podcast-episode-13_ Lo SMARRIMENTO DEI VINCITORI, di Gianfranco Campa

Può capitare che anche l’uomo politico più ostinato e cinico, ma con ancora qualche residuo anelito di compassione represso nel fondo dell’animo, possa essere indotto ad un moto, magari un semplice cenno, di comprensione e conforto verso il suo più acerrimo avversario. Lo sconforto che ha colto in mondovisione John Kelly, capo di gabinetto presidenziale, proprio nelle fasi più colorite ed impetuose dell’intervento di Trump all’ONU, può spezzare ogni resistenza e senz’altro indurre a questo impulso. Bisognerebbe del resto mettersi, anche se di malavoglia, nei panni dei rappresentanti del vecchio establishment americano, in particolare neocon. Per mesi hanno dovuto metter mano a tutto il proprio arsenale e portare allo scoperto anche gli arnesi più riservati, quelli da esibire più come deterrenza che da mettere all’opera; hanno pregiudicato la credibilità dei mezzi di informazione, della magistratura, dei servizi investigativi e probabilmente di importanti settori delle forze armate, ma alla fine sembrava che fossero finalmente riusciti una volta per tutte ad addomesticare il Presidente riottoso e ad isolarlo dalla congrega di cattivi consiglieri. Ecco invece riemergere senza preavviso il Trump baldanzoso delle origini. E da quale pulpito! Niente meno che dall’assemblea generale dell’ONU; un sinedrio certamente poco produttivo di strategie politiche, ma certamente spettacolare nella funzione di propagazione mediatica e nella costruzione di immagine di un personaggio politico. Durante la sua performance ha rispolverato gran parte del suo repertorio d’antan: “America First”, il Nazionalismo, l’antiglobalismo, l’antimultilateralismo, l’indispensabile funzione dello stato; ha concesso rispetto ed ammirazione agli statisti dediti alla difesa degli interessi nazionali del proprio paese. Con qualche inverosimile acrobazia logica ha sostenuto però la coerenza della propria politica estera e l’incoerenza dei cosiddetti “stati canaglia” e dei loro sostenitori più o meno occulti. Un funambolismo troppo audace anche per i più perspicaci ed aperti interlocutori. La gran cassa dei saccenti, dimentichi delle batoste elettorali, non ha tardato a pontificare sull’inaffidabilità e sull’irrazionalità del Presidente. Faremmo torto alla nostra intelligenza, oltre che a quella di Trump, ad assecondare questa tesi. Gianfranco Campa ci illumina come di consueto sulla ragione principale di questo comportamento, tutt’altro che irrazionale. Trump sa benissimo che il proprio salvacondotto, nell’operazione trasformista ancora in corso, rimane la conservazione di buona parte del consenso del nocciolo duro del proprio elettorato. Il vecchio establishment non vuol capire che strattonature ulteriori rischiano di isolare del tutto Trump e trascinare il paese in un confronto politico interno dalla virulenza paragonabile solo a quella già conosciuta a metà ‘800. Il taglio particolare del discorso, inoltre, è motivato probabilmente da un’altra ragione ancora più imbarazzante; si tratta forse di una volontà manifesta di evidenziare la contraddizione e di chiedere tra le righe comprensione e tregua a quelli che avrebbero dovuto essere i suoi interlocutori privilegiati, primo fra tutti Putin, di una politica estera meno interventista e più condivisa. L’inerzia delle attuali dinamiche geopolitiche rende però pressoché impossibili ulteriori prove d’appello. Lavrov, ciò non ostante, ha dichiarato apertamente che “l’attuale incoerenza della politica estera americana” è la conseguenza delle numerose trappole disseminate dalla vecchia amministrazione Obama ai danni del nuovo presidente. Anche su questo Gianfranco Campa è stato particolarmente lucido in un articolo precedente http://italiaeilmondo.com/2017/03/09/sotto-la-copertura-delle-tenebre-di-gianfranco-campa/  _ Giuseppe Germinario

Massimo Morigi commenta il podcast di Gianfranco Campa “una dinastia in bilico”

Nell’ottimo ed illuminante dodicesimo podcast dell’ “Italia e il Mondo” “Una dinastia in bilico”, Gianfranco Campa ( http://italiaeilmondo.com/2017/09/15/755/) , illustrando le attività de facto criminose della Clinton Foundation si pone la domanda del perché Hillary Clinton. che avrebbe apparentemente tutto l’interesse a che sulla sua figura ed il clan Clinton, dopo la terribile sconfitta elettorale, scendesse un rassicurante oblio, abbia velocemente dismesso la prudente – ancorché mai completamente e convintamente praticata tattica di inabissamento e abbia di nuovo cercato di comparire sotto i riflettori dei media e della pubblica opinione. Giustamente Gianfranco Campa “giustifica” questa mossa avventata col tentativo dei Clinton di fare da apripista per una futura carriera politica della loro figlia Chelsea, e in questo c’è molto di vero, nel senso che è pressoché impossibile che le dinastie politiche accettino di piombare nell’oblio (con lessico marxistico d’ antan si sarebbe detto di essere gettati nella “pattumiera della storia”) e non e certo necessario nemmeno scomodare il pensiero elitaristico di Gaetano Mosca e di Michels per avere conferma che, anche in questo caso, le élite al potere sono gruppi autoreferenziali e chiusi e che fanno di tutto per perpetuarsi all’infinito. Ma se ci fermassimo solo a questo livello di analisi, la vicenda dei Clinton, in fondo, altro non sarebbe che l’ennesima conferma delle dinamiche esclusiviste di qualsiasi ceto politico e questo non ci restituisce la natura vera del potere dei Clinton ( e, in extenso, senza voler forzare la mano, della natura intimamente criminale del potere politico presidenziale negli Stati uniti), natura vera che ci viene restituita dal luogo comune – ma per questo non meno vero, risultando anzi verissima quella “legge”di sociologia politica più certa della legge newtoniana di gravitazione universale – che dice che dalla criminalità organizzata, per l’Italia leggi mafia, non ci si può ritirare, pena conseguenza gravi, molto gravi. Rapportato l’adagio popolare alla vicenda Clinton e alla loro benemerita fondazione questo significa: 1) Attraverso la Fondazione si erano fatte delle promesse, queste promesse vanno onorate e l’unica possibilità di onorarle almeno in parte non sta certo rimanendo nell’ ombra e perdendo potere ma dimostrando che la ditta Clinton è ancora on business; 2) Per rimanere on business è necessario avere ingenti risorse e solo una fondazione che faccia da sfondo ad una ditta Clinton assertivamente e sfacciatamente su piazza può sperare di invertire, almeno in parte, il crack seguito alla mancata elezione alla presidenza degli Stati uniti di Hillary Clinton. Insomma, negli Stati uniti se si perde il potere, e questo non vuol banalmente dire non essere più presidenti di quel paese ma perdere rovinosamente una elezione dimostrando così di non poter in alcun modo onorare gli occulti patti collusivi che si erano presi o durante la presidenza o nel tentativo di ottenerla si rischia grosso, molto grosso … Una lezione, quella sull’ intrinseca pericolosità di cadere rovinosamente dal più alto scranno della politica americana, che ha ben presente anche Trump ed in questo, nonostante le apparenti differenze di facciata, il neoeletto presidente e la mancata prima presidente donna degli Stati uniti sono paradossalmente molto simili, una sorta di “gemelli diversi”. Da entrambi per molto tempo ancora siamo destinati a vedere delle belle (ancorché pericolose ed inspiegabili a meno che non si impieghi un semplice ancorché ficcante realismo politico come quello da sempre mostrato da Gianfranco Campa) e buffe piroette … Massimo Morigi – 18 settembre 2017

DEUTSCHLAND ÜBER ALLES?, di Giuseppe Germinario (versione integrale)

trump-merkelI DUE PROTAGONISTI

Di Donald Trump temo che continueremo ancora per mesi se non anni a sorbirci soprattutto i resoconti dettagliati dei suoi difetti o sedicenti tali; dalla maldestra improvvisazione alla ruvidità di modi, dall’affettata eleganza alla volubilità di giudizi, alla rozza ignoranza. Con il nobile intento di salvaguardare l’umanità da questo flagello, i campioni dell’informazione democratica, in particolare il NYT (New York Times) e il WP (Washington Post), dimentichi delle restanti cose del mondo, stanno da tempo concentrando la totalità degli sforzi in questa missione piegando ad essa fatti, realtà e soprattutto deontologia professionale. Con la stessa dedizione, ma con evidente minore fatica, gli innumerevoli corifei dell’informazione europea, pervasi da certezze assolute, non fanno altro che spandere a cuor leggero veline e veleni propinati dai capostipiti. Eppure almeno una caratteristica del Presidente Americano dovrebbe accomunare il giudizio dei pochi fautori e dei tanti detrattori del suo prominente impegno: la capacità di scatenare l’aperto spirito bellicoso anche nelle personalità più prudenti e discrete; tra queste, senza dubbio il Cancelliere tedesco.

Di Angela Merkel, nella vicenda delle intercettazioni americane delle sue conversazioni telefoniche, abbiamo apprezzato la capacità di accettare dal versante amico le peggiori intrusioni e umiliazioni senza alcun pregiudizio dei rapporti, in particolare quelli con Obama e senza apparenti sussulti di orgoglio; nella vicenda del milione di profughi siriani, invece il suo spirito di accoglienza talmente ecumenico da equivocare sulle profferte amorose del branco senza autorizzazione delle interessate, salvo cercare di rifilare con discrezione gran parte degli ospiti ai paesi vicini una volta constatata la loro difficoltà di inserimento e la loro preparazione professionale evidentemente non all’altezza delle aspettative; nella vicenda delle contraffazioni dei dati di emissione degli scarichi delle auto tedesche, abbiamo apprezzato la difesa pur tardiva dello spirito puritano a scapito forse dell’immagine di efficienza del sistema industriale e dei sistemi di controllo tedeschi. Il meglio della sua valenza di amministratrice, almeno sino a pochi mesi fa, è emerso nella vicenda del collasso della Grecia quando con mirabile quadratura è riuscita a conciliare l’aura puritana del rigore contabile con il trasferimento sui bilanci pubblici degli stati europei di gran parte delle esposizioni bancarie tedesche verso quel paese, con il consolidamento dei profitti finanziari delle stesse sul debito restante, con l’acquisizione di buona parte della rete logistica greca e, ciliegina sulla torta, con la vendita a caro prezzo all’esercito ellenico di residuati bellici presenti nei depositi della Bundeswehr. Si sa che le trattative politiche riservano come corollario quasi sempre il lato oscuro della meschinità. Nella graduatoria degli inperturbabili la statista tedesca non detiene certo l’esclusiva, di sicuro è in posizione di ascesa. Tra gli innumerevoli esempi, gli allora Generale Wesley Clark e Segretaria di Stato Madeleine Albright si concessero come bottino della missione umanitaria in Jugoslavja una partecipazione azionaria delle società minerarie del Kosovo; la stessa pletora di funzionari, accademici ed economisti americani e tedeschi accorsi al capezzale della moritura URSS e della nascitura Russia di Boris Eltsin ottenne di scambiare le proprie disinteressate consulenze con una partecipazione attiva al saccheggio di quel paese; per non parlare delle cointeressenze in Ucraina. Anghela, come un re Mida dei nobili principi, è riuscita a trasformare anche la meschinità in rigore risanatorio, sempre però con un profilo dimesso e discreto; da pudico comportamento collaterale a qualità volta al bene pubblico.

UN CONFRONTO PREMATURO

Durante il G7/G20 avviene inopinatamente la sua metamorfosi e la consacrazione da Maria Maddalena del cenacolo europeo ad angelo giustiziere dell’attentatore all’ordine mondiale.

Sono bastati pochi mesi dal gelido saluto al non ancora insediato Presidente Americano, alla imbarazzata visita a Washington per finire con la contrapposizione al G7 per passare da una immagine di capo di governo in verità un po’ dimesso, tutt’al più abile ad agire nell’ombra, a quella di statista orgoglioso in grado di contrapporsi apertamente al neopresidente e, aspetto ben più rilevante, di trasformare la Germania da paese in grado di approfittare in maniera surrettizia delle opportunità della globalizzazione a nazione paladina di questa virtù o in alternativa, secondo le interpretazioni, in grado di contrapporsi, assieme alla Cina, alla prepotenza e all’unilateralismo americano.

Da allora è tutto un fiorire di letteratura e di tesi sul destino manifesto di un paese, inesorabilmente portato a scontrarsi con la nazione egemone; quello che divide i sostenitori riguarda il probabile esito finale dello scontro, ma confronto comunque dovrà essere.

La redazione di Limes, autrice di una per altro pregevole monografia sull’argomento, è la portabandiera più autorevole di questa tesi.

Sono sufficienti pochi atti politici pubblici, concentrati in poche settimane, in aggiunta magari al proposito proclamato di costruzione di un sistema diplomatico e di difesa europei autonomo dagli USA, per promuovere l’attendibilità di una svolta politica così straordinaria?

Già la dinamica e la successione dei recenti eventi da adito a parecchi dubbi.

Intanto il tampinamento postpresidenziale di Obama e l’accoglienza trionfale a lui riservata a Berlino, all’esponente quindi che, assieme a Hillary Clinton, suo successore designato, ha cercato ostinatamente di arginare la tendenza al multipolarismo e di destrutturare gli stati viziati da proprie ambizioni autonome, svelano i legami inestricabili di dipendenza e compromissione con il vecchio establishment nonché le aspettative di ripristino dello “statu quo ante” del cancelliere tedesco. Il veemente appello alla crociata in difesa dell’accordo sul clima di Parigi e del libero mercato globalizzato sventolato al G7 di Taormina, ha mostrato per altro subito la corda al G20 di appena due mesi dopo lasciando in mano alla Merkel un vessillo ridotto ad un cerino consunto con alle spalle truppe scarse e poco convinte a difenderlo. Si potrebbe interpretare come un modo spregiudicato di condurre una danza del quale si possiede il filo conduttore della musica. Più che una condottiera dotata di forza propria in realtà si è rivelata lo strumento di uno schema più grande e complesso giocato per lo più Oltreatlantico. Lo stesso pulpito si è rivelato poco attendibile vista la recente propensione della Germania a limitare le acquisizioni cinesi in Europa rivelando così una evidenza chiara ancora a pochi eletti: il confronto sul libero mercato è una battaglia per determinare regole commerciali più favorevoli ad una o l’altra delle formazioni socieconomiche e ai loro centri dominanti all’interno di logiche geopolitiche operanti all’interno ma non riducibili ad un mero o assolutamente prevalente confronto economico. Una riduttivismo invece che ancora prevale oppure tende a riaffiorare surrettiziamente in gran parte delle tesi, anche nella monografia di Limes.

UN APPROCCIO EVENEMENZIALE

L’approccio evenemenziale presente in gran parte degli studi e soprattutto nella divulgazione mediatica tende a focalizzare e spettacolarizzare un particolare duello a discapito degli altri e dello sguardo d’insieme. Il tentativo stesso di Trump di reimpostare in maniera bilaterale i rapporti e le relazioni tra gli stati può indurre ad accentuare tale interpretazione particolaristica. Un tentativo che se inteso come strategia può trascinare alla rovina gli Stati Uniti e favorire uno sviluppo caotico e gravido di incognite del multipolarismo, ma con qualche possibilità in più, per le potenze intermedie, di assumere una propria peculiare fisionomia. In realtà l’adozione del modello di relazioni bilaterali è del tutto irrealistico e fuorviante perché prescinde dal naturale gioco di alleanze che si dipana nel conflitto politico e il cui successo presuppone proprio ciò che l’attuale svolta politica sta sentenziando inappellabilmente: l’inesistenza di un centro dominante indiscusso. Esso conduce in pratica alla stessa sterilità di chiavi interpretative del concetto di globalizzazione fondato sul movimento atomistico dei singoli agenti sul mercato e sul declino inesorabile del ruolo degli stati nazionali. Se adottato altrimenti come espediente tattico, come da probabile intendimento di Trump, può servire ad una destrutturazione del sistema attuale di relazioni in vista di una ricostruzione più controllata delle sfere di influenza, ma a determinate condizioni: che gli attori in grado di condurre il gioco siano limitati, che riconoscano una reciproca legittimazione e che abbiano un’idea sufficientemente precisa della delimitazione delle sfere di influenza. In un modo o nell’altro si tratta di un processo ormai irreversibile rispetto al quale la classe dirigente dominante tedesca sembra molto più temere le incognite ed apprezzare le attuali rendite di posizione che cogliere le incerte opportunità.

Profetizzare, come prevede la redazione di Limes, uno scontro aperto tra Stati Uniti e Germania pare quantomeno prematuro se non azzardato. E infatti, ad eccezione dei contributi esterni in realtà molto più cauti, gli articoli dei redattori suffragano la tesi sulla base di stereotipi ormai consunti.

Da una parte cerca di fondare l’ineluttabilità del conflitto sulla base dell’incompatibilità tra le due culture. In realtà la storia offre innumerevoli esempi di conflitti atroci e di durature alleanze tra paesi e centri strategici dalle culture difficilmente compatibili. Gli stessi Stati Uniti hanno combattuto almeno tre guerre aperte con il paese a loro culturalmente più affine, il Regno Unito. Negli Stati Uniti, lo rivela la stessa rivista, la componente più numerosa è appunto quella di origine tedesca e la sua cultura ha impregnato pervasivamente la formazione politica e sociale americana, pur affermando in esse una scarsa capacità lobbistica. Paradossalmente, secondo i redattori, una stessa identità culturale avrebbe quindi contribuito decisivamente a determinare la costruzione di una nazione e della sua classe dirigente e nel contempo l’ineluttabile conflitto con il paese di origine di quel ceppo, costituitosi in stato nazionale. Una tesi, quindi, fuorviante, versione edulcorata del più famoso ed altisonante conflitto di civiltà teorizzato da Huntington.

Dall’altra cerca di spiegare la dinamica inesorabile di questo conflitto attraverso il confronto asimmetrico tra il peso e la forza economica crescente del paese europeo e la pervasività e la forza politica di quello americano. Una dinamica che tenta di spiegare non solo le modalità del conflitto tra i due paesi ma anche la natura del dilemma che dovranno risolvere le classi dirigenti degli altri paesi, in particolare quello dell’Italia, di fronte alla alternativa posta della alleanza strategica con uno o l’altro dei contendenti. Un confronto quindi tra il peso militare, la capacità diplomatica e la pervasività dei servizi di intelligence da una parte e la solidità finanziaria, la capacità produttiva e la potenza commerciale dall’altra.

Una chiave esplicativa più sofisticata della prima, ma altrettanto fuorviante e non priva di evidenti punti oscuri e vere e proprie omissioni.

8maggio1945germania-770x300LA RIMOZIONE DI UN EVENTO EPOCALE

Entrambi i limiti interpretativi pagano lo scotto di una rimozione o, nel migliore dei casi, di una valutazione del tutto parziale delle implicazioni di un evento politico epocale cruciale: la sconfitta militare, l’occupazione territoriale, la distruzione di un regime istituzionale, per altro odioso, la riduzione e lo smembramento territoriale della Germania.

La dimensione catastrofica di quella resa consentì ai due vincitori, l’URSS e gli USA, di decidere delle sorti di quel paese. Per quel che ci riguarda più direttamente, in quanto forza di occupazione gli Stati Uniti determinarono il carattere federale oltre che parlamentare del regime nella sua parte sud-occidentale, il suo carattere antisovietico, la limitazione drastica delle forze armate, in particolare quelle terrestri e l’infiltrazione e l’organizzazione delle principali istituzioni e sistemi.

Il carattere di occupazione di quella presenza non ancora risolto definitivamente nemmeno dagli accordi che hanno sancito negli anni ‘90 l’unificazione tedesca.

Una modalità di dominio non risolvibile con il controllo di una parte limitata delle élites dominanti del paese sconfitto e con azioni complottistiche tese a determinare direttamente le azioni dei vertici politici; piuttosto una azione altamente sofisticata e persuasiva tesa soprattutto ad orientare ed indurre, addirittura a creare delle dinamiche inerziali capace di attirare e integrare progressivamente in un sistema occidentale le varie formazioni sociali e i vari stati nazionali caduti nella rete dei liberatori. Un sistema fortemente attrattivo, capace nel rispetto delle gerarchie fondamentali, di offrire sviluppo ed una relativa libertà di azione, ma proprio per questo ancora più pervasivo. In questa trama la Germania Federale ha assunto un ruolo importante, superiore alle stesse aspettative delle élites tedesche emerse dalla sconfitta militare, in parte per merito proprio, soprattutto per scelta del vincitore. Accantonate rapidamente le tentazioni, vellicate soprattutto da Francia e Regno Unito, di ridurre il paese ad una condizione preindustriale, senza nulla cedere sulla capacità di controllo, si optò per un rapido sviluppo che stabilizzasse un paese alleato ai confini cruciali della propria zona di influenza, contribuisse economicamente e produttivamente al sostegno della macchina bellica e neutralizzasse le residue ambizioni egemoniche di Francia e Gran Bretagna. Il pegno da pagare in termini di sovranità fu estremamente pesante con un sistema di controllo e infiltrazione particolarmente intricato e insindacabile, per altro sancito, che riguardava non solo l’intelligence e le forze armate, ma anche il sistema politico, amministrativo e comprendente anche, un aspetto del tutto ignorato dai redattori di Limes come da gran parte dei giornalisti e studiosi, gli organi di informazione e le strutture economiche.

In settant’anni le cose possono cambiare; ma non è questo, sostanzialmente, il caso della Germania.

Le tentazioni e qualche timido e sporadico tentativo di affrancamento non sono certo mancati. Durante la guerra fredda il tentativo più coerente fu portato avanti negli anni ‘70 con l’ “oestpolitik”. Si trattò in realtà di una “interpretazione” troppo estensiva del processo di distensione, più che altro un riconoscimento meno precario delle rispettive zone di influenza, inaugurato dalle due superpotenze. Per ricondurre alla mansuetudine nell’ovile della pecorella inquieta, agli americani fu allora sufficiente assecondare i timori francesi di un rigurgito delle ambizioni tedesche e la loro conseguente improvvisa conversione all’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità Europea e innescare una politica di riarmo missilistico. Con la crisi e la caduta del blocco sovietico si presentò un contesto apparentemente più favorevole a vellicare ambizioni più audaci.

SUSSULTI DI EGEMONIA

Il tentativo più organico e strutturato avvenne nella seconda metà degli anni ‘80 quando, percepita la crisi imminente del blocco sovietico e forte dei legami più o meno circospetti stretti con quella parte della loro classe dirigente legata al commercio e al finanziamento del debito estero, una parte dell’establishment tedesco tentò per alcuni anni di organizzare e sostenere il sistema bancario dei paesi dell’Est-Europa per favorire la ristrutturazione economica e salvaguardare buona parte di quella classe dirigente. Fu l’atto e il momento che suscitò, nei confronti dell’élite tedesca, le stesse premure dedicate a quella italiana. Il luogo di raccolta degli accoliti fu diverso; con gli uni si scelse il Panfilo di Sua Maestà, al largo di Roma; con gli altri un più modesto albergo bavarese. Anche il numero di convitati differiva; ben più numeroso sulla prestigiosa imbarcazione, limitato a meno di dieci persone nel gasthof. Non si è trattato, probabilmente, di un mero omaggio alla italica convivialità rispetto alla proverbiale essenzialità teutonica; deve aver influito la diversa funzione che i comprimari, inglesi nell’una e francesi nell’altra, hanno assunto nell’iniziativa; soprattutto, è stata la perdurante e progressiva frammentazione politica ed istituzionale dell’Italia rispetto alla Germania a determinare le diverse caratteristiche dell’iniziativa, i diversi sviluppi e gli esiti opposti pur in una comune riconfigurazione della subordinazione politica all’alleato d’oltreatlantico.

Il tentativo più intraprendente fu posto in atto durante la guerra civile in Jugoslavia conclusasi, al momento, con la frammentazione di quel paese e con una conflittualità latente pronta a riemergere. L’iniziale spinta propulsiva alla divisione fu data soprattutto dalla Germania sino ad essere rapidamente assorbita pur con qualche attrito significativo da quella americana. L’evento bellico rappresenta comunque una svolta significativa che vede il gruppo dirigente egemone in Germania passare da una politica di cooptazione e sostegno delle vecchie classi dirigenti riformate dei paesi del blocco sovietico ad una di progressiva aperta ostilità verso la Russia e tesa a favorire la liquidazione delle stesse nei paesi dell’Europa Orientale e nei Balcani. Una scelta indubbiamente vantaggiosa nell’immediato perché ha consentito di riprendere e perseguire una politica di influenza ed integrazione economica esattamente lungo i corridoi tracciati dai colonizzatori tedeschi nel corso dei secoli sino alla metà del ‘800 senza dover contestare i legami di subordinazione con lo stato egemone americano e indebolendo vistosamente la posizione politica ed economica dei due altri grandi paesi fondatori della UE, la Francia e l’Italia. Una scelta deleteria dal punto di vista strategico nel caso la Germania dovesse aspirare ad una maggiore e decisiva autonomia politica che richiedesse un avvicinamento duraturo e stabile alla Russia di Putin proprio perché troverebbe nei più importanti paesi dell’Europa Orientale e della penisola scandinava i più fieri oppositori a tale svolta con scarse possibilità di un loro ricambio con centri politici più duttili.

I messaggeri in quell’albergo bavarese devono evidentemente essere stati particolarmente persuasivi anche se assecondati dalle circostanze propizie della morte violenta dei due nuovi paladini della ostpolitik, Herrhausen di Deutsche Bank e Rohwedder di Treuhandanstalt.

Da questi due eventi a cavallo della riunificazione si è dipanata la condizione di un paese ormai al centro di attenzioni e sospetti, ma incapace di una politica assertiva capace di aggregare forze e in grado tutt’al più di neutralizzare e fiaccare le forze di potenziali rivali nel campo “amico” europeo.

Negli ultimi venti anni i pochi atti politici autonomi di quella classe dirigente sono consistiti nella non partecipazione ufficiale alle avventure militari, in particolare Libia ed Iraq, salvo garantire efficacemente, ma in modo discreto, i propri servizi logistici e di intelligence come avvenuto in Libia. Per il resto si è rifugiata in annunci velleitari, quali la creazione di una forza militare congiunta e integrata con i francesi, miseramente fallita o nel perseguimento classico di una politica di influenza a rimorchio nel vicinato, come avvenuto in Ucraina, con grave pregiudizio delle relazioni con i russi o nel supporto opportunistico e lucrativo alla destabilizzazione specie nel Grande Medio Oriente. La Germania, infatti, lemme lemme risulta costantemente tra i primi fornitori ufficiali di armi e munizioni dei Sauditi, impegnati in Yemen, dei Giordani e della pletora di governi a supporto delle primavere.

I LIMITI STRUTTURALI

Una fondata e non frettolosa elezione della Germania a protagonista geopolitico e antagonista naturale degli Stati Uniti non può prescindere da una analisi della condizione strutturale del paese.

La particolare struttura federale già dibattuta nelle università americane a partire dagli anni ‘30 e imposta nel regime di occupazione assegna importanti competenze di politica estera ai laender in cooperazione e spesso in conflitto tra loro e con lo stato centrale, indebolendone di fatto coerenza e incisività. Un esempio significativo si può trarre dal ruolo decisivo assunto dal Governo Bavarese nella fomentazione della guerra civile in Jugoslavja e nella capacità di trascinare altre regioni di stati confinanti su questo indirizzo in opposizione alle direttive dei rispettivi stati nazionali. Una organizzazione istituzionale che riesce comunque a mantenere una propria operatività grazie al ruolo unificante delle grandi associazioni verticali entro le quali si compongono gli interessi lobbistici e gli indirizzi di buona parte dei centri decisionali.

A garantire, più che la coerenza, l’incisività di una struttura così articolata fa difetto però l’estrema permeabilità delle strutture di intelligence e degli apparati coercitivi e di controllo, il retaggio più pesante della disfatta militare e del conseguente regime di occupazione. La vicenda delle intercettazioni americane ai danni della Cancelliera ha semplicemente rivelato il livello di integrazione ed infiltrazione dei servizi tedeschi con quelli americani; la susseguente rimozione del responsabile, più che la volontà una riorganizzazione e una depurazione delle strutture, ha rivelato la stizza di un capo politico per la pubblicità imbarazzante di quei segnali di attenzione. Per il carattere di riservatezza insito, i Servizi di Sicurezza sono particolarmente vulnerabili; la permeabilità, comunque, investe un po’ tutti gli apparati coercitivi e sanzionatori dello stato germanico, compreso quello militare ancora particolarmente debole.

Una chiosa a parte merita il sistema di informazione, quasi del tutto allineato all’ortodossia atlantica. Con l’eccezione di alcune testate nazionali a tiratura limitata ed alcune testate locali il livello di controllo del sistema mediatico è impressionante. Una capacità di indirizzo delle testate e di legame diretto con singoli giornalisti. È del resto notoria la meticolosità con cui i vari centri strategici americani curano le relazioni con i media istituzionali. Le campagne giornalistiche e la manipolazione dell’opinione pubblica sono sempre stati strumenti propedeutici al conflitto politico, al condizionamento dei centri e all’eliminazione degli avversari, anche se la diffusione dei network on line ha in parte facilitato la possibilità di centri politici alternativi e ridefinito le modalità di manipolazione dell’informazione. In Germania, nella fattispecie, colpisce il fatto che la componente più orientata ad una politica autonoma con la Russia, un tempo significativa, trovi sempre meno spazio mediatico e non riesca ormai da anni a creare una opinione pubblica favorevole a sostegno delle proprie scelte.

La chiave di lettura determinante per individuare il peso reale della Germania e la sua collocazione nelle dinamiche geopolitiche riguarda però il ruolo dell’economia nello stabilire il peso strategico e la condizione conflittuale di un paese.

Chi attribuisce alla Germania un ruolo di protagonista assoluto, di competitore e di antagonista di prim’ordine tende ad attribuire più o meno esplicitamente all’economia, nel migliore dei casi ai rapporti sociali economici, il ruolo preponderante e sovradeterminante gli altri ambiti delle attività umane, compresa quella politica, solitamente assumendo il seguente canovaccio.

UNO SCHEMA INTERPRETATIVO LIMITANTE E FUORVIANTE

La capacità di potenza si esprimerebbe soprattutto attraverso il peso economico; il campo preponderante di esercizio della competizione sarebbe il mercato; l’esercizio della potenza si realizzerebbe soprattutto attraverso la capacità commerciale; la sua misura si pondererebbe attraverso i dati macroeconomici del PIL, del saldo commerciale, degli attivi finanziari, nel migliore dei casi anche della presenza preponderante nel settore dei beni di consumo di massa più evoluti e durevoli. Scelte politiche non corrispondenti alla condizione economica sono considerate illogiche, sbagliate o semplicemente degli accidenti della storia destinati a rientrare o a determinare la sconfitta dei soggetti promotori.

Uno schema fuorviante sia in termini generali che affrontando una analisi della condizione della particolare economia tedesca.

Si può partire dalla constatazione che i mercati tengono conto e tendono a conformarsi progressivamente alle sfere di influenza politiche in via di formazione proprio perché gli attori economici privilegiano le condizioni di maggiore stabilità; le stesse grandi aziende, ormai da alcuni anni, tendono a riassumere il controllo diretto della verticale delle filiere produttive seguendo le condizioni di sicurezza politica. In una fase nella quale la leva economica, sotto forma di condizioni di finanziamento ed investimento e di apertura del mercato, di controllo tecnologico, addirittura dei prezzi in numerosi settori specie strategici, viene utilizzata non solo per condizionare, ma come strumento diretto di sanzione e conflitto, la funzione della politica emerge dalla maschera della competizione puramente economica tra gli attori.

Ma il politico, nella sua accezione di essenza, di caratteristica intrinseca, trova il modo di agire in maniera ancora più “subdola” nell’ambito economico; un esempio può essere l’invenzione, l’adozione, l’applicazione su base industriale e la padronanza delle tecnologie.

In Cina, ad esempio, il tentativo imponente di assumere la creazione e la padronanza delle tecnologie, uno dei fondamenti utili a garantire l’autonomia, l’autorevolezza e l’indipendenza delle decisioni della classe dirigente di un paese, passa anche attraverso lo scontro tra i sostenitori dei grandi colossi industriali, eredi delle imprese statali del periodo “socialista”, di fatto ancora sotto controllo politico diretto, e l’ampio settore di medie e piccole aziende, presenti nel sudest del paese molto più dipendenti dalle tecnologie e dai moduli organizzativi occidentali. Nel recente passato è sufficiente rispolverare alcuni casi, l’Olivetti in Italia e il sistema di motore a reazione Arrow in Canada tra i tanti, per constatare che la capacità tecnologica ed organizzativa di una azienda possono determinare gli standard di un mercato solo all’interno di contesti conformati politicamente.

Il mercato, infatti, rappresenta un’area, un campo di azione governato da un insieme di regole di natura politica, frutto di imposizioni e mediazioni, entro il quale agiscono gli attori economici; la rottura e la modifica di queste ultime comporta inevitabilmente ed intrinsecamente atti politici.

L’immagine che ancora si offre del mercato è invece troppo spesso fuorviante e semplicistica.

Il mercato globale viene rappresentato come una rete con un centro regolatorio indefinito e indefinibile; il suo innegabile sviluppo è però artificiosamente amplificato dalla frammentazione politica degli stati che ha trasformato in commercio estero gran parte degli scambi interni degli stati nazionali antecedenti il crollo del blocco sovietico; la sua rappresentazione glissa sull’esistenza e il rafforzamento al suo interno di aree, settori e blocchi attraverso i quali, tra l’altro si veicolano le influenze politiche.

La stessa raffigurazione degli organismi internazionali preposti alla regolazione di esso nasconde il fatto che tali regole non sono affatto neutrali e soddisfacenti in egual misura i vari attori, ma anche, più prosaicamente, che ammettono innumerevoli deroghe, omissioni, clausole particolari e comportamenti discriminatori che lasciano sospettare il peso politico differente dei paesi nella conduzione.

Gli esempi più clamorosi riguardano probabilmente il diverso trattamento riservato a Russia e Cina nei tempi di adesione agli organismi nonché nelle modalità e nella qualità dei trasferimenti di tecnologia occidentale; come pure il diverso trattamento riservato alle cosiddette Tigri Asiatiche e alla Corea del Sud rispetto ad alcuni paesi del Sud-America.

UNA RAPPRESENTAZIONE PIU’ ESAUSTIVA

Questo schema consente, probabilmente, una valutazione più realistica e meno enfatica del peso economico sia intrinseco che rispetto agli altri ambiti dell’azione politica nel determinare la forza geopolitica della Germania e, soprattutto, nel determinare i passi e le condizioni necessari a garantire la sua emersione come attore politico più autonomo.

 hermannsdenkmalLa Germania, a partire dalla fine degli anni ‘80, al pari di tutti i paesi, ha avviato un processo di profonda trasformazione economica concomitante e favorito dalla sua nuova collocazione geopolitica determinata dall’unificazione seguendo però proprie peculiarità.

Ha salvaguardato ed accentuato il carattere dualistico del suo sistema finanziario trasformando, dopo l’uccisione di Herrhausen, la Deutschbank nella quinta banca di investimento al mondo dedita a servizi di consulenza e alla gestione dei nuovi e più speculativi prodotti finanziari e tutelando dalle intromissioni comunitarie il sistema di banche territoriali a tutela dei sistemi locali economici e sociali.

La difesa ostinata della sua politica restrittiva in ambito europeo non serve soltanto a indebolire i suoi concorrenti economici prossimi, l’Italia e la Francia, ma a difenderla dalle loro debolezze e, sinché possibile, dalle implicazioni più rischiose della sua esposizione nei circuiti finanziari dominati dal sistema angloamericano.

Ha governato con lungimiranza il processo di precarizzazione di larghi settori dell’economia industriale e dei servizi, analogo a quello di altri paesi, compensando parzialmente con il welfare pubblico la regressione socioeconomica di vaste aree sociali.

Ha saputo tutelare e sviluppare alcuni settori di produzione di beni di consumi di massa tradizionali ma relativamente più complessi (automobile, agroalimentare, meccanica) mantenendo il pieno controllo della catena produttiva e di valore e decentrando sapientemente la componentistica nei paesi dell’hinterland più affine non garantendo più la quasi esclusiva del settore all’Italia.

germania_economia_apL’attivo commerciale imponente che ne deriva è il frutto non solo di queste politiche, ma anche di un misconosciuto basso livello di investimenti sia pubblici, in particolare delle infrastrutture del paese, che, con sorpresa, privati rispetto ai più importanti paesi dello scacchiere mondiale. Un livello, specie in quelli pubblici che, protrattosi nel tempo analogamente alla condizione dell’Italia, rischia di pregiudicare le stesse capacità tecniche e tecnologiche di ricostruzione. Un attento esame del campione di immagine tedesco, la Volkswagen, rivela sorprendentemente i punti deboli, sopperiti sino ad ora da una indubbia capacità commerciale, del suo settore privato.

L’economia tedesca, tra l’altro, è pervasa, più degli altri paesi europei dagli investimenti statunitensi in importanti settori così come dipende maggiormente dalle esportazioni in America.

La Germania è senz’altro presente in maniera significativa in alcuni settori importanti come quello dei beni industriali, della meccatronica, della chimica, del software applicato; ma è quasi del tutto assente, al pari degli altri paesi europei, nel settore del controllo e della gestione on line dei dati, fondamentale per il controllo dei flussi e dei comandi operativi nell’industria 4.0.

E’ in difficoltà in altri ambiti strategici, tra i quali l’avionica, l’aeronautica, il gps (Galileo) oggetto di ingenti investimenti soprattutto pubblici, frutto soprattutto di ricerche nell’ambito militare francese, ma pregiudicati dai dissidi di gestione tra i paesi cooperanti o dalle limitazioni nell’uso in ambito militare, frutto a loro volta delle imposizioni e delle premure americane.

Il progetto AIRBUS, gestito da Germania, Francia e Spagna, conosce così una fase di crisi acuta ed improvvisa, alimentata anche dai dissidi di gestione, la quale sta rinfocolando le ambizioni di una direzione avulsa dal controllo azionario e le voci di una possibile acquisizione da parte dell’americana General Electric; il progetto Galileo, invece, dopo anni di faticosa gestazione, avversato dalla stessa Commissione Europea al pari di Airbus, vede intaccato il proprio primato tecnologico dalla inibizione della possibilità di applicazione nell’ambito militare.

Sono solo due degli episodi, questi ultimi, rivelatori della dipendenza politica di quel paese in tutti gli ambiti, a partire ancora una volta da quelli prioritari istituzionali e mediatici.

Ci sarebbe anche da aggiungere le considerazioni sugli effetti della politica comunitaria tesa ad impedire sistematicamente la formazione di colossi industriali paragonabili con quelli americani e ultimamente cinesi, ma solo per constatare che la stessa Unione Europea è propedeutica al mantenimento di questa subordinazione dei paesi dell’intero continente.

LE INTENZIONI E LE POSSIBILITA’ DI AFFRANCAMENTO

Ogni atto politico, compresi quelli di politica economica, della classe dirigente germanica va valutato, quindi, secondo l’intenzione e la capacità di affrancamento da tale situazione.

A tutt’oggi non risultano passi decisivi in questa direzione.

Intanto l’aspirazione ad ottenere un vero e proprio trattato di pace apertamente riconosciuto dagli Stati Uniti e da Francia e Gran Bretagna risulta ancora inevasa a distanza di settant’anni, con tutto quello che implica nei diritti e nella discrezionalità di forze militari ancora di occupazione; dal punto di vista istituzionale del ripristino del controllo effettivo su settori chiave dell’apparato statale lo sforzo appare più di immagine che effettivo; da quello invece del sistema di informazione e di formazione dell’opinione pubblica la situazione risulta ancora peggiorata visto il progressivo declino e l’incapacità persuasiva della residua classe dirigente ancora legata alla Oestpolitik.

La stessa crisi del Partito Socialdemocratico non fa che accentuare questa parabola; le lamentele e le rimostranze recenti della classe imprenditoriale tedesca riguardante l’esposizione eccessiva della Merkel contro la Presidenza di Trump sono per di più legate ai rischi di sanzioni commerciali legate al surplus commerciale.

Le tentazioni per una politica più autonoma ed indipendente certamente non mancano. Più che per forza propria potranno trovare ulteriore alimento dalle evidenti forzature che la politica estera americana, attualmente in fibrillazione, sta operando. Queste ultime, in particolare, ultimamente si stanno esercitando sugli ostacoli alla costruzione vitale del secondo gasdotto Northstream tra Russia e Germania in grado di rafforzare il ruolo di hub europeo e di controllore essenziale delle forniture nel continente e sulle pressioni per un aumento dei bilanci di spesa militare. Un loro significativo incremento potrebbe indurre al rafforzamento di un proprio complesso industriale militare propedeutico alla nascita di una struttura di difesa autonoma; una eventualità, però, in controtendenza con le attuali pulsioni autodistruttive operanti sia in Germania che nella stessa Francia.

Lo stesso progetto di cooperazione militare rafforzata portato avanti ultimamente e strombazzato dalla Germania presenta numerosi aspetti di ambiguità:

  • nasce sulle ceneri dell’ipotesi di integrazione delle forze armate tedesche e francesi fallita ad inizio secolo;

  • punta all’integrazione di paesi (Olanda, Romania, Rep. Ceka) appartenenti all’area di influenza tedesca ma particolarmente legati, in funzione antirussa, all’establishment statunitense;

  • si tratta ancora di forze limitate tese, probabilmente, più a compensare la debolezza delle forze operative tedesche e il timore di affrontare le conseguenze esterne di un più pesante riarmo diretto;

  • il debole coinvolgimento della Francia e l’assenza dell’Italia lascia intravedere una funzione di contenimento di questi paesi piuttosto che di affrancamento dalla tutela americana;

  • negli ultimi anni, il carattere antirusso della politica estera tedesca si è ulteriormente accentuato e rischia di diventare irreversibile, non ostante le relazioni economiche non corrispondano esattamente ai proclami sanzionatori; questo comporta dei riflessi diretti nelle opzioni militari.

hermannsdenkmalCONSUNTIVO

In realtà l’attuale classe dirigente tedesca, rispetto al quale non risultano emergere forze alternative credibili, tende inesorabilmente a cacciarsi in una situazione analoga a quella che la hanno trascinata nelle due ultime rovinose guerre mondiali.

Non ha la forza e le caratteristiche per diventare, da sola, l’artefice di un polo politico comparabile con quelli in via di formazione, in competizione con gli Stati Uniti; per ambire a tale condizione dovrebbe puntare razionalmente a stringere un sodalizio meno squilibrato e su basi più paritarie in via prioritaria con la Francia e l’Italia e su questo costruire un rapporto costruttivo con la Russia. Questo implica una ridefinizione dei rapporti e un’azione verso la maggior parte dei paesi dell’Europa Orientale e quelli scandinavi che agevoli un ricambio di quelle classi dirigenti così oltranziste, impegnate ad affermare la propria identità e rafforzare la loro circoscritta influenza regionale a scapito della Russia, scegliendo la via apparentemente più comoda ed immediata: una alleanza politica sempre più stretta con gli Stati Uniti attualmente praticabile soprattutto grazie alla garanzia del retroterra tedesco, ma resa certamente più fragile da una sua defezione. Non si può dire certo che gli ingombranti vicini, Italia e Francia, concedano più di tanto qualche chance a questa eventualità. Una svolta quindi tanto più improbabile per l’azione ricorrente di Francia e Italia di “utilizzo” del potente d’oltreatlantico per regolare le controversie di vicinato in un processo di integrazione atlantista che sta coinvolgendo pesantemente, ormai anche la Francia, anche se non ancora, probabilmente, in maniera irreversibile. Si tratterebbe di rimettere in discussione le modalità di costruzione di un sistema di relazioni costruito negli ultimi trenta anni, laddove la posizione di vassallo privilegiato ha consentito di costruire una formazione sociale sufficientemente solida da garantire un largo consenso e discreti margini di azione.

Più che una subordinazione riottosa sembra per tanto, quello della Germania, un sodalizio consenziente per quanto prono. Una condizione che difficilmente può essere superata senza la formazione di poli alternativi che impediscano di continuare a lucrare sui saldi commerciali e senza un significativo indebolimento della potenza egemone ancora in gran parte da compiersi. L’alternativa, in mancanza di un recupero del controllo pieno delle leve di potere, potrebbe essere una fuga velleitaria in avanti, magari vellicata dalla stessa potenza egemone, propedeutica ad una terza pesante lezione storica.

E L’ITALIA?

In tale contesto inquadrare la collocazione dell’Italia come un paese dibattuto nella scelta tra il contendente tedesco e quello americano con una propensione iniziale per quella teutonica, appare una indicazione fuorviante; del tutto fuori luogo se, come statuisce la redazione di Limes, a questo dilemma corrisponde la formazione sul suolo italico di due blocchi in tenzone tra loro; quello economico sensibile alle sirene germaniche, quello istituzionale, degli apparati di sicurezza legato a quelle americane. Una contrapposizione che non offre una sintesi credibile semplicemente perché uno dei pilastri e ambiti del contenzioso, quello economico, non è assolutamente una prerogativa assoluta e nemmeno prevalente della Germania. La struttura economica italiana, negli ultimi trenta anni ha subito una drammatica perdita di controllo dei propri assetti strategici più importanti, superiore alla stesa distruzione dell’apparato produttivo. La gran parte di quelle attività sono finite in mano americana e poi francese, più che tedesca. È sufficiente scorrere i destini dell’industria aeronautica, dei generatori, della ceramica, della siderurgia specializzata, della meccanica, oltre che dei marchi alimentari, della moda e soprattutto della rete di telecomunicazioni per rivelare una penetrazione ben più articolata e preoccupante. I commensali del banchetto sono numerosi. È sufficiente orientare i propri padiglioni verso la voce dei corifei, tra i tanti Calenda, tutti impegnati ad identificare la globalizzazione con il mercato americano, per individuare le priorità stabilite dalla maggior parte della classe dirigente. L’impegno tedesco si è concentrato, piuttosto, sulla gestione del drenaggio del risparmio, sull’acquisizione di alcuni poli logistici necessari ai flussi dell’industria tedesca, sul controllo parziale ma indiretto della componentistica e sul ridimensionamento della capacità produttiva di un importante competitore.

DIFFICILMENTE

In realtà, sino a quando l’attuale classe dirigente tedesca riuscirà a mantenere in qualche maniera il controllo della costruzione europea per conto terzi, difficilmente la propensione tutta italica a costituire fazioni autodistruttive per conto di podestà stranieri potrà essere soddisfatta e la disputa occuperà inevitabilmente temi più rarefatti, come difficilmente il sodalizio tedesco-americano potrà incrinarsi significativamente, specie in una fase di restaurazione della politica americana ormai vincente.

Difficilmente, però, l’approccio offerto dalla redazione potrà offrire un contributo ad uno sforzo consapevole e proficuo di individuazione di un interesse nazionale capace di raccogliere il consenso delle parti più dinamiche e dignitose della comunità; come pure diventa alquanto arduo individuare, in Europa, nei vari paesi, le forze suscettibili di essere coinvolte.

Quanto alla Germania, se resurrezione dovrà essere, richiederà la realizzazione di numerose condizioni; i timidi vagiti richiederanno tempo per arrivare ad espressioni più articolate e razionali. La stessa formazione sociale tedesca inizia a conoscere importanti crepe nella sua proverbiale coesione con la erosione dei punti di garanzia e stabilità, ma anche di immobilismo. Si sta cominciando dal ruolo dei sindacati; ben presto toccherà anche il sistema periferico di promozione ed assistenza sociale. Bisognerà vedere se gli eventi, ormai incalzanti, concederanno il tempo necessario a compiere le svolte.

L’Italia, l’Europa e gli squilibri della fase multicentrica, a cura di Luigi Longo

Si propongono tre letture sugli squilibri mondiali nella fase multicentrica, lentamente e scompostamente in cammino. Gli squilibri si fanno più consistenti e gravi venendo a mancare sempre più quella sorta di centro di coordinamento mondiale rappresentato dagli Stati Uniti.

Le letture: uno stralcio dell’articolo del generale Fabio Mini apparso sulla rivista Limes n.4/2017 e due articoli del geografo e giornalista Manlio Dinucci apparsi sul quotidiano il Manifesto, il primo il 15/8/2017, il secondo il 13/9/2017. Si riporta inoltre una cartografia di Limes illuminante sulla capacità di dominio (di coercizione e di consenso) degli USA e del loro spettro: la Russia.

E’ importante osservare come, nella fase multicentrica, le sfere militare, politica e istituzionale assumono sempre più un peso specifico per la costruzione del blocco di dominio sociale, mentre nella fase monocentrica giocano un ruolo fondante le sfere economica, politica, istituzionale, culturale, eccetera.

Trovo sorprendente l’articolo del generale Fabio Mini che fa una lettura critica sulla servitù italiana ed europea alle strategie di dominio USA. Una critica fatta da un Generale che ha avuto un ruolo di rilievo sia nelle Forze armate italiane sia nella Nato assume un rilievo interessante._ Luigi Longo

 

USA-Italia. Comunicazione di servizio

di Fabio Mini

 

 

[…] L’America non è più un << modello virtuoso >> e nemmeno vincente e molti paesi << minori >> non sono disposti a obbedire ciecamente a un leader anche se ben armato e neppure a stare assieme per favorirne gli interessi. Può essere un problema strategico, non tanto perché tali paesi possono scegliere di stare con la Russia o la Cina, ma perché possono scegliere di non stare con nessuno creando così l’esigenza di una complessa rete di relazioni bilaterali difficile da gestire […]

Gli Stati Uniti pretendono dagli alleati e dai sottoposti nazionali ed esteri un << servizio >> che sia utile e riescono a convertire qualsiasi utilità in moneta. Ma il servizio richiesto è anche << obbligatorio >> per cui sono previste sanzioni o ritorsioni economiche e militari a qualsiasi inadempienza o manifestazione d’insofferenza […] A questa presunzione ne corrisponde un’altra ugualmente distorta: la convinzione che quasi tutti i paesi del mondo, comunque quelli di tutta l’Europa in particolare, << debbano >> qualcosa agli Stati Uniti. In alcuni accenni contenuti nei trattati bilaterali che stabiliscono i termini dello status delle Forze armate statunitensi ( Sofa, Status of Forces Agreement) o della permanenza di basi e infrastrutture militari nei vari paesi, il richiamo all’amicizia e alla cooperazione suggerisce sempre la sussistenza di un debito. Un debito permanente e inestinguibile. Anche le espressioni di gratitudine per << per l’ospitalità >> e la collaborazione che gli americani ripetono sorridenti in ogni occasione di incontro con i partner nascondono l’ironia, se non proprio l’ipocrisia, tipica di chi si sente in credito. In genere l’ospitalità di truppe straniere sul proprio territorio non è mai volontaria, è imposta. I contributi sono richiesti e quelli non richiesti sono anticipati per pura piaggeria. Il debito di riconoscenza reclamato dagli Stati Uniti è qualcosa di molto simile al concetto di tributo all’impero da parte dei vassalli e al concetto di debito delle società mafiose. […]

Gli Stati Uniti si ritengono creditori infiniti di tutto il mondo per la loro missione divina di preservare la democrazia, la libertà e i diritti umani di tutti. In particolare, sono ritenuti loro debitori tutti i paesi << liberati >>, con le armi o le operazioni coperte, dal fascismo, dal nazismo, dal comunismo, dalle dittature (spesso instaurate da loro stessi) e dal terrorismo. In termini ideologici, la riconoscenza dovuta per tali << liberazioni >> è impagabile. Non c’è modo di tramutarla in moneta o corvèe o di eluderla. Nella pratica, però, si può evitare che la riconoscenza si tramuti in sindrome con tutte le conseguenze. Tutti i presunti debitori degli Stati Uniti ci sono riusciti, la maggior parte con qualche sforzo e sacrificio e altri non ponendosi neppure il problema. A eccezione dell’Italia.

L’Italia ha dovuto e voluto accettare un debito infinito rifugiandosi nella sindrome della riconoscenza. Ben consapevole della sottile linea che separa l’erta del servizio dal baratro della schiavitù ha cercato di spacciare l’accettazione della servitù per semplice questione di gratitudine, di affetto, di passione e di amore: tutte cose che da noi hanno un valore anche politico mentre per altri, compresi americani, inglesi, tedeschi e francesi non contano nulla. Giustamente.

Pensando di essere furba, e forte della propria esperienza di sei secoli di dominazioni straniere, la << serva Italia di dolore ostello >> ha tentato di usare il debito di riconoscenza per legarsi per sempre più ai forti di turno, agli Stati Uniti, sperando in un rapporto privilegiato o nella magnanimità dell’alleato in caso di gaffe e intemperanze. E così in effetti è stato, ma al costo della rinuncia della sovranità nazionale.

Oggi, dai reciproci abbracci, baci e pacche sulle spalle non traspira aria di affetto e rispetto, ma la solita deprimente realtà: la politica italiana è da oltre settant’anni vittima consapevole e felice dell’ingerenza degli Stati Uniti ed è stabilmente al << servizio >> dei loro interessi. […]

Spesso la Nato viene individuata come il luogo del potere americano sugli alleati. E’ vero solo in parte e per la parte più politicamente corretta. Il gioco pesante e spesso sporco avviene nei singoli paesi. Il controllo americano sull’Italia è gestito in Italia. Da settant’anni, il nostro paese si presenta nelle organizzazioni internazionali come Onu, Nato, G7, G8 e G20, Osce e Unione Europea con un’agenda già concordata all’ambasciata Usa di Roma. Molte volte non è neppure necessario concordare nulla perché ogni tassello dirigenziale politico, amministrativo e militare è allineato sulle posizioni degli interessi americani. Qualunque sia il partito al governo. Agli << americani di Roma >>, funzionari d’ambasciata, addetti commerciali, culturali, politici, addetti alla pubblic diplomacy (un modo elegante per pilotare la comunicazione italiana), forze speciali sotto copertura, agenti della Cia, della Dia e dell’Fbi sparsi a gruppi di ventine in tutta Italia, si aggiungono gli << americani nostrani >>. Sono di tutte le specie: politici convinti ( il presidente Cossiga si riteneva uno di questi e si definiva << amerikano >>), politici voltagabbana, diplomatici, giornalisti, informatori, complottisti, piduisti, pseudo-esperti e intellettuali, militari, massoni e cattolici, vecchi mercenari e neo-contractors che, agendo in qualsiasi ambito nazionale e pontificando da qualsiasi pulpito, alimentano le già numerose lobby pro-americane e sono i più accesi sostenitori delle ragioni oltre che difensori degli errori statunitensi. […]

Nel nostro paese l’opposizione al servilismo è invece prettamente ideologica. Si limita alla critica per partito preso e non per cognizione di causa. E’ rimasta agli schemi della guerra fredda e per questo anacronismo si squalifica da sola. Di fatto, contribuisce a rafforzare il già radicato americanismo servile. Da noi si applica appieno l’amara constatazione di un filosofo cinese: << Ci sono stati periodi in cui il nostro desiderio di essere schiavi è stato soddisfatto e altri no >>. Da noi il << periodo no >> deve ancora arrivare. In sostanza, dal 1945 a oggi non abbiamo fatto altro che andare in America per mendicare, implorare, rinnovare il patto di sudditanza e fare il pieno di stupidaggini, dagli slogan elettorali ai gadget pubblicitari. Anche noi abbiano i nostri twitter-in-chef (soprannome di Trump) che cinguettano, felici di essere al sicuro, in gabbia. […]

Infine la questione delle basi: i numeri vanno aggiornati e la genesi rivista. I militari americani sono circa 14 mila, le installazioni oltre 110, comprendendo ogni struttura anche soltanto tecnica. I cosiddetti << accordi bilaterali di lunga data >> non sono scaturiti soltanto dell’appartenenza italiana alla Nato: quasi tutte le installazioni militari statunitensi in Italia non sono nemmeno sotto copertura atlantica. Le basi sono la naturale continuazione delle esigenze militari delle forze di occupazione statunitensi e alleate in Italia. Alla fine della guerra nel nostro paese i centri di potere erano polverizzati. Il governo monarchico, il governo d’occupazione degli Alleati e quello dei Comitati di liberazione nazionale si sovrapponevano e contrastavano. La commissione alleata aveva diritto di veto su qualsiasi attività nazionale e le basi militari italiane o ex tedesche erano territorio occupato. Gli inglesi hanno continuato a usare la base di Aviano fino al 1947. Gli accordi bilaterali successivi all’ingresso dell’Italia nella Nato (1949) hanno soltanto rilegittimato la presenza statunitense d’occupazione sotto il nuovo cappello Nato che comunque era assunto dal Comando Alleato in Europa (Usa) con il nome di Supremo Comando Alleato d’Europa. Da allora, la denominazione Nato è stata spesso usata per indicare la base appartenente a un paese membro dell’Alleanza Atlantica, non necessariamente per scopi della Nato. Nella sostanza, la presenza militare americana in Italia è un fatto prettamente bilaterale e la disponibilità delle basi per altre forze Nato, comprese quelle italiane, anche in esercitazione, se non diversamente stabilito, è una prerogativa esclusiva degli Stati Uniti. […]

Per settant’anni abbiamo obbedito ai consigli, alle imposizioni, alle ingiunzioni e alle minacce degli Stati Uniti nella politica, nell’amministrazione, nella giustizia e nella sicurezza senza chiedere e ricevere nulla in cambio se non il fatidico ombrello di protezione (che proteggeva i loro assetti) e la pacca cordiale di solito riservata ai cagnolini, tipo << pet service >>, appunto. In ambito militare e industriale, ci siamo legati a vita a programmi di armamenti a condizioni di strozzinaggio, abbiamo dovuto e voluto copiare parola per parola manuali e dottrine palesemente indirizzate a riempire il carrello della spesa delle industrie americane e di quelle nostre affiliate. Abbiamo assimilato concezioni politiche e militari inadatte alle nostre condizioni ed esigenze. Insostenibili e inutili. Abbiamo elevato ai vertici dello Stato, delle industrie e delle imprese di Stato e delle Forze armate personaggi anche validi, ma soprattutto opportunamente indicati dagli ambasciatori statunitensi. Raccomandati o graditi. I vertici della Difesa hanno fatto anticamera per essere ricevuti da un colonnello addetto militare e i nostri ministri sono stati convocati in ambasciata da camerieri o poco più. […]

A partire dai primi giorni del dopoguerra ci siamo vincolati anima e corpo a un rapporto di servitù in termini bilaterali che prescindeva sia dagli impegni del Piano Marshall sia da quelli della Nato. Ma nemmeno questo è stato fatto bene. Subito dopo il periodo di << amministrazione controllata >> del dopoguerra e ai primi segni della guerra fredda, abbiamo accettato una divisione politica interna innaturale e deleteria che ha consegnato il potere centrale a politici succubi e corrotti, il potere periferico a formazioni filo-sovietiche e l’opposizione a eversivi nostalgici, fascisti, comunisti e frammassoni. Tutti gestiti e manovrati dai << liberatori >> americani e sovietici impegnati in una guerra fredda che da noi è stata sempre calda. Quando gli equilibri politici sembravano deviare dal corso prestabilito ci siamo dilaniati con le insurrezioni armate, i tentativi di colpo di Stato e il terrorismo politico. […]

Non siamo mai stati così apertamente velleitari nel seguire le istruzioni americane alla Nato e al di fuori di essa come nei periodi di governo delle sinistre. Non abbiamo discusso di niente e obiettato su niente, neppure sulle guerre intraprese in aperta violazione del diritto internazionale. Ci siamo accontentati di cambiarle il nome. Negli ultimi vent’anni abbiamo continuato a parlare di fedeltà nei confronti degli alleati Nato e in particolare degli americani mentre, in realtà, abbiamo tradito tutti non ottemperando al primo dovere degli alleati veramente fedeli e leali: contrastare gli avventurismi e mettere i partner in guardia dalle possibili conseguenze. Non abbiamo neanche sfruttato le salvaguardie della sovranità nazionale garantite dagli stessi trattati bilaterali e internazionali. La Nato decide all’unanimità e l’opposizione di un membro qualsiasi, dagli Stati Uniti al Lussemburgo, fa abortire qualsiasi progetto. Non abbiamo mai detto no e non abbiamo nemmeno cercato d’influire sulle strategie. Gli accordi bilaterali per loro natura riconoscono e preservano la sovranità dei sottoscrittori e, sempre per loro natura, prevedono benefici per entrambi. Se al beneficio di uno non corrisponde equo e congruo beneficio dell’altro il trattato configura una servitù la cui natura deve essere specificata e giustificata. Da settant’anni, gli Stati Uniti in Italia esercitano de facto un regime di servitù nazionale e militare non previsto da nessun rapporto bilaterale. Non è una loro prevaricazione. In realtà fanno il loro mestiere e lo fanno bene: per i loro interessi. Dovrebbe essere un problema nostro. In altri paesi del mondo le basi americane sono state chiuse dalla sera alla mattina per violazioni vere o presunte della sovranità molto meno gravi di questa. Da noi non è mai stato un problema semplicemente perché la classe politica di qualsiasi segno, la classe industriale e quella militare hanno voluto accettare le servitù anche se non previste e nemmeno richieste. Da noi le installazioni statunitensi vengono chiuse e aperte, trasformate e cambiate di destinazione d’uso nell’esclusivo interesse di una parte, sempre quella. La rinuncia ai nostri diritti di Stato sovrano e ai doveri di leale alleanza ha contribuito in maniera sostanziale all’egemonia americana nel mondo. A gratis. Anzi all’ulteriore costo di dignità: siamo utilizzatori forzati di tecnologie già forzate, di terza mano, e delle informazioni di scarto americane che beviamo come elisir di lunga vita perché è questo che esattamente dobbiamo fare: continuare a vivere a lungo in uno schema preconfezionato di informazioni incontestabili perché incontrollabili (e guai a pretendere di farlo). […]

All’<< indiscutibile >> missione escatologica degli Stati Uniti si unisce l’altrettanto indiscutibile convinzione che l’America ci serva, che ci sia necessaria e utile. In questo campo si può però obiettare senza rischiare di essere blasfemi.

Mentre in ogni paese del mondo si sta ridiscutendo la storia dell’ultimo secolo a partire dalla prima guerra mondiale, da noi prevale la vulgata dell’America di Giustizia, Democrazia e Libertà. La missione assunta dagli Stati Uniti di portare questi valori in tutto il mondo e di agire con le armi contro chiunque non li riconosca viene richiamata e confermata in ogni circostanza. E’ qualcosa che nessun paese può discutere specialmente se annoverato tra i perdenti della seconda guerra mondiale. La mannaia di antiamericano cala con eguale intensità di quella di antisemita.

Tale missione parte infatti proprio dal periodo postbellico, quando il linguaggio politico statunitense cominciò ad essere infarcito di slogan sul tipo del << Dio lo vuole >> delle storiche crociate. Linguaggio che non cessa di esaltare la nazione americana, specialmente se associato all’idea che << lo vuole l’America >>, produttrice di tutti i fenomeni d’intolleranza politica e razziale dal maccartismo al trumpismo. Eppure, è ormai storicamente assodato che nel dopoguerra l’Unione Sovietica non aveva alcuna intenzione d’invadere l’Europa. Non voleva però che fosse minacciata o toccata la propria sfera influenza. Lo stesso Kennan, che aveva dato modo a Truman di forgiare la strategia del contenimento con il suo telegramma da Mosca del 1946 e il successivo articolo del 1947, ha voluto precisare come l’espansione sovietica non fosse il problema. In un’intervista televisiva del 1996 disse che la distorsione del senso del suo articolo << veniva da una frase nella quale dicevo che qualora i leader sovietici si fossero confrontati con noi in maniera ostile in qualunque posto del mondo, noi avremmo dovuto fare il possibile per contenerli e non lasciarli espandere ulteriormente. Avrei dovuto però spiegare che non sospettavo i sovietici di progettare un attacco contro di noi. La guerra era appena finita, ed era assurdo supporre che essi avrebbero attaccato gli Stati Uniti. Non pensavo di dover spiegare una cosa del genere, ma ovviamente avrei dovuto farlo >>. Kennan aveva intuito che il sistema sovietico era destinato a collassare da solo per le spinte interne e per l’incapacità di tenere al giogo i propri alleati. Sapeva, e questo lo disse fino alla morte (all’età di 101 anni) che il contenimento non poteva essere solo militare. Il vero problema sovietico era impedire il processo di sfaldamento centrifugo che l’Occidente avrebbe potuto e voluto sfruttare. Processo ritardato di quarant’anni ma puntualmente presentato con il tentativo fallito di aprirsi a riforme istituzionali e sociali.

La guerra fredda non era affatto necessaria. Non c’era nessuna invasione alle porte e nessuna necessità di sfoderare i missili nucleari prima ancora di rimuovere le macerie. Non era necessaria la Nato e di conseguenza non sarebbe stato necessario nemmeno il Patto di Varsavia. La difesa europea si sarebbe potuta sviluppare anche come pilastro continentale del rapporto transatlantico senza provocazioni e mire espansionistiche. Ma la storia non si fa con i << sé >> e la guerra fredda c’è stata. E allora occorre ragionare per quali interessi è stata combattuta. […] Durante la guerra fredda l’America non ha fatto gli interessi dell’Europa, ma ne ha fatto il campo di battaglia permanente convenzionale e nucleare. Il Piano Marshall (European Recovery Plan, Erp) ha aiutato più l’America che i paesi europei. E’ vero, senza aiuti esterni la ricostruzione sarebbe stata più lunga, ma è anche vero che senza la formula dell’Erp e senza un intero continente a fungere da consumatore dei surplus produttivi, l’America non sarebbe mai uscita dalla crisi economica iniziata nel 1929. In Europa e in Asia la guerra fredda è servita a evitare la prevista smobilitazione militare che avrebbe riportato in America centinaia di migliaia di persone in cerca di lavoro e di reduci in cerca di cure e compensazioni. Con lo schieramento all’estero e la presunta minaccia del blocco sovietico, l’apparato militare-industriale ha graduato il processo di riconversione di molti settori bellici all’economia di pace e insieme si è imposto come settore fondamentale della politica e dell’economia prima ancora che della sicurezza. In compenso, le economie e la politica dei paesi aiutati sono state drogate dagli stessi aiuti e dalle ingerenze: come in Grecia, Turchia e Italia. E d’altra parte non si deve certo alla minaccia sovietica la serie di sconfitte militari subite dagli Usa dal 1950 a oggi.

Se la cosiddetta protezione americana non ci è servita durante la guerra fredda è molto dubbio che ci serva oggi. Non solo perché la minaccia è remota (come giustamente dice il nostro Libro Bianco), ma perché anche quella probabile non può essere contrastata con gli assetti strategici che verrebbero messi a disposizione. Se si parla di Iraq, Siria e Libia, si parla di guerra a sassate. Scomodare i bombardieri strategici B2 per i voli non stop di 32 ore dalla base del Missouri al deserto libico completamente libero da qualsiasi minaccia aerea e contraerea con 80 bombe di precisione teleguidate su un gruppetto di fanatici non è solo un overkilling, ma un test di dubbio valore geopolitico e militare. Potevamo credere sulla parola che l’operazione sarebbe stato un << successo >>, ma il suo effetto rimane irrilevante nel contesto caotico della Libia come di tutti gli altri teatri di guerra in atto. E se in futuro si verificassero le condizioni per una copertura strategica di quel tipo, possiamo essere certi che l’intervento ci sarebbe anche senza richiederlo. Sarebbe più nel loro interesse che nel nostro. Come al solito.

Tutti noi europei e in particolare noi italiani non << dobbiamo >> assolutamente niente e anche la gratitudine dal calore e sapore mediterraneo va pesata in relazione a quanto abbiamo già dato in termini di sovranità, dignità e instabilità politica (compresa la stagione della sovversione e del terrorismo), che gli americani in Italia e quelli d’Italia non hanno certo contribuito ad evitare. Fino a qualche tempo fa, l’ufficio Contabilità del Congresso americano (Gao) valutava in dollari i contributi di tutti i paesi del mondo alla sicurezza degli Stati Uniti. L’Italia, solo tra basi e previdenze per i soldati americani in Italia, era sempre in cospicuo avanzo. Il Gao non ha ancora monetizzato i << contributi >> italiani degli anni passati, ma mentre il rituale del fair play è sempre in vigore le richieste di maggiori risorse alla Nato sono più pressanti. […]

Da parte sua, il ministro degli esteri Alfano il 21 marzo scorso ha tenuto un breve discorso all’Atlantic Council, autorevole think tank di Washington, durante il quale ha elencato tutti i servizi militari e diplomatici resi agli Stati Uniti e alla Nato (forze, missioni eccetera) ha assicurato che in Iraq ci siamo e ci resteremo, che siamo protagonisti in Libia, Libano e Balcani, ha richiamato l’esigenza di una difesa europea ed ha assicurato che gli europei hanno recepito l’esigenza di maggiori risorse per la difesa militare e s’impegnano al mantenimento dei vincoli transatlantici. Ed è questo che gli americani amano sentirsi dire, anche se non ne dubitano affatto. Rimane da vedere come l’Italia possa passare dalle parole ai fatti richiesti da Trump e dai suoi: e quindi passare dai 27 ai 54 miliardi di dollari/euro da destinare alla difesa. […]

Trump riprende con vigore una richiesta rivolta da tutti i presidenti americani ai partner della Nato negli ultimi trent’anni. Solo che oggi nessun paese alleato crede veramente in una minaccia russa per l’Europa e i paesi che ne sbandierano l’eventualità in realtà vogliono una frattura tra Europa e Russia. Una frattura che porti alla rinazionalizzazione dell’Europa già aperta da Wolfowitz o alla formazione della << Europa delle regioni >>, la quale farebbe delle centinaia di microregioni europee, dall’Atlantico agli Urali, altrettanti bacini di esportazione e militarizzazione.

 

 

 

Così gli Usa «rassicurano» l’Europa

di Manlio Dinucci

 

Nell’anno fiscale 2018 (che inizia il 1° ottobre 2017) l’amministrazione Trump accrescerà di oltre il 40% lo stanziamento per la «Iniziativa di rassicurazione dell’Europa» (Eri), lanciata dall’amministrazione Obama dopo «la illegale invasione russa dell’Ucraina nel 2014»: lo annuncia il generale Curtis Scaparrotti, capo del Comando europeo degli Stati uniti e quindi per diritto Comandante supremo alleato in Europa.

Partito da 985 milioni di dollari nel 2015, il finanziamento della Eri è salito a 3,4 miliardi nel 2017 e arriverà (secondo la richiesta di bilancio) a 4,8 miliardi nel 2018. In quattro anni, 10 miliardi di dollari spesi dagli Stati uniti al fine di «accrescere la nostra capacità di difendere l’Europa contro l’aggressione russa». Quasi la metà della spesa del 2018 – 2,2 miliardi di dollari – serve a potenziare il «preposizionamento strategico» Usa in Europa, ossia i depositi di armamenti che, collocati in posizione avanzata, permettono «il rapido spiegamento di forze nel teatro bellico». Un’altra grossa quota – 1,7 miliardi di dollari – è destinata ad «accrescere la presenza su base rotatoria di forze statunitensi in tutta Europa».

Le restanti quote, ciascuna nell’ordine di centinaia di milioni di dollari, servono allo sviluppo delle infrastrutture delle basi in Europa per «accrescere la prontezza delle azioni Usa», al potenziamento delle esercitazioni militari e dell’addestramento per «accrescere la prontezza e interoperabilità delle forze Nato».

I fondi della Eri – specifica il Comando europeo degli Stati uniti – sono solo una parte di quelli destinatati all’«Operazione Atlantic Resolve, che dimostra la capacità Usa di rispondere alle minacce contro gli alleati».

Nel quadro di tale operazione, è stata trasferita in Polonia da Fort Carson (Colorado), lo scorso gennaio, la 3a Brigata corazzata, composta da 3500 uomini, 87 carrarmati, 18 obici semoventi, 144 veicoli da combattimento Bradley, oltre 400 Humvees e 2000 veicoli da trasporto.

La 3a Brigata corazzata sarà rimpiazzata entro l’anno da un’altra unità, così che forze corazzate statunitensi siano permanentemente dislocate in territorio polacco. Da qui, loro reparti vengono trasferiti, per addestramento ed esercitazioni, in altri paesi dell’Est, soprattutto Estonia, Lettonia, Lituania, Bulgaria, Romania e probabilmente anche Ucraina, ossia vengono continuamente dislocati a ridosso della Russia.

Sempre nel quadro di tale operazione, è stata trasferita nella base di Illesheim (Germania) da Fort Drum (New York), lo scorso febbraio, la 10a Brigata aerea da combattimento, con oltre 2000 uomini e un centinaio di elicotteri da guerra. Da Illesheim, sue task force vengono inviate «in posizioni avanzate» in Polonia, Romania e Lettonia. Nelle basi di Ämari (Estonia) e Graf Ignatievo (Bulgaria), sono dislocati cacciabombardieri Usa e Nato, compresi Eurofighter italiani, per il «pattugliamento aereo» del Baltico.

L’operazione prevede inoltre «una persistente presenza nel Mar Nero», con la base aerea di Kogalniceanu (Romania) e quella addestrativa di Novo Selo (Bulgaria).

Il piano è chiaro. Dopo aver provocato col putsch di Piazza Maidan un nuovo confronto con la Russia, Washington (nonostante il cambio di amministrazione) persegue la stessa strategia: trasformare l’Europa in prima linea di una nuova guerra fredda, a vantaggio degli interessi degli Stati uniti e dei loro rapporti di forza con le maggiori potenze europee.

10 miliardi di dollari investiti dagli Usa per «rassicurare» l’Europa, servono in realtà a rendere l’Europa ancora più insicura.

 

 

 

 

Russia e Cina contro l’impero del dollaro

di Manlio Dinucci

 

Un vasto arco di tensioni e conflitti si estende dall’Asia orientale a quella centrale, dal Medioriente all’Europa, dall’Africa all’America latina. I «punti caldi» lungo questo arco intercontinentale – Penisola coreana, Mar Cinese Meridionale, Afghanistan, Siria, Iraq, Iran, Ucraina, Libia, Venezuela e altri – hanno storie e caratteristiche geopolitiche diverse, ma sono allo stesso tempo collegati a un unico fattore: la strategia con cui «l’impero americano d’Occidente», in declino, cerca di impedire l’emergere di nuovi soggetti statuali e sociali.

Che cosa Washington tema lo si capisce dal Summit dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) svoltosi il 3-5 settembre a Xiamen in Cina. Esprimendo «le preoccupazioni dei Brics sull’ingiusta architettura economica e finanziaria globale, che non tiene in considerazione il crescente peso delle economie emergenti», il presidente russo Putin ha sottolineato la necessità di «superare l’eccessivo dominio del limitato numero di valute di riserva».

Chiaro il riferimento al dollaro Usa, che costituisce quasi i due terzi delle riserve valutarie mondiali e la valuta con cui si determina il prezzo del petrolio, dell’oro e di altre materie prime strategiche. Ciò permette agli Usa di mantenere un ruolo dominante, stampando dollari il cui valore si basa non sulla reale capacità economica statunitense ma sul fatto che vengono usati quale valuta globale.

Lo yuan cinese è però entrato un anno fa nel paniere delle valute di riserva del Fondo monetario internazionale (insieme a dollaro, euro, yen e sterlina) e Pechino sta per lanciare contratti di acquisto del petrolio in yuan, convertibili in oro.

I Brics richiedono inoltre la revisione delle quote e quindi dei voti attribuiti a ciascun paese all’interno del Fondo monetario: gli Usa, da soli, detengono più del doppio dei voti complessivi di 24 paesi dell’America latina (Messico compreso) e il G7 detiene il triplo dei voti del gruppo dei Brics.

Washington guarda con crescente preoccupazione alla partnership russo-cinese: l’interscambio tra i due paesi, che nel 2017 dovrebbe raggiungere gli 80 miliardi di dollari, è in forte crescita; aumentano allo stesso tempo gli accordi di cooperazione russo-cinese in campo energetico, agricolo, aeronautico, spaziale e in quello delle infrastrutture.

L’annunciato acquisto del 14% della compagnia petrolifera russa Rosneft da parte di una compagnia cinese e la fornitura di gas russo alla Cina per 38 miliardi di metri cubi annui attraverso il nuovo gasdotto Sila Sibiri, che entrerà in funzione nel 2019, aprono all’export energetico russo la via ad Est mentre gli Usa cercano di bloccargli la via ad Ovest verso l’Europa.

Perdendo terreno sul piano economico, gli Usa gettano sul piatto della bilancia la spada della loro forza militare e influenza politica. La pressione militare Usa nel Mar Cinese Meridionale e nella penisola coreana, le guerre Usa/Nato in Afghanistan, Medioriente e Africa, la spallata Usa/Nato in Ucraina e il conseguente confronto con la Russia, rientrano nella stessa strategia di confronto globale con la partnership russo-cinese, che non è solo economica ma geopolitica.

Vi rientra anche il piano di minare i Brics dall’interno, riportando le destre al potere in Brasile e in tutta l’America latina. Lo conferma il comandante dello U.S. Southern Command, Kurt Tidd, che sta preparando contro il Venezuela l’«opzione militare» minacciata da Trump: in una audizione al senato, accusa Russia e Cina di esercitare una «maligna influenza» in America latina, per far avanzare anche qui «la loro visione di un ordine internazionale alternativo».

senso accerchiamento russia

Fonte: Limes n.16/2016.

12° Podcast _ UNA DINASTIA IN BILICO, di Gianfranco Campa

Questa volta i riflettori puntano a illuminare un altro angolo del palcoscenico a stelle e strisce; quello sino ad ora riservato ai Clinton. Protagonisti, nell’ombra e in primo piano, in questi ultimi venti anni, ma con una pesante ipoteca riguardo al loro futuro politico segnato dalla drammatica sconfitta elettorale alle presidenziali americane. Gli attacchi forsennati a Trump dell’intero vecchio establishment hanno impedito la resa dei conti postelettorale nel Partito Democratico. La sua progressiva normalizzazione tranquillizzerà probabilmente la vecchia classe dirigente e la spingerà a regolare i conti al proprio interno e a gestire in qualche maniera il ricambio. Il contesto geopolitico e sociopolitico è, però, radicalmente mutato rispetto ad appena dieci anni fa. Gli Stati Uniti in qualche maniera devono prendere atto della presenza di altri attori di peso nello scacchiere internazionale; all’interno le basi di consenso dei due partiti tradizionali sono cambiate con una erosione delle basi elettorali e un significativo spostamento di opinione di importanti settori di ceto popolare e medio, come per altro sta avvenendo in maniera più confusa anche in Europa. Sullo sfondo una radicale polarizzazione che impedisce a tutte le forze di assumere il ruolo di forza politica in grado di garantire la coesione del paese. Le emergenti non riescono ancora a sedurre almeno una parte significativa dei settori di punta e più avanzati del paese; le altre sembrano ancora del tutto sorde ai richiami del loro elettorato tradizionale.La paralisi programmatica e progettuale di queste ultime appare sempre più evidente. Come se non bastasse, la possibile formazione autonoma di un nuovo movimento politico, come conseguenza della defenestrazione dei sostenitori originari dallo staff presidenziale, potrebbe catalizzare definitivamente questi settori ed avviare ad una crisi profonda se non irreversibile prima il Partito Repubblicano e poi quello Democratico. Non a caso la componente radicale, più legata ai ceti professionali, del Partito Democratico stesso si è rivelata molto più cauta e sconcertata nei confronti di Trump. Nelle intenzioni della famiglia Clinton questa dovrebbe essere una fase di transizione generazionale, ma con le stesse dinastie come protagoniste; nei fatti Hillary Clinton potrebbe rivelarsi il capro espiatorio perfetto da offrire in cambio della definitiva defenestrazione di Trump e con questo pregiudicare le ambizioni della progenie e di qualche adepto rimasto impigliato in qualche parte del mondo. Fantapolitica? Molto probabile! Questi due anni sono stati però effervescenti e sorprendenti. Le trappole disseminate nello scacchiere internazionale iniziano a stringersi e gli armadi di gran parte di questi esponenti politici, cresciuti e formatisi in altri contesti, sono ricolmi di scheletri pronti alla riesumazione. Lo scontro è apertissimo _ Giuseppe Germinario

FIN(e)CANTIERI, a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto il testo apparso sulla rivista “Difesa Online”  con una valutazione molto critica dei contenuti dell’accordo che si va profilando tra l’italiana Fincantieri e la francese STX riguardo al settore della cantieristica navale. Già quattro anni fa in un paio di articoli avevo trattato di un “misterioso documento”, redatto da una inesistente Lisa Jeanne, riguardante le problematiche e il futuro di Finmeccanica, compresa la divisione cantieristica navale. ( http://italiaeilmondo.com/2017/09/13/astri-nascenti-stelle-cadenti-mine-vaganti-2a-parte-di-giuseppe-germinario-gia-pubblicato-sul-sito-conflittiestrategie-it-il-28112013/  in particolare il paragrafo “LE ASPIRAZIONI NASCOSTE DI LISA JEANNE”). Già da allora si paventava il declino inesorabile e il rischio della perdita di controllo della gestione di una azienda strategica; una delle poche capaci di sviluppare tecnologia, di garantire un minimo di autonomia produttiva nel sistema della difesa e di trasferire nel produzione civile le competenze acquisite. Da allora sono stati compiuti ulteriori decisivi passi indietro nella cessione di queste competenze tecniche e nel controllo delle produzioni del complesso militare. Una scelta colpevole già anni fa, addirittura masochistica e criminale in una fase di incipiente multipolarismo nella quale l’ambito della produzione militare strategica, compreso quello navale, non solo viene sempre più tutelato dagli stati decisi a salvaguardare in qualche maniera la propria autonomia decisionale, ma risulta decisivo, grazie alle crescenti commesse e ai maggiori margini economici, al mantenimento della stessa cantieristica civile e delle stesse produzioni civili ad alto contenuto tecnologico. L’Italia, al contrario, con la cessione della Avio, del Nuovo Pignone, con l’assorbimento di Selenia era già sulla strada di un inesorabile declino e una inevitabile sudditanza. Altri settori apparentemente estranei a questi ambiti, come quello della ceramica e della siderurgia specializzata, seguivano la stessa strada. Da allora il cammino è apparso inarrestabile. Ad esso si aggiunge, in conclusione, l’intenzione di Leonardo di concentrarsi sulla sola elicotteristica civile ed ora di Fincantieri nella costruzione di navi commerciali, settori i quali consentono produzioni dai margini ben più ridotti, poco compatibili con livelli elevati di ricerca. Con il rischio sempre più tangibile di vedere ridimensionati, nel medio termine, anche questi settori. Questo dovrebbe essere uno dei temi fondamentali da trattare per chi volesse realmente costruire una forza politica di interesse nazionale, contrapposta alla palude crescente del nostro scenario politico. Altri temi, come quello dell’immigrazione, pur importanti, dovrebbero fungere da corollario. Sarebbe finalmente il discrimine qualificante tra una forza politica in grado di formare una classe dirigente seria, capace di governare e indirizzare un paese ed una invece esposta e vittima di facili demagogie. Qui sotto il testo e il link di riferimento:

 

FINCANTIERI: THE FRENCH CONNECTION E L’ITALIAN JOB

( http://www.difesaonline.it/evidenza/lettere-al-direttore/fincantieri-french-connection-e-litalian-job )di Damiano Trieste)
11/09/17

L’accordo è ormai cosa fatta. I titoli Fincantieri sono infatti in salita da alcuni giorni ed è ricominciato il mantra celebrativo della nascita del polo franco-italiano della cantieristica militare. Il compito è convincere gli italiani che quella che promette di essere una sonora sconfitta in realtà sarà una luminosa vittoria del nostro capitalismo di Stato. I dettagli non sono ancora noti. Ci avventuriamo però in un’ipotesi (sperando di essere in errore), basata sul pessimismo che la storia recente del nostro Paese e dei suoi centri di potere impone. La nostra sfera di cristallo dice che la soluzione adottata, dopo i proclami indignati dei nostri governanti come reazione per la rimessa in discussione da parte di Macron degli accordi già sottoscritti, privilegerà la Francia a scapito l’Italia, nel senso, per essere concreti, del nostro Pil, dei livelli occupazionali, etc..

Ecco quindi la mossa del cavallo con cui Macron farà scacco matto all’Italia (magari con lo zampino di qualche “fraterno” amico italiano): dare vita a un Polo europeo della cantieristica, suddiviso in due rami. A Fincantieri la gestione, ancorché sotto tutela del governo francese (che non cede la maggioranza della proprietà), del nuovo gruppo industriale Saint Nazaire-Fincantieri per il mercantile; alla francese Naval Groups il controllo del ramo militare di Fincantieri (quello redditizio).

L’impresa che tanto ci aveva inorgogliti, finalizzata alla conquista di un pericoloso concorrente francese, si sta trasformando nel soccorso, con fondi pubblici, ai cantieri di Saint Nazaire per non farli fallire e nella cessione al gruppo francese Naval Groups del controllo della nostra Industria Navalmeccanica militare, con conseguenze pesanti anche per Leonardo. Un bel colpo di scena, non c’è che dire.

Considerato il rapporto di forza fra Naval Groups e Fincantieri militare, la prima capacità a essere anemizzata (come sempre è accaduto nei casi precedenti di merger fra aziende italiane e gruppi francesi) sarà quella progettuale, per ridurci al ruolo di semplici subfornitori. Poi seguirà la dismissione di alcuni cantieri italiani destinati a costruire navi militari, considerati esuberanti rispetto a quelli del nuovo gruppo franco-italiano. Il primo a cadere sarà lo storico cantiere di Castellammare di Stabia, su cui peraltro Fincantieri non ha investito da tempo, seguiranno gli altri. Con buona pace dei Sindacati e dell’indotto industriale italiano, Fincantieri non solo continuerà a trasferire ai cantieri Vaard in Romania carichi di lavoro da Riva Trigoso e dal Muggiano, ma si avvarrà anche dei cantieri francesi, a scapito di quelli italiani, per onorare gli impegni sottoscritti per il mantenimento dei livelli occupazionali di Saint Nazaire. Si prepari quindi Monfalcone, Ancona e poi Palermo (che possiede il più grande bacino in muratura del Mediterraneo in grado di ospitare navi da 350.000 tonnellate – foto).

Sul fronte militare, oltre alle conseguenze negative per l’occupazione nella cantieristica e dell’indotto, fra i danni collaterali ci saranno anche i livelli occupazionali delle aziende di Leonardo. Visto che Thales, il suo principale concorrente possiede il 15% di Naval Groups, è evidente che come conseguenza della leadership francese sul ramo militare, i sistemi d’arma e di comando e controllo di Thales saranno privilegiati sulle nuove navi, rispetto a quelli di Leonardo. Considerato che quasi il 50% del valore economico di una nave militare è rappresentato dai suoi equipaggiamenti, il danno in termini di Pil e di occupazione per l’Italia è evidente. Ancora peggiore potrebbe essere lo scenario se il Governo avesse offerto anche Finmeccanica nel pacco dono ai francesi. In questo caso anche Leonardo verrebbe ridotta progressivamente al ruolo di sub-fornitrice dell’Industria francese.

Il Governo italiano riducendo sempre più il bilancio della Difesa ha demolito non solo le potenzialità operative delle Forze Armate, ma con loro ha impoverito la capacità d’innovazione e più in generale la forza dell’industria ad alta tecnologia della Difesa, rendendola sempre più vulnerabile e meno competitiva sui mercati esteri. Esattamente l’opposto di quello che ha fatto la Francia, che ora si appresta ad assorbire anche le nostre ultime capacità autonome nel settore della Difesa.

È inoltre opportuno chiarire che nonostante i proclami per la creazione di un nuovo Airbus Navale, in grado di accelerare l’integrazione della Difesa Europea, Macron non metterà a sistema Europa tutti i suoi cantieri, ma solo quelli in difficoltà di Saint Nazaire, tenendo per la Francia i cantieri navali a più alto contenuto tecnologico, ovvero quelli in grado di costruire le unità militari più sofisticate fra cui i sottomarini, esattamente come già accaduto con l’Airbus Aeronautico. Anche in il quel caso la Francia tenne separati da Airbus, in mani esclusivamente francesi, gli stabilimenti della Dassault, da cui provengono gli ottimi caccia multiruolo Rafale (foto), con cui la Francia ha fatto, spesso con successo, concorrenza al consorzio europeo Eurofighter.

Una volta di più la Francia accorperà sotto la sua leadership un fastidioso concorrente europeo, mantenendo tuttavia nelle sue mani i gioielli di famiglia. Quindi Europa si, ma a guida francese.

Per il settore mercantile, la mancanza della maggioranza della proprietà non consentirà a Fincantieri, probabilmente con suo grande sollievo, di adottare piani industriali aggressivi per rilanciare Saint Nazaire, potendo scaricare sul suo maggior azionista (lo Stato Italiano) i debiti del cantiere francese, che devono essere davvero poderosi, considerato il prezzo irrisorio di 80 milioni di euro a cui sono stati acquistati. Un prezzo fantastico per un affare convenientissimo. Strano che all’asta si sia presentata, unica fra tutti i grandi gruppi cantieristici del mondo, fra cui il colosso tedesco ThyssenKrupp, solo Fincantieri. Possibile che Bono sia stato l’unico a fiutare l’affare?

Ai meno ingenui tutta l’operazione appariva sin dall’inizio come il salvataggio di Saint Nazaire e non un’acquisizione per eliminare un pericoloso concorrente nel segmento delle grandi navi passeggeri, come veniva raccontato al pubblico italiano. Sarebbe stato assai più vantaggioso per Fincantieri lasciare che i cantieri di Saint Nazaire fallissero, senza accollare alla nostra finanza pubblica anche questo fardello. Anche la giustificazione addotta in merito alla mancanza di spazi per costruire navi passeggeri da 200.000 tonnellate non ha senso, visto che Fincantieri possiede a Palermo (foto) un bacino in muratura in grado di contenere navi di grandissimo tonnellaggio (300.000 tons.) molto superiore a quello richiesto per le nuove pur grandi navi passeggeri. Sarebbe bastato investire risorse nel cantiere siciliano invece che all’estero, per disporre di uno stabilimento in grado di reggere la concorrenza sulle navi passeggeri di grande taglia , sempre più richieste dagli armatori internazionali.

Del resto anche la proposta fatta dal ministro dell’economia francese La Maire di dare vita a un Airbus nel settore navale, per vincere le resistenze del governo italiano, è farina del sacco di Bono (facile la verifica sul web), sinora non decollata per le conseguenze negative sull’insieme delle aziende della Difesa italiana. Perché allora è la Francia a proporla e non il nostro Governo, se l’idea era dell’amministratore delegato del gruppo italiano? Un fatto è sicuro, dopo che La Maire ha garantito che l’amministratore delegato e il presidente del nuovo gruppo Franco Italiano nel settore passeggeri sarebbero stati espressione di Fincantieri, anche senza la maggioranza della proprietà, l’atteggiamento di Fincantieri è tornato estremamente collaborativo. Dopo tale annuncio si sono ritrovati Francia e Fincantieri alleati a spingere per far accettare la proposta francese e dall’altra, il Ministro Calenda e Padoan che cercavano di resistere per ottenere maggiori tutele per l’interesse italiano. Ma Fincantieri non era di proprietà di Cassa Depositi e Prestiti, cioè dello Stato Italiano?

Che le conseguenze dell’accordo possano essere nefaste per l’interesse dei cittadini italiani, qualora dovesse essere configurato come anticipato da noi (nella speranza di aver sbagliato), lo dimostrano i precedenti delle fusioni industriali con i francesi, nello spazio e nella missilistica. La Selenia Spazio ad esempio era un’eccellenza mondiale nella costruzione dei satelliti. Da quando è entrata in gioco Thales come sua partner di maggioranza, l’azienda italiana è scomparsa dai radar.

Alla fine dei conti, per la politica italiana la scelta sarà combattere il blocco Francia/Fincantieri o piegarsi, evitando il conflitto con avversari potenti, cercando di salvare la faccia con il racconto dell’Airbus Navale. Si tratta in fondo di arrivare all’elezioni d’Aprile. Si potrà comunque raccontare la favola della vittoria Italiana, perché avremmo ottenuto dai francesi (anche se su proposta francese, ma questa è una sottigliezza) di dare vita al polo industriale europeo per la difesa comune. Diremo anche che non conta chi comanda, ma è lo spirito europeo che miriamo a rafforzare. E poi meglio avere Fincantieri come amica in tempi di elezioni che come nemica. D’altra parte i danni li subiranno gli italiani, ma non subito, fra qualche tempo, a elezioni passate. Un altro settore produttivo strategico sembra quindi destinato a cadere in mani straniere, nell’indifferenza complice dell’opposizione e dei Sindacati.

Se dovesse finire così, Macron avrebbe vinto alla grande. Sarebbe riuscito a non dare agli italiani la proprietà di Saint Nazaire e a prendere il controllo tramite Naval Groups del comparto industriale italiano dedicato alla costruzione di navi militari. Se ciò non fosse già abbastanza, tramite Thales potrebbe assorbire in un abbraccio mortale anche le aziende di Leonardo. In sintesi tutto il settore dell’industria della difesa italiana passerebbe sotto leadership francese. Macron avrebbe fatto il suo dovere nei confronti del popolo che l’ha eletto, quello di difendere gli interessi nazionali francesi. Ma anche noi italiani abbiamo un vincitore: il Dott. Giuseppe Bono. Invece di andare in pensione, dopo 12 anni di regno su Fincantieri, a cui era approdato dopo un periodo a Finmeccanica e prima ancora in Efim, a 73 anni conquisterà un’altra prestigiosa poltrona che gli consentirà di rimanere in sella, con tutti gli annessi e connessi del caso, almeno sino a 77 anni. Vassallo del Re di Francia e non più monarca assoluto di Fincantieri, è vero, ma a 73 anni, quando la maggioranza dei coetanei è in pensione da tempo, si può senz’altro accontentare.

E all’interesse nazionale? Ci penserà qualcun altro.

Oppure no.

(foto: Présidence de la République française / Fincantieri / U.S. Air Force)

A proposito de “la fortezza assediata di Gianfranco Campa”, di Massimo Morigi

Considerazioni di Massimo Morigi sul recente podcast di Gianfranco Campa http://italiaeilmondo.com/2017/09/02/11-podcast_la-fortezza-assediata-di-gianfranco-campa/

«lo spazio esteriore – svuotato – della sovranità territoriale rimane intatto, mentre il contenuto reale di questa sovranità viene modificato in quanto vincolato alla protezione del grande spazio economico della potenza esercente il controllo. Il controllo e il dominio politico si fondano qui sull’intervento, mentre lo status quo territoriale rimane garantito. […] la sovranità territoriale si trasforma in un vuoto spazio di eventi economico-sociali. Viene garantita l’integrità territoriale esteriore, con i suoi confini lineari, non già il contenuto sociale ed economico della stessa integrità, ovvero la sua sostanza. Lo spazio del potere economico determina l’ambito giuridico internazionale. » (Schmitt, 2003, pp.324-325)
La guerra dell’establishment politico americano contro Trump (repubblicani e democratici indifferentemente, grandi mezzi di comunicazione, complesso militare-industriale) descritta e analizzata con acutezza da Gianfranco Campa nei suoi podcast ed in particolare nell’ultimo “La fortezza assediata”, l’undicesimo, dove viene freddamente rappresentata quella che sembra essere la resa finale dei conti contro coloro che hanno costruito l’ascesa alla presidenza dell’erratico e manovriero (purtroppo solo pro domo sua) nuovo presidente statunitense, al di là delle peculiarità caratteriali e politiche (ripetiamo, totalmente negative) del neoeletto presidente ed al di là anche degli errori segnalati da Campa che possono (o meglio, che sicuramente hanno) commesso gli “ingegneri” della costruzione di questa singolare presidenza (Sebastian Gorka, Roger Stone, Steve Bannon), certamente abili, per non dire geniali, nell’ avere compreso il malessere profondo dell’America contro un’ establishment dirittoumanista e pro globalizzazione e del tutto insensibile verso gli interessi dei ceti medio-bassi dei lavoratori statunitensi ma anche ingenui nello scegliere un burattino, Donald Trump, che pensavano di poter dirigere a piacimento ma che alla fine si è dimostrato una sorta di maligno e stregato simulacro dotato di vita propria e a tutto disposto per protrarre ad ogni costo e con ogni compromesso non solo la sua vita politica ma, soprattutto, anche la sua incolumità personale, una cosa dimostra e ci consegna pure un insegnamento per coloro che in Italia puntano ad un rivoluzionamento concreto ed integrale del nostro paese. E quello che la vicenda Trump dimostra è che il vero arcanum imperii della politica internazionale emerso dopo il secondo conflitto mondiale è che le potenze vincitrici mentre si ergono più o meno custodi dell’integrità territoriale degli stati sono al medesimo tempo le più occhiute sorveglianti a che questi confini territoriali delimitano sì un territorio ma un territorio privato di ogni autonomia politica ed economica. Stiamo parlando, in altre termini, della morte sostanziale della sovranità statale, o, meglio, della morte della sovranità di quegli stati che hanno perso la seconda guerra mondiale o, pur avendola vinta militarmente, l’hanno persa politicamente. Per rimanere alla vicenda Trump, accanto al fatto che questa nuova amministrazione intende de facto proseguire nella strategia del caos di obamiana memoria, semmai con qualche retorica correzione anti ideologia dei diritti umani e di esportazione della democrazia, è ancora più chiaro che strategia del caos o no oppure, in via ipotetica, la faticosa ricerca di una sua sostituzione attraverso strategie alternative (faticosa ed in via ipotetica perché i revirement trumpiani tarpano le ali a qualsiasi alternativa all’impostazione caotica e dirittoumanistica obamiana ), è ancor più chiaro che quello che in alcun modo non potrà essere cambiato è la politica statunitense volta a mantenere del tutto vuota ed insignificante la sovranità statale degli stati appartenenti alla sua sfera d’influenza. E non solo di questi ma anche di quelli che mai appartenuti al perimetro dell’alleanza occidentale, si ostinano a volere mantenere ben salda ed efficace la propria sovranità. Come dimostra la vicenda nord coreana in cui, al di là del giudizio che si possa dare di quel regime politico, la volontà di voler costruire una propria “force de frappe” nucleare altro non segnala che la sua volontà di tener cara e ben vitale la propria sovranità statale. Trump parla della Corea del nord come di uno stato terrorista: in realtà il suo rapporto col terrore è da invertire perché se questo stato terrorizza è per il semplice motivo che rifiuta di farsi terrorizzare e conseguentemente, e su questo possiamo anche convenire con l’establishment politico-militare statunitense, colui che rifiuta pervicacemente di farsi terrorizzare può suscitare profonde inquietudini ed apprensioni. L’insegnamento che consegna per l’Italia la vicenda Trump. Si tratta di un insegnamento molto semplice che deve partire dalla comprensione ed accettazione del dato di fatto da parte dell’opinione pubblica e da parte di quelle forze politiche che dall’attuale establishment vengono definite antisistema e populiste (qualità per noi positive ma che, purtroppo, allo stato attuale sono tutte da dimostrare: un ribaltone alla Trump da parte di queste forze una volta che abbiano eventualmente assunto il potere è quasi, allo stato attuale dell’arte, una matematica certezza) che un cambiamento reale della nostra vita politica ed economica non può che venire dal consapevole sovvertimento dell’annullamento della nostra sovranità consegnataci dall’esito disastroso del secondo conflitto mondiale ma protratto per più di settant’anni non da ineluttabili leggi storiche ma dalla consapevole e costante azione politica internazionale degli Stati uniti (e per rovesciare non questa “legge di natura” dell’annullamento della sovranità statale italiana ma, invece, il preciso risultato della precisa e conseguente volontà politica della potenza egemone, valgono i percorsi che già su “L’Italia e il Mondo” si sono indicati: processo di progressiva neutralità dell’Italia – con, mi permetto di aggiungere, un occhio a quanto sta facendo la Corea del nord: per dirla tutta, un’Italia neutrale non può non dotarsi di un suo arsenale nucleare – , completo cambiamento della prospettiva politico-culturale, un vero e proprio riorientamento gestaltico della mentalità comune e politica dove vengano spodestati i fantomatici diritti umani e le retoriche democraticistiche per sostituirli con una decisa e spietata difesa e rafforzamento della cultura italiana, intesa questa come l’inestricabile e dialettico portato storico di tutti quegli elementi politici, culturali, economici, religiosi e linguistici che hanno formato l’identità italiana (e qui mi fermo perché, come già detto, è urgente iniziare il dibattito e vi debbono essere anche altri contributi, l’importante è la consapevolezza della direzione da assumere). Insomma, se sapremo contribuire alla formazione di una pubblica consapevolezza politica lungo l’interpretazione espressa dalle parole di Carl Schmitt poste ad incipit di queste brevi considerazioni sarà molto difficile, per non dire impossibile, che si ripetano sul suolo italico le deludenti vicende che stanno oggi accadendo negli USA. Se invece si permetterà alle c.d. forze antisistema di continuare a praticare la loro interessata somaraggine politico-culturale (tanto per fare un esempio: se permetteremo che queste c.d. forze antisistema continuino a blaterare il loro loffio slogan “aiutiamo gli immigrati a casa loro” anziché, come in osservanza ad un elementare buon senso di realismo politico deve essere pubblicamente affermato, comincino ad impegnarsi con un ben più sostanzioso e vincolante: «pur mantenendo intatte e rispettando rigorosamente le disposizioni e consuetudini di civiltà e del diritto internazionale che impongono di soccorrere in terra ed in mare chi si trova in pericolo di vita, noi permettiamo di circolare e lavorare sul nostro territorio solo a chi economicamente e culturalmente – cioè chi è funzionale alla nostra Kultur, come avrebbe detto l’infamata geopolitica tedesca del secolo scorso ma infamata perché gli sconfitti non potessero più praticarla contro i vincitori della guerra – fa i nostri interessi e dei rimanenti che non soddisfano questi requisiti, per dirla in tutta franchezza, nun ce ne pò fregà de meno» … ), il cambiamento sarà solo quello del personale che governerà il paese. E tutto rimarrà come prima, come puntualmente è accaduto negli Stati uniti con la nuova – ma vecchissima nella sostanza – presidenza di Donald Trump. Massimo Morigi – 3 settembre 2017

LA DEMOCRAZIA VALE SE SI VOTA GIUSTO; Intervista ad un veterano della Repubblica Popolare di Donetsk, a cura di Max Bonelli

Questa volta ci troviamo in Donbass (Ucraina), grazie al prezioso contributo di Max Bonelli. Il Donbass è uno dei tanti focolai di guerra pronti a riesplodere in funzione delle strategie conflittuali ai danni della Russia. Ha la peculiarità di essere a poche centinaia di chilometri da Mosca. L’occasione del conflitto scatta con il colpo di mano in Ucraina di quattro anni fa con il quale si è voluto spostare quel paese da una condizione di neutralità e di forte legame con la Russia ad una di vera e propria sudditanza occidentale e nel contempo si è proceduto ad una politica di forte discriminazione della popolazione russa e russofona, ancora più accentuata e violenta di quella dei paesi baltici. Sull’Ucraina si sono concentrate, oltre a quelle strategiche e più prosaiche americane, anche le ambizioni egemoniche dei paesi europei centrali e nordorientali sino a creare un guazzabuglio dal quale è scaturito un regime fantoccio nemmeno in grado di attingere dal proprio paese i componenti del governo. Su tutto ha brillato l’Unione Europea, pronta ad accettare nel proprio seno, un paese in piena guerra civile contrariamente alla prassi ultradecennale. La massima aspirazione possibile, al momento, risulta un congelamento delle posizioni acquisite_ Germinario Giuseppe

Intervista ad un veterano della Repubblica Popolare di Donetsk.

 

Mi trovo al museo della Grande Guerra Patriottica di Donetsk, appena di fianco all’enorme stadio dello Shakhtar Donetsk, che doveva ospitare i successi della squadra del miliardario Rinat Akhmetov. L’uomo che più di tutti in Donbass aveva saputo sfruttare la rottamazione dell’URSS e che in venti anni aveva costruito un impero finanziario con capitale Donetsk. Accanto a questo simbolo oggi nazionalizzato dalla Repubblica, lavora Vladimir Vladimirovic Savelov veterano dell’Afganistan e dell’ultima guerra in Est ucraina. Un età indefinita tra i 50 ed i 60 bruno dal volto affilato, la tradizionale maglietta a righe dei fanti di marina, si intona con un busto sorprendentemente atletico per la sua età.

Un uomo simbolo che aveva  perduto una patria, ideali in quella rottamazione ma che nella ribellione del 2014 ha ridato corpo ad una speranza di un ritorno alla Russia ed ad una società più giusta.

 

D: Prima della guerra in Donbass, che attività lavorativa svolgevi?

 

R:Ho iniziato a servire il mio paese in Afganistan, ho ancora in ricordo parecchie schegge in entrambe le gambe, ero giovane al ritorno ho fatto tanti lavori. Minatore, metalmeccanico, prima della fine dell’Urss ero responsabile dell’educazione ideologica dei giovani di un grande quartiere Kievski di Donetsk. Poi dopo la caduta dell’Unione Sovietica è caduto tutto un mondo ed anche qui a Donetsk i dollari hanno comprato l’anima della gente.

 

D:Quindi la sua collocazione politica era ben chiara prima della guerra?

 

R: Si certo, ero membro del partito.

 

D: L’unione delle repubbliche sovietiche è caduta con uno strano voto democratico, possiamo dire che la prima votazione veramente democratica in Unione sovietica (il referendum del 1991), vede la volontà popolare della maggioranza dei cittadini esprimersi a favore dell’unione ed invece i vertici politici (Eltsin, Kravciuk) decidono di non rispettare questa volontà popolare e lo stato si divide in tante repubbliche, il Donbass a maggioranza russa finisce sotto l’Ucraina. Come ha vissuto personalmente questi 20 anni di indipendenza ucraina?

 

R:

Vorrei fare una premessa partendo dalla fine della guerra patriottica. L’Urss con tutti i paesi con cui collaborava od aveva alleanze non si comportava come un alleato che depredava le nazioni ma anzi le aiutava in maniera tangibile. Faccio l’esempio di Cuba e del Vietnam che hanno avuto più volte i loro debiti condonati. A differenza degli Usa che  ha saccheggiato con le sue multinazionali ed i governi fantoccio l’Africa ed il Medio Oriente. Questa e’ stata una delle concause della cattiva situazione economica dell’URSS negli anni anni 80. Inoltre sono stati sempre fomentati e foraggiati i nazionalismi all’interno dell’Urss dai servizi segreti occidentali per mettere in atto un processo di disgregazione.

Nonostante questo  votammo a favore per tenere l’URSS unita oltre il 60% complessivo della popolazione, ma i dirigenti politici se ne fregarono ed preferirono seguire i desideri delle minoranze nazionalistiche dividendo la Russia dalla Ucraina. Riscontrammo con i fatti che proprio le persone che sventolavano la bandiera della democrazia erano i primi ad ignorarla quando non gli faceva comodo.

Una manovra che ebbe sicuramente come regia la CIA e l’ambasciata americana. Io come  tutto l’Est ucraina da Karkov ad Odessa che aveva votato per rimanere uniti mi ritrovai in uno stato non mio sotto una bandiera che non mi apparteneva.

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D: Trovo molto interessante questa tua riflessione. Nello specifico il Donbass vede la sua volontà democratica violentata non solo in quella occasione, ma anche con il golpe a Maidan. Yanukovych era stato eletto nel 2012 con la stragrande maggioranza dei voti della Crimea e del Donbass. Cosi come non venne rispettato il voto  dei Crimeani per annettersi alla Russia e quello interno dell’11 maggio 2014 a Donetsk e Lugansk con lo stesso proposito.

Concorda con questa mia analisi?

 

R: Certo la volontà del popolo di Donetsk è stata calpestata sistematicamente, con il golpe di maidan dove un legittimo governo è stato rovesciato e l’11 maggio 2014 quando  volevamo rispondere con un atto democratico al golpe pagato dagli americani.  Ma la SBU i servizi speciali ucraini fecero male i loro calcoli quando attuarono il massacro del 2 maggio 2014 ad  Odessa e quello del 9 maggio a Mariupoli dove nel giorno della vittoria spararono alla gente che manifestava pacificamente. Cinquanta morti ad Odessa e venti a Mariupoli. La faccia della democrazia americana venne allo scoperto per tutti e l’11 maggio l’80% voto per l’annessione alla Russia.

Eravamo gente che non aveva votato giusto, da reprimere con la violenza più brutale esattamente come facevano i nazisti tedeschi. Per questo in questo museo abbiamo aperto una sezione dedicata agli eroi morti nella guerra in Donbass Givi, Motorola e tanti altra gente nata qui, russi da tutte le Russie ma anche ucraini che non si riconoscevano nel nazismo di Kiev. In tanti sono morti in questa ribellione. Non potevamo fare altro che ribellarci al sistematico sopruso della nostra volontà.

 

D:Parliamo dell’inizio della guerra civile, possiamo dire che è partita da Slaviansk?

 

R: No,tutto è partito dalla strage di Odessa e Mariupoli, intendo la mobilitazione generale. Io penso che questi processi storici avvengono come una reazione a catena. Il golpe a maidan è stato preparato con un lavoro di anni, sia  e livello di addestramento che sul piano della propaganda antirussa. Poi i servizi Nato-ucraini preparano le stragi Odessa e Mariupoli, stragi che soprattutto ad Odessa possono essere sfuggite di mano anche a loro e che si sono presentate in una brutalità imbarazzante.

Tutto ciò ha portato ad una reazione ancora più forte e da li la guerra civile.

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D: Nel mio libro Antimaidan riporto un video apparso su You

Tube dove cittadini di Donetsk che vivevano al confine con l’aeroporto vedevano arrivare un centinaio di soldati con uniformi ed equipaggiamento non ucraino. Parliamo di marzo, aprile 2014

Cosa ricordi dei combattimenti a cui hai partecipato nel 2014?

Hai avuto la sensazione che l’aeroporto a Donetsk fosse

tenuto da militari non ucraini, intendo uomini di paesi Nato nella primavera di quell’anno?

 

R: Ho partecipato al primo attacco all’aeroporto il 26 maggio eravamo divisi in tre gruppi. Due coprivano dai grandi magazzini Metro e dall’edificio Volvo ed il terzo penetrò nel nuovo terminale. Li e sul perimetro trovammo una resistenza ben organizzata, erano professionisti non sembravano ucraini, certo la sicurezza al 100% non la ho.

Erano ben vestiti ed addestrati, interagivano bene con gli elicotteri di attacco che fecero il grosso delle nostre vittime.

Noi invece eravamo armati di AK con tre  caricatori a testa una autonomia di cinque minuti di fuoco, qualche mitragliatrice e qualche RPG7. Nulla avevamo contro gli elicotteri, abbiamo avuto molti morti al nuovo terminale, una settantina almeno. Mi ricordo che arrivò un cittadino, un camionista, che aveva sentito dei combattimenti con tanti morti e feriti e venne in pantofole con il suo camion ad evacuare i feriti ed i corpi dei morti, sotto il fuoco degli elicotteri. Noi che coprivamo provammo ad attirare il fuoco degli avversari su di noi. Ma alla fine anche dopo l’evacuazione del nuovo terminale la situazione era difficile anche per i gruppi di copertura. Arrivò un anziano, forse accompagnato con la macchina non so, gli mancava una parte di gamba era un veterano della Guerra Patriottica. Ci disse “andate, vi copro io con la mitragliatrice”, non ci fu verso di levargli la mitragliatrice e noi andammo. Fu trovato il giorno dopo morto accanto alla mitragliatrice. Ecco questo ho visto dei combattimenti a maggio. Eravamo quasi tutti di Donetsk, qualche volontario russo ma non erano professionisti, gente normale.

 

Il momento è umanamente pesante, cade il silenzio, mi viene in mente che alla prima tregua quella fatta per le feste natalizie del dicembre 2014, si affrettarono gli ucraini ad avvicendare gli uomini. Ufficialmente il motivo era che non avevano equipaggiamento adatto all’inverno ma tanti osservatori ritenevano che l’avvicendamento riguardava mercenari stranieri sostituiti da reparti scelti ucraini, quelli che persero l’aeroporto nel febbraio del 2015. Chiudo l’intervista con una domanda più leggera.

 

D: Come vedi da cittadino della Repubblica, lo sviluppo economico dell’ultimo anno? La gente ritorna , si riaprono attività produttive, le strade vengono riparate, qual’è la tua opinione?

 

R: Tutto sta andando per il meglio, Zakarchenko il nostro presidente, lavora bene, incomincia la gente a tornare. A fine 2014 questa era una città fantasma abitata da 200.000 persone ma adesso stanno tornando, si parla di 600.000 che risiedono stabilmente, si arriva a 900.000 compresi quelli che  fanno lavori negli altri paesi. I cannoni sparano raramente e la gente  torna alle proprie attività, non possiamo condannare la paura della gente. In guerra tutti hanno paura, non credere a chi dice il contrario.

 

Saluto Vladimir con una stretta di mano ed il dono del mio libro Antimaidan al museo con una piccola dedica. Capisce che il libro è stato scritto per amore di verità, ed oggi in questo momento storico basta raccontare i semplici fatti per essere considerato un amico della Repubblica Popolare di Donetsk.

 

 

Max Bonelli

 

RAPPORTO CONFIDENZIALE, di Gianfranco Campa

Gianfranco Campa, dalla sua postazione particolare, ci introduce amabilmente ormai da alcuni anni tra i retroscena e nei meandri della politica americana attraverso affreschi ( http://italiaeilmondo.com/2016/11/03/crepe-nellimpero-di-gianfranco-campa-gia-pubblicato-il-19-marzo-2012-sul-sito-www-conflittiestrategie-it/ ) e rapidi flash ( http://italiaeilmondo.com/2016/11/03/la-rivolta-degli-sceriffi-di-gianfranco-campa-gia-pubblicato-su-www-conflittiestrategie-it-il-18-giugno-2016/ ). Adesso tocca ad uno dei dinosauri di quello scenario, pur pesantemente acciaccato ormai, ad essere oggetto di attenzioni: Hillary Clinton. Se la rappresentazione offerta dalla CNN dovesse essere corretta, c’è da rimanere esterrefatti. Possibile che un politico di quel livello, dal curriculum così impressionante, sia capace di una analisi ed una interpretazione così rozza e squinternata dell’esito delle recenti elezioni presidenziali? Ad un politico ancora in attività, seppure sulla via del tramonto, non è possibile pretendere un giudizio obbiettivo, indipendente dalle conseguenze politiche. Colpisce, però, la rozza strumentalità delle accuse e l’incapacità di cogliere la novità e l’efficacia della conduzione della campagna elettorale del suo acerrimo avversario; il mix di raccolta di dati, gestione, intervento mirato sul territorio, uso combinato di tecniche tradizionali e innovative. Un errore imperdonabile , per una professionista della politica. Ci sarebbe da prendere atto di un fallimento quasi esistenziale di questa classe dirigente formatasi negli anni ’90 e successivi in un agone senza veri competitori e avversari politici, se avversari possono chiamarsi i vari Boris Eltsin, Scalfaro, Letta, D’Alema, Ciampi, Merkel, Sarkozy. Una classe dirigente abituata evidentemente a vincere facile e poco avvezza allo scontro duro con competitori reali. Una classe dirigente che ha infatti dilapidato in pochissimi anni un potenziale egemonico apparentemente superiore a quello dell’Inghilterra del secolo XIX. Lascio al più autorevole Campa il compito di discettare in futuro della condizione del suo paese. Preme sottolineare, piuttosto, la conferma della condizione peregrina della nostra classe dirigente, in particolare della cosiddetta sinistra. Abbiamo visto, in questi anni recenti, dirigenti qualificati, come Massimo d’Alema, gonfiare talmente di compiacimento il proprio gracile corpo da insufflare persino le proprie gote al cospetto e nelle grazie ostentate di Hillary Clinton; abbiamo visto i suoi numerosi epigoni, in particolare di genere femminile, tra questi la Dassù, la Pinotti, la Mogherini, accorrere affannosamente e senza ritegno, al momento dell’assegnazione del loro incarico istituzionale, nemmeno dai diretti referenti istituzionali americani, ma attraverso i sensali, capaci di aprire loro almeno le porte di servizio ( http://italiaeilmondo.com/category/dossier/autori-dossier/giuseppe-germinario/.  ) Una progenie politica che, evidentemente, ha evitato di analizzare seriamente gli errori e i meriti del proprio passato;  ha semplicemente rimosso gli antefatti e, con questo, pronto a assorbire dai più potenti il peggio, trascinando il paese lentamente nella attuale disastrosa condizione, pur di sopravvivere a se stessi. Sembrano ormai destinati a soccombere; ma non è detto che il paese, pur liberatosi dal fardello, riesca ugualmente ad emergere. Germinario Giuseppe

Il libro di Hillary Clinton sulla campagna presidenziale dell’anno scorso, uscirà nelle librerie degli Stati Uniti il 12 Settembre, ma già si conoscono importanti passaggi dei suoi contenuti del testo  dal titolo “What Happened” (Cosa e` Successo). Potrei spiegare tranquillamente io alla Signora Clinton cose è successo; ma la Clinton nel libro si ostina ad elaborare una serie di teorie che hanno contribuito secondo lei alla sconfitta della sua campagna elettorale e di conseguenza alla vittoria del presidente Donald Trump.

Il libro è stato acquistato in Florida dalla CNN una settimana prima del previsto lancio. Grazie alla sua tempestività si possono apprezzare alcuni passaggi dell’opera.

Puoi biasimare i dati, incolpare il messaggio, incolpare tutto quello che vuoi – ma io ero il candidato” scrive.Era la mia campagna, quelle sono le mie decisioni“. La Clinton ammette di aver anche sottovalutato Trump.

Penso che sia giusto dire che non ho capito quanto velocemente il terreno si stava spostando sotto i nostri piedi“, scrive. “Stavo correndo una tradizionale campagna presidenziale con politiche accuratamente pensate e coalizioni costruite minuziosamente, mentre Trump stava gestendo un reality show televisivo che ha saputo coltivare in modo irresistibile facendo leva sulla rabbia degli americani“.

Poi la Clinton punta il dito contro il direttore dell’FBI James Comey quando ha riaperto l’inchiesta sullo scandalo delle emails classificate.”La lettera di Comey ha sconvolto la campagna presidenziale” scrive Clinton.

Nel libro, Clinton parla anche del suo matrimonio con l’ex presidente Bill Clinton e osserva che  “Ci sono stati momenti in cui ero profondamente incerta se il nostro matrimonio doveva continuare o meno, ma in quei giorni mi sono fatta le domande importanti: lo amo ancora? Posso rimanere in questo matrimonio senza diventare irriconoscibile a me stessa- contorta dalla rabbia, dal risentimento o dalla solitudine? Le risposte erano sempre affermative”.

Ha anche affrontato l’intromissione della Russia nelle elezioni del 2016 e si chiede se una risposta più forte da parte del presidente Barack Obama avrebbe aiutato. Su Vladimir Putin, Clinton sostiene di aver meditato una vendetta; “non avrei mai immaginato che Putin avesse l’audacia di lanciare un massiccio attacco contro la nostra democrazia, proprio sotto i nostri nasi – e di averla fatta anche franca”. Personalmente su questo passaggio non saprei se ridere o piangere talmente ridicola risalta la affermazione di Clinton. HC si rammarica per non avere potuto fargliela pagare, a Putin. “Non aspettavo altro che mostrare a Putin come i suoi sforzi per influenzare le nostre elezione, installando un amichevole burattino (Trump), erano falliti”, scrive. “So che Putin gode di tutto quello che è successo, ma ride bene chi ride ultimo…“.

Inoltre Clinton afferma che “Ci sono  molte persone che speravano che anche io scomparissi, ma sono ancora qui.”

Apparentemente la Clinton nel libro attribuisce anche molte colpe della perdita delle elezioni anche  a Bernie Sanders, Joe Biden, Barack Obama e altri.

L’uscita del libro di Clinton avviene nel momento in cui il libro della sua guida spirituale, il pastore Metodista; Bill Shillady è stato ritirato dagli scaffali delle Librerie con l’accusa di Plagio. Il libro intitolato: “The Daily Devotions of Hillary Rodham Clinton” (Le devozioni quotidiane di Hillary Rodham Clinton),  è una raccolta delle e-mails che lui e altri ministri hanno inviato all’ex Segretario di Stato ogni quotidianamente durante la campagna presidenziale del 2016. Ogni e-mails devotamente composta ogni mattina alle 4 in punto, conteneva un brano della Scrittura, un breve sermone e una preghiera per lei da recitare quel giorno.

Alla fine sulla domanda della Clinton; Cosa e Successo? La risposta è più semplice di quello che sembra: E` successo che Trump ha vinto e la Clinton ha perso. Quello che invece continuiamo a non sapere e che fine hanno fatto le 33.000 emails che la signora Clinton ha eliminato dal suo server…Quello si richiede una risposta che ancora non è arrivata e forse mai arriverà…

Penso che ogni analisi sia superflua. Ogni volta che sento la Clinton parlare, scrivere o semplicemente respirare, mi rendo conto che con tutte le sue debolezze, le sue incertezze, la sua approssimazione, Trump a suo modo e` stata una salvezza.

LETTERA DAL PROFESSORE, a cura di Giuseppe Germinario

Pubblichiamo, autorizzati, la lettera di un professore italo-americano, insegnante di liceo a San Francisco. Dal testo si comprende come il dibattito ormai del tutto distorto sull’antifascismo, sui diritti umani, sul politicamente corretto non sia una prerogativa italiana. Si può affermare con certezza, al contrario, che le campagne orchestrate dai grandi organi di informazione siano solo un aspetto di una pratica certosina pluridecennale che ha messo le prime radici negli Stati Uniti sino alle sue ultime degenerazioni moralistiche ed inquisitorie pervasive dei diversi ambiti della società, a cominciare dal settore dell’istruzione, denunciate dalla lettera. In Italia, quello che ci appare una novità, a cominciare dall’impegno messianico e ottuso della nostra Presidente della Camera, Laura Boldrini, non è altro che il rimasuglio ripetitivo, nemmeno troppo convinto, di una violenta battaglia politica il cui epicentro è localizzato di là dell’Atlantico

«Fino a pochi giorni fa i neo-nazisti in America erano quattro gatti,
psicopatici, buoni al massimo ad essere messi alla berlina dai Blues
Brothers. Qualche settimana fa, sono andati a Charlottesville in cerca
di attenzione. La Cnn si è occupata di loro con una diretta non stop. La
presenza delle telecamere ha galvanizzato la protesta e la
contro-protesta, così ora i nazisti, da quella caccola che erano, si
sentono importanti. La diretta televisiva a Charlottesville ha aperto
una lattina piena di vermi e ora non c’è più modo di rimettere i vermi
nella lattina.

Tutto questo è il risultato di una mentalità che nasce nelle high
schools, forse anche middle schools, dove tutti i temi politicamente
corretti costituiscono una specie di dogma e dove si sviluppa la
retorica del “safe space”, lo “spazio sicuro”. Gli insegnanti sono
invitati a mettere sulla porta della loro aula un adesivo che dice
“questo spazio è sicuro”, cioè è uno spazio dove non si mette in
discussione la teoria gender, non si parla di diritto alla vita dei
nascituri, nessun comportamento sessuale è criticato. Sono incluse in
questa retorica anche tutte le teorie pseudo scientifiche su come
l’apprendimento, e perciò la conoscenza, dipenda dal soggetto e non
dall’oggetto che viene studiato. Non è un caso che l’oggettività del
metodo di conoscenza è sotto attacco.

Un altro grande dogma indimostrato che comincia dai livelli scolastici
inferiori è quello di tutta una serie di “disordini”, il più famoso dei
quali è l’Add, Attention Deficit Disorder, o il suo fratellino Adhd,
Attention Deficit and Hyperactivity Disorder. Ce ne sono molti altri e,
anche se la definizione di disordine enuncia chiaramente che non sono
patologie, vengono di fatto trattate come tali, in molti casi con
psicofarmaci. La conseguenza è che un numero sempre crescente di
ragazzini è considerato non responsabile delle proprie azioni (il ché
potrebbe essere vero nel caso di una patologia), in quanto ha un
“disordine”.

*Il cestino dei deplorevoli
*Qualunque tentativo di discutere seriamente “dogmi”, è presentato ai
ragazzini come una forma di attacco a loro stessi. Questo li educa a
considerare qualunque sfida alla versione corrente del politicamente
corretto come un’offesa inaccettabile, un attacco che provoca loro una
sorta di dolore mentale. Da qui si capisce come, arrivati
all’università, questi ragazzi considerino non solo un loro diritto, ma
quasi un dovere impedire di parlare a chiunque dica una cosa diversa dal
sistema di pensiero dello “spazio sicuro”.

Si potrebbero citare molti episodi, mi limiterò a quanto accaduto al
Middlebury College a fine febbraio. Alison Stanger, una professoressa di
sinistra, aveva invitato Charles Murray, un sociologo conservatore, a un
dibattito pubblico. Gli studenti erano così infuriati che li hanno
attaccati fisicamente e la professoressa ha subìto una contusione. La
presenza di un conservatore nel campus non li faceva sentire sicuri, in
quanto i conservatori sono tutti per definizione intolleranti. Questione
di “feeling”.

Qualunque pensatore non in linea con l’ultima versione del politicamente
corretto è automaticamente immesso in quello che Hillary Clinton ha
definito “il cestino dei deplorevoli”. Nella mente dei ragazzi educati
alla retorica dello spazio sicuro, tutti quelli che sono al di fuori di
tale spazio sono i mostri che popolano il buio dei bambini: odiano i
gay, le donne, i neri e le minoranze; sono fascisti e nazisti. Neanche
essere gay li salva, infatti Milo Yiannopoulos ha ricevuto gli stessi
trattamenti. Questo dimostra che quelli che difendono non sono i gay
reali, ma solo quelli politicamente corretti; non i neri reali, ma solo
quelli politicamente corretti. Se un afro-americano esprime un punto di
vista “conservatore” diventa subito una legittima preda degli attacchi
verbali più feroci, senza tema di razzismo.

Allora si capisce l’enorme pubblicità data al fenomeno, fino a ieri
marginale, dei neo-nazisti. Infatti consente di dire alla generazione
dello “spazio sicuro”, cioè il terreno di coltura degli elettori liberal
del presente e del futuro: “Avete visto che avevamo ragione? Tutti
quelli che non sono d’accordo con noi sono in realtà dei mostri, dei
nazisti. Non esiste complessità di temi o di posizioni, il mondo si
divide in noi e loro. Noi siamo i buoni e loro i cattivi”. I cliché di
Hollywood avevano già preparato il terreno da tempo».

 

 

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