segnalerebbe a Mosca che ha opzioni diverse dall’allineamento con la Cina.

L’amministrazione Biden dovrebbe spingere i suoi alleati democratici ad avere conversazioni simili con la Russia; anche loro possono sondare aree di reciproco interesse ed evidenziare come la crescente forza della Cina vada a scapito dell’influenza e della sicurezza della Russia. Dati i legami di lunga data dell’India con la Russia e la sua visione scettica delle intenzioni cinesi, Nuova Delhi potrebbe essere particolarmente abile nel riportare a Mosca i meriti del mantenimento dell’autonomia strategica e i potenziali pericoli di avere un rapporto troppo stretto con Pechino. Per incoraggiare l’India ad aiutare ad allontanare la Russia dalla Cina, Washington dovrebbe rinunciare alle sanzioni attualmente pendenti contro l’India per il suo acquisto del sistema di difesa aerea S-400 della Russia.

Gli Stati Uniti e i loro alleati dovrebbero anche contribuire a ridurre la crescente dipendenza economica della Russia dalla Cina. Sebbene la Cina sia ora il principale partner commerciale della Russia, il commercio della Russia con l’UE è molto più ampio del suo commercio con la Cina, rappresentando quasi il 40% del commercio estero della Russia. La decisione di Biden di dare il via libera al controverso gasdotto Nord Stream 2, che porterà il gas russo in Germania, è stato un saggio investimento nell’incoraggiare legami commerciali più profondi tra la Russia e l’Europa. E sebbene le sanzioni occidentali contro la Russia fossero una risposta necessaria al comportamento aggressivo di Mosca, hanno avuto l’effetto di spingere ulteriormente la Russia nell’abbraccio economico della Cina. Di conseguenza,

Il primo passo di Washington dovrebbe essere quello di abbandonare la definizione della strategia statunitense “democrazia contro autocrazia”.

Gli Stati Uniti e i suoi partner dovrebbero anche indicare che sono pronti ad aiutare la Russia a combattere il cambiamento climatico e a far passare la sua economia dalla dipendenza dai combustibili fossili. A breve termine, tale compito comporta la condivisione delle migliori pratiche per la cattura del metano, l’assistenza allo sviluppo di alternative verdi alla produzione di petrolio e gas e l’adozione di altre misure per limitare le emissioni russe di gas serra. A lungo termine, gli Stati Uniti dovrebbero aiutare la Russia a passare a un’economia della conoscenza, un passo che Putin non ha mai fatto, a scapito del suo Paese. La Cina condivide raramente la tecnologia; è un ricevente, non un donatore. Gli Stati Uniti dovrebbero cogliere l’opportunità di condividere il know-how tecnologico con la Russia per facilitare la sua transizione verso un’economia più verde e diversificata.

Gli Stati Uniti dovrebbero basarsi sulla conversazione sulla stabilità strategica che Biden e Putin hanno lanciato nel loro incontro a Ginevra a giugno. La violazione da parte della Russia del Trattato sulle forze nucleari a raggio intermedio ha spinto gli Stati Uniti a ritirarsi da esso nel 2019. Gli Stati Uniti e la Russia devono ora trovare una soluzione alla loro incombente corsa missilistica e anche spingere la Cina ad accettare un accordo successivo che porrebbe dei limiti al vasto e diversificato arsenale cinese di missili a medio raggio. Anche se un patto tripartito si rivelasse irraggiungibile, tentare di negoziare potrebbe illuminare le fessure tra Mosca e Pechino, data la tradizionale riluttanza della Cina a stipulare accordi sul controllo degli armamenti.

L’Artico è un’altra area in cui Washington può aiutare Mosca a vedere gli svantaggi strategici di favorire le crescenti ambizioni di Pechino. Il cambiamento climatico sta aumentando drasticamente l’accessibilità dell’estremo nord, suscitando un nuovo interesse russo per l’importanza economica e strategica della regione e suscitando il disagio russo con la dichiarazione della Cina che è una “potenza vicino all’Artico”. Washington e Mosca difficilmente vedono d’accordo la regione, ma attraverso sia il Consiglio Artico che il dialogo bilaterale, dovrebbero sviluppare un insieme più solido di regole della strada che regolino l’attività economica e militare nell’Artico e che affrontino le loro reciproche preoccupazioni riguardo Disegni cinesi.

Infine, Washington dovrebbe incoraggiare Mosca a contribuire a controllare la crescente influenza della Cina nelle aree in via di sviluppo, compresa l’Asia centrale, il Medio Oriente in generale e l’Africa. Nella maggior parte delle regioni, la politica russa va regolarmente contro gli interessi statunitensi; Mosca vede ancora Washington come il suo principale concorrente. Tuttavia, mentre Pechino continua ad estendere la sua portata economica e strategica, Mosca capirà che è la Cina, non gli Stati Uniti, a indebolire regolarmente l’influenza russa in molte di queste aree. Washington dovrebbe sostenere questo caso, aiutando a portare gli interessi russi e statunitensi ad un maggiore allineamento e creando opportunità per coordinare la strategia regionale.

Dato l’antagonismo e la sfiducia che attualmente affliggono le relazioni tra Russia e Stati Uniti, Washington richiederà tempo e una diplomazia mirata per cambiare il calcolo strategico di Mosca. La Russia potrebbe benissimo seguire il suo corso attuale, forse fino a quando Putin non lascerà l’incarico. Ma alla luce del ritmo impressionante e della portata dell’ascesa geopolitica della Cina, ora è il momento di iniziare a seminare i semi di una spaccatura sino-russa, specialmente tra i quadri più giovani di funzionari e pensatori russi che prenderanno le redini dopo che Putin se ne sarà andato. .

Gli sforzi degli Stati Uniti per gestire l’ascesa della Cina con successo e pacificamente saranno significativamente avanzati se la Cina dovrà affrontare una pressione strategica oltre il suo fianco marittimo e non potrà più contare sul costante sostegno militare e diplomatico della Russia. Attualmente, la Cina è in grado di concentrarsi sull’espansione nel Pacifico occidentale e oltre, in parte perché ha mano relativamente libera lungo i suoi confini continentali e gode del sostegno di Mosca. Gli Stati Uniti farebbero bene a investire in una strategia a lungo termine per cambiare questa equazione, aiutando a rimettere in gioco le relazioni della Cina con la Russia. Farlo sarebbe un passo importante verso la costruzione di un ordine pluralistico multipolare e scongiurare i potenziali sforzi di Pechino per costruire un sistema internazionale sinocentrico.

https://www.foreignaffairs.com/articles/united-states/2021-08-04/right-way-split-china-and-russia

Oltre lo stato-nazione, di Claire Vergerio

Qui sotto un interessante articolo grazie al quale l’autrice Claire Vergerio si pone e ci pone alcuni quesiti riguardo la genesi e il futuro degli stati-nazione. Nel saggio l’accademica ha acquisito un merito particolare nel sottolineare due aspetti spesso trattati nella saggistica, ma altrettanto spesso rimossi sia nella ricerca scientifica che ancor di più nello strumentario ideologico degli attori politici:

  • il carattere storico dello stato-nazione, la collocazione cronologica precisa, nonché recente, della sua origine e quello ancora più recente del raggiungimento della piena maturità
  • il carattere coabitativo dell’esercizio delle prerogative statuali con altre forme istituzionali e con altri conglomerati di potere di diversa natura

Una istituzione, quindi, destinata a decadere, come parrebbe in questa fase storica e a morire in un qualche tempo futuro.

Il merito della saggista, tuttavia, si esaurisce rapidamente in questo.

Il suo atteggiamento “aperto” ed attendista riguardo alla probabile e databile fine storica dello stato-nazione prescinde da troppi dati di natura empirica e di analisi qualitativa che fanno propendere invece per una trasformazione delle modalità di esercizio ed un allargamento spaziale ed intensivo delle prerogative statali piuttosto che per una sua paralisi ed estinzione in tempi storici verosimili.

Lo stato-nazione è l’unica istituzione che a tutt’oggi riesce a concentrare, delimitare territorialmente ed estendere l’esercizio del potere politico nei vari ambiti dell’attività sociale umana, da quello duro dell’esercizio della forza e dell’ordine pubblico, a quello culturale ed identitario necessario alla rappresentazione di una realtà credibile e motivante, a quello infine economico sia per vie normative che per intervento diretto. Le altre forme di esercizio del potere, connaturato per altro alla società, assumono un carattere derivato (le organizzazioni internazionali), un ambito particolare di intervento (le ONG, le Multinazionali, ect), una modalità di esercizio meno sofisticata ed adattabile nella sua efficacia (sistemi tribali, imperiali, ect.); caratteristiche peculiari per ciascuna di esse o combinate parzialmente.

In meno di un secolo gli stati, in particolare gli stati-nazione, hanno infatti proliferato a dismisura a seguito della caduta degli imperi, del processo di decolonizzazione con classi dirigenti locali formatesi per lo più in qualche maniera su modelli occidentali, dell’implosione del sistema sovietico.

In questo processo non mancano certo situazioni di crisi, di collasso e di riconfigurazione degli stati.

In esso agiscono tendenze pervasive e di lungo periodo, come l’evoluzione demografica, gli sviluppi tecnologici, la capacità di adattamento culturale le quali rendono sempre più complessi la gestione amministrativa e l’esercizio del potere su vasti territori. In controtendenza sono però proprio la ricerca di potenza e di efficacia, lo sviluppo tecnologico ad essa connessa con il corollario delle risorse necessarie, a richiedere maggiori dimensioni territoriali e demografiche degli stati, tanto più che l’azione geopolitica di questi, di offesa e di difesa, si può risolvere sempre meno a ridosso dei propri confini territoriali.

All’interno di esse agiscono le contingenze politiche e geopolitiche; di fatto la particolare conformazione territoriale degli stati seguita ai processi di decolonizzazione e di dissoluzione degli imperi, la risoluzione contingente dei rapporti di forza geopolitici, la capacità di azione e coesione delle classi dirigenti locali, il dogmatismo ideologico (ad esempio l’applicazione pedissequa dei principi democratici occidentali a società claniche e tribali).

La Vergerio non è la sola a smarrirsi su questa strada; perché non è la sola a dibattersi in un equivoco ricorrente. Al contrario si trova in buona compagnia di una folta schiera di studiosi ed attori politici anche ben più affermati.

Non è lo Stato, al pari di altre istituzioni e strutture quali le multinazionali, le ONG a muovere e sfruttare le dinamiche politiche. Sono i centri decisionali che operano all’interno di esse ad operare in cooperazione e in conflitto tra di loro; più questi centri sono ramificati e riescono ad agire nei vari ambiti e apparati dell’attività socio-politica, più hanno probabilità di essere incisivi ed efficaci; sempre che dispongano dell’intuito e dell’intelligenza necessari a cogliere, orientare e cavalcare l’onda. Coloro che riescono ad agire e muovere gli apparati statali o parti essenziali di essi godono di un particolare vantaggio difficilmente scalfibile se non in una situazione di disgregazione e di declino se non di collasso vero e proprio.

Ogni istituzione, siano esse imprese o stati o clan, per reggersi ha bisogno che i centri decisionali coltivino i necessari processi identitari tesi a garantire coesione e motivazione. Lo stato nazionale, per la sua complessità, ancora più degli altri anche se spesso in maniera più sofisticata ed indiretta. Non si tratta quindi di privilegiare ed individuare in assoluto una forma stato rispetto ad un’altra, quanto di adottare quelle particolarità necessarie a garantire coesione ed efficacia rispetto al campo di azione e all’agone nel quale si vuole o si è costretti ad agire. Su questo ha ragione la Vergerio. Ma è lo Stato Nazionale ad essere ancora, in tempi storici ragionevoli, lo strumento e il luogo di elezione della contesa politica. Più riuscirà a preservare questo carattere, più i centri potranno agire con l’incisività e la tempestività richieste da una competizione sempre più accesa e conflittuale. In questo quadro vanno considerati i temi legati al conflitto sociale, all’eguaglianza, al dinamismo e alla coesione propri ormai non solo di specifici settori politici; con quel parametro devono misurarsi le forze politiche e le élites che fanno degli interessi popolari la ragione della loro azione per avere qualche probabilità di successo.

Con ritardo e con parecchie armi ed argomenti ormai spuntati sembrano essersi accorti di questo anche in Occidente, annaspando qua e là e senza offrire qualcosa di coerente e propositivo e soprattutto incapaci di propinare quella medicina o placebo rassicuranti rappresentati dal successo garantito. I più convinti assertori del buon governo mondiale, tra di essi Habermas, lo hanno sempre affermato: il fondamento sul quale può basarsi un governo mondiale sono pochi principi rarefatti interpretati da pochi saggi. Di fatto il vuoto inquietante così distante da quella democrazia dei quali si ergono a paladini. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Oltre lo Stato-nazione

La mitologia della Westfalia, che ha fatto dello stato sovrano il fondamento naturale dell’ordine politico, ha danneggiato la governance globale. Per evitare che i nazionalisti si impadroniscano di questa rappresentazione carente, dobbiamo tornare alla storia per capire quanto sia recente questo paradigma; questa divagazione offre strade per pensare oltre e riscoprire una capacità di immaginazione.

Una delle affermazioni più ripetute sulla politica internazionale riguarda il passaggio da un’era “westfaliana” a un’altra “post-westfaliana”. Molti autori, ricercatori o giornalisti, utilizzano questo quadro teorico per interrogarsi sugli aspetti essenziali di ciò che ci aspetta: quali responsabilità dovrebbero avere le multinazionali nei confronti dei diritti umani1 ? Come si svilupperà la guerra nel ventunesimo secolo?2 Le organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite o l’Unione Europea diventeranno sempre più autoritarie? 

L’ordine della Westfalia vede la politica mondiale come un sistema di stati sovrani indipendenti, tutti uguali davanti alla legge. Il resoconto più popolare di questo sistema politico mostra come trasse le sue origini dalla pace di Westfalia nel 1648, si rafforzò in Europa, si diffuse gradualmente nel resto del mondo, per mostrare infine, al termine del XX secolo e all’inizio di questo, segni di imminente declino. Per coloro che condividono questa prospettiva, gran parte del potere che gli Stati un tempo possedevano è stato ridistribuito a varie istituzioni e organizzazioni non statali – che si pensi a organizzazioni internazionali ben note come l’ONU, l’UE o l’Unione Africana, a organizzazioni violente di attori non statali come ISIS, Boko Haram o i talebani, o ad aziende che beneficiano dell’influenza economica globale come Facebook, Google o Amazon. Questa situazione, si sostiene generalmente, si tradurrà in un ordine politico internazionale che assomiglierà all’Europa medievale più che al sistema politico mondiale del ventesimo secolo.3.

Ci sono disaccordi su cosa significhi questo ordine “post-westfaliano”. La questione se sia auspicabile o meno che le organizzazioni internazionali possano intervenire negli affari di Stato è una fonte inesauribile di dibattito. Eppure c’è un vasto consenso sugli eventi della narrazione che ci hanno portato alla situazione attuale. In breve, l’idea westfaliana offre alle analisi dominanti le basi su cui costruire la loro descrizione della politica internazionale.

Il problema con questa rappresentazione è che molto di ciò che racconta è profondamente imperfetto. Negli ultimi due decenni, gli studiosi che lavorano sulla storia dell’ordine internazionale hanno mostrato meticolosamente la disconnessione tra la narrativa della Westfalia e le prove storiche. Lo stato-nazione non è così antico e il suo emergere non è così naturale come spesso si afferma. Comprendere correttamente questa storia significa che abbiamo bisogno di creare un’altra narrazione delle origini del nostro ordine politico internazionale, che ci porti anche a presentare un altro possibile futuro.

Negli ultimi due decenni, gli studiosi che lavorano sulla storia dell’ordine internazionale hanno mostrato meticolosamente la disconnessione tra la narrativa della Westfalia e le prove storiche. Lo stato-nazione non è così antico e il suo emergere non è così naturale come spesso si afferma.

CLAIRE VERGERIO

Queste domande sono cruciali oggi. Mentre il periodo successivo alla Guerra Fredda ha effettivamente consentito l’ascesa di organizzazioni non statali, negli ultimi anni vari leader politici di destra hanno rafforzato la tesi dell’influenza dello stato-nazione. A causa dello spettacolare ritorno del nazionalismo – dalla Brexit a Donald Trump, passando per l’ascesa al potere di Narendra Modi, Jair Bolsonaro o Viktor Orbán – alcuni hanno persino ipotizzato che, dopotutto, l’ultima ora dell’ordine della Westfalia potrebbe non essere arrivata , mentre altri sostengono categoricamente che questo fenomeno sia stato solo l’ultimo spasmo di un sistema morente. Comprendere la storia del sistema internazionale ha implicazioni cruciali per entrambe le posizioni.

A generazioni di studenti di relazioni internazionali è stato ripetutamente detto che fu la Carta paneuropea della pace di Westfalia nel 1648 a creare la struttura politica che ora si trova in tutto il mondo: un sistema statale con sovrani uguali, se non materialmente, almeno in legge. Con questa struttura politica, continua la narrazione, sono emerse altre caratteristiche essenziali, come la dottrina del non intervento, il rispetto dell’integrità territoriale, la tolleranza religiosa, o la consacrazione degli equilibri di potere e l’emergere di una diplomazia europea multilaterale. Pertanto, la pace di Westfalia non è solo una pietra miliare cronologica ma, per così dire, un’ancora per il nostro mondo moderno. Con Westfalia l’Europa entra rumorosamente nella modernità politica e offre il suo modello al resto del mondo.

Negli ultimi decenni, studiosi che lavorano sulla storia dell’ordine internazionale – in una varietà di discipline, tra cui la storia globale, le relazioni internazionali e il diritto internazionale – hanno dimostrato che questa narrativa tradizionale non è solo falsa, ma anche diametralmente opposta alla realtà storica. L’articolo di Andreas Osiander, “Sovranità, relazioni internazionali e mito della Westfalia”, probabilmente l’esempio più ampiamente riconosciuto di questo sforzo di lottare con idee preconcette, è stato pubblicato ormai vent’anni fa.4. Come hanno sottolineato questi studiosi, i Trattati di pace di Westfalia, che posero fine alla Guerra dei Trent’anni (1618-1648) che devastò l’Europa, non menzionano né la sovranità statale né il principio di non intervento, né tanto meno la volontà di riorganizzare il sistema politico europeo. Lungi dal sancire il principio di tolleranza religiosa, più spesso conosciuto sotto i termini di cuius regio eius religio (“a tale principe, tale religione”), che fu messo in atto dal Trattato di Augusta nel 1555, questi trattati lo misero in discussione, giudicando che fosse stato una fonte di instabilità. Inoltre, i trattati non menzionano mai il concetto di equilibrio di potere. In realtà, la pace di Westfalia rafforza un sistema di relazioni che, appunto, non erafondato sul concetto di Stato sovrano, ma al contrario sulla riaffermazione del complesso sistema giuridico ( Landeshoheit ) di cui godeva il Sacro Romano Impero e che autorizzava unità politiche autonome a formare un conglomerato più ampio (“l’Impero”) senza avere un vero governo centrale. 

Parte dell’attuale confusione è che tutti i principali trattati di pace firmati nel 1648 sono stati riuniti sotto un unico nome. Quello che spesso chiamiamo Trattato di Westfalia si riferisce in realtà a due trattati: firmati tra maggio e ottobre 1648; si trattava di accordi tra il Sacro Romano Impero e i suoi due principali avversari, ovvero la Francia (Trattato di Münster) e la Svezia (Trattato di Osnabrück). Ciascun trattato riguardava principalmente gli affari interni del Sacro Romano Impero e gli scambi territoriali bilaterali minori con la Francia e la Svezia. Oltre a questi due accordi, c’era anche un altro Trattato di Münster tra Spagna e Paesi Bassi, firmato nel gennaio dello stesso anno e che poneva fine alla guerra degli ottant’anni; ma questo precedente accordo non ha quasi alcun legame con i trattati del Sacro Romano Impero.

Al di là di questa confusione, come ha potuto questa narrazione fuorviante diventare così popolare? La mitologia di questi trattati non prese piede completamente fino all’inizio del XIX secolo, poiché gli storici europei guardavano ai tempi moderni per fabbricare resoconti che sostenessero la loro visione del mondo. Come hanno spiegato i ricercatori Richard Devetak5 e Edward Keene6, gli storici conservatori di questo periodo (in particolare quelli della scuola storica tedesca di Göttingen) volevano dipingere il periodo pre-1789 del continente europeo come un sistema ordinato di stati, caratterizzato da moderazione e rispetto reciproco, e che era stato minacciato dall’imperialismo espansionista di Napoleone. Questa reinvenzione della moderna storia europea faceva parte di un progetto più ampio e ora ben studiato per presentare l’ascesa di un sistema internazionale e di una potenza europea globale in modo tale da sembrare il risultato di un processo lineare, inevitabile e prezioso.7. Gli europei, continua questa storia, furono gli unici ad essere moderni nella loro organizzazione politica, e la donarono al resto del mondo.

Al di là di questa confusione, come ha potuto questa narrativa fuorviante diventare così popolare? La mitologia di questi trattati non prese piede completamente fino all’inizio del XIX secolo, poiché gli storici europei guardavano ai tempi moderni per fabbricare resoconti che sostenessero la loro visione del mondo.

CLAIRE VERGERIO

Come spiega Osiander, è riciclando la propaganda del diciassettesimo secolo che la pace di Westfalia ha avuto un posto d’onore in questa nuova narrativa storica. Nella ricerca sulla storia degli stati che lottano per la sovranità contro il dominio imperiale, gli storici del diciannovesimo secolo hanno trovato esattamente ciò di cui avevano bisogno nei discorsi anti-asburgici che erano stati diffusi dalle corone francese e svedese durante la Guerra dei Trent’anni.

Gli storici del ventesimo secolo hanno ulteriormente approfondito questo resoconto. Come spesso accade con i miti fondatori, un articolo sembra essere stato particolarmente influente, soprattutto nel campo delle relazioni internazionali e del diritto internazionale: il saggio di Leo Gross “The Peace of Westphalia: 1648-1948”, pubblicato nel 1948 nella Rivista americana di diritto internazionale8. Dichiarato “senza tempo” e “precursore” all’epoca, l’articolo celebrava l’emergere dell’ordine del secondo dopoguerra stabilendo una prestigiosa genealogia. Confrontando la Carta delle Nazioni Unite del 1945 con il Trattato di Westfalia, Gross ha ripreso la narrativa dei trattati che reinventano la sovranità nazionale e quindi consentono libertà, uguaglianza, non intervento e tutte le altre presunte virtù. Ha notato, tuttavia, che il testo dei trattati difficilmente rifletteva queste idee, ma ha fatto appello ai principi generali che secondo lui dovrebbero essere alla base di questi accordi. Coloro che, dopo di lui, citarono la sua opera, continuarono la costruzione del mito: nella migliore delle ipotesi, scelsero alcune clausole sugli affari interni del Sacro Romano Impero e le brandirono come le basi di un nuovo ordine paneuropeo.

Sono giunto alla seguente conclusione: il mito è sopravvissuto principalmente perché gli sforzi per confutarlo non sono riusciti a fornire una narrativa alternativa chiara e avvincente. La soluzione alla debacle della Westfalia sarebbe quindi quella di presentare una narrazione alternativa con più accuratezza storica, che riflettesse il processo molto più complesso che ha portato al moderno ordine internazionale.

Ecco, ad esempio, una storia che, sebbene incompleta, è più accurata. Fino alla fine del XIX secolo, l’ordine internazionale era basato su un mosaico di diverse entità politiche. Sebbene si faccia spesso una distinzione tra il continente europeo e il resto del mondo, lavori recenti ci ricordano che anche le entità politiche europee erano relativamente eterogenee fino alla fine del XIX secolo. Mentre alcune di queste comunità politiche erano stati sovrani, altre includevano formazioni composite come il Sacro Romano Impero e la Repubblica delle Due Nazioni (che includevano la Polonia e il Granducato di Lituania), all’interno delle quali i diritti sovrani erano divisi in modi complessi.

In effetti, molto di ciò che diamo per scontato sulla normale organizzazione del sistema internazionale è relativamente recente. Fu solo nel diciannovesimo secolo che lo stato sovrano divenne la norma, poiché entità come il Sacro Romano Impero lasciarono gradualmente il posto a stati sovrani come la Germania. È spesso dimenticato, ma anche l’America Latina ha vissuto durante il periodo una transizione verso un sistema di stati sovrani, in seguito alle sue successive rivoluzioni anticoloniali. Questo sistema divenne in seguito l’ordine di default internazionale attraverso la decolonizzazione negli anni ’50 e ’70, quando gli stati sovrani sostituirono gli imperi in tutto il mondo. Durante questa transizione, sono state prese in considerazione varie possibilità alternative, in particolare – fino agli anni Cinquanta – forme di federazioni e confederazioni che da allora sono in gran parte scomparse. Negli ultimi decenni, lo Stato non solo ha trionfato come unica parte legittima del sistema internazionale, ma ha anche plasmato il nostro immaginario collettivo in modo tale che siamo convinti che questa sia stata la norma dal 1648.

Negli ultimi decenni, lo Stato non solo ha trionfato come unica parte legittima del sistema internazionale, ma ha anche plasmato il nostro immaginario collettivo in modo tale che siamo convinti che questa sia stata la norma dal 1648.

Fino al 1800, tutta l’Europa a est del confine francese non assomigliava per niente a quella che è ora. Come descrive lo storico Peter H. Wilson nel suo recente libro Heart of Europe (2020), il Sacro Romano Impero, a lungo snobbato dagli storici degli stati-nazione, aveva allora mille anni.9. Al suo apice, rappresentava un terzo dell’Europa continentale. Continuerà ad esistere per altri sei anni prima della sua dissoluzione sotto la pressione delle invasioni napoleoniche e la sua temporanea sostituzione con la Confederazione del Reno (1806-1813), sotto la dominazione francese, poi dalla Confederazione germanica (1815-1866).

Quest’ultima era per molti versi simile al Sacro Romano Impero e difficilmente somigliava a uno stato-nazione. Gran parte del suo territorio si sovrapponeva – in modo cosiddetto “premoderno” – al territorio della monarchia asburgica, altro “stato composito” che iniziò il suo processo di accentramento prima del Sacro Romano Impero ma che, fino alla fine dello stesso diciannovesimo secolo somigliava poco a uno stato-nazione. Si consolidò e terminò nell’impero austriaco (1804-1867), poi nell’impero austro-ungarico (1867-1918); ma l’accordo del 1867 concesse all’Ungheria una notevole autonomia e di fatto la autorizzò a governare il proprio piccolo impero. Intanto, più a sud, quella che chiamiamo Italia era ancora un insieme di regni (Sardegna, Due Sicilie, Lombardo-Veneto sotto l’autorità della corona austriaca), ducati (in particolare Parma, Modena e Toscana) e stati pontifici, mentre i territori più a est erano governati dall’Impero ottomano. Fu solo verso la metà del XIX secolo che la mappa dell’Europa iniziò ad assomigliare a un gruppo di stati-nazione: Belgio e Grecia apparvero nel 1830, mentre l’unificazione italiana e tedesca non furono completate che solo nel 1871. 

Siamo abituati a pensare all’Europa come al primo esempio storico di un sistema di veri Stati sovrani, ma in realtà l’America Latina è arrivata a questa forma di organizzazione politica nello stesso periodo. . Dopo tre secoli di dominazione imperiale, la regione ha visto una ridistribuzione della sua geografia politica a causa delle rivoluzioni atlantiche della fine del XVIII secolo e dell’inizio del XIX secolo. Seguendo le orme degli Stati Uniti (1776) e di Haiti (1804), conobbe una serie di guerre di indipendenza, tanto che nel 1826, con poche eccezioni, gli spagnoli e i portoghesi furono completamente espulsi. Ovviamente, La Gran Bretagna ottenne rapidamente il controllo del commercio nella regione attraverso una combinazione aggressiva di misure economiche e diplomatiche, spesso definita “impero informale”. Tuttavia, ora interagiva con stati formalmente sovrani.

Durante il resto del secolo, le strutture di sovranità federale emerse a seguito dell’indipendenza, la Grande Colombia (1819-1831), la Repubblica Federale dell’America Centrale (1823-1841) e le Province Unite del Rio de la Plata (1810-1831) – affondarono in sanguinose guerre civili che durarono per decenni, mettendo le regioni contro i governi centralizzati e portando a numerosi tentativi di ricostruire conglomerati politici più grandi. Così, come nell’Europa occidentale, non è stato fino alla fine del diciannovesimo secolo che la regione si è stabilizzata in un sistema di stati-nazione simile a quello che è oggi. Sembra ora possibile offrire una narrazione simile per il Nord America, come propone la storica Rachel St John nel suo progetto attuale,Gli Stati immaginati d’America: la storia non manifesta del Nord America del XIX secolo .

Gli imperi, ovviamente, continuarono a prosperare nonostante la crescente popolarità degli stati nazionali. Fino alla seconda guerra mondiale, il mondo era dominato dagli imperi e dalle strutture eterogenee di autorità politica che creavano. Quando la decolonizzazione iniziò dopo il 1945, lo stato-nazione non era l’unica possibilità. In Worldmaking after Empire (2019), Adom Getachew descrive il “momento federale” dell’Africa anglofona, quando i leader dei vari movimenti indipendentisti del continente hanno discusso della possibilità di organizzare un’Unione degli Stati africani nella regione e una Federazione delle Indie Occidentali nei Caraibi10. Modellandosi sugli Stati Uniti, che offrivano l’esempio di una florida federazione post-imperiale, giocarono poi con l’idea di uno Stato federale centralizzato, ma non riuscirono a mettersi d’accordo con chi preferiva una federazione meno restrittiva, che avrebbe lasciato più potere decisionale e sovranità nelle mani di ciascuno Stato.

Fino alla seconda guerra mondiale, il mondo era dominato dagli imperi e dalle strutture eterogenee di autorità politica che creavano. Quando la decolonizzazione iniziò dopo il 1945, lo stato-nazione non era l’unica possibilità.

Per quanto riguarda le colonie africane francofone, la deviazione dal modello dello stato-nazione è stata ancora più notevole. Come ha descritto Frederick Cooper in Cittadinanza tra impero e nazione (2014), il trionfo finale dello stato-nazione qui è il risultato dei disaccordi tra il governo francese nella Francia metropolitana e i leader e pensatori africani che hanno guidato il processo di decolonizzazione.- da Mamadou Dia , il Primo Ministro del Senegal, a Léopold Sédar Senghor, uno dei teorici della negritudine11. Inizialmente, la conversazione si è concentrata su formazioni politiche che non erano né imperi né stati-nazione, ma federazioni e confederazioni che vedevano la cittadinanza come un insieme di diritti che non si sovrapponevano necessariamente allo status di nazione. L’idea prevedeva una federazione di nazioni, non una federazione come nazione, come gli Stati Uniti. Ogni comunità avrebbe il proprio governo e la propria identità, ma le varie comunità agirebbero insieme e offriranno una forma condivisa di cittadinanza all’interno di uno stato multinazionale. 

Questa forma di “anticolonialismo antinazionalista” si trovò infine di fronte al rifiuto del governo francese di distribuire le risorse della metropoli all’interno di una rete estesa di cittadini. Eppure dovremmo soffermarci un attimo sul fatto che se ne sia discusso seriamente. Naturalmente, nel contesto della decolonizzazione, il trionfo dello stato-nazione ha rappresentato una vittoria definitiva per i popoli colonizzati contro i loro oppressori di lunga data. Ma ha anche reciso il legame tra regioni e storie condivise e ha creato le proprie dinamiche di oppressione, principalmente per coloro a cui è stata negata l’opportunità di stabilire il proprio stato: popoli indigeni, nazioni senza stato, minoranze12. Lo strapotere di queste costruzioni statali, che hanno quasi completamente spazzato via le popolazioni indigene in insediamenti come gli Stati Uniti e l’Australia, è stato avvertito anche in situazioni in cui la costruzione dello stato era un’arma contro l’impero. Se è vero che i deboli hanno prevalso, e giustamente, a volte è stato a scapito di quelli ancora più deboli. 

Poteva andare diversamente? Le analisi controfattuali sono un gioco pericoloso nel pensiero storico. Ciò che è chiaro, tuttavia, è che appena settant’anni prima, quello che oggi vediamo come un modo ovvio di organizzare le comunità politiche era solo uno dei tanti disponibili nel nostro immaginario collettivo.

Quest’altro resoconto di come siamo arrivati ​​all’ordine internazionale moderno ha importanti implicazioni sul modo in cui vediamo il passato. Ha anche gravi conseguenze per il modo in cui pensiamo al presente. 

Innanzitutto, ci costringe a ripensare alle cause della stabilità internazionale. La narrativa usuale associa l’ordine internazionale all’esistenza di un sistema di stati sovrani, ma la storia alternativa suggerisce che il periodo successivo al 1648 fu caratterizzato dalla sopravvivenza di varie comunità politiche. Per quanto riguarda il continente europeo, il Sacro Romano Impero è l’esempio più eclatante di tale comunità politica, che continuò a sperimentare diverse forme di aggregazione dei diritti sovrani fino al suo crollo nel 1806. Pertanto, la relativa stabilità del periodo seguente al 1648 può essere dovuto più alla diversità delle comunità politiche nel continente che alla presunta comparsa di un sistema omogeneo di stati-nazione. Ordine internazionale nella diversità (2015)13. Questo periodo suggerisce quindi che un sistema internazionale in cui il potere è condiviso tra diversi tipi di attori potrebbe rivelarsi relativamente stabile.

La consueta narrativa associa l’ordine internazionale all’esistenza di un sistema di stati sovrani, ma la storia alternativa suggerisce che il periodo successivo al 1648 fu caratterizzato dalla sopravvivenza di varie comunità politiche.

D’altra parte, prendere sul serio questa narrativa alternativa ci costringe a ripensare a come vediamo oggi l’influenza degli attori non statali. Se si dovesse citare solo un esempio, anche le più potenti multinazionali contemporanee – Facebook, Google, Amazon, Apple e le altre – sono molto più limitate nei loro poteri formali rispetto alle famose compagnie mercantili, che furono attori centrali nel panorama internazionale ordinato fino alla metà del XIX secolo. Le due più importanti, le Compagnie delle Indie Orientali britannica e olandese, fondate rispettivamente nel 1600 e nel 1602, accumularono uno straordinario potere nei loro due secoli di esistenza, divenendo le prime promotrici dell’espansione imperialista europea.14. Quando queste società hanno iniziato come imprese mercantili che cercavano di unirsi alla redditizia rete commerciale asiatica, hanno gradualmente formato piani più ambiziosi e, dai loro avamposti in India e Indonesia, sono diventate vere comunità politiche autonome. Erano, come ora sostengono vari studiosi, “azienda-stati”, attori ibridi sia privati ​​che pubblici, che erano legalmente autorizzati a governare su sudditi, coniare denaro e fare guerre. Da questo punto di vista, gli attori non statali contemporanei sono ancora relativamente deboli rispetto agli stati che monopolizzano ancora il potere formale più di qualsiasi altro attore del sistema internazionale.

La stratificazione della sovranità all’interno di comunità politiche come l’Unione Europea, l’emergere del potere delle multinazionali, l’importanza di gruppi violenti che non sono considerati “Stati”, nessuno di questi sviluppi è fondamentalmente in atto. hanno lavorato negli ultimi 373 anni.

L’intervista che il ricercatore di scienze politiche Francis Fukuyama ha rilasciato a Noema è rivelatrice al riguardo.15. Quando gli è stato chiesto se trovasse lo stato-nazione ora inadeguato di fronte alle questioni più urgenti del mondo, Fukuyama ha riconosciuto che tali “sfide non possono essere affrontate dai singoli stati”. Ma, ha continuato, “quante di queste sfide potrebbero essere affrontate se gli stati esistenti lavorassero insieme meglio?” “. La rivista riassume così questa prospettiva: “Di fronte alle sfide globali, lo stato-nazione è sia il problema che la soluzione”. Persino i pensatori che desiderano limitare lo stato-nazione non riescono a liberarsi dalla camicia di forza dello stato che limita l’immaginazione politica contemporanea. I dibattiti sulle istituzioni sovranazionali soffrono di un’analoga ristrettezza: dovrebbe essere concesso più potere agli Stati o alle organizzazioni internazionali, che,in definitiva , sono fondamentalmente basati su questi stessi stati? Nel bel mezzo di una crisi globale, che si pensi al COVID-19 o all’emergenza climatica, è necessario trovare possibilità alternative alle nostre visioni logore.

Quindi c’è molto di più in gioco nelle nostre discussioni sull’ordine internazionale che imbrogli sulla periodizzazione storica. La rappresentazione sbagliata della storia del sistema internazionale avvantaggia gli uomini forti del nazionalismo, che si vedono come salvare il mondo dal crollo nell’anarchia che deriverebbe dall’assenza di Stati, e dal controllo delle multinazionali che se ne fregano delle alleanze nazionali. Più in generale, comprendere bene questa storia significa impostare il quadro giusto per le nostre discussioni. Concedere il potere ad attori diversi dagli Stati non è sempre una buona idea, ma bisogna respingere il falso dilemma tra il ritorno del nazionalismo da una parte e il trionfo delle entità non democratiche dall’altra. 

Quindi ora è il momento di sfruttare una comprensione più accurata del nostro passato per immaginare un futuro meno distruttivo. Avere un resoconto alternativo della nostra traiettoria in questo modo non ci offre alcuna soluzione preconfezionata, ma apre la strada a considerare un ordine internazionale che lasci spazio a una maggiore diversità delle comunità politiche e che ristabilisca l’equilibrio tra i diritti degli Stati e diritti di altre comunità. La norma oggi è che gli stati hanno molti più diritti di qualsiasi altra comunità – dai popoli indigeni ai movimenti sociali transnazionali – semplicemente perché sono stati. Ma perché questo dovrebbe essere l’unico quadro teorico per il nostro immaginario collettivo non è affatto ovvio, e tanto meno se la sua legittimità si fonda su una storia del sistema internazionale a lungo confutata. Il mito della Westfalia ha infine gravemente ostacolato la nostra capacità di immaginare in modo creativo risposte alle sfide globali che trascendono sia i confini che i livelli di organizzazione del governo, risposte che possono essere date a diverse scale, quartiere, villaggio o dalla città alle istituzioni internazionali. 

Poiché il tempo che abbiamo a disposizione per immaginare modi più sostenibili di organizzare il nostro mondo sta ovviamente iniziando a esaurirsi, mettiamo fine a questo mito una volta per tutte. 

FONTI
  1. Santoro, M., “Post-Westfalia e il suo malcontento: affari, globalizzazione e diritti umani nella prospettiva politica e morale”,  trimestrale di etica aziendale,  volume 20, n ° 2, 2010, p. 285-297.
  2. Sean McFate, Le nuove regole della guerra. Come l’americano può vincere – Contro Russia, Cina e altre minacce , William Morrow, 2020.
  3. Philip G. Cerny, “Neomedievalismo, guerra civile e il nuovo dilemma della sicurezza: la globalizzazione come disordine durevole”,  Civil Wars , Volume 1, n° 1, 1998, p. 36-64.
  4. Andreas Osiander, “Sovranità, relazioni internazionali e mito della Westfalia”, Organizzazione internazionale , Volume 55, n° 2, 2001, p. 251-287.
  5. Richard Devetak, “Fondamenti storiografici del pensiero internazionale moderno: Storie del sistema degli Stati europei da Firenze a Göttingen”,  Storia delle idee europee , Volume 41, n° 1, 2015, p. 62-77.
  6. Edward Keene, Al di là della società anarchica. Grozio, Colonialismo e ordine nella politica mondiale , Cambridge University Press, 2002.
  7. Jürgen Osterhammel, Unfabling the East:  L’incontro dell’Illuminismo con l’Asia , Princeton University Press, 2018.
  8. Gross, L., “The Peace of Westfalia, 1648–1948”,  American Journal of International Law,  Volume 42, No. 1, 1948, p. 20-41.
  9. Peter H. Wilson, Cuore d’Europa. Una storia del Sacro Romano Impero , Belknap Press, 2020.
  10. Adom Getachew, “La  creazione del mondo dopo l’impero: l’ascesa e la caduta dell’autodeterminazione “, Princeton University Press, 2019.
  11. Frederick Cooper, Cittadinanza tra impero e nazione: rifare la Francia e l’Africa francese, 1945-1960 , Princeton University Press, 2014.
  12. Epicentro, Chi merita l’indipendenza?, Blog dell’Università di Harvard.
  13. Phillips, A. e Sharman, J.,  International Order in Diversity: War, Trade and Rule in the Indian Ocean , Cambridge, Cambridge University Press, 2015.
  14. JC Sharman e Andrew Phillips, Outsourcing Empire:  How Company-States Made the Modern World , Princeton University Press, 2020.
  15. Noéma, Francis Fukuyama: Andremo mai oltre lo Stato-nazione?, 29 aprile 2021.
TITOLI DI CODA

La versione originale di questo articolo è apparsa sulla Boston Review .

https://legrandcontinent.eu/fr/2021/07/19/au-dela-de-letat-nation/?mc_cid=a803fe3340&mc_eid=4c8205a2e9

Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, III_di Alessandro Visalli

“I Regimi di Verità – Il politico-impolitico, travestimenti liberali”

 

 

Questa è la terza puntata ed ultima della lettura del libro di Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, uscito per l’editore Meltemi nel 2020.

  • Nella prima parte è stato trattato il processo di costruzione delle invarianti della ragione liberale e dei suoi caratteri tipici per come emergono dal testo in esame,
  • Nella seconda parte è stato ricostruita la lettura che il libro compie dei “Regimi di ragione” che scaturiscono dalla struttura liberale e neoliberale di pensiero e pratica, quindi della ragione postmodernista,
  • In questa terza parte, i “Regimi di verità” della ragione liberale verranno mostrati nelle loro applicazioni politiche, ovvero nella particolare forma di politico impolitico che è generato dalla ferrea logica liberale (tanto più forte quando non si vede e ci si pensa avversari).

 

In sostanza dalla ricostruzione del liberalesimo nel libro, e riportata nella prima parte, emergono, secondo quanto propone l’autore, due prescrizioni e due idealizzazioni.

La prima prescrizione scaturisce dall’idea di libertà negativa, essenzialmente interpretata come richiesta di non interferenza. La seconda è l’individualismo assiologico, ovvero una concezione per cui il valore si manifesta essenzialmente nell’acquisizione di desideri individuali. “Non interferenza” e “desiderio individuale” come valore sono, quindi, le due prescrizioni definenti la “Ragione liberale”. In loro presenza si sa di essere al cospetto di una versione, delle tante, del liberalesimo.

Queste prescrizioni reggono e sono (normalmente tacitamente) giustificate dall’esistenza di due idealizzazioni (assunzione di un’idea, o un modello, come universale).

La prima idealizzazione è l’assunto ideale dell’esistenza dei diritti naturali, che uniscono la normatività del diritto positivo con l’autoevidenza di un fondamento presente già in natura. Infine, troviamo l’assunto ideale per cui la libera interpretazione di individui, che si muovono sulla base delle prescrizioni prima e seconda, è sufficiente a generare sempre esiti positivi. In altre parole, la seconda idealizzazione è il paradigma della mano invisibile.

Se si richiede la ragione per la quale le due prescrizioni devono essere tenute per valide, si incontrano sempre versioni delle due idealizzazioni, in una delle varie forme in cui si presentano.

Pippo Rizzo, “Treno notturno in corsa”, 1926

 

Le prime due definiscono uno spazio assiologico specifico e le seconde hanno un carattere idealizzante teologico, ovvero introducono visioni specifiche del funzionamento dei rapporti intersoggettivi. Il quadro concettuale liberale, bisogna sottolineare, non emerge come frutto di una riflessione organica, ma prende forma come collazione di argomenti di solidità dubbia, ma efficaci sul piano della tensione politica e coerenti con lo sviluppo delle forze produttive e dei rapporti sociali, nonché istituzionali e politici. Essenzialmente si afferma, in altre parole, per la sua capacità di abbattere, contestare o criticare un regime già esistente, quindi per il suo carattere negativo. Infatti, rifarsi a un ‘diritto di natura’, nelle condizioni storiche del tempo (XVI-XVII secolo), permette di delegittimare e di indebolire la sovranità regale, creando un set di giustificazioni opportunamente separate dalla tradizione. Un insieme di ragioni il cui basso contenuto veritativo e la scarsa fondazione delle premesse emerge solo ogni qual volta diventa concreto, mentre è efficacissimo e potente come arma polemica. È solo il successo finale, in ogni ambito della vita, della “Ragione liberale” che ne determina e rende visibili le disfunzioni. Tutte queste incrinature di cui parla il libro sono presenti sin dall’inizio, ma iniziano a manifestarsi solo a partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo fino alla Prima guerra mondiale. Quindi si manifestano pienamente solo nel mondo contemporaneo. Naturalmente si tratta di linee di tendenza lunghe e variamente denunciate, nella letteratura sociologica, ad esempio, già la sociologia classica (da Weber[1] a Durkheim e Mauss[2]) denuncia l’erosione della coesione sociale, nello stesso momento in cui si afferma la fredda “razionalità allo scopo”. Nello stesso contesto del welfarismo imperante assistiamo all’emergere poi, da una parte, di quella che Onofrio Romano, in un bel libro chiama “una sensazione di soffocamento e disseccamento nella clausura dorata dello Stato del benessere [che] attanaglia il corpo sociale. [e] Questo nodo costituisce il comune terreno di critica su cui si trovano i neoliberali e i radicali di sinistra”[3], dall’altra si assiste agli esiti sistemici di un processo di erosione egemonica e incrudimento delle dinamiche competitive alla scala del sistema-mondo (o, meglio, delle interazioni tra il sistema-mondo occidentale, quello orientale socialista e gli emergenti[4]) che confluiscono in quello che James O’Connor, in un influente libro, chiamò “La crisi fiscale dello Stato[5]. La drammatica crisi antropologica, segnale di quella che si ripresenterà dopo la parentesi anestetizzante degli anni novanta (un intermezzo nel quale sembrò che la crisi egemonica, al contempo economica e strategica, dell’occidente fosse superata a vantaggio delle sue élite e classi medie), fu diagnosticata tempestivamente da autori come Christopher Lasch[6], Cornelius Castoridias[7], Daniel Bell, Ronald Inghehart[8], Antonhy Giddens[9], se pure con colori e direzioni politiche diverse (negli ultimi due salutando l’era “postmaterialista”). Si possono ricordare anche Talscott Parsons, con il suo complesso ‘struttural-funzionalismo’[10] e Robert Merton, che descrive un funzionalismo senza struttura, o la ‘teoria dei sistemi’ di Niklas Luhman. Potrebbero essere citati, nella storia delle scienze, anche gli indebolimenti prodotti da Heisenberg, Einstein, e tanti altri. Da questa enorme costellazione di stimoli emerge, con differenze anche significative tra la versione anglosassone e quella continentale, la soluzione neoliberale[11] di cui vediamo in questi ultimi anni l’indebolimento[12]. Subentra una repentina “crisi da orizzontalismo”, analoga a quella mostratasi nel 1929. Il modello ha infatti prodotto, e lasciato accumulare come la cenere sotto un camino, una proliferazione della finanza speculativa ed altamente inefficiente in termini di sistema, una crescita alla lunga insostenibile di ineguaglianze che scavano sotto i bastioni del consenso e producono un’enorme quantità di disattivazione esistenziale e rabbia. Di cui è motore ed effetto al tempo l’assottigliamento, sempre più visibile, della classe media[13].

 

Di qui il testo finisce per concentrarsi su alcuni centri logici della costellazione di pensiero e di prassi liberale. Punti nei quali, per componenti crescenti della società, la “frizione” tra le promesse di liberazione individuale e scatenamento del desiderio (in uno sperato mondo dell’abbondanza sotto la tutela della “Ragione liberale” fattasi ideologia), e la realtà della continua crescita delle ineguaglianze più feroci e dello sfruttamento più selvaggio si fa sempre più manifesta. Quel che accade si potrebbe descrivere in questo modo: mentre la società si fraziona per strati funzionali e geografici tra chi può accedere alle risorse di capitale, ed ai relativi gradi di interconnessione, e chi resta abbandonato e sconnesso, i connessi “sovraestendono” le risorse ideologiche della “Ragione liberale” per inibire sul piano culturale, e respingere sul piano politico-organizzativo l’insorgenza potenziale dei marginali. Non è un caso che, man mano la crisi morde (alcuni), i toni (di altri) si facciano sempre più striduli e la danza totemica più frenetica. Né lo è che qualunque “vittima” sia sacralizzata, purché non sia economica, non sia un abitante delle periferie reali, materiali, e lo sia solo delle periferie mentali e “post-materiali”.

Questa ‘sovraestensione’ è lo sfondo sulla base del quale Zhok, nel 2020, sente l’urgenza di scrivere questo importante libro. Si tratta della risposta che strati sociali minoritari (ma non trascurabili quantitativamente) che si sentono superiori esprimono verso la sfida esistenziale portata dai “paria”. La superiorità percepita si esplica nella dotazione di ‘capitale culturale’, ‘relazioni sociali’, disponibilità di ‘capitale spaziale’[14], accesso a ‘risorse simboliche’ e ad ‘attività dinamiche’ che restituiscono prospettive esistenziali (se pure, per molti illusorie) e, non ultimo ma non necessariamente, ‘capitale economico’ fisso o mobile. Si tratta di una differenza di status non necessariamente di censo. Proprio il rischio che il censo declinante impedisca la conservazione dello status (autopercepito e riconosciuto tra pari) sottende alle danze totemiche più frenetiche. Naturalmente la sfida è portata, a questa ‘compagnia di danza’, solo dai veri “paria”, non certo dagli oggetti sacrificali (‘resi sacri’) scelti da individui “desideranti” che, interpretando lo spirito del tempo ed in coerenza con questo, fanno leva sui “capitali” detenuti per sottrarsi a regole e solidarietà percepiti come soffocanti. Scelti precisamente per la loro capacità di attivare un rito la cui principale funzione è l’autolegittimazione degli officianti.

Possiamo riassumere lo sfondo in questo modo. Le disastrose tensioni introdotte dalla “Ragione liberale” e dal suo braccio armato neoliberale nella struttura sociale e nelle personalità socialmente confermate, dopo la ‘felice’ pausa degli anni Novanta (nei quali permanevano comunque sufficienti strutture welfaristiche e strutture di senso per controbilanciare l’acido dissolutore che le stava intaccando), nel primo decennio del nuovo millennio giungono ad una rottura. Nel secondo decennio, quindi, il caos sistemico ha preso il sopravvento, le potenze politico-militari e i sistemi d’ordine che lo trattenevano hanno perso influenza. La fragilità finanziaria si è resa manifesta, l’assurdità delle regole scritte per tempi diversi è emersa fragorosamente, altri centri d’ordine sono emersi. Dentro lo stomaco delle ex ricche società occidentali il gemito dei troppi esclusi si è fatto continuo ed insopportabile, elezione dopo elezione. Il triplice colpo della Brexit, venuto dopo la lezione greca (e quella Irlandese), dell’elezione di Trump, delle tornate “antisistemiche”, ha evocato a questo punto il fantasma del “populismo”.

Ora, dopo due decenni così interessanti, in questo avvio del terzo decennio, apparentemente di pausa e riflusso, si gioca il destino a medio termine del mondo. L’ossessione della crescita fondata sulle esportazioni, in un mondo nel quale la cosiddetta mondializzazione ripiega per “grandi spazi”[15] (e la finanza è attaccata alla tenda a ossigeno delle Banche Centrali), davanti la sfida strategica della potenza cinese e del network in formazione intorno ad essa (Russia, in primo luogo, poi Iran, Venezuela, Pakistan, Siria, Nepal) non è più credibile e sostenibile per tutti. Bisognerà che qualcuno sia salvato e altri condannati siano essi territori, settori, individui. Tutto sta giungendo al suo limite.

Stava già accadendo, ma l’intero sistema di tensioni strutturali ha visto cadere il ‘cigno nero’ della pandemia come un maglio. Il libro cade esattamente un attimo prima di questo evento.

Capita così una congiuntura particolare: si divaricano ancora le condizioni che determinano un “momento Polanyi[16] sull’occidente, ma, al contempo, rifluisce nettamente il “momento populista[17]. Nel decennio trascorso questo aveva preso una forma specifica. Si era presentato come chiusura nazionalistica, ricerca di purezza identitaria (se non etnica), una sorta di ostentato plebeismo, vitalismo, protezionismo. Ma non bisogna ingannarsi, a questo servono libri preziosi come questo. In tutte le forme di “populismo” (sia “di destra”, egemonico, sia di “sinistra”, poco più che abbozzato) erano comuni alcune caratteristiche, proprie della lunga fase neoliberale e della sua conseguente disgregazione sociale. Caratteristiche nella quale affondano le radici le ragioni ultime della rivolta. Si trattava, in altre parole, di un adattamento, con fortissimi elementi di continuità, allo spirito del tempo neoliberale (ovvero, alla “Ragione liberale” che Zhok qui descrive) dal quale molti si sentivano traditi pur senza essere in grado di pensare altro. Una reazione che si nutriva ambiguamente dello stesso veleno[18] che genera il “momento Polanyi”, ovvero della disgregazione e iperindividualismo. Ma se ne nutriva in larga misura inconsapevolmente, quindi senza essere in grado di dosarlo in modo da farlo divenire farmaco.

 

Si è, dunque, ora in un momento di stallo. Coloro i quali restano profondamente connessi alla “Ragione liberale” e, al contempo, sono (o sperano e sentono di essere) ancora connessi alla sua promessa di futuro, rispondono alla sfida “sovraestendendo” i suoi concetti per respingere “i barbari” che si erano spinti fino alle porte. Coloro che si sentono scacciati, ma sono altrettanto connessi alla “Ragione liberale” (che è, alla fine, la “Ragione” del mondo), rispondono con rabbia, ma senza una vera direzione strategica. Tra la danza rituale e la sostituzione sacrificale dei primi e la cieca rabbia dei secondi si allarga un insuperabile fossato.

Il vecchio appare sempre più morto, ma il nuovo non può nascere.

 

Perché si apra la possibilità della nascita bisogna, prima, sgombrare le macerie. A questo serve il libro del quale, ora, finalmente, leggeremo la terza parte.

 

La seconda si era chiusa con la descrizione della cultura postmoderna, la terza si apre con la superficie visibile, in un certo senso, dei “regimi della Ragione liberale”. Sulla base dell’obiettivismo naturalistico e della svolta postmoderna avviene (per ragioni di complessa costituzione, come vedremo) il rifugio nel diritto naturale soggettivo e quindi nella logica “rivendicazionista” dei “Diritti Umani”. Di qui procedono spinte alla disgregazione sociale (Zhok parla di “liquefazione”) di cui sono immagine anche apparentemente insospettabili dinamiche rivendicative come il femminismo di seconda (e successive) generazione e la danza frenetica del “politicamente corretto”.

 

Diritti Umani

Alcune tappe simboliche del processo di formazione del costrutto politico e giuridico dei “Diritti Umani” sono: il 1948, cioè la Dichiarazione universale dei diritti umani; il 1968, con l’imporsi della piattaforma rivendicativa fondata sulle esigenze di realizzazione dell’individuo; e l’89 o il ’91, quando il crollo del muro di Berlino e dell’URSS eliminano il contendente dell’unico egemone rimasto. Nel testo è presente un’interessantissima descrizione del tema dei diritti dell’uomo, passaggio teorico fondamentale che viene promosso nel ‘48 con la Dichiarazione universale dei diritti umani promossa dall’ONU, e per esso dagli Stati Uniti, e che si rifà, da una parte, alla Dichiarazione di indipendenza americana del 1776, dall’altra alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo del cittadino francese del 1789. C’è, però, una importante differenza tra i due antecedenti. La Dichiarazione americana non è una carta dei diritti e il testo è dedicato prevalentemente a motivare le ragioni dell’indipendenza dalla corona britannica, e gli argomenti sui diritti dell’uomo sono inseriti solo come cappello retorico introduttivo e chiave di una legittimazione che si pretende estranea alla fedeltà al re[19]. Si può dire che il famoso preambolo per il quale tutti gli uomini sono creati uguali, cioè dotati di inalienabili diritti, tra cui la vita, la libertà e il perseguimento della felicità, serve, in tutte le Dichiarazioni di questo periodo ad affermare che i governi sono istituiti per garantire questi diritti, e quindi sia diretta ad affermare che il fondamento della vita sociale non deriva dal re, non deriva dalla tradizione, ma deriva da Dio per come viene interpretato nel testo. Compiendo questo rovesciamento del canone fondativo si esprime con la massima chiarezza, e si pone al centro della scena, una mossa emancipativa di primario valore. Ma i contenuti e fondamenti dei diritti inalienabili, su cui si basa quella mossa, sono ridotti al contempo ai minimi termini; non è il caso di ricordare che in tutti gli uomini non erano incluse né le donne né, tantomeno, gli schiavi. Del resto, quando dieci anni dopo viene approvata la Costituzione americana non ci sono in essa Dichiarazioni dei diritti. Queste vengono aggiunte ancora dopo nel 1789 e nel ‘91, anche sulla scorta della Rivoluzione francese, in forma di emendamenti alla Costituzione, e in esse si parla di diritti civili interni alla nazione americana.

 

Invece la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 francese ha una caratterizzazione dei diritti dell’uomo molto particolare. Ci si appella qui a diritti naturali inalienabili e sacri dell’uomo, cioè ad una dimensione universalistica astorica; però, già dal terzo articolo, la Dichiarazione prende una piega storicamente determinata, eminentemente politica, e la libertà individuale viene limitata dalle leggi “espressione della volontà generale”, quindi giustificate dal bene della società verso le quali la resistenza del cittadino è giudicata inammissibile. Dunque, il protagonista della Dichiarazione del 1789 è la legge civile, definita dalla Nazione, all’interno della quale il cittadino trova il suo spazio di libertà. L’intera Dichiarazione si rivolge al cittadino.

 

Centocinquanta anni dopo, la Dichiarazione del 1948 è diversa. Per la prima volta l’idea di un “Diritto naturale” che appartiene individualmente a ciascun membro della specie umana è effettivamente articolato. Ci si trova di fronte a un tentativo di creare un corpus di diritti nel senso comune del diritto legale che però, diversamente dai codici delle leggi finora conosciute, non dipende da alcun organismo politico. È chiaro che una delle spinte decisive per scrivere questo documento consisteva nel desiderio di trovare un modo per condannare i criminali nazisti che non facesse riferimento alla legge tedesca. Peraltro, atrocità come l’olocausto non sarebbero risultate legali neppure secondo la legislazione razzista del Terzo Reich, ma di fronte a ciò che si presentava come male assoluto e avendo vinto la guerra emergeva con potenza, da entrambe le parti vincitrici, la necessità di trovare un punto di vista superiore astorico che non concedesse alcun terreno di legittimità la legislazione nazista. In questa ottica, storicamente data, l’idea di diritto umano con i suoi antecedenti storici si sposava perfettamente a questa funzione. Naturalmente a questa esigenza storica si univa la tendenza e la cultura individualista e antitradizionalista americana.

Ma nelle fasi preparatorie emersero subito notevoli difficoltà. Nell’inquadrare dal punto di vista etico e filosofico il testo, ad esempio, l’Associazione Antropologica Americana mosse critiche molto severe alla possibilità stessa di concepire qualcosa come una ‘dottrina universale dei diritti umani’. Gli antropologi osservarono come fosse impensabile considerare come base di partenza dell’analisi un individuo desocializzato. Ciascun individuo si determina sempre ed inevitabilmente come parte di un gruppo sociale, con una forma di vita sanzionata nei modelli il comportamento. In questa prospettiva una Dichiarazione che pretendesse di applicarsi a tutti i singoli esseri umani, prescindendo dalle appartenenze culturali (e quindi in effetti prescindendo dalle particolarità dello sviluppo della cultura nazista in Germania) rischiava di essere implicitamente imperialista. Come sostenne l’Associazione “e rischia di diventare un’affermazione di diritti concepiti solo nei termini dei valori prevalenti nei paesi dell’Europa occidentale e dell’America”[20]. In sostanza si rischiava di ripetere la mossa del “fardello dell’uomo bianco” che aveva alimentato il colonialismo. Queste ragionevoli considerazioni vennero semplicemente ignorate.

In effetti il progetto non era affatto descrittivo, nessuno pensava che i “diritti umani” fossero una sostanza data, ma espressamente normativo, tutti la ritenevano un’opportuna norma da porre. Secondo le parole di René Casin “poggiava su un atto di fede in un domani migliore”. È ovvio che sul piano logico l’idea che potesse esistere qualcosa come un “diritto di natura” è un esempio sfacciato di fallacia naturalistica che trasforma una presunta naturalità in norma. In natura noi possiamo trovare fatti, ma i valori implicano delle norme. Non le implicano ‘naturalmente’ e senza il passaggio della scelta politica e, quindi, della contingenza storica.

Nell’articolo tre della Dichiarazione troviamo scritto che “ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona”. Tutti possiamo leggerla come una considerazione condivisibile: chi potrebbe mai desiderare che gli sia tolta la vita o la libertà. Chi potrebbe mai desiderare di vivere nell’insicurezza. Ma da questi valori ragionevoli non scaturisce alcuna norma. Il fatto che un individuo abbia diritto alla libertà significherebbe che la sua libertà non può mai essere vincolata. Ma evidentemente esistono leggi, carceri, punizioni per i casi nei quali la libertà distrugge il vivere comune e civile. La questione è, piuttosto, sempre quanta libertà e sotto quali condizioni. La questione è quella posta dalla Costituzione francese. Ma se ammettiamo che la libertà di cui si tratta è quella consentita dal diritto positivo dei vari Stati, allora la Dichiarazione è totalmente vuota. Se, viceversa, non facciamo riferimento a nessuna registrazione reale non si sa di che cosa si sta parlando. Peraltro, nella stessa frase è dichiarato, oltre al diritto alla libertà, anche quello alla sicurezza. Dunque, si pone il problema di quanta sicurezza e del conflitto tra la sicurezza di uno e la libertà dell’altro (ad esempio, di costringerlo a lavorare, di rendere insicura la sua vita, per es. aumentando la “flessibilità” e “precarietà”, per ridurne la forza negoziale).

Il tema è sempre, in altre parole, come limitare la libertà o quanta libertà può limitare la sicurezza. Norberto Bobbio osservava che i “diritti naturali” non sono “diritti”, ma al massimo “esigenze” che poi devono essere fatte valere negli ordinamenti normativi positivi. La cosa è particolarmente evidente appena ci si accosta al gruppo dei “Diritti umani” di contenuto sociale (articoli da 22 a 27), qui la situazione è davvero paradossale. Si tratta infatti di “diritti” inseriti inizialmente sotto la pressione dell’Unione Sovietica (la quale comunque si astenne dalla votazione finale). Di norma quando si levano gli scudi per denunciare le violazioni dei “Diritti umani” questi sono sistematicamente ignorati, perché sono ininterrottamente violati ovunque dal ‘48 a oggi. Il fatto è che per essi ogni individuo ha il “diritto umano” al lavoro, o alla “protezione contro la disoccupazione”, o, ancora, ad “una rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia un’esistenza conforme alla dignità umana” (art. 23). Oppure ha diritto a “ferie periodiche retribuite” (art. 24). Si tratta evidentemente di un libro dei sogni che conta violazioni innumerevoli anche nei paesi più benestanti. Anzi che è sistematicamente violato, disapplicato e distrutto tanto più quanto più il liberalismo e la sua forma pura neoliberale si afferma.

 

Ma questi “Diritti” hanno anche un contenuto che Zhok non esita a definire traviante. In sostanza stabiliscono il principio dell’esistenza di istanze individuali che possono legittimamente abbattere ogni altra considerazione, cioè che agiscono come assi di briscola. Che possono travolgere l’interesse collettivo, ogni sovranità nazionale, e vanno sopra e al di là di ogni consenso. In effetti sono stati espressamente preordinati come arma per andare al di là del consenso nel caso storico dato nazista. Tuttavia, essi riescono ad andare anche oltre le forme di consenso democratico. Se il discorso pubblico assume come dati, e rielabora non criticamente, la validità dei “diritti umani” e se i titolari più autorevoli se ne fanno carico sul piano operativo, la cosa diventa una potentissima arma ideologica. Una cosa che inizia a prendere forma durante la guerra fredda come arma contro un altro consenso (tramite la sistematica denuncia della violazione dei “diritti umani” da parte degli Stati Uniti a sostegno etico e legittimazione delle proprie iniziative sia contro l’Unione Sovietica e contro la Repubblica Popolare Cinese ed i loro alleati) e da allora viene usata, senza soluzione di continuità, contro chiunque si elevi ad ostacolare il dominio imperiale statunitense.

In effetti, già l’idea in sé dei “diritti umani” può essere accusata di individualismo metodologico il quale è, esso stesso, alla base della microfondazione della teoria economica. I diritti sono immaginati come inerenti all’individuo naturale, cioè a un individuo astratto astorico, aculturale e dunque sono utilizzabili come marcatore e punto di riferimento del giudizio sulle azioni e sulle dinamiche collettive. Il dispositivo dei “diritti umani” crea, cioè, un decisivo passaggio teorico in cui richieste individuali che non fanno per sé stesse riferimento a nessun organismo sociale dato (o contesto culturale noto) e che finora nessuno ha riconosciuto possono essere poste come eticamente fondanti ed esistenti in natura e restare lì, in attesa che qualcuno ad un certo punto se ne faccia carico. Magari in appoggio alle sue istanze politico-strategiche.

Questa visione è costituzionalmente irrazionalista, in quanto pone come eticamente fondanti esigenze che, per definizione, non hanno bisogno del criterio epistemico più fondamentale e sul quale c’è ampio consenso: cioè l’accordo intersoggettivo. Inoltre, è una lista aperta alla quale si può sempre aggiungere qualcosa. Negli ultimi anni si è aggiunto il “diritto alla pace”, il quale è tuttavia sistematicamente violato, ma sempre dal più forte; il “diritto alla sessualità”; il “diritto all’informazione”; il “diritto all’acqua”, eccetera. Da ora anche il “diritto alla scelta del genere”. In sostanza, dice Andrea Zhok, ciò che sta succedendo qui è che l’idea di diritto sul piano fondazionale sta diventando indistinguibile da un semplice desiderio. Il dispositivo teorico dei “diritti umani”, essendo fondato internamente su un invisibile individualismo metodologico, delegittima necessariamente gli ordinamenti sociali come sorgente di diritto e accredita, al loro posto, il desiderio individuale come fonte di diritto.

Questo è il passaggio cruciale.

Nel momento in cui si fa posto all’idea che le propensioni o i desideri personali siano fonte primaria di diritto si crea un particolare sfondo. A questo punto il desiderio personale è legittimato a imporre obblighi a terzi. Naturalmente non il desiderio del singolo individuo, perché ciò collasserebbe immediatamente nella guerra di tutti contro tutti hobbesiana; ciò che accade è che, piuttosto, la forma privilegiata per l’ottenimento di norme sociali diventa la rivendicazione.

 

Cioè, la forma privilegiata diventa il contenzioso, la sfida aggressiva che si appella contro un potere estraneo per avere ragione. Questa metamorfosi della sfera normativa è di primissima rilevanza. Come ricorda Zhok, in tutta la storia umana la fonte primaria della normatività sociale è sempre stata, al contrario, la concordia pratica; ovvero la capacità di certe aspettative di far funzionare un gruppo sociale.

L’obiettivo implicito è sempre stato poter creare società, dunque la norma è sempre stata incarnata in costumi prevalenti, in tradizioni, in regole sia tacite come scritte. A sua volta la legge scritta serviva a discernere i casi dubbi, districare le situazioni ambigue. Determinava, e si determinava, come fonte normativa di assemblee dei magistrati o del sovrano. Nel diritto moderno gli usi e costumi o la normatività sociale viene tacitata e retrocessa sullo sfondo, venendo in primo piano le fonti costituzionali e la creazione corrente di norme positive, in quanto si assume che il diritto scritto abbia già assorbito nel tempo quella originaria base informale e la includa in una forma particolarmente sorvegliata, precisa e razionalizzata. Ma il funzionamento di ogni regola e di ogni legge presuppone necessariamente la condivisione di abiti collettivi, di usi, di pratiche sociali, che rendono la norma intelligibile. Se si distacca eccessivamente da questi tende a rimanere sulla carta. Secondo quanto sostiene invece Zhok “il ‘rivendicazionismo’ implicito del paradigma dei ‘diritti umani’ capovolge radicalmente il senso della normatività sociale, pretendendo che i desideri soggettivi si impongano ai costumi consolidati, anzi, appellandosi spesso proprio all’esigenza di opporsi al costume consolidato, che in quanto ‘tradizionale’ e ‘collettivo’ porterebbe con sé uno stigma, un sospetto di irrazionalità ed oppressione. In quest’ottica il, ‘diritto umano’, invece di assumere come il diritto positivo ed ordinare una funzione regolatrice pacificatrice, tende a rappresentare il grido di battaglia di rivendicazioni sempre nuove, cioè di richieste che qualcun altro si adegui alle mie esigenze”[21]. Ciò accade perché ad ogni diritto di qualcuno corrisponde sempre il dovere di qualcun altro. La crescita di alcuni diritti implica sempre la dislocazione di comportamenti altrui e la limitazione di libertà altrui. Ovvero la contribuzione altrui all’implementazione di un certo diritto.

 

Ne scaturisce una conseguenza paradossale: ogni società infarcita di ‘diritti soggettivi’ è anche una società con elevatissimi tassi di repressione, coazione e sorveglianza. Ne deriva una società disciplinare, dove la possibilità di violare qualche diritto altrui è un fantasma ossessivo sempre presente. Inoltre, produce un’illimitata tendenza al contenzioso all’aggressione di tutti contro tutti. Se, infatti, le ragioni non sono frutto delle mediazioni, ma devono emergere contro altri e il mondo è concepito con un mondo di estranei, ciò che si afferma è sostanzialmente il principio liberale dell’interazione competitiva. Della sfida per ottenere quanto più possibile a scapito della controparte. In altre parole, “ciò che sul mercato e la competizione per il massimo vantaggio economico, sul piano normativo diviene la lotta per rivendicare il massimo riconoscimento dei propri desideri”[22]. Tutto ciò milita per la sacralizzazione delle inclinazioni, opinioni, desideri personali, che esige semplicemente di trovare qualcuno che ti dia ragione e ti attribuisca i mezzi.

 

Inoltre, e anche qui paradossalmente, il “paradigma rivendicazionista” dei “diritti umani”, nella generale conflittualità sociale e litigiosità produce depoliticizzazione e forme di intolleranza diffusa perché è espressione della vittoria di un desiderio armato, cioè organizzato, potentemente finanziato, e riapre le porte al diritto del più forte. Sia esso la forza di uno studio legale, di uno stato potente, di una lobby organizzata, questa forma di diritto inventata con l’imporsi del modello dei diritti umani soggettivi è una forma fluida contendibile, reinventabile, capace di superare tutte le barriere di consenso pubblico di sovranità nazionale o di legittimazione democratica. Dunque, ‘l’individualismo metodologico’, ‘il rivendicazionismo’ e la manipolabilità che caratterizzano il paradigma dei diritti umani non sono errori contingenti. Sono espressione, nella cornice intellettuale che sta venendo alla luce, di un’impostazione aliena alla fondazione democratica e parte di una dimensione sovranazionale dove i diritti sono definiti da chi li implementa di fatto. In questo modo la libertà si traduce in arbitrio, ovvero viene esercitata senza appellarsi ad alcuna dimensione razionale normativa e valoriale comune che ne circoscriva e definisca la portata, ma viene letta come “poter fare quel che si vuole perché lo si vuole”.

Ma in questo modo la libertà negativa inizia a divorare sé stessa. Questo processo involutivo mostra delle similitudini anche con fenomeni come il femminismo della ‘seconda generazione’.

 

Femminismo

La problematica femminista nel dopoguerra[23] è connessa in modo piuttosto intimo con l’emergere di questa forma di ‘rivendicazionismo’ dei diritti. Tuttavia, essa opera non su uno qualsiasi dei molti temi sociali ma sul più fondativo e sul più radicale. Quello da cui è sempre dipesa, cioè, la divisione e il rapporto tra i sessi e dunque la sopravvivenza di ciascuna società. La specie umana è, infatti, quella in cui la riproduzione e l’allevamento della prole impegnano di gran lunga il maggiore investimento di tempo e di risorse rispetto a qualunque altra specie. La specie umana si caratterizza per una gravidanza prolungata, per un parto di norma singolo, e per una lunga cura dopo la nascita. In altre parole, per un esteso addestramento sociale. Sono queste componenti strutturali che portano in luce le specificità, le potenzialità ed i vantaggi evolutivi che ci caratterizzano rispetto al resto del regno animale. In particolare, le caratteristiche vincenti di adattabilità e ubiquità. Ne deriva che la specie umana dispone di una complementarità funzionale davvero molto pronunciata tra i sessi. Una complementarità che si può ricostruire già a partire dalle prime “società” note, quella cosiddetta dei “cacciatori raccoglitori” (che poi, in effetti, include la gran parte della storia nota dell’umanità). In queste società, dominanti fino alla soglia dell’età moderna in gran parte del pianeta, si può dire che la caccia fosse un’attività a trazione maschile, che implicava mobilità sul territorio, mentre le raccolte implicavano meno forza e resistenza ed erano attività a trazione femminile[24]. Ciò perché, come ricorda Zhok, la prole per lungo tempo ha bisogno di sostegno e sorveglianza, cura, e qualcuno deve prestarla. All’origine di questa divisione, secondo la ricostruzione che ne fa Andrea, ci sono quindi due caratteristiche naturali: la prima è il dimorfismo sessuale che caratterizza la specie, per cui nell’uomo tendenzialmente l’esemplare maschile a una maggiore massa muscolare; la seconda caratteristica è l’asimmetria nella facoltà riproduttiva, per cui essendo la specie umana mammifera la gravidanza e l’allattamento sono esclusivamente femminili.

Tuttavia, ciò non implica, di per sé, gerarchia[25].

Molto spesso i gruppi di cacciatori raccoglitori manifestano un elevato livello di uguaglianza se si vanno ad analizzare la dignità, il potere decisionale, tra i soggetti maschili e soggetti femminili. Piuttosto che ‘dominio’ si dovrebbe qui parlare di ‘complementarità funzionale’. Una complementarità che esprime una co-essenzialità. Entrambi i sessi producono e sono indispensabili alla sopravvivenza del gruppo. Come si legge in un testo specificamente dedicato al tema, nella sua prima parte, di Emmanuel Todd[26], la situazione è altamente differenziata nelle diverse epoche e territori, tuttavia la scena originaria si può riassumere come struttura familiare nucleare (una coppia e i loro figli e figlie), con sistema parentale bilaterale, matrimonio esogamico, possibilità di divorzio, talvolta forme di poliginia o poliandria, elevato status della donna. Questa organizzazione è fluida e poco strutturata, abbastanza indifferente verso le pratiche omosessuali (assoluta in caso di quella femminile), poche fobie.

Quando questa forma sociale, molto gradualmente, viene sostituita dalle società agricole stanziali ed emergono organizzazioni anche vaste, a partire dall’età del bronzo, compaiono forme gerarchiche e maggiori differenziazione nelle forme organizzative familiari. Quella distinzione tra ‘interno’ ed ‘esterno’, per la quale il femminile aveva competenza sull’interno, quindi sostanzialmente sulla famiglia e sui rapporti intrafamiliari, e il maschile invece si occupava dei rapporti esterni, della caccia della guerra, man mano che si estendono le dimensioni dei gruppi sociali si struttura e si muta in una distinzione ‘privato’ verso ‘pubblico’. Anche qui, per lo più, la donna ha il controllo e la competenza nella sfera privata mentre l’uomo in quella pubblica. Ma la ‘sfera pubblica’ subisce una notevole estensione. In questa descrizione semplificata per funzione e ruolo sessuale andrebbe inserita una distinzione che si crea (o consolida) in questa forma sociale e che riguarda la forza gerarchica del gruppo familiare in questione nel suo complesso. Per cui ai livelli più bassi (‘subalterni’) si tende al lavoro di tutti, in parte anche all’esterno, e ai livelli più alti (‘dominanti’, o ‘aristocratici’) si tende invece a una partizione più tipica. Osservando la cosa dal punto di vista dei ceti alti che poi è quello ovviamente più noto, per effetto del tramandarsi delle fonti storiche, e al quale implicitamente la ricostruzione di Zhok fa riferimento, nella sfera pubblica nasce il potere. È del tutto evidente che questo potere, infatti, non coinvolge gli schiavi e/o vari ‘paria’. Si tratta del potere legale, del potere politico, creato nel luogo in cui vengono fatte e modificate le leggi scritte, in cui si consolidano le istituzioni, che via via si fa sempre più complesso ed esteso e che essenzialmente è definito nell’ambito extrafamiliare che, a questo punto, si configura essenzialmente come sfera di competenza maschile (maschile e nobiliare).

Questo è l’ambito di cui abbiamo ufficialmente storia, appunto l’ambito del quale la storia scritta nella sfera pubblica ci riconduce notizia. E noi abbiamo notizia scritta sempre di figure maschili che si stagliano con nettissima prevalenza rispetto alle figure femminili proprio a partire da questa arcaica divisione del lavoro. Abbiamo, naturalmente, anche notizia sempre di figure maschili dominanti (con qualche significativa eccezione nelle società più “femministe”, come, ad esempio, l’antico Egitto, o l’età ellenistica nella quale si afferma una relativa equivalenza tra uomini e donne[27]). Intendere questa asimmetria dei ruoli nel potere pubblico, nelle classi dominanti in particolare, come “oppressione” delle donne nelle medesime classi è un evidente anacronismo storico. In quanto proietta il nostro moderno, e contemporaneo, senso di giustizia, strettamente legato alle idee di parità e di uguaglianza nella versione che ci viene tramandata dalla tradizione liberale, su un passato semplificato e idealizzato. Idealizzato perché, ad esempio, trascura che i rapporti gerarchici “patrilineari” non sono uniformemente presenti nel mondo antico, e non lo sono stati sempre. Ad esempio, Sahra Pomeroy ricorda[28] che durante l’età ellenistica la situazione delle donne migliora sensibilmente, e l’educazione delle ragazze inizia ad essere di interesse per le famiglie. Nell’Egitto dei Tolomei, partendo da una tradizione molto più paritaria, la cosa è ancora più pronunciata. Ma anche nel mondo romano, nel quale, pur in un contesto patrilineare e fortemente militarista, in epoca tardo repubblicano e imperiale la situazione migliora, fino ad arrivare alla piena parità legale nel diritto ereditario con il codice Giustiniano (533 d.c.). Comunque sia, pur con significative eccezioni, l’insieme del mondo antico è dominato da assetti ‘patrilineari’ (di tipo “stipite” o “comunitari”[29]), come evoluzione da una forma arcaica meno strutturata. Anche nei casi più gerarchici e lontani dalla nostra sensibilità bisogna ricordare che il nostro ideale di eguaglianza e libertà è estraneo alla stragrande maggioranza della storia umana fino ai tempi recentissimi. Piuttosto, la nozione antica di giustizia è espressa dalla formula latina “unicuique suum tribuere” (attribuire a ciascuno ciò che gli spetta). E ciò che nel mondo antico e nelle società tradizionali spettava a ciascuno era precisamente la sua appropriata posizione e il suo compito in una società che con gli occhi contemporanei, ovvero con i miei propri occhi e con gli occhi del professore Zhok, è permeata di relazioni gerarchiche da capo a fondo. Relazioni gerarchiche costituenti la stessa personalità dei membri.

Prima del diciottesimo secolo ovunque nel mondo la posizione di ciascun individuo era, infatti, sempre definita in relazione all’armonia sociale complessiva ed alla sua relazione di subordinazione rispetto a qualcun altro. Ogni individuo era inserito in un ordine, il quale faceva riferimento ad altri ordini. In questi modelli di società e nelle personalità che in essi erano nati e si erano formati, definire un comportamento “giusto” significava ‘stare nel posto’ rappresentato da una rete di doveri di obbedienza e reciproci doveri di cura. Nella nostra sensibilità contemporanea questa idea è altamente repulsiva; l’idea di dipendere dalla benevolenza di un superiore è un affronto alla nostra originaria dignità. Ma nella storia umana questa è stata la condizione normale di tutti, non specificamente delle donne. Questa caratteristica che noi leggiamo come “paternalismo” è la nota caratterizzante tutte le etiche tradizionali a noi giunte perché informate da un modello di società a ciò ordinato. In una delle civiltà di cui abbiamo più documentazione, quella romana, per gran parte della sua storia esiste una chiara ed espressa condizione di subordinazione legale della donna rispetto al padre e al marito, ma, al contempo, abbiamo ampia testimonianza anche dell’influenza e della capacità o di farsi valere delle donne. Ovvero, l’inferiorità dello status pubblico non corrispondeva automaticamente a ‘oppressione’ e ‘sfruttamento’, e, comunque, non impediva forme compatibili con il quadro dato di “realizzazione personale”. Il punto è che questa realizzazione non ha la forma del ‘trionfo individuale’, piuttosto ha quella della ‘buona rappresentazione di ciò che compete al ruolo’. In questo sistema di concetti e valori ‘una vita ben spesa’ è una vita nella quale ‘tutto è compiuto secondo il proprio posto’. ‘Diritti’ e ‘doveri’ si bilanciavano secondo il principio di una sorta di “benevola complementarità”. Difficile, quindi, a priori (e soprattutto senza proiettare i nostri valori) dire quale fosse la posizione ‘più comoda’, se rispondere ai propri doveri di gravidanza e cura o a quelli del lavoro e della guerra. Doveri di lavoro che nelle classi inferiori erano estesi evidentemente a tutti e due i sessi (ma non quelli della guerra).

Quello che cambia avviene nella rivoluzione industriale e qui nasce anche il ‘primo femminismo’. Il suo inizio simbolico viene fatto risalire alla pubblicazione nel 1792 del libro di Marie Wollstonecraft. In effetti anche sul piano strettamente funzionale a partire dalla metà del diciottesimo secolo fino al diciannovesimo secolo diventa via via piuttosto evidente l’insostenibilità del vecchio modello sociale. Nel 1851 il censimento britannico dimostra che il 30% delle donne tra i 30 e 40 anni sono nubili, cosa che avrebbe comportato normalmente un alto rischio di mancanza dei mezzi di sussistenza. Tuttavia ciò dipendeva dal fatto che molte donne, soprattutto nelle classi popolari (anzi nelle esclusivamente classi popolari), erano, in effetti, impiegate nel lavoro e quindi a partire dalla metà del secolo, su pressione di un movimento molto forte e crescente (al quale parteciparono sia donne che uomini tra le classi alte, si pensi al ruolo di Harriet Taylor e del suo secondo marito il filosofo John Stuart Mill) si mise mano, gradualmente, ad una radicale modifica della posizione sociale della donna in direzione di una parificazione dei diritti formali con l’uomo. Un processo che implicava l’accesso a tutti i livelli educativi e la parità legale in tutte le forme il diritto di proprietà, ma poi, successivamente, anche il diritto di voto e di piena partecipazione politica. Una lotta grandiosa che occuperà il tempo dal 1906 al 1971 (l’ultimo paese a dare diritto di voto appena partecipazione politica alle donne fu la Svizzera).

A cavallo tra la fine degli anni 60 e l’inizio degli anni 70, però, anche il femminismo subisce una metamorfosi radicale. Nel ‘68 un articolo del New York Times usa per la prima volta la distinzione tra un ‘femminismo della prima ondata’, con cui nomina il femminismo tradizionale emancipativo e per il suffragio che aveva avuto evidente successo nei 150 anni precedenti, e un femminismo ‘della seconda ondata’. Questa nuova forma di femminismo nasce nell’atmosfera culturale rappresentata dal ‘68 e sulla base degli esiti delle lotte del femminismo della ‘prima ondata’ nei paesi occidentali e nella parte abbiente della popolazione occidentale. Qui l’idea di una parità completa tra uomo e donna si era ormai affermata, dunque le nuove generazioni avevano metabolizzato l’idea di uguaglianza tra i sessi e le leggi e costituzioni le assorbivano. Tra gli anni ‘50 e gli anni ‘60 questo processo si scontra con ritardi ed arretramenti, ovvero con scorie e normali inerzie. Ci sono aree più arretrate e ci sono generazioni più anziane, ci sono luoghi dove l’ordinamento tradizionale dei rapporti continua a opporre una resistenza al cambiamento, ci sono, anche legalmente, elementi di trattamento asimmetrico residuali da emendare (per esempio, in Italia l’abolizione dell’attenuante per il diritto d’onore si trascinerà fino al 1981). Inoltre, è proprio della concorrenza e dell’aver posto come ordinatore fondamentale della società all’economico che ogni fattore di debolezza dell’offerente forza lavoro sul mercato venga sfruttato per abbassarne il valore (e quindi la remunerazione).

Dunque, si aprono subito due possibilità strutturali, coerenti con il capitalismo e il suo orientamento all’accumulazione di valore astratto, per risolvere la asimmetria biologica determinata dall’impegno di cura caricato in particolare, o in modo asimmetrico, sulle donne: o queste rinunciano alla procreazione, e si riducono a fornitrici di forza lavoro esattamente analoga a quella maschile (e, quindi, dal punto di vista del capitalismo hanno pari valore); oppure la loro parziale indisponibilità ne determina necessariamente una riduzione del valore. Concretamente solo un intervento di tipo statale, che sia esterno e prescinda dalle logiche competitive del mercato, può risolvere questo problema senza costringere a una rinuncia delle funzioni di cura.

Nella versione radicale della cultura del ’68, di cui si è fatto cenno nella seconda parte di questa lettura, questi rapporti di complementarità funzionale tra uomo e donna vengono interpretati però come alias del modello del rapporto capitalistico tra ‘sfruttati’ e ‘sfruttatori’, peraltro proiettando un canone storico e contemporaneo sull’intera storia dell’umanità. Tutto il rapporto tra uomo e donna nell’intera storia della specie umana viene concepito e raccontato, anche a fini polemici, come il più antico sistema di sfruttamento ‘di classe’ (con notevole abuso di concetto). Uno sfruttamento fondato sulla divisione sessuale del lavoro che può essere superato soltanto superando questa divisione. Viene proposta una lettura della storia in cui il ‘potere maschile’ sarebbe stato costantemente esercitato utilizzando strumentalmente istituzioni come il ‘matrimonio’, l’allevamento dei figli o le pratiche sessuali. Questo sistema di sfruttamento viene considerato analogo, in alcuni casi sinonimo, del ‘capitalismo’ e godrebbe ancora di grande seguito perché gli sfruttati non avrebbero preso conoscenza della propria condizione e vi collaborerebbe, sia pure inconsapevolmente. Dunque, il ‘femminismo della seconda ondata’ predilige una militanza politica oppositiva, ma anche persuasiva, e, in alcuni casi, tende al separatismo. Esso diverge in maniera fortissima dal femminismo classico e dalle sue istanze di uguaglianza e diritti. La ‘seconda ondata’ mira, piuttosto, a un rovesciamento del potere; addirittura, ad un rovesciamento rivendicativo che sani tutte le ingiustizie del passato. Cioè il secondo femminismo è mosso da un ideale rivendicativo che non punta a costruire una nuova unità ed un nuovo equilibrio, ma punta al riconoscimento di quella che viene definita come una irriducibile ‘differenza’. È un atto di sfida nei confronti del sesso maschile che è identificato ora come nemico. Naturalmente questo processo nasce dentro lo spirito antigerarchico e antiautoritario del tempo e si sintonizza spontaneamente, con la nuova atmosfera neoliberale che si va imponendo, la quale è tutta rivolta a cancellare ogni traccia di egalitarismo e ogni senso di unità sociale. Uno dei punti di attacco è la nozione di “patriarcato” per il quale, strettamente parlando, si intende che la gestione del potere pubblico avviene per linea maschile (cosa che non implica automaticamente oppressione della parte femminile). Ma nel 1970 Kate Millett[30] individua una nuova e diversa nozione di patriarcato: in esso la subordinazione femminile nella sfera del potere pubblico è vista automaticamente, e senza bisogno di giustificazione o dimostrazione argomentativa, come espressione di un sistema di oppressione e sfruttamento delle donne da parte degli uomini. Ovvero senza porlo come tema o argomentarlo l’interpretazione presuppone le condizioni del mondo contemporaneo e le sue categorie mentali e culturali specifiche come sovrastoriche, e le utilizza per interpretare e comprendere un sistema sociale diverso (peraltro proiettando all’indietro anche i sistemi moderni di sfruttamento capitalistico). Seppure la Millett riconoscesse i progressi avvenuti sul piano legale istituzionale dal ‘femminismo la prima ondata’ lamentava la mancanza dei risultati sul piano della coscienza, degli abiti mentali. Anche questo elemento è perfettamente coerente con lo spirito del tempo e la svolta culturalista. In questa nuova accezione essenzialmente il ‘patriarcato’ non indica necessariamente una dimensione ‘strutturale’, quanto una dimensione ‘culturale’, ‘ideologica’, inerente alla struttura psichica, la quale doveva essere abbattuta per portare la “rivoluzione sessuale” a compimento. Siamo, cioè, in perfetta continuità con lo sforzo postmodernista. Anche il femminismo abbandona da allora la dimensione dell’analisi strutturale socioeconomica e si concentra sul tentativo di ottenere un rivolgimento essenzialmente culturale. Uno spostamento ricco di conseguenze perché concorda con la tendenza soggettivistica del periodo che non disturba più gli assetti che nel frattempo si stavano trasformando in direzione neoliberale[31], non toccando i processi economici, e si concentra piuttosto sul fattore di opinione; ma anche perché sposta la percezione dei rapporti di potere come fattore di natura morale. Lo sfruttamento diventa espressione di una mentalità maschile e moralmente deformata, da qui emerge l’idea che la violenza dell’uomo sulla donna è una forma costitutiva essenziale del ‘patriarcato’. Da questa struttura logica si avvia quel movimento di sensibilizzazione al tema della violenza sulle donne (che naturalmente ha tanti meriti però finisce per promuovere anche una visione unilaterale a tratti paranoica del rapporto tra i sessi).

La sottovalutazione dei rapporti strutturali, rispetto a quelli culturali, porta con sé anche una apparentemente paradossale conseguenza, in realtà espressione specifica della posizione di classe dei denuncianti o meglio delle denuncianti: creare una cornice sistematicamente accusatoria da parte della cosiddetta ‘classe femminile’, sfruttata, verso la ‘classe maschile’, sfruttatrice, che oscura quella che è da sempre, in tutta la storia dell’umanità storicamente nota (ovvero dall’epoca stanziale in poi) la principale subordinazione (se pure non sempre vissuta come tale). Le subordinazioni per ceto e quelle per censo sono, infatti, sempre state quelle dominanti, le principali, più evidenti e più determinanti nella vita concreta delle persone che hanno attraversato la storia di questo pianeta. Tutti gli uomini e tutte le donne di ceto e di censo superiore hanno sempre esercitato, entrambi, un potere su tutte le donne e su tutti gli uomini di ceto o di censo inferiore (insieme ad obblighi e responsabilità il cui tradimento, a ben vedere, provocava sempre rivolte). E questa gerarchia di potere è stata l’elemento biograficamente dominante della vita di miliardi di persone. Questo è l’enorme fenomeno che viene semplicemente oscurato e diventa trascurabile dalla scelta della divisione fondamentale ‘politica’ (ovvero tra l’amico ed il nemico) secondo l’asse maschile/femminile per il quale una principessa sarebbe per sé stessa oppressa da uno stalliere. E compare in questa costellazione di concetti e valori l’idea di dover correggere un torto storico, come se le donne contemporanee fossero eredi dirette di tutte le donne sfruttate della storia (mentre, evidentemente e se mai, ogni donna vivente è erede sia degli sfruttatori e sia delle sfruttate volendo definire gli uni e gli altri secondo il sesso, avendo sempre sia madri come padri). Ma più specificatamente, ogni donna contemporanea è, più plausibilmente, erede di una storia di sfruttamento o di dominazione che deriva dal censo della sua famiglia. Ci sono eredi degli sfruttatori ed eredi degli sfruttati.

Peraltro, in alcune versioni del pensiero femminista della ‘seconda ondata’ lo stesso amore romantico è stato visto come un ‘inganno ideologico’, un imbroglio. Alcuni esiti sono stati, coerentemente, verso il separatismo e la scelta “politica” dell’omosessualità. Anche questa è una conseguenza logica, seppure rigida, dell’individuazione come nemico dell’intero sesso maschile. Come ricorda Jessa Crispin[32], il femminismo è (o rischia di essere) un “processo mentale narcisistico autoriferito”, che classifica le proprie azioni come eroiche, una forma di esclusione di discorso particolarmente potente e subdola (solo i pari possono accedere ad esso), “un mastino che si finge un micetto con una goccia di latte sul naso” (il che, detto tra parentesi, è, in effetti, molto femminile). Si è trattato, e si tratta, anche di un’impresa di piccole élite che spingono per l’affermazione di una politica identitaria, generata con il medesimo meccanismo psicologico della formazione di tutti i gruppi umani in fusione – l’identificazione di un nemico che concentri su di sé “il male”, in modo da poter essere “il bene” -.

Sempre la Crispin ricorda quel che sopra abbiamo riportato, ma giova leggerlo anche da lei:

“le donne hanno sempre lavorato. Molte sono sempre state costrette a farlo. Le nubili, le vedove, le indigenti, le svantaggiate hanno sempre lavorato. Quando le femministe hanno deciso di combattere per il diritto al lavoro, ciò che intendevano era il diritto di diventare medici, avvocati e via dicendo. Le donne hanno sempre pulito gabinetti e pavimenti, sono sempre state pagate per toccare corpi altrui come infermiere, badanti e lavoratrici del sesso.

Né le donne combattevano per svolgere i lavori dei poveracci: in fabbrica, in miniera, nei mattatoi. Fin dall’inizio, il presupposto era che il lavoro fosse una cosa buona, gratificante, che noi ci stavamo perdendo. Non qualcosa che distrugge corpo ed anima, che ti uccide da giovane o ti spinge a desiderare che lo faccia”[33].

 

In una versione più recente si può registrare la dissociazione tra sesso e genere, che non significa soltanto che il primo termine indica i tratti biologici mentre il secondo quelli psicologici, ovviamente non necessariamente pienamente coincidenti, quanto la tendenza a identificare il secondo essenzialmente come pura entità culturale. In intima connessione con l’idea che il dominio ‘patriarcale’ sia un’ideologia di sfruttamento emerge a questo punto l’idea per cui lo stesso genere sarebbe un costrutto culturale, imposto su una base biologica tutto sommato malleabile, il cui scopo è di definire i generi ‘maschili’ e ‘femminili’, rispettivamente, come il gruppo ‘che comanda’ e quello ‘che obbedisce’. Nel momento in cui io concepisco il genere come un costrutto culturale e lo collego con questa narrazione semplificata (e falsa) emerge, come conseguenza politicamente logica, l’idea che sia possibile decostruire e ricostruire altrimenti i generi, per accedere a un’agenda politica diversa. Detto altrimenti, se si ammette che la distinzione polare tra ‘maschile’ e ‘femminile’ è esito di uno sfruttamento storico, e ancora pienamente operativo, è abbastanza ragionevole immaginare che se lo decostruisco, o lo cancello, allora questo sfruttamento ne viene annullato. Viene messo, quindi, sotto accusa il ‘binarismo sessuale’ e quindi anche, sulla scorta delle letture di Derrida o di Lacan, la tendenza delle categorie linguistiche di costruirsi per opposizioni binarie. Anche qui si tratta, come ovvio, di un’applicazione del post-modernismo filosofico che fa uso di alcune tesi psicanalitiche e fa riferimento soprattutto a un’autrice importante e radicale come Judith Butler[34]. In effetti per la Butler il ‘genere’ non è un nome ma un ‘performativo’ cioè un’espressione che fa essere il proprio significato. Ne consegue che il ‘corpo’ dotato di ‘genere’ è una sorta di fabbricazione, una performance, ed è ‘prodotto’ attraverso gesti ed atti a loro volta condizionati dal prevalente discorso pubblico. Per cui la ‘femminilità’ e la ‘mascolinità’ sono travestimenti del carattere performativo del genere, artificialmente plasmato dal dominio maschilista e dall’eterosessualità obbligatoria. Queste sono le ragioni per cui punto di caduta di una discussione che sopprima i condizionamenti storici e quelli culturali sull’intera divisione di genere, per Butler, è la dissoluzione di ogni opposizione, la fluidificazione del genere teorizzato dalla queer Theory. Saremmo, in un certo senso, all’apogeo della “Ragione liberale”. Viene sostituita ogni identità ed ogni normalità, come ogni naturalità con un appello all’arbitrio soggettivo di essere qualunque cosa si voglia e di rivendicare questa possibilità come diritto.

Secondo il punto di vista che si difende nel libro non si predilige ovviamente un obbligatorio necessario binarismo sessuale o una sessualità obbligatoria. Ovviamente chiunque è libero di fare le sue scelte in questo campo, purché si comprenda che la complementarità biologica tra i sessi, e quella psicologica tra i generi maschili e femminili, con tutte le articolazioni e divisioni possibili e con tutti gli stati intermedi, non può essere trattata come una distinzione sociologica accanto a mille altre. Una complementarità è necessaria, oltre che essere fondante ed essere preliminare per la riproduzione fisica ma anche e soprattutto sociale della specie, cioè per la procreazione per l’accudimento per l’esistenza di un ordinamento familiare e per la relativa educazione. Zhok sostiene, in sostanza, che ci vuole cautela per toccare questo punto, perché potrebbe provocare squilibri relazionali e reazioni violente. Non è un ambito in cui sia appropriato un atteggiamento militante, bensì un atteggiamento di equilibrato approfondimento, che consenta di comprendere e giustificare naturalmente l’esistenza di casi che non rientrano nel canale binario. Sviluppare tolleranza, accettazione, e normalizzare la diversità. Tutte cose in linea con le versioni del femminismo della ‘prima onda’, ma problematiche nell’atteggiamento rivendicativo sorto nella ‘seconda onda’. Se si prova, facendo uso di un atteggiamento forte, a spiegare a tutti coloro i quali si collocano nel quadro binario tradizionale che sono in errore, o addirittura colpevoli. Ovvero, che stanno supportando inconsapevolmente un’ideologia oppressiva e che dovrebbero educare i propri figli in modo diverso. In quanto l’educazione derivante da una millenaria ed ubiqua tradizione sarebbe solo lo sfortunato esito di condizionamenti psicologici passati, eccetera, ciò porterebbe al livello di conflittualità che il professore Zhok giudica essere elevatissimo e rovinoso. Ciò anche considerando che “naturalmente armonizzare i rapporti tra i sessi e un’operazione utile e necessaria, di per sé una operazione complessa a causa di tutte le tendenze centrifughe individualistiche competitive che sono proprie del liberalismo affermato, tuttavia si tratta di un’attività doverosa ed eticamente raccomandabile”.

Politiche delle identità

Queste tendenze si inseriscono nel più generale quadro che ha preso il nome di “politiche delle identità”. Questa è un’espressione complicata e in base alla quale i gruppi sociali che si sentono oppressi non cercano più di ottenere riconoscimento come uguali, cioè come parte della comune umanità, ma sulla base del fatto che sono speciali. Da una prospettiva egalitaria e comunitaria si passa ad una prospettiva rivendicativa e competitiva. Questo spostamento coincide con la rivoluzione liberale. Anche questo fenomeno avviene dentro uno spostamento strutturale che è a monte, cioè quello della progressiva perdita di credito a partire dai primi anni ‘70 della lezione marxiana e socialista, o comunista, che comporta una riduzione delle analisi attente alla dimensione strutturale o collettiva dei fenomeni. Tutta la prospettiva su cui muovevano le lotte sociali precedenti era, infatti, quella della costruzione di una ‘società nuova’, cioè di una ‘comunità nuova’ o di una ‘nazione nuova’ ovvero la costruzione di nuove identità collettive. Tutta questa prospettiva è interamente ed integralmente scomparsa dall’orizzonte in concomitanza con la svolta neoliberale e con essa è scomparsa sia la tradizione culturale letteraria e sia la rete dei concetti. Al suo posto è emersa una sfera di identità alternative affiancate le une alle altre, libere da scegliere individualmente come un prodotto su uno scaffale al supermercato.

In linea generale, invece, le identità fondate e capaci di riprodursi socialmente, estendendosi da una generazione all’altra, hanno una ricchezza di contenuto interno che viene coltivata ed elaborata e quindi trasmessa. Si tratta di culture che sono amate da coloro i quali vi partecipano e conciliano in sé una pluralità di differenze ed inclinazioni. Le identità che si costruiscono, invece, sulla scorta di un gesto inaugurale di negazione, quindi di aggressione e separazione, sono costruite a partire dal concetto di nemico. Sono qualcosa che assomiglia strutturalmente al processo di costruzione del “nazionalismo”, nel quale l’identità collettiva ‘nazione’ è generata per negazione di un’altra nazione: dove, cioè, non è più in questione tanto la coltivazione del proprio interno, della propria cultura, della propria società o delle proprie tradizioni, ma diventa centrale la negazione del proprio ‘esterno’. Per esempio, il disprezzo nei confronti degli altri paesi, che conferisce identità nel senso di non essere quell’altro. Potremmo ricordare il tentativo di formare l’identità italiana attraverso l’ostilità verso la ‘perfida albione’, ovvero le democrazie occidentali, che fa parte della nostra storia. Il punto è che l’identità e l’unità politica si formano attraverso la negazione del nemico. I soggetti che vi appartengono non sanno e non gli interessa sapere se c’è molto, o poco, che li unisce internamente nel lungo periodo, ma trovano un’identità nel momento in cui identificano un nemico comune. Nel farlo si sentono simili e vicini. Tipicamente questa tipologia identitaria emerge sul piano psicologico nella forma di una rivendicazione pubblica di “orgoglio”. L’orgoglio, e la risposta psicologica simmetrica ‘l’umiliazione’, e questo genere di politiche d’identità, si costruiscono come risposte ad azioni ovvero a uno stigma percepito. In questo senso è chiaramente una dinamica comprensibile, ma contiene in sé il problema di non essere in grado di istituire un’identità veramente collettiva. Porta in essere ‘comunità’ che hanno soltanto forma rivendicativa, come desiderio di conquistare tutte le garanzie e diritti speciali riservati. Le stesse sono immediatamente indisponibili ad altri compiti (come la lotta per l’emancipazione economica generale) in quanto nel porli il confine ‘amico/nemico’ che le costituisce si dissolverebbe e potrebbero scoprire di essere attraversate al loro interno dai nuovi confini.

Questo è un punto decisivo: lo spostamento dell’agenda politica, tra l’era socialdemocratica (o ‘socialista’) e quella neoliberale, ha fatto cambiare radicalmente natura al “politico”. Creando quello che ho provato a nominare come “politico-impolitico”. Nel senso che questo ‘politico’ si costruisce moltiplicando le frontiere oppositive sulla base di presunte “identità oppresse” sistematicamente scelte in modo da non porre in questione l’indisponibile assetto generale della società (colpito dal “Tina” neoliberale, o da quello che Mark Fisher chiamava “realismo capitalista”[35]), ma dissolverla attraverso l’identificazione come ‘nemici’ per lo più degli umiliati ed oppressi reali. Se si guarda da quest’angolo la natura ‘di classe’ (ovvero lo status e il ceto dal quale sono identificate queste ‘fratture’ da politicizzare) risulta chiaro. Come risulta chiara la sua natura ‘impolitica’. Allo scopo di porre in questione l’assetto generale della società (i modi di distribuzione, la creazione di ricchezza, la ripartizione del potere effettivo, etc.) questo “politico” relativo alle ‘identità’ è strutturalmente indisponibile. Anzi è neutralizzante. Lungi dai sogni di assemblaggio delle “lotte”, per farlo non bisogna porre le questioni. Non appena si ponessero queste si dissolverebbero[36].

 

Le lotte identitarie avviano, quindi, processi di frazionamento sociale potenzialmente illimitati, esposti nel discorso pubblico dalla sfera materiale a quella simbolica. Questo processo di frazionamento è visibile già all’interno del ‘femminismo della seconda ondata’, che iniziò subito a frazionarsi secondo ulteriori faglie rivendicative, per cui abbiamo le femministe di colore, quelle privilegiate bianche, quelle separatiste, quelle che spingono per la fluidificazione dei generi e così via. Ma, come appena detto, la cosa più rilevante è che queste dinamiche rendono impossibile impostare una lotta sociale comune per obiettivi strutturali, nel momento in cui moltiplicano le lotte individuali per obiettivi simbolici. In altre parole, ogni tentativo di unire le forze per definire politiche per una società o per una comunità, o una nazione, migliore sono sistematicamente ostacolate da una politica delle identità che si mostra essere in effetti una politica della progressiva disintegrazione di ogni identità[37].

 

Politicamente corretto

Il ‘politicamente corretto’ è un’operazione di organizzazione dei discorsi interna all’élite. Specificatamente è un’operazione di organizzazione egemonica interna per regolare le liti intellettuali. Il suo impatto sociale non è proporzionale dal numero delle persone coinvolte. Dal punto di vista popolare le gesticolazioni e le censure del politicamente corretto sono infatti di interesse assolutamente minoritario, restano quasi non viste, tuttavia, le minoranze coinvolte in queste pratiche sono collocate nei punti strategici della creazione dell’opinione pubblica, cioè nei giornali, nelle scuole, nell’università e si tratta quindi di minoranze il cui impatto tende a essere significativo. Il senso profondo del ‘politicamente corretto’ consiste nell’escludere dal numero del tollerabile (ovvero di ciò che si può dire e possibilmente di ciò che si può pensare) tutto quello che si presenta come potenzialmente offensivo o lesivo di gruppi presunti vittimizzati. Lo slittamento rilevante qui è che nel momento in cui la percezione soggettiva e il desiderio individuale diventano essi stessi sorgenti potenziali di diritto di normazione morale, come è stato visto, cioè quando si ammette che qualcuno può imporre limiti all’espressione altrui sulla sola base del proprio senso soggettivo di cosa sia offensivo o improprio, allora si apre un processo intrinsecamente privo di moderazione ed illimitato. Ad una parte viene attribuito un privilegio unilaterale che prescinde dal bisogno di confrontarsi con la controparte, i cui diritti vengono compressi, e le richieste di rispetto non hanno bisogno di sollevare altro argomento che non sia il proprio disagio personale, il proprio senso soggettivo di vulnerazione e di insulto di fronte a certe espressioni, oppure a certi temi o certi argomenti. Si tratta di un processo, per così dire, di sacralizzazione della vittima. Operazione assolutamente caratteristica del trionfo della “Ragione liberale”. Il punto di partenza logico è la cornice assiologica liberale, nella quale non esistendo più valori obiettivi l’unico valore sui generis è il sentimento della libertà negativa. Date queste premesse e visto che la libertà negativa non ha propri contenuti, l’unico contenuto positivo su cui si può convergere è, infatti, una doppia negazione. L’avversione verso negazioni della libertà soggettiva. Ogni negazione della libertà soggettiva è violenza. E la violenza si esercita su un oggetto passivo che è quindi la vittima. La vittima è chi ha subito, e quindi proverbialmente è ‘per definizione’ senza colpa. Come sostiene Zhok “nella cornice liberale la tutela delle vittime è perciò l’unica cosa rimasta su cui creare un simulacro di unità etica”[38].

Ma chi sono le vittime? Il punto è che la vittima è una fonte normativa primaria, quindi la creazione di un gruppo vittimizzato è la mossa etica fondante. Una volta che qualcuno è riuscito accreditarsi nella posizione di vittima acquista automaticamente quella autorità morale che nella società moderna è stata sottratta a tutte le altre voci, che quindi, a questo punto e per definizione, esprimono solo opinioni personali. Il ‘politicamente corretto’ è naturalmente un’arma asimmetrica, ed essendo essenzialmente di natura morale esercita un impatto in tutte quelle aree sociali nelle quali il discredito assume un ruolo fondamentale. Dove, cioè, la posizione di potere o di carriera è determinata dal credito presso i propri pari ed al ruolo intellettuale rivestito. Perciò il ‘politicamente corretto’ è per sua natura un’arma debole se è rivolta verso i ceti popolari o ceti subordinati, i quali vivono in un altro mondo, ma è un’arma potentissima se usata nei contesti sociali apicali, in cui la carriera si fa sulla base del consenso tra i pari. Qui violare il conformismo del ‘politicamente corretto’ può costare letteralmente l’intera vita sociale. Il ‘politicamente corretto’ esercita, quindi, la funzione di blocco sacro o tabù in senso tecnico, ovvero di interdizione sacrale.

Tra le altre cose anche l’affermarsi di queste forme di inibizione preventiva a certi discorsi crea uno scollamento tra le forme delle discussioni dell’élite e le forme di discussione popolare, dove simili censure hanno scarsa presa. In un regime democratico questo scollamento ha pesanti ripercussioni e crea fratture insanabili nel dibattito pubblico, inoltre l’articolazione dei gruppi definiti come ‘vittime’, quindi come socialmente in credito, produce una competizione sociale verso rivendicazioni particolari con esiti naturalmente divisivi senza limiti. A questo proposito è molto interessante notare ancora una volta che c’è un solo gruppo che non compare mai, neppure per caso, tra quelli letti come oppressi e bisognosi di tutele speciali e questo gruppo è il ‘proletariato’, in qualunque delle possibili definizioni contemporanee[39]. La frammentazione di ogni società in una miriade di istanze rivendicative particolari, che sono per definizione non universalizzabili è selezionata cioè favorevolmente dal sistema economico, perché crea un agone competitivo frammentato e depotenzia ogni istituzione politica che guardi alla società il suo complesso. Inoltre, colpisce sistematicamente le idee di normalità e naturalità, con tutti i loro corollari, colpisce cioè l’idea di natura umana.

 

Conclusioni

Il senso di questa lunga riflessione non è di condannare, in blocco, l’intero sviluppo storico del liberalismo (operazione in sé antistorica), ma di prendere le distanze dagli esiti che si generano in occidente e in questo secolo. L’emergere della “Ragione liberale”, a partire dagli impulsi determinati dalle nuove forme culturali, dall’espansione dell’economia monetaria e dalle condizioni della rivoluzione scientifica (e dagli altri fattori della “Grande convergenza”) è stata una soluzione adattiva di successo nel nostro occidente. Questo successo non è dipeso da una più organica teorizzazione ma proprio da risposte parziali, qui e lì necessarie per colmare lo spazio tra un sistema resistente e gli impulsi delle nuove classi emergenti. La tesi fondamentale di Zhok è che proprio per questo la “Ragione liberale” ha avuto successo. “l’essere un contenitore culturale vago e piuttosto informe l’ha resa permeabile a variazioni in corso d’opera, a integrazioni pragmatiche e a una certa ‘ecumenicità’ (donde la natura variegata delle istanze che si sono dette ‘liberali’)”[40].

La conseguenza è rilevante:

“In ultima istanza la ragione liberale ha trovato una chiara identità solo nei suoi tratti negativi, in ciò contro cui si schierava (il superamento dell’Ancien Régime), lasciando alla contendibilità futura ulteriori aspetti. E questo carattere che sta alla radice dell’apparente difficoltà odierna di ‘non dirsi liberali’: dopotutto in qualche senso chiunque non sostenga apertamente il ritorno a forme di vita teocratiche, monarchiche oligarchiche a base ereditaria può essere inserito in qualche modo nella grande famiglia liberale”.

 

Le soluzioni di successo che la Ragione liberale ha, via via, escogitato sono la “tolleranza”, la “teoria del bilanciamento dei poteri”, l’affermazione della “virtù della libera iniziativa economica”, lo “Stato di diritto”, il contributo ai moderni stati democratici. Tutte queste soluzioni per Zhok sono consolidate e vanno conservate (se pure in qualche caso temperate e comunque relativizzate).

Tuttavia, al contempo, la Ragione liberale, nel momento in cui ha manifestato quella che definisce una “forza progressiva”, ha anche mostrato dei limiti. Alla metà dell’Ottocento questi limiti sono risultati evidenti e denunciati nel “Manifesto del partito comunista” da Karl Marx con acutezza che tuttavia confermava, al contempo, la sua fascinazione per quelli che gli apparivano come gli elementi ‘progressivi’ dominanti nel lungo processo storico che stava descrivendo. I processi di disgregazione sociale e culturale derivanti, e connessi all’infittirsi delle dinamiche di competizione capitalistica per i nuovi mercati e l’espansione della fase finanziaria, già alla fine dell’Ottocento, però, portarono in luce gli elementi disgreganti decisamente distruttivi connessi con quella che si può chiamare, la “Prima globalizzazione”. Con essa il disorientamento individuale, la rabbia sociale che furono deviate verso esiti sciovinisti nazionalisti fino alla guerra mondiale.

Il vero problema per l’autore è che:

“Il nucleo portante della visione liberale non è frutto di alcuna visione etica, filosofica, religiosa, umana, non è mossa da un progetto, non da una prospettiva di civiltà, non da un quadro morale, non da un’intuizione ideale. In esso si ritrova la necessità di utilizzare ogni visione utile a liberarsi del vecchio mondo, con il peso delle sue tradizioni e dei suoi vincoli, e si ritrova la necessità di gestire un nuovo potere, conferito dalle inedite capacità di manipolazione scientifica e incremento produttivo. Non c’è mai nella ragione liberale alcuna ‘profondità etica’. E anzi per il liberale già parlare di qualcosa come una ‘profondità etica’ appare incongruo e sospetto. C’è l’esigenza per chi si va a liberando dell’ingombro del vecchio mondo di trovare coperture giustificative, soluzioni pratiche che gli consentono di cavalcare con successo le nuove forze sociali ed economiche si sono liberate. È perciò che il trascolorare dell’essenza del liberalismo classico nelle categorie dell’economia neoclassica non presenta alcuna difficoltà: non c’era una visione strutturata dell’uomo, del mondo, del giusto e dello sbagliato da trasporre, ma solo una versione minimalista e pragmatica, traducibile senza resti in una visione che rendeva l’umano un fantoccio senz’anima, la storia un non senso, e la società un’illusione. La forma di vita liberale, implementata dal sistema di relazioni capitalistiche, ha proceduto ad elevare il mezzo all’altezza del fine, lo strumento in posizione di scopo, il potere al posto del valore. Ciò ha condotto una progressiva ‘liquidazione del mondo’, concependo ogni momento dell’esistenza come uno snodo, un transito provvisorio verso la conquista di maggior potere, maggior libertà d’agire, maggior capitale. Le identità sociali sono state frammentate indefinitamente e spoliticizzate. Le identità territoriali sono state trafitte e debilitate dai movimenti di capitali e forza lavoro. Le identità personali sono state impoverite e scosse dalla rottura delle relazioni di riconoscimento, dalla mobilità e flessibilità, dalla precarietà e dall’insicurezza”[41].

 

L’azione collettiva è resa più ardua dalla rottura delle comunanze e dalla frammentazione dei rapporti materiali, dalla identificazione per moto proprio di sempre più ‘identità’ in reciproco conflitto.

Poiché la Ragione liberale, nella sua essenza, è assenza di limite e di senso allora sostanzialmente la natura si trasforma in una sorta di grande deposito di mezzi e strumenti, di cose indifferenti, predisposta al calcolo. L’unica radice di valore resta il singolo individuo, ed essa vale solo per sé. Una sfera residuale di valore che ha la forma di un’apparenza soggettiva insindacabile e può essere espressa solo in atti individuali, quindi nelle scelte di mercato. Ma si tratta di una sfera che non ambisce, e non può farlo, a costruire alcuna realtà condivisa. Il valore viene ridotto a emozione. Questa idea che la società può funzionare con la sola adozione di regole formali, mentre tutto il resto viene lasciato la libera scelta individuale è palesemente insostenibile, falso empiricamente, sostanzialmente disgregante ed anche logicamente incoerente. Perché dovremmo concordare nel rispetto delle stesse regole formali e sulla base di quale motivazione? Perché le regole formali permettono la pace, il benessere economico? Se fosse così sarebbe l’adesione ai valori condivisi, quelli che appunto valorizzano pace e benessere economico come valori chiave ed essenziali, a giustificare l’adozione delle regole. Allora le regole non sarebbero più ciò che dicono di essere (formali), potrebbe essere revocate in favore di regole differenti o di decisioni sostanziali che permettono di restituire in modo migliore quei valori.

Questa forma di isolamento soggettivo caratteristico e coerente con la Ragione liberale si esprime nella sua forma più sistematica attraverso le istanze del “rivendicazionismo”.

 

“Ogni gruppo, sottogruppo, in ultima istanza ogni individuo lotta per essere riconosciuto come vittima di qualcosa di qualcuno, in modo da poter conquistare spazio diritti a scapito di altri individui e gruppi. Un sistema di rivendicazioni oppositivo ha preso il posto del tentativo di creare consenso positivo intorno a qualcosa; al suo posto emerge la ricerca di un consenso negativo come legittima rivalsa. Vengono così a crearsi a getto continuo linee di frattura e risentimento: donne contro uomini, omosessuali contro eterosessuali, bianchi contro neri, islamici contro cristiani, nord contro sud, vegani contro carnivori, giovani contro anziani eccetera. L’epoca che inneggia la diversità fa di questa diversità un campo di battaglia in cui i rapporti tra diversi prendono una forma oscillante tra il contenzioso sindacale la causa giudiziaria”[42].

 

L’altra tendenza emergente è quella che porta ad individuare, come linea di frattura essenziale, quella tra ‘progressismo liberale’ e ‘reazionarismo imperialistico’. Il primo remerebbe in direzione della corrente, procedendo ancora allo smantellamento delle unità sociali residue ed alla liquidazione delle identità più coriacee. Al contrario la linea cosiddetta ‘reazionaria’ sarebbe quella che, rigettando questo movimento, cerca di ripristinare condizioni pre-liberali. Ovviamente questi ultimi, ad esempio espressi da alcune delle affermazioni del presidente Reagan o della Thatcher verso stili di vita più tradizionali o valori patriottici (ma si potrebbe elencare anche Bush junior e Trump) sono sempre stati del tutto illusori. Non si può tornare a forme di vita preesistenti.

 

 

Tuttavia, l’analisi condotta in questo libro chiede di andare oltre le forme di opposizione apparente, in realtà perfettamente in linea con la direzione liberale. È assolutamente indispensabile frenare le tendenze distruttive messe in essere dalla “Ragione liberale”, nel momento in cui si espande senza freni. Bisogna disporre, in altri termini, di un apparato frenante[43]. A questo fine, però, bisogna anche riconoscerla, perché questa, come ogni discorso egemonico largamente dominante, è presente anche nelle forme oppositive (anzi, data la sua natura storica, specialmente in queste).

L’intero discorso di Andrea Zhok, per come lo leggo, è incorporato in questa decisione di lettura, che necessariamente si fa ‘filosofia della storia’. Scriveva Benjamin in “Sul concetto di storia”:

 

“articolare storicamente ciò che è passato non vuol dire conoscerlo ‘come è stato veramente’. Vuol dire impadronirsi di un ricordo per come balena nell’istante di un pericolo”[44].

 

Ed oggi il “pericolo” al quale chiama la riflessione è questo ridursi senza resti di tutto “a strumento della classe dominante” (ancora Benjamin), e quindi bisogna “cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla”. Michael Lowy riporta[45] un passo contenuto nelle note preparatorie, che richiama direttamente la metafora del ‘sistema frenante’ proposta da Zhok: “Marx dice che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia universale. Ma forse le cose stanno in modo del tutto diverso. Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno di emergenza da parte del genere umano in viaggio su questo treno”. Un passaggio non incluso nel testo finale.

Sul piano pratico bisogna quindi ostacolare l’ampliamento costante di tecnologie distruttive, di cose disponibili per gli atti di compravendita, l’estensione della capacità del denaro di esercitare il suo potere e di disporre quindi dell’esistenza di soggetti talmente immiseriti da essere a sua totale disposizione. Occorre adottare sistematicamente correttivi per modulare, arrestare e far regredire le tendenze all’opera. Realizzare un limite.

[1] – Si veda, in particolare Max Weber, “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, del 1904, che inaugura una lunga tradizione (per la verità anticipata dalle intuizioni di Marx) poi ripresa da Benjamin nel frammento “Il capitalismo come religione”, del 1921, e riprende molti elementi da “Il capitalismo moderno”, di Werner Sombart, del 1902.

[2] – I quali già nel 1903 diagnosticano l’insostenibile antropologia liberale, decostruendo la credenza del carattere originario dell’attore sociale, gli effetti perversi derivanti da questa dimenticanza nelle strutture di produzione e riproduzione sociale. Si tratta, del resto, della ripresa di elementi di critica già presenti in Hegel che del processo storico di affermazione del liberalismo trionfante vede solo i prodromi, l’individuo ha natura intersoggettiva nel senso che è sempre il frutto di eventi storici ed è costruito a ridosso “dell’altro” (e quello di questo). Marcel Mauss “Saggio sul dono”, 1903.

[3] – Onofrio Romano, “La Libertà Verticale”, Meltemi, 2020, p.75.

[4] – Che ho cercato di descrivere in Alessandro Visalli, “Dipendenza”, Meltemi 2020.

[5] – Pur se la sensazione di assoluta assenza di vie di uscita che promana dalla lettura del libro risente dell’implicita mancata presa di consapevolezza degli spazi di espansione monetaria aperti dal delinking del dollaro con l’oro del 1971. Cfr. James O’Connor, “La crisi fiscale dello Stato”, Einaudi, 1973. Lettura parziale qui.

[6] – Christopher Lasch, “La ribellione delle élite”, 1995

[7] – Castoridias, Lasch, “La cultura dell’egoismo”, 1986.

[8] – Ronald Inglehart, “La società postmoderna”, 1996

[9] – Antony Giddens, “Identità e società moderna”, 1991

[10] – Una delle fonti principali della sistemazione habermasiana. Che riprende il particolare “automatismo” nella emergenza dell’ordine sociale in grado di spiegarlo senza deliberazione e scelta politica.

[11] – Naturalmente si deve intendere sui termini, è vero che ci sono differenze rilevanti tra il neo-liberismo e l’ordoliberismo. Le formule che scaturiscono in diversi ambienti culturali ed orientamenti politici dalla crisi del liberismo originario, nei primi anni del novecento, e fanno parte di una vasta ricerca di un “nuovo liberalismo” -Keynes- o di un “neoliberismo”. Ma mentre il primo si propone di limitare il mercato attraverso un’azione statale compensativa, che salvi di questo l’essenziale, ovvero la libertà di azione degli individui; il secondo, al contrario, intende usare una gabbia normativa sostenuta dalla forza dello stato per purificare il mercato e far affermare in esso la forma pura della concorrenza. La mossa eleva la concorrenza a principio centrale della vita sia sociale sia individuale, ma lo fa riconoscendo che l’ordine di mercato non è affatto un ordine di natura: è il prodotto di una costruzione politica intrinsecamente storica. Questo movimento che porta alla messa a punto della proposta neoliberale parte per gli autori dal “Convegno Lippman”, dal 26 al 30 agosto 1938, che precede di qualche anno la fondazione della Società Mont Pelerin (1947). Sono invitati Hayek, von Mises, Rueff, Aron, Ropke, Von Rustow, Rougier. Nel discorso inaugurale Rougier ricorda che il liberalismo non si identifica affatto con il laissez-faire, ma è un ordine legale che richiede l’intervento dello stato. Malgrado l’opposizione di Von Mises (che sarà in minoranza anche nella successiva Società Mont Pelerin), la linea centrale condivide questa impostazione, in favore di un “interventismo liberale”. Lo scontro si determina tra ortodossi (Von Mises e Hayek, Robbins e Rueff) e i riformatori (Ropke e von Rustow, che insistono sul fondamento sociale del mercato, ma anche Lippman e Rougier) per i quali ‘essere liberali significa essere progressisti’ adeguando continuamente l’ordine sociale e legale alle scoperte, ai cambiamenti strutturali, senza pianificare interamente il traffico, ma creando un “codice della strada”. Insomma, come scrive Lippman, “gli ‘ultimi liberali’ non hanno capito che ‘ben lungo dall’essere astensionista, l’economia liberista presuppone un ordine giuridico attivo e progressista, teso al continuo adattamento dell’uomo a condizioni sempre mutevoli. Serve un ‘interventismo liberista’, un ‘liberalismo costruttivo’ ed un dirigismo statale che certo si deve differenziare sostanzialmente rispetto alla pianificazione ed al collettivismo” (Dardot e Laval “Il nuovo spirito del mondo”, p.182). Un dirigismo “che implica la protezione della libertà, non il suo asservimento; deve garantire che la conquista di benefici sia il frutto di una vittoria dei più adatti all’interno di una competizione leale, e non il privilegio dei più garantiti o di coloro meglio collocati socialmente”. Questo liberismo rinnovato è, insomma, il regno della legge, e contemporaneamente il governo delle élite, uno stato forte organizzato da competenti la cui qualità sia l’esatto opposto della “mentalità magica e impaziente delle masse” (ivi. p.196). Ne deriva, ovviamente, che la democrazia è affetta da una debolezza congenita determinata dalla eccessiva influenza dei popoli sul governo, attraverso l’opinione pubblica ed il suffragio universale. L’eterno bersaglio del neoliberalismo, per la stretta logica interna che lo contraddistingue, è dunque il potere del popolo, che va limitato e ricondotto alla guida degli esperti. Ma nel neoliberalismo, e sin dai suoi esordi, è presente anche un’altra corrente, non perfettamente coincidente: l’ordoliberalismo tedesco. L’ordine è concepito come dovere politico, nato come movimento conservatore nei circoli antinazisti, prevede “una teoria della trasformazione sociale che fa appello alla responsabilità degli uomini” ed il cui problema fondamentale è come riformare l’ordine sociale dopo lo stato totalitario. Certo l’ordine liberale muove dalla creazione di uno stato di diritto che è all’origine stessa della forma capitalista, l’economico non è per loro un insieme di processi naturali ai quali in qualche modo si aggiunge la regolazione ed il diritto, in accordo o in ritardo. L’ordoliberalismo respinge dunque ogni forma di riduzione del giuridico a sovrastruttura, e ogni concezione unitaria del ‘capitalismo’ fondata su una autonomia dell’economico. Ne sono espressione autori importanti come Ropke, che in “Civitas umana” rifiuta frontalmente il laissez-faire e identifica l’economia di mercato “vitale”, come un’opera d’arte, un prodotto della civiltà particolarmente difficile e che presuppone molto. L’ordoliberalismo è, a sua volta, diviso in due gruppi principali: gli economisti e giuristi della Scuola di Friburgo, come Euckel e Bohm, i sociologi Alfred Muller-Armack, Wilhelm Ropke e Alexander von Rustow. La distinzione è tra la struttura giuridica e quella sociale come focus, i primi sono concentrati sulla crescita economica, dalla quale deriverebbero i progressi sociali, mentre i secondi sono preoccupati degli effetti di disintegrazione sociale propri dei meccanismi di mercato e allo Stato affidano anche il compito di garantire e strutturare un soziale umwelt, un ‘ambiente sociale’, che reintegri gli individui nella società. Alla wirtschaftspolitik, ‘politica economica’, si contrappone la gesellschaftspolitick, ‘politica della società’.

[12] – Un indebolimento che non produce ancora il rovesciamento che si determinò almeno altre tre volte (la prima al termine della crisi mondiale del 1875-90, quando si affermano le prime forme difensive di welfarismo conservatore al contempo della espansione e trasformazione in chiave imperialista del sistema militare/industriale/finanziario denunciato da Hobson, Hilferding e Lenin; la seconda quando il collasso delle due guerre induce ad una nuovo governo del capitalismo, sotto la ferma diarchia dei vincitori – Usa e Urss -; la terza quando il lungo ciclo avviato dalla crisi del ’29 giunge ad una svolta sistemica e si rovescia nuovamente nella soluzione neoliberale), per la persistenza delle strutture ideologiche di fondo – che il testo in oggetto cerca di disvelare e decostruire – sfidate dalla revoca delle loro strutture e condizioni di esistenza. In altre parole, una visione materialista temperata (non dogmatica, né determinista) consente di vedere che la parabola ideologica descritta poggia su una “buona novella” legittimante e su condizioni materiali che non la contraddicano almeno per i più: quella che si sia almeno su un percorso ascendente di ricchezza e benessere. Senza benessere l’intera narrazione liberale viene meno. La revoca, provocata specificamente dal successo del liberalismo nel consentire ai forti di vincere (di essere “liberi”), delle condizioni materiali di benessere per la grande maggioranza rende contraddittorio l’intero paradigma. Si tratta di una ideologia, in altre parole, che si regge necessariamente sulla promessa della “società dei due terzi” (in cui due terzi siano almeno classe media possidente). Ma questa è tramontata in occidente, in particolare dopo la violenta ristrutturazione seguita al 2008 e accelerata dal Covid. Si può vedere anche per contrasto. Oggi una ideologia sconnessa dalle sue basi materiali viene “iperestesa” come reazione. È il canto del cigno.

[13] – Per leggere un recente testo che, da parte decisamente delle élite mondiali, o presunte tali, parte dalla insostenibilità di sistema (ma propone una soluzione “recuperante”), si veda Klaus Schawb e Thierry Malleret, “Covid 19: The Great Reset”, 2021. Un altro autore specializzato in questa sottoletteratura è Richard Florida, il quale nel 2011 ha pubblicato un libro dal medesimo titolo “The Great Reset”, Harper. O Richard Baldwin, specializzatosi nel descrivere ad ampio raggio i processi di innovazione tecnologica ed i suoi effetti sul mutamento sociale e politico (e geopolitico), si tratta ti libri come “La grande convergenza”, quando nel 2016 ipotizzava una terza ondata della mondializzazione (ne abbiamo parlato in questo post), o, il più recente “Rivoluzione globotica”, di tre anni dopo. In un ambito per certi versi più ristretti, focalizzato sul mutamento tecnologico, si può leggere Brynjolfsson e McAfee (“La macchina e la folla”, 2017) Tyler Cowen (“La media non conta più”, 2015) o Jerry Kaplan (“Le persone non servono”, 2016).

[14] – Formula che allude alla differente possibilità di accesso ai diritti sociali che si manifesta e produce quando un processo di formazione della rendita (o meglio, della sua appropriazione) non ordinato al bene pubblico determina crescenti differenziali di complessità sociale, di qualità, efficienza ed interconnessione. Cfr. Bernardo secchi, “La città dei ricchi e la città dei poveri”, Laterza, 2014; David Harvey, “L’esperienza urbana”, Il Saggiatore, 1989; David Harvey, “Geografia del dominio”, Ombre Corte 2001.

[15] – Per molte ragioni che qui non si possono ripercorrere, ma è un processo già in corso almeno da un decennio e che la crisi del Covid-19 ha potentemente accelerato. Tutte le linee di connessione si stanno in questo momento, sotto i nostri occhi, riarticolando.

[16] – Una rivolta della società alla costrizione dell’economico per effetto del rovesciamento della disgregazione del sociale e la crisi di legittimazione di poteri non più in grado di contrastarlo.

[17] –  La forma politica del “momento Polanyi”, che vive della caduta di legittimazione, ma necessita di un’espressione specifica per addensarsi, dunque ne dipende. L’espressione politica entra in crisi per effetto delle sue contraddizioni interne e l’incapacità manifesta a produrre una risposta e soluzione plausibile e operabile.

[18] – Il veleno è la disgregazione sociale, individualismo ‘post-materialista’, dominio dei nuovi media disintermedianti, discredito delle élite, snellezza, leaderismo.

[19] – Il problema specifico che era davanti alla Commissione ed al Congresso Continentale nel 1776, con la guerra coloniale già in corso, era di trovare un principio di legittimazione che giustificasse la secessione. Chiaramente si tratta di un processo molto complesso e convulso, la più famosa Dichiarazione di Indipendenza “continentale” fu nello stesso anno preceduta dalla Dichiarazione dei Diritti della Virginia, promossa da George Mason, e adottata dalla Quinta Convenzione della Virginia riunita a Williamsburg. La formulazione di maggio è dunque: “tutti gli uomini sono per natura ugualmente liberi e indipendenti, e hanno alcuni diritti intrinseci di cui … non possono privare o spogliare la loro posterità; vale a dire, il godimento della vita e della libertà, con i mezzi per acquisire e possedere proprietà, e perseguire e ottenere la felicità e la sicurezza”, poi tradotta nella Dichiarazione in “Riteniamo che queste verità siano evidenti, che tutti gli uomini sono creati eguali e sono dotati dal loro Creatore di certi diritti inalienabili, che tra questi sono la Vita, la Libertà, la ricerca della Felicità”.

[20] – Zhok, p. 261

[21] – Zhok, p. 272

[22] – Zhok, p. 273

[23] – Si veda, sul tema del femminismo “della seconda onda”, e sulla sua corrente principale il post “Pochi appunti sul femminismo della differenza”. Sul piano storico e della provenienza delle idee il ‘femminismo della differenza’ (che, certo, è altamente differenziato al suo interno e si può solo qui riportare idealtipicamente), muovendo dal contesto della ‘controcultura’ degli anni sessanta e dalle università americane, è fondato sulla pretesa di individuare un dimorfismo ontologico su base naturalistica per evidenza più fondamentale, o radicale, delle divisioni di classe all’epoca oggetto della critica radicale. Il contesto culturale degli studi linguistici e strutturalisti (e, poco dopo, della penetrazione del post-strutturalismo), favorisce quindi una critica con toni estetici radicali che identifica l’esteriorità del conflitto “tra i sessi” come prioritario sul conflitto “di classe”. È uno spostamento decisivo di bersaglio: invece del capitalismo viene scelto, nel contesto giova ricordarlo del welfare compiuto e di una società affluente, come bersaglio il livello più ‘profondo’ della differenza sessuale. In alcune versioni si scivola verso la costruzione di una femminilità idealizzata, materna, e quindi per definizione non violenta, armonica, naturale. In questa teologia e cristologia trasposta il maschile prende il posto del diavolo. E quindi si veste del simmetrico male, anche esso naturale e quindi ineliminabile: violento sin nelle sue manifestazioni più essenziali, gerarchico, entropico. La costruzione concettuale del “patriarcato”, e la denuncia del “fallologocentrismo” come elemento essenziale ed ineliminabile di ogni cultura umana conosciuta (in particolare scritta) e di ogni forma di organizzazione sociale, induce la duplice mossa del ‘separatismo’ (seguendo il mito della ‘sorellanza’) e della ritirata dal pubblico-politico (in favore di un privato-politico che inconsapevolmente copiaincolla la classica divisione storica premoderna dei ruoli). Tutto questo avviene, giova ricordarlo, in un clima di scoraggiamento e riflusso seguito alla perdita di spinta egemonica, e poi al crollo, del ‘mondo nuovo’ socialista. Emerge quindi la lotta sull’ordine simbolico (Muraro) che rinuncia alla critica diretta dei rapporti sociali, immaginando che la liberazione di tutti emerga come effetto spontaneo dall’azione individuale per l’affermazione femminile (un’idea straordinariamente simile a quella della ‘mano invisibile’).

[24] – Questa ricostruzione storica è sostenuta nel libro sulla scorta di un libro di B. Chapais, “Primeval Kinship”, Cambridge 2008, e sulla base di “The Cambridge Encyclopedia of Hunters and Gatherers”, 1999, come anche di Marlowe “Hunting and Gathering. The human sexual division of foraging labor”, 2007, e un articolo di Dyle ed altri, “Sex equality can explain the unique social structure of hunter-gautherer bands”, “Science, 2015. Zhok, p.284.

[25] – La narrazione femminista, invece, proietta uniformemente l’esperienza media degli ultimi due secoli, interpretati solo in parte retrospettivamente (ma anche da una qualificata minoranza dei e delle contemporanee) come ‘oppressione’ a base sessuale, sull’intera storia dell’umanità nota e su tutti e cinque i continenti.

[26] – Emmanuel Todd, “Breve storia dell’umanità”, LEG 2020 (ed.or. 2017).

[27] – Todd, op.cit., p. 135

[28] – Sahra Pomeroy, “Families in Classical and Hellenistic Greece”, Oxford, 1997.

[29] – Partendo dalla forma familiare più semplice, che tuttavia permane come modello base nel mondo di lingua inglese, “nucleare pura” (coppia con figli che si allontanano e restano liberi di sperimentare, e senza vincoli di ripartizione ereditaria – non egualitaria -), si passa alla forma “stipite” (o “ceppo”), nel quale il figlio primogenito maschio eredita tutto e le giovani coppie coabitano con la famiglia del padre (patrilocalità). In questo modello le figlie sono trattate esattamente come i figli “cadetti” (si tratta del modello dominante tradizionale in Germania, Giappone, Corea, e Svezia). Quindi la forma “Comunitaria esogamica” nella quale i fratelli sono equivalenti, ma prevalgono sulle sorelle (modello Cinese e Russo). Poi ci sarebbe la famiglia “comunitaria endogamica” simile al precedente, ma con preferenza per matrimoni tra cugini (entro l’albero parentale), fino al 50% in Pakistan (è il modello arabo, con una patriliearità molto pronunciata).

[30] – Kate Millett, “La politica del sesso”, Rizzoli, ed.or. 1970

[31] – Per fare un breve promemoria, mentre negli anni che ancora risentono del grande shock della depressione degli anni trenta la questione politica essenziale era stabilizzare l’occupazione e metterla su una traiettoria crescente che coinvolgesse salari, stili di vita e capacità produttive, dalla metà degli anni settanta il clima muta radicalmente. La crisi fiscale del New Deal, in incubazione per tutti gli anni sessanta e tenuta sotto controllo dei paesi guida attraverso una continua rincorsa tra stimoli (di cui la corsa allo spazio e, soprattutto, la guerra fredda sono espressione) e deficit (nel senso di squilibri tra sistemi economici), e l’emersione dell’area dei “petrodollari”, e più in generale della ‘finanza ombra’, crea le condizioni per una inversione. Nel contesto della crescente paura per gli effetti distributivi dell’inflazione e di una stanchezza per i sistemi fortemente regolati, le classi medie occidentali si rivolgono verso un diverso schema legittimante: la questione politica diventa la libertà di scambio e di impresa. Questa nozione si ritrova, in numerose versioni, a tutte le scale. Anche l’individuo complessivamente estraneo all’accumulazione, e non dotato di capitale finanziario, ricerca ora principalmente la libertà di determinarsi e di intraprendere secondo il suo desiderio. Lo spostamento sull’enfasi per il cosiddetto “capitale culturale” ne è sia un effetto (perché questo fenomeno avviene nel contesto della maggiore istruzione provocata dall’espansione, in corso da un quindicennio e quindi giunta a maturazione, della istruzione di massa) sia una causa. In questo contesto la formazione del femminismo della ‘seconda ondata’, con la sua enfasi culturalista e l’attenzione per la liberazione individuale, ha una chiara riconoscibilità fisiognomica.

[32] – Jessa Crispin, “Perché non sono femminista. Un manifesto femminista”, SUR, 2018 (ed. or. 2017).

[33] – Crispin, op.cit., p.35

[34] – Judit Butler, “Questioni di genere”, Laterza, 2013 (ed.or. 1990); “Fare e disfare il genere”, Mimesis, 2104 /ed.or. 2004); “Parole che provocano. Per una politica del performativo”, Raffaello Cortina, 2010 (ed. or. 1997).

[35] – Mark Fischer, “Realismo capitalista”, Nero 2018 (ed. or. 2009).

[36] – Questo è un altro modo di porre la questione del populismo.

[37] – Zhok, p. 311

[38] – Zhok, p. 315

[39] – Il concetto di “proletariato” merita un appunto. Si tratta di un evidente costrutto politico e dal tempo della formulazione alla metà del secolo XIX deve essere ripensato in funzione della diversa organizzazione sociale. Per comprenderne il senso va traguardato insieme al concetto gramsciano di “blocco storico” e secondo il progetto di contendere l’egemonia nel sociale e nel politico. Il nucleo del potenziale “blocco storico” in grado di contendere l’egemonia nella sfera pubblica prima, nella società e nell’arena dello Stato poi, al quale bisogna riferirsi non può che essere il variegato e frammentato mondo delle classi lavoratrici, le più sacrificate dalla forma attuale del modo di produzione capitalista. Il concetto di “classe” che si adopera in questo contesto è quindi di natura espressamente funzionale. Non ha a che fare con la dotazione di risorse individualmente possedute, o l’accesso ai consumi, più o meno distintivi (ovvero dal “ceto”), quanto alla posizione della propria autoriproduzione rispetto al capitale. Non necessariamente, anche se principalmente, la posizione che determina l’appartenenza di classe, si cattura nell’esistenza o meno di “lavoro salariato”. Né, tanto meno, nella figura dell’operaio (ovvero del lavoratore addetto alla produzione di beni industriali).

Il punto è che la forma, storicamente determinata, del nesso tra ‘lavoro vivo’ e ‘lavoro morto’, ovvero tra attività lavorative subordinate a mezzi e oggetti del lavoro stesso, attraversa tutte le molteplici modalità della sua definizione. Riceve un salario come contropartita della sua relazione funzionale con “lavoro morto” (ovvero mezzi produttivi e forme totali della produzione dalle quali viene oggettivato) anche chi apparentemente lavora con partita Iva, è connesso ad una piattaforma, impegnato nelle varie forme di cottimo, anche iperspecializzate (anzi, soprattutto, se iperspecializzate). E la relazione funzionale implica sempre che il capitale (che si incarna nell’insieme dei mezzi produttivi e del nesso generale che li rende tali) si valorizzi. Questa relazione implica sempre dipendenza.

Fanno parte della “classe” lavoratrice, dunque, tutti coloro che si trovano connessi nella forma della remunerazione dietro prestazione a sistemi produttivi ad essi esterni e nei quali sono sussunti (e trasformati in oggetti). Ne fanno parte anche se le modalità cooperative che contraddistinguono il loro lavoro sono mediate da sistemi a maglia larga, invisibili, altamente tecnologici (è il caso delle cosiddette “piattaforme”, ma anche di tante modalità più o meno glamour di lavoro a cottimo o frammentato). Se la segmentazione dell’opera, anche nella iperspecializzazione apparentemente liberante o autonoma, rende impossibile controllare il proprio “valore” (o di “fare il proprio prezzo”). Se, infine, il senso complessivo dell’opera si perde.

Non ne fanno parte non tanto i “ceti medi” (dato che, come detto, non è questione di “ceto”), quanto coloro i quali traggono la propria autoriproduzione dal controllo di segmenti di capitale e quindi, nel nesso essenziale capitale/lavoro che costituisce la forma sociale del modo di produzione capitalistico, dipendono per la propria esistenza come soggetti economici dalla permanenza di tale nesso. Ciò anche se la frazione di capitale è piccola, periferica, subalterna (ad altre).

[40] – Zhok, p.341

[41] – Zhok, p.345

[42] – Zhok, p.352

[43] – Questa metafora riverbera le tesi “Sul concetto di storia” che Walter Benjamin compilò dalle parti del 1940. Qui è l’idea della rivoluzione come “freno di emergenza” di un mondo che, altrimenti, trascinato dall’angelo della storia andrebbe verso la distruzione. In questa idea è presente una complessa costituzione, elementi romantici, ovviamente, e anarchici, anche, ma soprattutto una forma anomala ed originalissima della tradizione ebraica (cui è, peraltro, legato anche Marx). Idea già presente in “Strada a senso unico”, del 1923-35, quando, dopo aver letto “Storia e coscienza di classe” di Lukacs, il critico tedesco si avvicina al marxismo. Nel capitolo “Segnalatore d’incendio”, scrive “se la liquidazione della borghesia non si sarà compiuta a un punto quasi esattamente calcolabile dello sviluppo economico e tecnico (lo segnalano inflazione e guerra chimica) tutto sarà perduto. Prima che la scintilla raggiunga la dinamite, la miccia accesa va tagliata”. La rivoluzione non è né il risultato inevitabile, e naturale, del progresso economico e tecnico, né la sua accelerazione e prosecuzione. Proprio il contrario, essa è la sua interruzione prima del disastro.

[44] – Walter Benjamin, “Sul concetto di storia”, 6, in Senza scopo finale. Scritti politici (1919-1940), Castelvecchi 2017 (p.242). Anche in “Angelus novus”, Einaudi, 1962, p. 77.

[45] – Michael Lowy, “La rivoluzione come freno d’emergenza”, Ombre corte, 2020 (ed. or. 2019), p. 47.

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