Il Principe di machiavelli: un personaggio simbolico che ha ancora molto da insegnare, di dott. Yari Lepre Marrani

Il Principe di machiavelli: un personaggio simbolico che ha ancora molto da insegnare

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Nel XXI secolo, la realtà della politica in Italia ed Europa sembra apparentemente aver abbandonato alle proprie spalle l’importanza capitale del messaggio teorico-politico di Nicolò Machiavelli(1469 – 1527) nei suoi aspetti più “esagerati” e ferini se consideriamo il progressivo solidificarsi delle democrazie parlamentari e del controllo dei mezzi di comunicazione sulle ipocrisie, astuzie e brogli degli uomini politici. Le mutazioni storiche e sociali avvenute nei cinque secoli che separano la fulminea stesura del Principe(1513) dal mondo politico attuale impediscono di considerare pronti e praticabili i precetti più estremi di questo manuale teorico che pur rimane, nella sua brevità, incisività di scrittura e impetuosità d’intuizione, uno dei libri più grandi, geniali e importanti della storia politica universale: figlio delle esperienze politiche dirette dell’autore fiorentino ma finanche delle sue finali vicissitudini generate dalle prime, il Principe ha incarnato e puntualizzato la meditazione politica del c.d. Machiavelli assolutista, in contrapposizione al Machiavelli repubblicano dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, quest’ultima opera di più largo respiro del Segretario fiorentino, forse la più importante ma non la più famosa. La contrapposizione tra le intuizioni e massime del Principe e il mondo politico attuale sembrano ingrandirsi se osserviamo non solo la distanza tra le condizioni sociali, politiche ed economiche tra il mondo rinascimentale nel quale il manuale fu scritto e quello contemporaneo nel quale, apparentemente, i rapporti tra il potere politico e il popolo sembrano fondarsi su più ampie scelte condivise e sulla sovranità popolare; anche la divisione dei poteri di stampo illuminista sembra aver creato un ampio fossato tra la figura eroico-tragica del condottiero machiavelliano e la possibilità che un simile personaggio possa ancora autorealizzarsi negli estremi fattuali teorizzati dall’autore. Basti ricordare che nella mente del suo creatore, il Principe poteva e doveva all’occorrenza essere in grado di trasformarsi in bestia di ferocia(leone) o d’astuzia(volpe) capace di muoversi con disinvoltura e competenza nel regno del Male(cap. 18: “Lealtà del Principe”). Questi estremismi del pensiero machiavelliano non possono che apparire, oggi, parzialmente inconcepibili e inattuabili ma se osserviamo la figura del Principe da un altro lato – quello del c.d. machiavellismo più grande, superiore e profondo – è impossibile non contemplare questa stessa figura come assolutamente contemporanea e pulsante, ancor oggi, di vitalità intellettuale e politica. Non a caso, il medesimo capitolo 18 sulla “Lealtà del Principe”, dopo le massime più spietate sulla trasformazione del potente in bestia e simulatore, inserisce un concetto che travalica l’apparente efferatezza delle precedenti affermazioni quando scrive “Coloro che si limitano ad essere leoni, non conoscono l’arte di governare”.

La natura lapidaria e folgorante del trattato politico di Machiavelli è squisitamente coerente con la sua genesi e redazione: l’autore scrisse il Principe d’impeto e di getto, tra il luglio e il dicembre 1513, dopo aver cominciato e subito sospeso la redazione dei Discorsi sulla prima deca di Livio. L’aver interrotto quest’ultima per dedicarsi alla redazione della sua opera più famosa in sei mesi è un naturale corollario del significato non solo stilistico ma politico che la stesura del Principe ebbe per il suo autore, costretto all’esilio e al ritiro dalla vita pubblica dal ritorno di Lorenzo di Piero de’ Medici come Signore di Firenze nello stesso 1513. L’abbandono forzato da parte di Machiavelli dell’amatissima vita politica attiva di Firenze, l’esilio frustrante presso la sua casa detta l’Albergaccio in Sant’Andrea di Percussina presso San Casciano Val di Pesa, la speranza non ancora estinta di tornare alla vita politica a servizio dei Medici tornati al potere commista alla profonda riflessione politica giunta a piena maturazione, sono tutti elementi che “imposero” all’autore fiorentino la redazione incisiva e rapida di un’opera che raccogliesse e riassumesse tutta la sua meditazione politica. Osservare la creatura protagonista del trattato politico figlio di quelle contingenze ed estrarre dal trattato stesso la natura politicamente creativa dì quella creatura stessa può, forse, fornire materiale utile e utilizzabile per “agganciare” al nostro tempo la vitalità imperitura del protagonista simbolico del trattato. La creatura del Principe mostra tutta la sua potenza politica e storica proprio se lo consideriamo un personaggio a tutti gli effetti ma con le debite distinzioni che alla definizione di “personaggio” è necessario dare in questo caso. Il Principe machiavelliano non è un personaggio storico identificabile, non un personaggio artistico, non un personaggio religioso, biblico o mitologico né tantomeno un personaggio letterario: è un personaggio simbolico. Nel valore esclusivamente simbolico di questa creatura politica per come emerge dal trattato sta tutta la genialità creativa del Machiavelli, capace di aver creato un personaggio politico trascendentale, specchio e sintesi dell’idea madre anch’essa trascendentale del pensatore politico rinascimentale. La figura del Principe assurge così ad un originale paradigma di tutta la nuova politica di cui Machiavelli è stato alfiere e innovatore: dopo aver spezzato la teocrazia medioevale durante la quale la politica era sempre e comunque essenza di religione, Machiavelli determina il capovolgimento completo del Medioevo e apre le porte alla “sua” modernità rinascimentale ove l’uomo ha riscattato sè stesso e si è posto al centro del mondo. Il Principe è un simbolo creativo di novità e unitarietà(i due poli del messaggio politico dello scrittore fiorentino) che spacca il legame tra un passato pregno di un’umanità debole, sottomessa all’imperio morale e religioso della Chiesa, e il nuovo futuro nel quale vale il moto per cui occorre “amare la patria più che l’anima”. Questo motto di una delle ultime lettere familiari del machiavelli può essere un valido punto d’incontro tra la trascendenza ideale del 500’ e lo stato attuale della politica: “amare la patria più dell’anima”, come molti motti, frasi e ispirazioni del passato, ci riconduce ad un obbligo di attualizzazione di un pensiero politico che nella straordinarietà del suo contenuto può e deve avere validità ancor oggi poiché i tempi sembrano mutati esternamente ma, ahimè, la natura dell’uomo non è cambiata. La natura umana è stata livellata, addomesticata ai nuovi principi di liberalità e controllo della politica, sovranità popolare e conoscenza, da parte dei popoli, di molti meccanismi perversi della politica stessa ma dietro le luci di un’apparente progresso umano, l’uomo ha cambiato maschera ma non natura. E’ qui che s’innesta la figura simbolica del Principe come personaggio trascendente ogni epoca, nazione, etnia, per divenire personificazione di un’idea di virtù attiva del politico, dedizione di sé allo stato, amore combattivo per il raggiungimento di grandi progetti politici. Il precetto machiavelliano “amare la patria più dell’anima” può, nel pieno del XXI secolo, divenire quella guida attraverso la quale quell’antico motto si tramuta in “amare il progresso sociale e la propria missione politica più della propria vita”. Il potente può amare il potere per il potere ma non può permettersi di farlo se all’amore per il potere non associa fortemente, visceralmente e come missione di vita, l’amore per i benefici e le riforme epocali che attraverso il potere stesso lui saprà portare alla civiltà. Codesta virtù di stampo machiavellico che irride gli uomini contemplativi e deboli, esaltandosi solo di fronte al coraggio guerriero dei politici attivi per fini positivi e migliorativi rivolgimenti storici, è quanto di più morale e cristiano ci ha lasciato il principio dell’aderenza alla realtà fattuale dello scrittore fiorentino.

In conclusione, merita ancora oggi aprire e leggere tutto d’un fiato i 27 capitoli del Principe ma con uno sviluppo di coscienza diverso rispetto a coloro che hanno approfittato degli elementi più cruenti del pensiero machiavelliano per far prevalere il machiavellismo ripugnante, deteriore e volgare. Dedicarsi alla Stato e promuoversi per lo sviluppo concreto, “fattuale”, del sistema sociale odierno è la più perfetta modernizzazione del pensiero del Segretario fiorentino: conseguenza di questa attualizzazione del personaggio simbolico – e sottolineo simbolico – del Principe è la sua universalità che non conosce confini etnici né limitazioni di Patria o Nazione ma può continuare ad alimentarsi nell’impronta eroica del personaggio stesso. In tempi come i nostri di aspirazione a costruire una grande Europa unita e geopoliticamente ferrea, un Principe laico e repubblicano, nuovo e unitario è la più elevata esigenza che i nostri tempi, insanguinati e complessi, possono sperare di colmare.

Dott. Yari Lepre Marrani

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Il sistema elettorale negli Stati Uniti e i partiti politici, di Vladislav B. Sotirović

Il sistema elettorale negli Stati Uniti e i partiti politici

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Tipi di elezioni

Negli Stati Uniti vengono organizzate regolarmente le elezioni per il Presidente, per entrambe le camere del Congresso (la Camera dei Rappresentanti e il Senato) e per le cariche statali e locali. In pratica, nella maggior parte dei casi i candidati si candidano come membri del partito (uno dei due principali partiti politici – i Democratici o i Repubblicani) per ottenere il sostegno del partito alla loro candidatura. Tuttavia, in linea di principio, chi vuole candidarsi come indipendente può organizzare una petizione. In questo caso, se vengono raccolte abbastanza firme, la persona può candidarsi. Secondo la legge elettorale, qualsiasi cittadino americano di età superiore ai 18 anni può votare alle elezioni a condizione che sia registrato e che soddisfi i requisiti di residenza in uno Stato (uno su 50).

Elezioni dei membri del Congresso

Il Congresso (Parlamento) degli Stati Uniti è composto da due camere: la Camera dei Rappresentanti (di fatto la Camera bassa, che rappresenta il popolo) e il Senato (di fatto la Camera alta, che rappresenta gli Stati). La Camera dei Rappresentanti è composta da 435 membri. Ogni membro ha un mandato di due anni. Tuttavia, il numero esatto di ogni Stato dipende dalle dimensioni della sua popolazione. Per esempio, alcuni Stati come il Montana, avendo una popolazione molto ridotta, hanno pochi rappresentanti (il Montana ne ha solo uno), mentre altri Stati con una popolazione più numerosa hanno in proporzione più rappresentanti: per esempio, la California, con la popolazione più numerosa, ne ha 53. I confini dei distretti che i membri della Camera dei Rappresentanti rappresentano vengono modificati ogni dieci anni dopo ogni censimento o conteggio ufficiale degli abitanti. Lo scopo è quello di includere un numero uguale di elettori.

Ogni Stato elegge due senatori (in tutto 100). Ognuno di loro ha un mandato di sei anni. Tuttavia, ogni due anni, circa 1/3 del Senato viene rieletto. Le elezioni per il Senato sono organizzate contemporaneamente alle elezioni per la Camera dei Rappresentanti o per il Presidente.

In entrambi i casi di elezioni per il Congresso, i cittadini di un determinato distretto o Stato scelgono il loro rappresentante e solo il candidato con una pluralità di voti (cioè con il maggior numero di voti) viene eletto per il Congresso.

Oltre alle elezioni a livello nazionale, ogni Stato ha un proprio governo che è costituito come il governo federale e le elezioni si svolgono nello stesso modo.

Le elezioni presidenziali

Le elezioni del Presidente e del Vicepresidente si tengono ogni quattro anni secondo una procedura complessa e molto particolare, unica al mondo.

Il primo passo elettorale sono le primarie o elezioni primarie. Ciò significa che da gennaio a giugno dell’anno elettorale, i partiti politici scelgono i loro candidati attraverso una serie di elezioni in ogni Stato. In altre parole, i cittadini scelgono il partito alle cui primarie vogliono votare e votano per la loro scelta di candidati. Il secondo passo è il congresso congressuale, cioè, in estate, ogni partito politico (in realtà solo i due maggiori) tiene un congresso per fare la scelta finale dei candidati. I gruppi di delegati di ogni Stato si recano alla convention per votare la coppia di candidati che ha vinto le elezioni primarie del proprio partito. Tuttavia, di solito il partito sceglie in anticipo i candidati finali in modo informale, basandosi su chi ha avuto più successo alle primarie.

Va notato che le elezioni presidenziali si tengono sempre il martedì successivo al primo lunedì di novembre. Alcune settimane prima delle elezioni, gli elettori registrati per il voto ricevono una scheda con l’indirizzo del seggio elettorale in cui devono esprimere il proprio voto. Ogni elettore al seggio elettorale esprime un unico voto presidenziale (sia per il Presidente che per il Vicepresidente), insieme a voti separati per un membro della Camera dei Rappresentanti e (nel caso di elezioni di mantenimento) per un senatore.

La procedura successiva si svolge dopo il conteggio dei voti delle elezioni presidenziali. Il punto è che ogni Stato (50) ha un certo numero di elettori (uno per ogni distretto congressuale e senatore) che costituiscono il Collegio elettorale (come un comitato). Secondo le regole, ogni elettore esprime due voti, uno per il Presidente e uno per il Vicepresidente (formalmente non dipende dai risultati delle votazioni del popolo, ma in realtà segue la volontà popolare espressa nelle elezioni). In realtà, i membri del Collegio elettorale scelgono entrambi i candidati che hanno ricevuto il maggior numero di voti nello Stato. Infine, il candidato che ottiene il sostegno di almeno 270 elettori su 538 diventa Presidente o Vicepresidente.

Il sistema bipartitico

Negli Stati Uniti esistono due partiti politici principali: il Partito Democratico e il Partito Repubblicano. In pratica, esistono altri partiti e associazioni politiche minori, ma molto raramente vincono elezioni importanti. In sostanza, quindi, negli Stati Uniti esiste un sistema bipartitico, almeno per la ragione molto pratica che il sistema politico statunitense “winner-take-all” rende difficile l’esistenza di più di due partiti politici principali alla volta.

I Democratici come partito sono nati negli anni Venti del XIX secolo dal ramo del primo partito politico degli Stati Uniti, il Partito Federale. Il Partito Repubblicano è nato come partito antischiavista nel 1854 con membri provenienti dal Partito Democratico e dai Whig.

L’appartenenza a un partito comporta la semplice scelta di quel partito al momento dell’iscrizione al voto. Non ci sono quote o requisiti per l’adesione. In pratica, è normale che le persone cambino appartenenza o votino al di là delle linee di partito. Va notato che i capi dei partiti nazionali non ricoprono posizioni ufficiali nel governo.

Per quanto riguarda il ruolo dei partiti politici negli Stati Uniti, va detto innanzitutto che le organizzazioni di partito sono meno importanti rispetto agli Stati con parlamento. Proprio per il modo in cui è composto il governo, lo stesso partito politico non controlla necessariamente le due camere del Congresso (la Camera dei Rappresentanti e il Senato) o la presidenza allo stesso tempo. Di conseguenza, è molto difficile ritenere un partito responsabile delle azioni del governo. In sostanza, i cittadini statunitensi (coloro che hanno diritto di voto) votano per i singoli candidati per ogni carica piuttosto che per un partito di Stato (lista di candidati). In sostanza, ciò significa che la qualità personale del candidato o la sua performance di propaganda elettorale sono, nella maggior parte dei casi, più importanti dell’appartenenza al suo partito.

Per entrambi i principali partiti politici degli Stati Uniti, una delle attività più importanti è l’organizzazione della convention di partito (grande riunione). Viene organizzata ogni quattro anni, prima delle elezioni del Presidente. La convention sceglie ufficialmente il candidato presidenziale del partito (insieme al vicepresidente) e allo stesso tempo proclama la piattaforma politico-elettorale (idee e politiche) del partito.

Entrambi i partiti nazionali raccolgono fondi per le campagne elettorali e forniscono ulteriori tipi di aiuto ai loro candidati per vincere. Le sezioni locali dei partiti (con le persone comuni attive nel partito) lavorano per sostenere i candidati locali e nazionali.

Secondo le regole, nel Congresso (Camera dei Rappresentanti e Senato), il partito di maggioranza controlla le commissioni più importanti e potenti, che prendono decisioni significative sulle questioni e sulle leggi trattate dal Congresso. Per fare un paragone, i membri del Congresso degli Stati Uniti sono più indipendenti dai loro partiti rispetto ai membri del Parlamento britannico. Essi mirano ad apparire fedeli innanzitutto ai cittadini che rappresentano, ma allo stesso tempo cercano di essere il più possibile fedeli ai membri del loro partito per avere la possibilità di diventare membri di importanti commissioni e, quindi, di lottare per ottenere il sostegno alle proprie proposte. Molti cittadini statunitensi politicamente attivi non vogliono che i politici siano troppo partigiani (fortemente legati al proprio partito), ma che abbiano un atteggiamento più bipartisan (cooperativo) e che, quindi, lavorino insieme per il bene comune della nazione.

In generale, se confrontiamo la politica dei partiti statunitensi con quella di molti altri Paesi, sia i Democratici che i Repubblicani possono essere intesi, in una prospettiva più ampia, come i partiti del centro politico. Tuttavia, ciò che li differenzia l’uno dall’altro è che il Partito Democratico si colloca a sinistra, mentre il Partito Repubblicano si colloca a destra del centro. Tradizionalmente, il programma e la politica del Partito Democratico sostengono la spesa per i programmi di assistenza sociale, mentre il Partito Repubblicano è contrario a tale politica. In genere, i repubblicani sostengono la spesa per l’esercito degli Stati Uniti, ritenendo che ci debbano essere poche leggi che limitino l’attività di produzione di armi. Il Partito Repubblicano è chiamato Grand Old Party (GOP) e ha come simbolo un elefante, mentre un asino simboleggia i Democratici.

Negli ultimi decenni, i Democratici hanno raccolto sempre più consensi tra i giovani elettori, i lavoratori a basso salario, gli iscritti ai sindacati, la popolazione urbana e gli afroamericani (e altre minoranze). Tuttavia, le persone più ricche, quelle con un approccio conservatore-religioso e/o patriarcale più forte e i cittadini bianchi che risiedono nelle regioni centrali e meridionali degli Stati Uniti sostengono solitamente il Partito Repubblicano.

Dr. Vladislav B. Sotirović
Ex professore universitario
Vilnius, Lituania
Ricercatore presso il Centro per gli Studi Geostrategici
Belgrado, Serbia
www.geostrategy.rs
sotirovic1967@gmail.com
© Vladislav B. Sotirović 2024

Disclaimer personale: l’autore scrive per questa pubblicazione a titolo privato e non rappresenta nessuno o nessuna organizzazione, se non le sue opinioni personali. Nulla di quanto scritto dall’autore deve essere confuso con le opinioni editoriali o le posizioni ufficiali di altri media o istituzioni.

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Basare l’aggressione sulla ragione: la nuova dottrina di politica estera della Russia, di VJAČESLAV MOROZOV

Basare l’aggressione sulla ragione: la nuova dottrina di politica estera della Russia

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VJAČESLAV MOROZOV – “La politica estera russa ha una sua logica, un suo linguaggio. Finché non li comprendiamo, ci asteniamo dall’attuare una vera politica di contenimento”. In questa intervista introdotta da Guillaume Lancereau, Vjačeslav Morozov analizza l’aggiornamento del documento strategico di riferimento di Mosca e ci aiuta a forgiare un’arma: l’intelligenza della guerra.

Quella che segue è la prima traduzione di un’intervista a Vjačeslav Morozov sulla dottrina della politica estera russa. Già professore di Relazioni internazionali presso l’Università statale di San Pietroburgo, dal 2010 insegna relazioni UE-Russia presso l’Istituto di Scienze politiche dell’Università di Tartu in Estonia.

Questa intervista è stata pubblicata originariamente il 6 maggio 2023 sullecolonne del media in lingua russa Posle (“Dopo”), apparso sulla scia dell’aggressione russa in Ucraina . Il collettivo Posle è radicalmente critico nei confronti della guerra in corso e della sua scia di massacri e distruzioni, ma anche dell’ondata di repressione che ha colpito contemporaneamente la Russia con una violenza decuplicata . Posle dà la parola a ricercatori, giornalisti, attivisti e testimoni che, con le loro osservazioni e riflessioni, contribuiscono a fare chiarezza su questi tempi difficili e a delinearei contorni del mondo “Dopo”.

Vjačeslav Morozov si concentra su un documento finora poco studiato: la Dottrina di politica estera della Federazione RussaIn un certo senso, questo testo può essere visto come l’equivalente funzionale, negli Stati Uniti e in Francia, dei “libri bianchi” sulla difesa e sulle relazioni internazionali che sono la Quadrennial Defense Review – e la Strategia di Difesa Nazionale che ne è seguita dal 2018 – o la Strategic Review of Defence and National Security. La stessa logica, inestricabilmente analitica e pragmatica, permea tutti questi documenti, il cui scopo è definire la posizione di uno Stato rispetto all’ambiente strategico globale e regionale, inviando al contempo segnali più o meno espliciti ai propri partner o potenziali concorrenti. Nel caso della Russia, questa Dottrina è passata attraverso sei versioni successive, da quella relativamente liberale ed eurofila firmata da Boris Eltsin nel 1993 all’ultima edizione, pubblicata nel 2023, che mostra una retorica minacciosa e bellicosa, con il pretesto dell’anti-imperialismo e della risposta alle minacce esterne.

Questa Dottrina non è insensibile ai limiti o alle aporie della variante strettamente “difensiva” del discorso russo, secondo cui l’attuale “operazione militare speciale” in Ucraina è solo un gesto preventivo contro la ” guerra ibrida” scatenata dagli Stati Uniti attraverso il loro fantoccio ucraino.La Dottrina 2023 si astiene anche dalla posizione implausibile di accusare apertamente l’Ucraina di aggressione contro la Russia. Gli autori della Dottrina hanno invece optato per una strategia alternativa e più abile, che consiste nello sfruttare a vantaggio della Russia le tensioni che permeano il diritto internazionale, i principi delle Nazioni Unite e l’ordine internazionale esistente.

I leader russi si inseriscono così nellalinea di faglia che attraversa la Carta delle Nazioni Unite, divisa tra le ambizioni di cooperazione e il rispetto della sovranità degli Stati, da un lato, e la necessità di equilibrio tra le grandi potenze, dall’altro. Allo stesso modo, la Dottrina russa è libera di sostenere che la nozione di “ordine internazionale basato sulle regole”, teorizzata dagli Stati Uniti negli anni ’40, nasconde a malapena un progetto politico di regolazione delle relazioni internazionali da cui traggono i maggiori benefici pochi Paesi occidentali. La Russia sa bene di poter contare sulla Cina per sostenere questo approccio critico all’ordine internazionale liberale. Infine, Vjačeslav Morozov sottolinea che la Russia si sente tanto più in diritto di presentarsi come una potenza diplomaticamente ragionevole e aperta alle discussioni sul controllo internazionale degli armamenti, dato che gli stessi Stati Uniti si sono ritirati dal Trattato ABM del 1972, volto a limitare le armi strategiche, più di vent’anni fa.

Infine, la nuova Dottrina di politica estera incorpora una serie di elementi forgiati negli ultimi decenni dai principali ideologi del regime per sviluppare una concezione civilistica dello Stato russo – definito “Stato-civiltà” – e della sua sfera di influenza – il “mondo russo”. – e della sua sfera di influenza – il “mondo russo”. Prendendo formalmente le distanze da qualsiasi forma di nazionalismo etnico, la nuova logica imperiale russa difende invece una rappresentazione identitaria, culturale o di civiltà della vasta area che comprende l’Ucraina, la Bielorussia, l’Asia centrale e i vari popoli della Federazione Russa – che ufficialmente conta 193 nazionalità. Sulla base di questo assioma, la Dottrina russa proclama che questi diversi popoli non hanno altra scelta se non quella di entrare volontariamente nella sfera di influenza del “mondo russo” per sfuggire all’inghiottimento da parte dell’Occidente e all’inevitabile dissoluzione delle loro identità che ne deriverebbe. È dunque una battaglia di valori o una “guerra culturale” quella che si sta delineando, tra la cosiddetta ideologia “neoliberista” che l’Occidente minaccia di diffondere in tutto il mondo, scardinando a suo piacimento le culture esistenti, e il baluardo russo della civiltà, punta di diamante dei “valori tradizionali”.

Mettendo in luce queste dimensioni, l’intervista solleva una serie di domande ancora più cruciali: lo Stato russo crede nei suoi miti? I suoi miti, se di miti si tratta, sono privi di effetto? In effetti, le categorie fondamentali di comprensione del mondo proprie dell’apparato statale della Russia in guerra sostengono una vera e propria costruzione escatologica. Secondo le visioni di questa apocalisse, la Russia si erge a baluardo contro i tentativi di dominio mondiale del Dragone americano e delle altre bestie occidentali – ipocriti, ingannatori, distruttori di disastri e di morte, falsi usurai di falsi valori. È sufficiente denunciare queste visioni come artefatti retorici per disinnescarne magicamente l’efficacia? Rompendo con questo infruttuoso ottimismo, Vjačeslav Morozov sottopone le categorie in questione a un’approfondita analisi semantica e politica, rivelandone la coerenza e il possibile appeal per i critici dell’attuale ordine internazionale. Non basta quindi dichiarare l’inanità delle nozioni e dei valori che infestano il discorso strategico, giuridico e politico che le autorità russe rivolgono ai loro avversari, ai potenziali partner e alla stessa popolazione russa.

Affondando nel cuore di questa abissale impresa di giustificare la guerra, questo testo fornisce armi indispensabili. Dire che sono tempestive è ancora troppo poco. Ciò di cui abbiamo bisogno oggi è un’intelligenza della guerra – non intelligenze della guerra: visioni più nitide, visioni più chiare, finché la guerra non avrà conquistato ogni ultima intelligenza. (GL)

[Leggi anche: il nostro ultimo aggiornamento sulla situazione in Ucraina].

***

Che cos’è la Dottrina di politica estera della FederazioneRussa? Quali sono il ruolo e gli obiettivi di questo documento e a chi è destinato?

La Dottrina di politica estera della Russia è un documento destinato principalmente agli altri Paesi. Porta alla loro attenzione le coordinate fondamentali del corso della politica estera della Russia. È quindi uno strumento di comunicazione, come alcuni dei discorsi caratteristici di Vladimir Putin. Viene in mente il discorso di Monaco del 2007, che fornisce una panoramica della situazione internazionale e degli interessi della Russia, nonché alcune linee guida per l’azione del Paese nel prossimo futuro.

Tuttavia, la Dottrina aveva un’altra funzione. Una volta trasmessa alla burocrazia, forniva ai suoi dirigenti una raccolta di citazioni, piuttosto che una guida pratica all’azione. Ogni volta che si presenta una situazione che richiede di esprimere a parole la posizione della politica estera russa, qualsiasi burocrate può sfogliare questo testo e scegliere termini o espressioni adatti al caso specifico.

Ogni volta che si presenta una situazione che richiede di esprimere a parole la posizione della politica estera russa, qualsiasi burocrate può sfogliare questo testo e scegliere termini o espressioni adatti al caso specifico.

VJAČESLAV MOROZOV

Questo documento è quindi, come minimo, un elemento decisivo della stessa politica estera russa, soprattutto perché il processo decisionale è altamente centralizzato. Tutte le decisioni prese sulla scala coperta dalla Dottrina di politica estera sono prerogativa del Presidente della Federazione Russa. Poiché il Presidente può essere considerato un vero e proprio sovrano assoluto, è in suo potere determinare la direzione strategica della politica estera. La Dottrina non stabilisce questo indirizzo, ma lo esplicita.

La Dottrina di politica estera ha sempre svolto questo ruolo o è cambiata negli ultimi anni?

La prima Dottrina di politica estera fu adottata nel 1993. All’epoca, svolgeva la funzione tradizionalmente assegnata ai documenti strategici: quella di definire una rotta e una guida per i diplomatici. La Dottrina del 1993 aveva un carattere marcatamente filo-occidentale. Fortemente eurocentrica, annunciava la cooperazione della Russia con i Paesi più sviluppati, i principali Paesi dell’Occidente, e allo stesso tempo dipingeva le periferie del mondo – tutti i Paesi del Sud – come una zona di conflitto da cui potevano emergere potenziali minacce.

Non dobbiamo dimenticare quanto sia stata caotica la politica russa negli anni Novanta, che oscillava bruscamente tra un occidentalismo ingenuo e una politica di autosufficienza – fin dai tempi di Primakov. Se la prima Dottrina aveva inizialmente definito un orientamento strategico per la politica estera, questo è stato molto rapidamente invertito.

Non dobbiamo dimenticare quanto sia stata caotica la politica russa negli anni ’90, oscillando bruscamente tra un ingenuo occidentalismo e una politica di autosufficienza – fin dai tempi di Primakov.

VJAČESLAV MOROZOV

Con l’ascesa al potere di Vladimir Putin, la natura della Dottrina di politica estera è cambiata, diventando uno strumento concepito principalmente per inviare segnali all’Occidente. Il primo aggiornamento risale al 2000, ma è rimasto relativamente vicino alla versione precedente. Solo nel 2008, dopo il discorso di Vladimir Putin a Monaco, è stata pubblicata una nuova Dottrina, questa volta molto diversa nei contenuti. C’è stato un chiaro spostamento verso una politica anti-occidentale. Da quel momento in poi, la funzione stessa del testo è cambiata: da quel momento in poi, come ho detto, si trattava di inviare segnali ai Paesi occidentali sulla politica estera russa.

L’orientamento anti-occidentale rimane presente in questa Dottrina, ma soprattutto è decuplicata la dose di retorica aggressiva. Parole dure ed espressioni estremamente forti caratterizzano la concezione che la Russia ha delle sue relazioni con l’Occidente. Come ha fatto questa retorica, che veniva dai propagandisti delle televisioni, a finire in una produzione ufficiale dello Stato?

L’unica spiegazione è la guerra. Questo cambiamento di retorica può essere spiegato dal fatto che la Russia ora sostiene di essere obbligata a difendersi da attacchi imminenti contro di essa. Il testo non è diverso, affermando che è in corso un nuovo tipo di guerra ibrida, in cui gli Stati Uniti stanno usando l’Ucraina come meccanismo per la propria aggressione contro la Russia. Stiamo quindi assistendo a uno spostamento verso una retorica sempre più aggressiva, basata sui concetti di “Stato di civiltà”, “mondo russo” e “mondo multipolare”. Questa retorica riflette la posizione di uno Stato che sente di essere stato trattato ingiustamente per troppo tempo, che questa ingiustizia si è infine trasformata in aggressione e che ha bisogno di difendersi da questa aggressione.

Soprattutto, va notato che il livello di aggressività della retorica ufficiale è aumentato dal 2008. Il tono delle Dottrine 2008 e 2013 conservava ancora un certo grado di correzione. La Dottrina 2016 ha iniziato ad allontanarsi da questo, mentre la Dottrina 2023 non prende alcuna precauzione nella scelta delle parole. Esprime senza mezzi termini le presunte intenzioni aggressive dell’Occidente e la politica che la Russia deve adottare per difendersi.

L’aggressività della retorica ufficiale è aumentata dal 2008.

VJAČESLAV MOROZOV

La nuova dottrina di politica estera della FederazioneRussa afferma la necessità di agire in conformità con la Carta delle Nazioni Unite, rifiutando l’idea di un “ordine mondiale basato su regole”. Si legge: “Il meccanismo per stabilire le norme giuridiche internazionali deve essere basato sulla libera volontà degli Stati sovrani. Le Nazioni Unite devono rimanere la principale piattaforma per il progressivo sviluppo e la codificazione del diritto internazionale. Perseverare nella promozione di un ordine mondiale basato su regole rischia di portare alla distruzione del sistema giuridico internazionale e ad altre pericolose conseguenze per l’umanità”. È una contraddizione in termini?

Non c’è contraddizione, né dal punto di vista della Dottrina né da quello della retorica russa. L’idea di un “ordine mondiale basato sulle regole” è apparsa relativamente di recente nel linguaggio della politica estera russa per tradurre il concetto inglese di rule-based order. Il suo significato è esposto nel paragrafo 9 della Dottrina, che fa riferimento alle Nazioni Unite prima di affermare che “la solidità del sistema giuridico internazionale è messa alla prova: una ristretta cerchia di Stati sta cercando di sostituirlo con una concezione dell’ordine mondiale basata sulle regole (cioè l’imposizione di regole, standard e norme, il cui sviluppo non ha garantito la partecipazione paritaria di tutti gli Stati interessati) “. Questo passaggio recupera un concetto del lessico politico occidentale, in cui svolge un ruolo simile ma più sottile, affermando che l’ordine mondiale così come esiste oggi, pur essendo nel complesso favorevole all’Occidente, va comunque a vantaggio di tutti gli Stati e contribuisce alla loro prosperità.

Cosa fa il testo russo? Si basa sulla nozione di “ordine mondiale basato su regole” per denunciare la vana retorica dell’Occidente, che si affanna a imporre a tutto il mondo una visione del mondo che avvantaggia esclusivamente gli Stati Uniti e i loro satelliti. In sostanza, anche se questo termine non viene utilizzato (sebbene il testo contenga numerose critiche al neocolonialismo), si tratta di una denuncia di un sistema imperialista.

Questa concezione di un “ordine mondiale basato su regole” descrive una politica statunitense di dominio unilaterale. Tuttavia, secondo la Dottrina, gli Stati Uniti non sarebbero più in grado di mantenere questo ordine mondiale in un mondo che è diventato multipolare. Ignorando questa realtà, gli Stati Uniti continuerebbero ad aggrapparsi alla loro egemonia – “egemonia” è anche un’innovazione linguistica nella Dottrina del 2023.

Dal punto di vista del Cremlino, la formula “un ordine mondiale basato sulle regole” non è altro, per dirla in termini semplicemente marxisti, che una “falsa coscienza” che gli Stati Uniti vorrebbero imporre all’intero pianeta per ottenere l’accettazione del loro dominio. La Russia si oppone a tutto ciò e sostiene quindi di essere un difensore di un “vero ordine mondiale”, in cui tutti gli Stati sono veramente uguali, come garantito dalla Carta delle Nazioni Unite. Poiché la Russia è membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con diritto di veto, questo ordine è principalmente nel suo interesse.

La Russia sostiene quindi di difendere un “vero ordine mondiale”, in cui tutti gli Stati sono veramente uguali, come garantito dalla Carta delle Nazioni Unite.

VJAČESLAV MOROZOV

Gli statuti delle Nazioni Unite sanciscono alcuni principi normativi che non possono essere violati dagli Stati membri, in particolare il divieto di invadere il territorio di uno Stato sovrano. Questo ordine normativo e la funzione deterrente del Consiglio di Sicurezza sono stati messi in discussione dall’intervento degli Stati Uniti in Iraq. D’altra parte, la struttura dell’ONU è chiaramente basata su un principio di dominio delle “grandi potenze” e su un equilibrio dei loro interessi. Possiamo dire che la Russia ha fatto la sua scelta tra questi due modelli disponibili?

Sì, la Russia è chiaramente a favore di uno dei principi dell’ONU. Una delle caratteristiche del diritto internazionale è l’alto grado di incertezza, poiché si basa su un compromesso tra i principi di sovranità e la necessità di cooperazione internazionale – che può arrivare a limitare la sovranità nell’interesse della pace e della sicurezza internazionale. Allo stesso tempo, i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza occupano una posizione specifica, legata al loro diritto di veto. Questa regola deriva dall’idea di un “concerto delle grandi potenze”, ovvero di un ordine internazionale basato sul consenso dellegrandi potenze(great power management). Nel suo libro The Anarchical Society: A Study of Order in World Politics, Hedley Bull descrive il “Concerto delle grandi potenze” come una delle istituzioni della società internazionale, al pari del diritto internazionale, della diplomazia, della guerra e dell’equilibrio di potenza. Questo concetto risale al Congresso di Vienna del 1815 ed è stato sancito dalla Carta delle Nazioni Unite all’indomani della Seconda guerra mondiale, quando i vincitori hanno consolidato il loro dominio sugli affari mondiali.

L’idea di un “concerto di grandi potenze” si adatta perfettamente alla Russia, soprattutto perché implica che ciascuna delle potenze interessate mantenga l’ordine all’interno della propria sfera di influenza, negoziando al contempo con le altre potenze su scala globale e cercando di non invadere le proprie sfere di influenza. Poiché questo è uno stato di cose ideale per la Russia, essa non può che sostenere la Carta delle Nazioni Unite. Inoltre, l’articolo 51 della Carta garantisce agli Stati il diritto all’autodifesa. Questa nozione compare due volte nella Dottrina 2023, ma senza essere esplicitamente collegata all'”operazione militare speciale”. – Chiaramente, gli estensori del testo non hanno osato accusare apertamente l’Ucraina di aggressione contro la Russia. Tuttavia, è chiaramente questa l’idea in gioco quando la Russia afferma di essere vittima di un nuovo tipo di guerra ibrida e di essere costretta a proteggersi dall’aggressione dell’Occidente attraverso un Paese dipendente. I riferimenti all’articolo 51 devono essere intesi in questo preciso contesto.

Pochi Paesi al di fuori dell’Occidente sono disposti a declassare apertamente le loro relazioni con la Russia.

VJAČESLAV MOROZOV

La Carta delle Nazioni Unite, tuttavia, sancisce altri principi: l’uguaglianza sovrana di tutti gli Stati, il principio di non ingerenza, il divieto di atti di aggressione, ecc. Tutti ne sono consapevoli, ma pochi Stati al di fuori dell’Occidente sono disposti a declassare apertamente le loro relazioni con la Russia. Inoltre, qualsiasi progetto di riforma dell’ONU è condannato fin dall’inizio a causa degli interessi inconciliabili delle grandi potenze, ognuna delle quali cerca di assicurarsi la posizione più favorevole – il che spiega perché continuano a usare il loro diritto di veto. Detto questo, sono pochissimi gli Stati che sostengono apertamente le azioni della Russia, come dimostrano i risultati delle votazioni all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

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L’ultima versione del testo fa numerosi riferimenti a un “mondo multipolare”. Perché non era così nelle Dottrine precedenti? Inoltre, questa espressione è accompagnata da quella di “civiltà statale”. Come deve essere intesa?

Il concetto di “mondo multipolare” compare nella Dottrina 2000, ma solo come obiettivo strategico. Nel 2008 è stata utilizzata l’espressione “multipolarità emergente”. Successivamente è stata sostituita dal termine “policentrismo”, che compare in tutte le Dottrine fino al 2023.

Il contenuto di questa nozione è in continua evoluzione, ma si può dire che, secondo questo approccio, la trasformazione del pianeta in uno spazio policentrico provocherebbe l’esasperazione degli Stati Uniti e dei loro alleati. Vedendo la loro influenza indebolirsi, si aggrapperebbero ancora di più al loro potere passato, a costo di una destabilizzazione generale. Dal punto di vista della Russia, quindi, questo concetto riflette il contenuto essenziale della politica mondiale: l’Occidente si oppone alla creazione di un mondo multipolare e la Russia, insieme alla Cina e ad altri Paesi, promuove il multipolarismo per ottenere pari diritti per tutti gli Stati sulla scena internazionale.

Nel 2008 ci siamo imbattuti nell’espressione “multipolarità emergente”. In seguito è stata sostituita dal termine “policentrismo”, che si ritrova in tutte le Dottrine fino al 2023.

VJAČESLAV MOROZOV

La nozione di “Stato-civiltà” va di pari passo con quella di multipolarità. Per la Russia, lo Stato-civiltà corrisponde a una rappresentazione di se stessa come entità che riunisce popoli diversi, legati da una comune identità civile. Da un lato, il discorso civilistico della Dottrina conferma che le autorità russe contemporanee hanno poca simpatia per il nazionalismo etnico. I recenti discorsi di Vladimir Putin mostrano che sta cercando di evitare questa retorica nazionalista, sottolineando costantemente la diversità dei popoli che compongono il Paese. Quando si rivolge al popolo ucraino, mostra un certo rispetto, ma si riferisce a lui come parte integrante della stessa unità civile. In questo testo, quindi, il concetto di “mondo russo” è effettivamente utilizzato in senso civile: il mondo russo comprende tutti coloro che sono legati alla Russia, non solo coloro che sono etnicamente russi.

Non è altro che un tentativo di costruire una nuova identità su base imperiale. Questa identità presuppone una gerarchia tra i vari gruppi e culture esistenti, al cui vertice si trova la cultura russa. Tuttavia, questa identità, come tutte le identità imperiali, si dichiara aperta e pronta a incorporare altri popoli e culture se questi riconoscono la supremazia della cultura e del popolo russo, pilastri della formazione dello Stato. Questo concetto si oppone all’idea di sovranità nazionale delle “piccole nazioni”, per usare un termine politicamente scorretto. Anche se il popolo ucraino non corrisponde in alcun modo alla definizione di “piccola nazione”, è così che viene rappresentato dall’imperialismo russo. Secondo questa logica, il popolo ucraino potrebbe esistere solo formando un legame di civiltà esclusivo con il popolo russo. Se prendessero le distanze dalla Russia, gli ucraini diventerebbero un’appendice dell’Occidente – di cui nessuno ha veramente bisogno – e perderebbero la loro identità. Questa diagnosi non vale solo per l’Ucraina, ma anche per la Bielorussia, il Kazakistan e tutta l’Asia centrale, nonché per i vari popoli che vivono sul territorio della Federazione Russa. Il messaggio è che la loro storia, la loro identità e la loro memoria sono intrinsecamente legate alla Russia e alla sua civiltà, mentre al di fuori della Russia perderebbero la loro personalità civile e nazionale, verrebbero colonizzati e poi semplicemente smetterebbero di esistere.

In questo testo, il concetto di “mondo russo” è effettivamente utilizzato in senso civilistico: il mondo russo comprende tutti coloro che sono legati alla Russia, non solo coloro che sono etnicamente russi. Non è altro che un tentativo di costruire una nuova identità su base imperiale.

VYACHESLAV MOROZOV

Infine, vale la pena sottolineare l’uso nella Dottrina del termine “vicino all’estero”, che per un certo periodo era stato escluso dal linguaggio politico ufficiale. Questa espressione, che negli anni ’90 poteva ancora pretendere di riflettere in qualche misura le realtà concrete ereditate dall’era sovietica, ora può solo assumere un significato imperiale e servire ad affermare la supremazia russa.

Un ritratto del Presidente russo Vladimir Putin durante il voto inscenato in un seggio elettorale nella città occupata di Tavriysk, vicino alla linea del fronte. Alexei Konovalov/TASS/Sipa USA

In altre parole, nella tensione che esiste tra il principio imperiale e il principio di nazionalità, è il lato imperiale a prevalere oggi. La dichiarazione di Vladimir Putin secondo cui “i confini della Russia non si fermano da nessuna parte” è un’espressione perfettamente chiara di questo principio imperiale.

Nella tensione che esiste tra il principio imperiale e il principio delle nazionalità, oggi è il lato imperiale a prevalere.

VJAČESLAV MOROZOV

Si può dire che gli Stati Uniti, l’impero a cui la Russia pretende di opporsi, siano l’obiettivo principale della Dottrina di politica estera?

Certo che sì. Se osserviamo la struttura del documento, vediamo che l’elenco delle priorità regionali inizia con “l’estero vicino”, seguito da una serie di Stati più o meno amici, mentre gli Stati europei sono citati solo alla fine, come satelliti degli Stati Uniti – l’Unione Europea in quanto tale non è nemmeno menzionata. All’Europa viene riconosciuta una certa soggettività potenziale, che realizzerà pienamente solo quando si sarà liberata dal potere americano e avrà dato ragione alla Russia. Infine, il testo fa riferimento ai Paesi anglosassoni, cioè agli Stati Uniti e ai loro alleati: Gran Bretagna, Canada, Australia e Nuova Zelanda.

Non appena il tema si sposta sui Paesi del Sud, inizia a emergere una retorica anticoloniale ed emancipatrice. Questo cambiamento nel discorso è iniziato con il discorso di Vladimir Putin del 30 settembre 2022, in cui ha usato la parola “egemonia” almeno cinque volte e ha parlato a lungo di colonialismo, cercando di stabilire un legame tra la lotta della Russia contro la dominazione occidentale in Ucraina e quella dei Paesi del Sud contro il colonialismo. In linea con la sua dottrina di politica estera, la Russia sostiene di essere all’avanguardia del movimento anticoloniale globale, appropriandosi di parte dell’eredità sovietica in questo campo. Va inoltre notato che l’Unione Sovietica, in quanto sostenitrice della decolonizzazione, viene ritratta in questo testo come una sorta di Russia eterna e immutabile, mentre il suo internazionalismo e la sua dimensione ideologica progressista vengono accuratamente ignorati.

L’Unione europea in quanto tale non è nemmeno menzionata nella Dottrina di politica estera.

VJAČESLAV MOROZOV

L’immagine che emerge è quella di una lotta tra l’impero statunitense e i popoli amanti della libertà. Tuttavia, c’è stato un cambiamento ideologico. Secondo la Dottrina, questi popoli non difendono tanto la loro autonomia, la loro libera capacità di autogoverno o la democrazia, quanto la loro identità civile. Se a prima vista la critica all’imperialismo statunitense può sembrare anticoloniale, in realtà assume i toni della destra conservatrice, impreziosita da motivi di civiltà e da elementi culturali e religiosi – la famiglia tradizionale, l’omofobia e altri “valori” che lo Stato russo sta cercando di imporre alla sua popolazione e non solo. Il presupposto fondamentale per la Russia è che su questa base sia possibile costruire un certo grado di solidarietà internazionale.

Tuttavia, non direi che si tratta di vuota retorica – anche se si tratta ovviamente di espedienti retorici. Dal punto di vista dei leader russi di oggi, si tratta di un approccio piuttosto razionale, poiché queste idee possono trovare sostegno o eco tra alcuni leader dei Paesi del Sud, tra i critici del liberalismo, degli Stati Uniti, della NATO, dell’Unione Europea e così via. Allo stesso tempo, questa retorica anticoloniale nasconde una politica imperiale da parte della Russia, che ha un interesse diretto a sviluppare un sistema di relazioni neocoloniali. Le élite russe sono i primi beneficiari di questo sistema e hanno tutte le intenzioni di tornare a uno stato di cose in cui le grandi potenze decidono su tutti gli affari mondiali e ognuna agisce come meglio crede nella propria periferia. La logica è quella del controllo coloniale e ideologico, unito allo sfruttamento economico delle risorse naturali e umane.

Di quali “dispositivi neoliberali” parla Vladimir Putin? Vladimir Putin sta parlando e perché li critica – critiche che si possono trovare nel passaggio in cui la Dottrina afferma che “una forma diffusa di interferenza negli affari interni degli Stati sovrani consiste nell’imposizione di dispositivi ideologici neoliberali, distruttivi dei valori spirituali e morali tradizionali”?

Innanzitutto, ho la sensazione che la Dottrina di politica estera 2023 sia stata scritta da persone nuove, che in precedenza non avevano avuto un ruolo così attivo. Rispetto alle versioni precedenti, questa è scritta in un linguaggio leggermente meno burocratico e il suo flusso è più coerente. Ma il punto chiave è che questo nuovo testo registra una serie di decisioni deliberate, che non possono essere lasciate al caso, a partire dal ricorso alla retorica anticoloniale di cui sopra, o dall’uso di termini come “egemonia” o “neoliberismo”.

Ho la sensazione che la Dottrina di politica estera 2023 sia stata scritta da nuovi autori che non avevano mai avuto un ruolo così attivo.

VJAČESLAV MOROZOV

Immagino che gli autori di questa Dottrina leggano abbastanza da avere un’idea della portata e della diffusione delle attuali critiche al neoliberismo, soprattutto a sinistra. È certamente possibile che non capiscano esattamente cosa sia il neoliberismo, o che facciano finta di non capirlo. Resta il fatto che hanno deciso di sviluppare una critica del neoliberismo che prende di mira l’Occidente, nell’interesse della Russia. In realtà, le critiche esistenti al neoliberismo sono spesso rivolte all’imperialismo occidentale, al tipo di globalizzazione e alle crescenti disuguaglianze globali che lo accompagnano. Ma in questo caso, gli autori della Dottrina fingono di non vedere che la Russia incarna il tipico esempio di egemone locale, pienamente integrato nella struttura neoliberale globale.

Facendo dell’Occidente l’unico ricettacolo della sua critica al neoliberismo, il significato stesso del concetto viene trasformato. Nella Dottrina di politica estera della Russia, il neoliberismo è presentato come un insieme di valori occidentali che si suppone siano imposti alla Russia dall’esterno: la distinzione tra “genitore 1” e “genitore 2”, la “propaganda dell’omosessualità”, il femminismo e così via. Il neoliberismo non è quindi altro che una nuova variante del liberalismo, rifocalizzata su un certo numero di valori culturali occidentali, un mero riflesso delle guerre culturali in corso legate al genere, all’identità queer, alla disuguaglianza razziale, al marxismo culturale e alla sua eredità e al post-colonialismo. Per gli autori del testo, tutti i valori “occidentali”, compresi i diritti umani, i diritti delle donne e delle minoranze, rientrano nella categoria del neoliberismo.

Tuttavia, vale la pena di sottolineare quanto la dottrina della politica estera russa sia essa stessa impregnata di spirito neoliberale. In concreto, questo testo tenta di articolare sia la visione neoconservatrice che quella neoliberale – in un modo che non è poi così nuovo, se ricordiamo l’esempio di Ronald Reagan.

Questo testo tenta di articolare sia il punto di vista neo-conservatore che quello neo-liberale – in un modo che non è poi così nuovo, se ricordiamo l’esempio di Ronald Reagan.

VJAČESLAV MOROZOV

Uno dei concetti al centro della Dottrina è quello di “concorrenza leale”, utilizzato nel testo per denunciare, al contrario, la concorrenza sleale dell’Occidente. Questo concetto è uno dei punti nodali della terminologia neoliberista, alla base dell’idea che lo stato normale delle cose sia una competizione tra tutti contro tutti. Secondo questo concetto, gli individui, gli Stati e le nazioni devono investire nel loro sviluppo e accumulare capitale per superare gli altri. È proprio l’Occidente che, secondo il Cremlino, interrompe il normale corso della competizione tra Stati, civiltà e imprese, ad esempio quando impone sanzioni o impedisce alle aziende russe di accedere al mercato internazionale.

Nel mondo immaginato dagli autori della Dottrina, non c’è spazio per la cooperazione; la competizione di tutti contro tutti deve portare alla sottomissione del più debole al più forte. La questione dei valori, in ultima analisi, è formale: i valori evocati servono solo a legare gli agglomerati civili. In queste condizioni, il “neoliberismo” si riduce a un significante vuoto. Si potrebbe dire che questo termine è ora utilizzato nel lessico politico russo più o meno come lo era “democrazia” qualche anno fa. All’epoca di Vladislav Surkov, la Russia criticava l’Occidente per aver imposto la sua concezione di democrazia al resto del mondo. Oggi è diventato più difficile discutere la nozione di democrazia, anche quella di “democrazia sovrana”, per cui si torna a criticare l’Occidente per il suo “liberalismo”. Per quanto assurda possa sembrare, questa critica al “neoliberismo” proviene dalle posizioni più indiscutibilmente neoliberiste.

Un altro punto importante da notare, non estraneo a quanto detto sopra, è l’eurocentrismo delle Dottrine di politica estera della Russia nel loro complesso. È vero che la Dottrina 2023, come tutti i suoi predecessori tranne il 1993, è un testo anti-occidentale. Ma allo stesso tempo mostra fino a che punto la Russia consideri ancora l’Occidente il suo principale interlocutore. Nonostante i suoi sforzi per sviluppare un dialogo con i Paesi del Sud, questo si riduce ancora una volta a una critica dell’Occidente e della politica occidentale. In altre parole, si tratta ancora una volta di un messaggio all’Occidente: se rinsavisce e adotta una politica “costruttiva” nei confronti della Russia, quest’ultima sarà pronta a cooperare con l’Europa e a tornare a rapporti di buon vicinato. In breve, la Russia non è riuscita a emanciparsi dal suo eurocentrismo: sta ancora cercando di farsi accettare e riconoscere dall’Europa.

La Dottrina 2023 è, come tutti i suoi predecessori tranne il 1993, un testo anti-occidentale. Ma dimostra fino a che punto la Russia consideri ancora l’Occidente il suo principale interlocutore.

VJAČESLAV MOROZOV

Come dobbiamo interpretare il fatto che la nuova Dottrina non faccia più riferimento alla necessità del controllo degli armamenti o, più in generale, del disarmo?

Questo non è del tutto vero: la Dottrina del 2023 fa riferimento al controllo degli armamenti. Tuttavia, viene presentata nel modo seguente: l’Occidente è responsabile di tutto, non abbiamo nulla da rimproverarci, poiché non abbiamo violato alcun accordo e siamo pronti a ristabilire tutti i trattati.

Storicamente, questo è vero anche solo in parte: lo smantellamento del sistema di controllo degli armamenti è iniziato con il ritiro degli Stati Uniti dal Trattato sul controllo degli armamenti sotto George W. Bush Jr. e, negli anni successivi, la questione è stata ben lontana dall’essere una delle priorità di Washington. Nel contesto delle attuali tensioni, è improbabile che questo sistema venga ripristinato nella sua forma precedente, ma la Dottrina indica comunque che la Russia è aperta al dialogo sulla questione degli armamenti, che sarà probabilmente una delle prime questioni da affrontare se la situazione militare si risolverà o si stabilizzerà, o se si aprirà un dialogo tra la Russia e l’Occidente. Per il momento, però, è la guerra a rimanere in primo piano e nessuna discussione seria tra Russia e Occidente potrà avere luogo finché l’Ucraina non sarà sicura.

Questa comunicazione da parte della Russia, riluttante al compromesso e che lancia ultimatum, la sta aiutando a raggiungere i suoi obiettivi?

I leader russi sono probabilmente convinti dell’efficacia di questa forma di comunicazione. Dopo tutto, l’hanno sperimentata nel dicembre 2021, quando hanno lanciato un ultimatum agli Stati Uniti e alla NATO. In effetti, è stato il rifiuto di Stati Uniti e NATO di negoziare alle condizioni della Russia a fornire il principale pretesto per lo scoppio della guerra. Oggi la leadership russa persiste su questa linea. Tuttavia, è chiaro che questo metodo di comunicazione non raggiungerà mai gli obiettivi prefissati, soprattutto ora che la guerra è in corso. Quando all’inizio del secolo 2021-2022 si discuteva dell’ultimatum russo, si sentivano voci che chiedevano alla Russia di essere ascoltata e di impegnarsi nel dialogo. Tutti temevano ciò che da allora è diventato perfettamente chiaro: la Russia non è così terrificante come sembrava.

È chiaro a tutti che la Russia non può vincere la guerra. Non può vincere una guerra contro un’Ucraina sostenuta dall’Occidente. Non uscirà vittoriosa da una guerra su larga scala contro gli Stati Uniti. Potrebbe essere in grado di conquistare alcune porzioni di territorio, ma in nessun modo una vittoria clamorosa. In queste circostanze, il tono da ultimatum della Russia è perfettamente improduttivo: solo una piccola parte della comunità di esperti prende sul serio i suoi proclami. L’opinione prevalente su queste dichiarazioni russe è che si tratti di propaganda o semplicemente di irrazionalità.

La Russia non è riuscita a emanciparsi dal suo eurocentrismo: sta ancora cercando di farsi accettare e riconoscere dall’Europa.

VJAČESLAV MOROZOV

In realtà, come ho detto, la retorica russa non è priva di significato, e il suo significato si riflette nella nuova Dottrina di politica estera. Possiamo non essere d’accordo con il suo contenuto, ma dobbiamo lavorare sulla base di questo testo per definire una politica nei confronti della Russia, con la quale tutti devono ancora fare i conti, per il momento. La retorica aggressiva della Russia è studiata per renderla difficile da capire. Tuttavia, gli esperti devono essere in grado di analizzare il contenuto di questi discorsi, prescindendo dalla loro dimensione aggressiva.
Tutti speriamo che la Russia subisca cambiamenti favorevoli nel prossimo futuro, ma non possiamo aspettare quel momento per definire una politica nei suoi confronti. Non chiedo assolutamente di adottare ora una “posizione costruttiva”, per usare il linguaggio della Dottrina. Tuttavia, è essenziale capire che le azioni del Cremlino sono guidate da una certa logica e che questa logica gli permette di ottenere un parziale successo diplomatico. Senza adottare o approvare questa logica, resta il fatto che, finché non la comprenderemo, non potremo mettere in atto una vera politica di contenimento, né tantomeno piani d’azione più ambiziosi.

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Gli Hoi Polloi sono malati, di SIMPLICIUS

Gli Hoi Polloi sono malati

CONTRIBUITE!! AL MOMENTO I VERSAMENTI NON COPRONO NEMMENO UN TERZO DELLE SPESE VIVE DI CIRCA € 3.000,00. NE VA DELLA SOPRAVVIVENZA DEL SITO “ITALIA E IL MONDO”. A GIORNI PRESENTEREMO IL BILANCIO AGGIORNATO _GIUSEPPE GERMINARIO

Mentre le cose si riducono al lumicino e il Paese sprofonda in una storica divisione politica che mette un estremo contro l’altro, veniamo trascinati in una frenesia di aggressività mal indirizzata. Paralizzati dal dirottamento limbico, ricorriamo a un’imitazione dei movimenti dell’altro: la saggezza delle folle sostituita da una follia brulicante.

Uno degli ideali semplicistici che abbiamo adottato nella foga della lotta è che il governo è l’unico problema, e che finché riusciremo a sradicare il peggiore dei cleptocrati e dei kakistocrati – quei funghi radicati del deepstate che avvolgono il tronco macchiato di fegato della nazione – il Paese sarà liberato, per fiorire di nuovo come un prato in primavera. Il “Sistema” come colpevole: sempre lo stesso Sistema senza volto e senza nome, o il suo gemello ombra “l’Uomo” – finché riusciremo a detronizzarli, la vittoria sarà garantita e l’America sarà libera.

Ma in queste allucinazioni ignoriamo la situazione sempre più grave: non è solo il sistema a essere marcio, è la società stessa.

Gli Hoi Polloi sono malati

Ora si può sostenere che il sistema è responsabile dei disturbi della società. È vero che le varie oppressioni imposte dal governo e dalla classe dei rentier – attraverso i loro progetti di ingegneria sociale – hanno creato, o almeno esacerbato, tutti i malesseri sociali fondamentali che ora sputano come pus da un bubbone.

Per molti decenni le élite ci hanno messo gli uni contro gli altri per deviare la nostra rabbia dal suo giusto obiettivo. Ma anche riconoscendo ciò, resta il fatto che questa distruzione culturale di lunga data ha deformato la società in un tale vortice tossico che anche sconfiggere il Leviatano non curerebbe i nostri mali, né affretterebbe alcuna forma di restituzione sociale. Il problema non è solo quello del “governo malvagio”, ma che la cultura è intrinsecamente legata al governo dal legame della virtù civica, e la virtù civica è morta perché la nostra cultura è stata avvelenata al di là della riabilitazione. Anche se si eliminasse la tecnologia e la burocrazia, resterebbero le masse stupefatte e degenerate, troppo imbecilli per essere governate in modo giusto e virtuoso.

Un nuovo pezzo di Charles Hugh Smith affronta proprio questo aspetto. Egli esplora il concetto di “bene comune” come arbitro chiave della salute nella società. .

Il perseguimento della cupidigia non organizza magicamente l’economia o la società in modo da servire equamente gli interessi di tutti. Come spiegò Adam Smith, il capitalismo e l’ordine sociale richiedono entrambi un fondamento morale, che in una società libera prende la forma della virtù civicaè responsabilità di ogni cittadino che è in grado di contribuire al capitale sociale che serve a tutti noi farlo non in risposta a uno Stato oppressivo, ma di propria volontà.

Una società funzionante richiede una base morale cucita dal delicato tessuto della virtù civica. Ma la virtù civica è, purtroppo, piuttosto suscettibile di deteriorarsi, se non viene costantemente annaffiata e ringiovanita, o curata da un attento custode. .

I Padri Fondatori lo capirono e temettero il decadimento della virtù civica come una minaccia per la democrazia. Questo fu uno dei motivi per cui molti di coloro che furono attivi nei primi decenni dell’Esperimento Americano favorirono la restrizione del voto alla classe di cittadini che avevano il maggiore interesse a mantenere lo stock di capitale sociale della nazione: le élite terriere/commerciali.

Inoltre:

Commentatori come Christopher Lasch hanno descritto la costante erosione della virtù civica e dello stock di capitale sociale della nazione a partire dagli anni Settanta. Lasch e i suoi colleghi critici di tutto lo spettro ideologico hanno capito che la virtù civica è il collante che lega la democrazia e la libera economiaquando la virtù civica e la responsabilità di contribuire al capitale sociale della nazione vengono meno, sia la democrazia che la libera economia entrano in declino terminale.

Ma Smith si concentra sul lato economico delle cose e sulla perdita del senso di “bene comune” quando si tratta di moralità finanziaria. Utilizza un confronto tra il private equity e Old Money per dimostrare come le cose siano state sradicate e finanziarizzate al punto che conta solo il risultato finale: un cenno al vero capitalismo degli stakeholder, sventrato da un’etica monetaria transnazionalista distaccata.

Il problema più urgente della virtù civica è quello dei valori sociali e morali. Dopo tutto, le questioni finanziarie riguardano solo la minuscola cricca superiore che ha scelto di abbandonare il dovere verso la patria e la società. Ma che dire dei problemi con il vasto corpus della società stessa, rappresentativo di un male ben più grande?

Diamo un’occhiata alla definizione ufficiale:

è la coltivazione di abitudini importanti per il successo di una società. Strettamente legata al concetto di cittadinanza, la virtù civica è spesso concepita come la dedizione dei cittadini al benessere comune, anche a costo dei loro interessi individuali. L’identificazione dei tratti caratteriali che costituiscono la virtù civica è stata una delle principali preoccupazioni della filosofia politica.

Sebbene sia aperta a molte interpretazioni, personalmente la suddividerei in due idee principali:

La prima è una consapevolezza di ciò che ci circonda nel suo insieme; e la consapevolezza deve essere una reciprocità attiva e solidale. Per attivo si intende che si contribuisce all’ambiente circostante in modo da contribuire al miglioramento, al mantenimento della salute, ecc. In breve: è uno scambio continuo con l’ambiente circostante: la comunità, la cultura e la società nel suo complesso, con la speranza di migliorare continuamente le condizioni del proprio ambiente sociale. La domanda è: il Paese attualmente ha questo? I cittadini sono in gran parte partecipi di questo contributo attivo, sia per la società nel suo complesso che a livello di comunità microcosmica? .

Vediamo piccole sacche, naturalmente: gruppi di interesse speciale e avanguardie politiche di varie fazioni che tentano di imporre le loro ideologie per ciò che considerano uno scopo benefico. Piccoli gruppi di leader di pensiero su Twitter che si occupano dei loro seguaci: libertari, antifa, destra reazionaria, ecc. Ma i cittadini nel loro complesso si immaginano più intrinseci a un sistema sociale affiatato? Non sembra.

Perché ciò sia prevalente, un Paese o una comunità devono marciare in formazione al ritmo di un sogno condiviso, sotto forma di una sorta di mythos. Viene in mente il “sogno americano” del secondo dopoguerra, anche se si può sostenere che fosse una sorta di apocrifo astorico, una feticizzazione nostalgica di quelli che immaginavamo essere tempi più semplici e idealizzati, che in realtà erano altrettanto multivariati e fratturati di oggi.

Nulla esiste agli estremi, però: può essere vero che il “sogno americano” sia stato in gran parte una costruzione posticcia, come tutte le altre epoche romantiche che lo hanno preceduto. Per esempio, anche l’Ottocento, con il suo spleen senza fronzoli, la sua indipendenza di spirito e il suo gusto per l’avanguardia, è stato segnato da forti disallineamenti culturali, culminati in una guerra civile davvero sanguinosa. Tuttavia, è innegabile che almeno queste colorazioni rappresentavano un’identità unica che aveva un’impronta propria, con una traiettoria marcata e singolare che la differenziava dalle altre nazioni dell’epoca. Si trattava di un destino di spirito che, pur nel rigore delle sue differenze, rappresentava un mythos coeso. Inoltre, proprio l'”indipendenza dello spirito” – un po’ controintuitivamente – ha favorito la comunità, che è il contraltare ideologico dell’odierna globalizzazione senz’anima. Questo perché l'”indipendenza” dell’Ottocento non era l’indipendenza personale di oggi, ma quella della famiglia e della comunità, lontana da strutture più grandi e oppressive come i governi federali e stranieri. .

L’unica “indipendenza” conosciuta oggi è quella personale, definita in pratica dal rifiuto della società, della comunità e degli individui che ci circondano per portare la fiaccola di alcuni astratti ideali universali. Ed è a causa di questo, in gran parte, che la “virtù civica” ha cessato di esistere oggi. Poiché siamo stati tutti “liberati” dai “trionfi” sociali della modernità, l’idea stessa di conformarsi a una dinamica di gruppo anche solo lontanamente più ampia sembra un assalto al nostro “io più vero”, come ci è stato inculcato, ovviamente.

Le divisioni politiche imposte alla società dall’élite hanno degradato il senso di comunità. Molti video su YouTube mostrano persone che viaggiano per il Paese, parlando con chi vive in quartieri difficili, e un tema comune che ho notato è l’idea di una strana chiusura sociale, un atteggiamento di guardia o addirittura di evitamento dei vicini. Molte persone di età compresa tra l’anziano e la mezza età hanno raccontato come, quando erano cresciuti negli anni ’80 o ’90, le loro comunità si sentissero più legate. I vicini e il proprio “isolato” o la propria strada erano uno spazio aperto e ospitale in cui le persone interagivano e conoscevano i nomi e le famiglie degli altri, a volte si aiutavano a vicenda o risolvevano i problemi insieme. Ora, dicono negli stessi quartieri, nessuno si saluta o si rivolge la parola, il senso di comunanza è stato sostituito da un crescente senso di chiusura, diffidenza, isolamento, una sorta di paranoia e cinismo che cresce come erbacce dai marciapiedi trascurati e dai cortili non curati.

La maggior parte dei lettori può probabilmente capirlo. C’è una sensazione sempre più diffusa, una sorta di meccanismo di difesa, che ci tiene un po’ più imbottigliati, diffidenti nei confronti della condivisione eccessiva, riluttanti a “uscire dalla nostra zona di comfort” in spazi che sappiamo essere culturalmente o politicamente ostili ai nostri schieramenti protetti. Se prima potevamo salutare un vicino, chiacchierare del tempo o della partita di pallone, ora possiamo semplicemente tirarci il cappello sugli occhi, fare un cenno sommario evitando il contatto visivo per paura che sia “uno di loro”, un ostile dall’altra parte dello spettro, della divisione politico-culturale: magari un pro o un anti-vaxxer, un democratico o un conservatore, un abortista pro-Choicer o un transfobico, ad nauseam.

Un numero crescente di video su YouTube promuove addirittura l’idea rivoluzionaria che il nuovo Sogno Americano sia in realtà…. lasciare del tutto l’America.

Pensate all’inquietante ironia: una volta il sogno era lavorare e faticare tutta la vita per raggiungere gli orpelli materiali dell’America, ora si sta trasformando nel faticare per accumulare i fondi necessari a fuggire dallo stesso ideale degenerativo di ‘America’. .

Se il governo fosse totalmente ripulito da tutti i delinquenti gerontocratici più sgradevoli proprio oggi, questi problemi sociali rimarrebbero. La gente ha perso lo scopo della vita. Hanno perso il senso della compassione e della simpatia reciproca. In parte ciò ha a che fare con le accese ostilità politiche. Ma alla radice della maggior parte di questi problemi c’è probabilmente la doppietta di questioni culturali ed economiche. La prima deriva principalmente dagli eccessi depravati e sfrenati dell’immoralità – il redux di Weimar 2.0 in cui siamo sprofondati fino al collo. Si tratta della litania dei problemi ben noti: la promiscuità sfrenata e lo svilimento sociale, amplificati da una cultura che promuove esclusivamente la sporcizia tossica sotto forma di “musica”, film, “arte” moderna, ecc. Si tratta di problemi che possono essere teoricamente risolti con le persone giuste al comando, ma che sono ormai così profondamente radicati da richiedere molto di più della semplice installazione di qualche leader “populista” idealizzato. Personaggi come Larry Flynt e Hugh Heffner sono ormai radicati nella psiche americana come paragoni della cosiddetta “libertà” e “liberazione” al centro della “democrazia” occidentale, di cui si dice che l’America sia il campione. Eliminare queste spine profondamente sepolte dalla carne dell’America non è un compito facile.

Storicamente non ci sono precedenti in cui un Paese con le profonde divisioni e i mali sociali e demografici degli Stati Uniti abbia sanato o riconciliato le sue fratture. Questa malattia crea un effetto di rimbalzo: ogni problema successivo genera altre ramificazioni. L’illegalità californiana, le rivolte, un’intera generazione che ha imparato ad avere diritti e la totale mancanza di costumi sociali. Il problema demografico e il crollo del matrimonio, che ha provocato un’impennata storica delle malattie mentali, il fentanyl e le droghe, le relazioni razziali ai minimi storici. I problemi non fanno che aggravarsi e aggravarsi, alimentandosi a vicenda. E nessuno di essi può essere risolto con la panacea istantanea del semplice rovesciamento del governo o dell’insediamento di un nuovo leader.

Basta guardare la parata dell’orgoglio di San Fran di oggi. O notare la disposizione del migrante medio importato: .

Nel 2017, The National Interest ha pubblicato un lungo saggio di un ex lavoratore rifugiato. L’argomento era l’orribile ondata di criminalità in Europa, determinata dalla migrazione di massa. Questo paragrafo in particolare mi è rimasto impresso:

Alcuni potrebbero citare Weimar come paragone, notando che la Germania è stata in grado di ricostituirsi rapidamente in un solo decennio dopo una sorta di rivoluzione politica. Ma la Germania era in definitiva uno Stato demograficamente uniforme rispetto agli Stati Uniti – che si stanno rapidamente trasformando in Sudafrica o in Brasile – con razze insegnate a odiarsi l’un l’altra dall’élite politica. Quante generazioni ci vorranno per sanare queste divisioni, che diventano sempre più profonde ogni giorno che passa? Questa questione irrevocabile rappresenta da sola un fatidico paletto nel cuore del futuro dell’America.

Allo stesso modo, la decadenza economica è così sistematicamente radicata nella funzionalità di base dell’America, che un cambiamento di governo non potrebbe fare quasi nulla per rimediare al danno. Il modo in cui la cabala bancario-corporativa ha inserito i suoi ganci nelle ossa del Paese richiederebbe un miracolo per essere invertito. E se non si riesce a invertirlo, significa che le condizioni economiche rimarranno per ammalare generazionalmente gli hoi polloi in un letargo morale.

Molti scrittori della “Destra” promuovono senza successo il ritorno a un “ideale” culturale o a un altro: le virtù elleniche, le pietre miliari della filosofia, i revival vitalistici, ecc. Ma invece di un inutile esercizio di conversione dell’America in una sorta di antica Sparta imbastardita, sarebbe probabilmente più pratico trattare i sintomi al contrario: piuttosto che imporre una serie di nuovi moda sociali ingombranti, lavorare per eliminare quelli più dannosi, e poi lasciar fiorire ciò che può. Estirpate le erbacce malate e date un po’ di tempo al terreno per ritrovare la salute: potrebbe allora sorprendervi nel trovare il suo percorso più naturale. .

Quindi, che cosa presumo di dover sradicare per migliorare i mali della società?

Il problema è che gli americani soffrono di un paradossale senso di vanità storica quando si tratta di qualcosa di lontanamente associato al concetto sacro di “libertà”. L’ossessione americana per la libertà ha paralizzato la nazione da qualsiasi considerazione di mano pesante nell’estirpare le tendenze più distruttive della modernità. “Ma noi non siamo la Corea del Nord!” sono loro a chiedere, mentre la società decade intorno a loro in modi che farebbero impallidire i veri nordcoreani. .

La questione è che la libertà di tutti i tipi è associata all’unica cosa che gli americani sentono di distinguere da ogni altra nazione – è la cosa che li rende unici, speciali: l’unica nazione indispensabile. Ne hanno una dannata statua, per l’amor del cielo!

Adulterare la Libertà stessa significherebbe tagliare l’essenza stessa di ciò che rende grande il Paese, o almeno così si dice. Strappare il proprio rene o la propria milza. Ma come la Bibbia su cui è stato fondato il Paese professava: strappa il tuo occhio se ti offende – forse è meglio recidere del tutto le escrescenze maligne, poi ricucire la ferita e sperare per il meglio.

Ho capito: Io stesso sono piuttosto diffidente nei confronti del pendio scivoloso che segue l’eliminazione di alcuni diritti naturali e libertà civili, perché: dove si ferma? Se ci si spinge troppo in là, si può arrivare a potare ogni germoglio e ogni stelo di “potenziale pericolo”, fino a scivolare inavvertitamente verso una vera e propria Sharia bianca. Anche se c’è un pizzico di ironia nel fatto che i Brownisti e i Puritani che hanno fondato il Paese non erano esattamente lontani da questa osservanza morale, per non parlare dei Quaccheri. I Pellegrini applicavano rigidi codici morali contro il gioco d’azzardo, il bere, i vestiti succinti, ecc. Non suggerisco certo di spingersi in quella direzione, ma mi limito a ricordare che parlare di “libertà” come base dei valori americani è alquanto sfumato e forse anche frainteso.

Ho già scritto qui che i primi Articoli della Confederazione prevedevano un governo federale molto più limitato che di fatto non aveva quasi nessun potere, cosa che gli stessi padri fondatori si resero subito conto che semplicemente non funzionava. Ma nonostante ciò, la Costituzione che ne derivò garantì ai cittadini ogni tipo di diritto in base a un principio comune di massima libertà personale, a patto che i propri diritti non andassero oltre quelli altrui.

Come possiamo conciliare l’onorare queste “sacre” fondamenta della libertà con il riconoscere che attori maligni hanno giocato il sistema sovvertendo totalmente la cultura del Paese fino alla corrosione terminale? Il mondo era molto più “innocente” all’epoca: i padri fondatori non potevano prevedere gli espedienti illimitati della nostra epoca moderna, che permettono l’erosione totale della virtù civica e dell’equilibrio morale. Se gli autori della Costituzione possono essere stati spinti dal desiderio di proteggere i diritti personali dall’invasione del governo, quelli che sbarcarono a Plymouth Rock prima di loro stavano in realtà fuggendo da quello che ritenevano un deterioramento morale in Europa. Quale di questi gruppi fondatori è giusto usare come luce guida? È meno “americano” farsi guidare dall’etica del secondo rispetto al primo?

Ancora una volta, non sto necessariamente proponendo di tornare indietro ai tempi puritani, ma alcuni cancri culturali potrebbero dover essere eliminati con la forza. In ogni dilemma di questo tipo c’è sempre il dibattito tra il rinforzo positivo e la costrizione “negativa”. L’idea è che, invece di eliminare il problema con la forza, forse possiamo concentrare l’attenzione sugli aspetti positivi, sperando che crescano e alla fine mettano in ombra quelli negativi, come un’alta fioritura che stordisce le erbacce sotto le sue fronde. Ma l’ora potrebbe essere tarda. Per salvare una parvenza di generazione futura, il Paese potrebbe non avere altra scelta se non quella di invocare barriere culturali più severe, come hanno fatto Russia e Cina per preservare la dignità dei propri figli.

La maggior parte di noi conosce le leggi russe sulla propaganda anti-LGBT, che possono sembrare scomode e antidemocratiche per molti americani amanti della libertà, ma che in realtà sono abbastanza ragionevoli quando le si approfondisce. Ora la Russia ha lanciato un’altra nuova serie di restrizioni che mirano specificamente alla propaganda “anti-procreazione” o “childfree”:

Il 27 giugno, in occasione del Forum giuridico internazionale di San Pietroburgo, il viceministro della Giustizia Vukolov ha preso l’iniziativa di riconoscere l’ideologia del childfree o, in altre parole, del rifiuto volontario di avere figli, come estremista. Le argomentazioni sono piuttosto semplici: sotto diversi aspetti, questo movimento è simile a quello LGBT*, già vietato in Russia, ed è promosso dalle stesse aziende – quindi, anche il divieto per le persone childfree si suggerisce naturalmente. Già il 28 giugno, l’argomento ha raggiunto la Duma di Stato, che ha approvato l’iniziativa, e importanti sostenitori dei valori tradizionali, come il noto deputato Milonov, si sono espressi in modo particolarmente accorato a suo favore.

Questo non rende illegale non avere figli, ma piuttosto promuovere attivamente lo stile di vita senza figli alle masse come una sorta di inquinante sociale. Così, ad esempio, non sarebbe permesso alle pubblicità di lodare o glorificare lo stile di vita single e “indipendente” diffuso in Occidente. La Cina ha impedito che i tatuaggi, gli “uomini effeminati” o la cultura hip-hop “decadente” venissero messi in evidenza o comunque glorificati in TV, per evitare che influenze mentali dannose penetrassero nella psiche collettiva della società.

L’altra parte importante di ciò che ritengo costituisca la “virtù civica” è una cittadinanza istruita che abbia familiarità non solo con i fondamenti delle leggi del proprio Paese, ma che comprenda la struttura del governo, l’equilibrio dei poteri e, cosa più importante, il motivo per cui le leggi più importanti sono lì per cominciare. Quanto più i cittadini vengono corrotti, trasformandosi in trogloditi ignoranti e ignoranti, tanto più facilmente una forza nefasta può gradualmente usurpare il potere erodendo le istituzioni più fondamentali del Paese.

Guardate un numero qualsiasi di video di “Auditor del Primo Emendamento” che dimostrano il problema. Soprattutto nelle città urbane, gli auditor si imbattono spesso in immigrati assunti come fedeli fanti del corpo transnazionale. Queste guardie di sicurezza, impiegati, camerieri, ecc. non hanno alcun senso o rispetto per le virtù civiche del Paese e calpestano con orgoglio i diritti inalienabili codificati nella Costituzione.

Un’altra dimostrazione di ciò arriva dal comico di sinistra Louis CK, che ha recentemente enunciato la tipica posizione egualitaria della sinistra moderna quando si tratta dell’importantissima questione dei confini nazionali e dell’immigrazione:

Questo esemplifica perfettamente come l’erosione del senso civico di una cittadinanza possa portare alla totale distruzione di una nazione. Quando i libri che enfatizzano l’importanza dei principi chiave non vengono più insegnati, e l’educazione in generale viene sovvertita sotto la spuma nociva di una “cultura” inimica, il risultato finale è proprio questo: una classe di Morlocks totalmente ammalati, ignari, agnotologicamente mentecatti e felici di gettare feci mentre i loro raggianti padroni li schiavizzano. .

Stranamente, anche il MSM ha riconosciuto che gli elettori hanno ormai intuito il vero stato del Paese:

Ma come è coerente con la morale dei media aziendali, l’articolo di cui sopra si concentra su come ricalibrare la “messaggistica” di Biden per una migliore prospettiva di vittoria, piuttosto che su come aggiustare il sistema rotto in sé; naturalmente, non ammetteranno mai che il primo passo per aggiustarlo comporterebbe in effetti sbarazzarsi della principale incarnazione di quel marciume: Biden stesso.

Ammirate l’insensatezza del paragrafo finale:

In questo modo, riconosciamo che tutto è rotto, ma cerchiamo di capire come rimodellare l’immagine dell’establishment, piuttosto che riconoscere il candidato populista che legittimamente mette in luce i problemi reali. Ha senso? Una perfetta sintesi di tutto ciò che non va.

Quindi, gli hoi polloi sono troppo lontani o l’America e l’Occidente possono ancora essere salvati: cosa ne pensate?


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Covid e vaccini! Coraggio e prezzo della verità Con Max Bonelli e la professoressa Ute Kruger

Proponiamo una sintesi, migliorata tecnicamente, della recente conversazione con la professoressa Ute Kruger, già ai massimi vertici del sistema sanitario svedese, sulle peripezie sofferte nella sua accurata attività di ricerca delle cause di morti concomitanti e successive alla campagna di vaccinazioni anticovid. La tenacia della professionista offre uno spaccato illuminante delle traversie che hanno dovuto subire tanti professionisti del settore sanitario poco propensi ad accettare acriticamente i dogmi propinatici negli anni recenti, ma che cominciano a vacillare alla luce dell’evidenza dei fatti. Una battaglia ben lungi da volgere al termine. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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“Le elezioni europee del 2024 hanno segnato la fine del sovranismo dei padri”, la valutazione e le prospettive di Pascal Lamy

Le elezioni europee del 2024 hanno segnato la fine del sovranismo dei padri”, la valutazione e le prospettive di Pascal Lamy

CONTRIBUITE!! AL MOMENTO I VERSAMENTI NON COPRONO NEMMENO UN TERZO DELLE SPESE VIVE DI CIRCA € 3.000,00. NE VA DELLA SOPRAVVIVENZA DEL SITO “ITALIA E IL MONDO”. A GIORNI PRESENTEREMO IL BILANCIO AGGIORNATO _GIUSEPPE GERMINARIO
Quali sono i risultati delle elezioni europee? Pascal Lamy traccia le coordinate di una “elezione ibrida”, tra grandi tendenze e inerzia. Nella fase di incertezza in cui si trova la Francia prima delle elezioni legislative e dopo il fragore dello scioglimento, avverte che “un governo Bardella vorrà lasciare il segno su alcuni progetti europei”.

L’intervista è disponibile anche in inglese sul sito del Groupe d’études géopolitiques.

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Dieci giorni dopo, mentre inizia il processo di nomina dei Top Jobs a livello europeo e lo scioglimento della Francia scuote il panorama politico, cosa si può trarre da questa importante elezione europea?

Le elezioni europee sono un ibrido. Per interpretarle bisogna considerare una traiettoria in due fasi, un po’ come un aereo che decolla e sale di quota. Si attraversa una zona di turbolenza nazionale, poi si continua a salire e a quel punto ci si trova in una zona dove la navigazione è più tranquilla e le linee più chiare.

A livello nazionale esistono casi specifici – in Francia siamo in una buona posizione per rendersene conto – che dipendono dall’equilibrio delle forze politiche e dai tempi del ciclo politico nazionale, il che rende difficile trarre conclusioni generali da questo livello. La situazione è diversa a livello europeo. Poiché lo scenario europeo è il risultato di un’aggregazione, i cambiamenti sono inevitabilmente più lenti, più attenuati, con vantaggi e svantaggi nazionali che in parte si compensano.

Puisque la scène européenne est la résultante d’une agrégation, les évolutions sont inévitablement plus lentes, plus amorties avec des plus et des moins nationaux qui se compensent en partie.

PASCAL LAMY

L’épicentre de Paris n’a pas provoqué de tremblement à Bruxelles ? 

L’approche continentale montre qu’il n’y a pas eu d’à-coup, mais une lente dérive continue. Quand vous regardez les chiffres depuis 1979 sur 50 ans, il y a toujours eu un léger déport à droite.

Questa volta è stato un po’ di più del solito, poiché il PPE e i due gruppi di estrema destra hanno ottenuto più seggi. Ma non siamo nelle previsioni estreme in cui ognuno di questi gruppi sarebbe riuscito a conquistare 30 eurodeputati in più.

In questo contesto, ritiene che l’opzione di un secondo mandato della von der Leyen sia quella giusta?

La governance europea si basa su un sistema parlamentare bicamerale, con una camera alta, quella degli Stati, e una camera bassa, quella del Parlamento. Per quanto riguarda la camera bassa, è probabile, anche se incerto, che venga rinnovata la coalizione di cristiano-democratici, socialdemocratici e centristi che ha sostenuto la Commissione nella precedente legislatura.

On en saura plus dans les prochains jours, mais cette configuration donne à Ursula von der Leyen de bonnes chances de devenir la prochaine présidente de la Commission, c’est-à-dire de se succéder à elle-même. Une continuité bienvenue, je crois, en ces temps terriblement chahutés.

Avec la dissolution, ou la disparition apparente du Frexit comme option revendiquée par la droite historiquement eurosceptique, les Européennes 2024 marquent-elles une accélération vers l’européanisation de la politique nationale ?

Sì, è un’interpretazione interessante che condivido. L’ibridazione tra elezioni nazionali ed europee ha avuto conseguenze interne particolarmente eclatanti, almeno nel caso della Francia e forse, dopo l’estate – con l’effetto domino delle elezioni nei Länder – nel caso della Germania. Interpreto questo processo, che ha una dimensione sia politica che antropologica, come una tappa della costruzione di un unico spazio europeo.

L’intreccio tra i due livelli sta diventando troppo intenso per essere ignorato. Non ha senso dire che le elezioni europee non sono nazionali se in pratica Emmanuel Macron scioglie l’Assemblea e Alexander De Croo si dimette dopo i rispettivi fallimenti.

L’intreccio tra le due scale sta diventando troppo intenso per essere ignorato.

PASCAL LAMY

Dalle maledette midterm – in Francia il vincitore ha sistematicamente perso le elezioni presidenziali e le successive elezioni legislative – le elezioni europee stanno cambiando il loro ruolo ?

Questa ibridazione è anche dinamica. Le elezioni europee, pur essendo a turno unico, avranno un secondo turno che sarà puramente nazionale, – e poi forse un terzo turno, se il risultato di queste elezioni nazionali porterà a una diversa posizione del governo francese nel Consiglio dei Ministri.

Naturalmente, in Francia il regime presidenziale mantiene il controllo sugli affari internazionali, sulla diplomazia e sull’Europa. Tuttavia, i rapporti di forza possono cambiare. È ipotizzabile che un governo Bardella – ipotesi che non sembra, ahimè, dal mio punto di vista, improbabile – voglia lasciare il segno su alcuni progetti europei.

Questa volta, l’intreccio non sarebbe statico, ma dinamico, creando una situazione che si riverbera a livello nazionale e, senza dubbio, a livello europeo. A prescindere dalle vicissitudini del momento o dalle preferenze politiche, la costruzione di uno spazio democratico europeo ibrido, cioè nazionale e sovranazionale, è in corso.

È ipotizzabile che un governo Bardella voglia lasciare il segno su alcuni progetti europei.

PASCAL LAMY

Prima di tornare al caso francese, concentriamoci sull’idea di un cambiamento che non avrebbe alcun effetto rilevante e che anzi stabilirebbe una forma di continuità con la rielezione del Presidente della Commissione. Lei stesso ha dimostrato in una delle nostre interviste che l’asse strutturante della von der Leyen – e forse anche dell’inerzia europea che l’ha preceduta – è stato il Patto Verde. Nonostante gli effetti di superficie e la continuità, non siamo di fronte a un cambiamento di rotta?

Non credo che questo spostamento riguardi tanto la direzione quanto la derivata, nel senso matematico del termine. In altre parole, la direzione non cambierà, ma la sua attuazione potrebbe essere rallentata.

Perché?

Per due motivi. Il primo è di natura giuridica: la maggior parte dei blocchi legislativi del Green Deal sono già pronti, compresa la traiettoria di decarbonizzazione entro il 2050. E con la miracolosa adozione questa settimana della legge sul ripristino della natura, grazie alla coraggiosa indisciplina di Léonore Gewesler in Austria, siamo ora più che mai in fase di attuazione. Certo, questo processo potrebbe essere più o meno rallentato a seconda delle opinioni del nuovo Parlamento europeo. Ma credo che i cambiamenti si esprimeranno in altri modi. Ad esempio, nella composizione della Commissione.

Il Consiglio dei Ministri è molto più a destra rispetto a cinque anni fa: in Europa ci sono ormai solo quattro governi socialdemocratici, due dei quali – Germania e Spagna – hanno un peso notevole, ma non sono in una posizione comoda. Gli altri sono liberali, democristiani o forze più a destra dei democristiani, a partire da Giorgia Meloni.

Il Consiglio dei ministri è chiaramente più di destra rispetto a cinque anni fa.

PASCAL LAMY

Qual è il secondo motivo?

Un recente studio del Centro Jacques Delors di Berlino ha dimostrato che l’ambiente rimane un tema chiave nella struttura dell’opinione europea. È vero che non è stato il principale argomento di dibattito a livello di elezioni europee. Ma le ragioni di ciò risiedono nella sua natura ibrida. L’unica questione emersa, contro la quale ha votato l’estrema destra, è stata il divieto di vendita di nuove auto a combustione interna nel 2035. Lo vedo più come il risultato di una cristallizzazione causata da una scadenza: è comprensibile che ci siano persone che non vogliono essere costrette a cambiare la propria auto. Ma per quanto riguarda le altre misure, i sondaggi e le inchieste mostrano che la popolazione europea, nelle sue strutture ideologiche radicate, rimane favorevole all’ambiente, alla decarbonizzazione e anche alla biodiversità, anche se ne parliamo meno.

Eliot Blondet/SIPA

Lei parla di uno spostamento graduale e a lungo termine verso destra. Ma se osserviamo da vicino queste forze, possiamo notare un cambiamento tettonico: i gruppi che erano a destra del Partito Popolare Europeo avevano un’evidente dimensione euroscettica. Oggi il RN di Bardella ha raggiunto un risultato storico non sostenendo più esplicitamente la Frexit, mentre le uniche forze favorevoli alla Frexit rappresentano meno del 3%. Come spiega questa conversione all’Europa? Pensa che sia puramente tattica e retorica? Cambia gli equilibri all’interno del Parlamento?

È la conferma di un movimento che, per suo merito, il Grande Continente ha individuato prima degli altri, evidenziando il ruolo gramsciano di Viktor Orbán in questo cambiamento.

È stato lui a spostare l’estrema destra dalle posizioni antieuropee del sovranismo di stampo paterno: “fuori dall’Europa, abbasso l’Europa, viva la nazione”, a “il nostro obiettivo è partecipare al potere europeo, esercitare il potere europeo, e quindi lo faremo dall’interno, invece di pretendere di stare fuori”.

Orbán ha allontanato l’estrema destra dalle posizioni antieuropee del sovranismo vecchio stile.

PASCAL LAMY

Alcuni euroscettici di destra sono passati dalla Brexit a Make Europe Great Again…

La melonizzazione dell’ estrema destra a livello europeo è stata effettivamente provocata da Orbán, che è la vera forza trainante di questo sviluppo. Non è un caso che il primo ministro ungherese abbia scelto “Make Europe Great Again” come motto per la presidenza di turno del Consiglio. Una parte dell’estrema destra europea cercherà ora di influenzare l’esercizio del potere europeo cercando di penetrarvi attraverso alleanze parlamentari o nomine alla Commissione.

Esiste un punto di incontro tra il Partito Popolare e la sua ala destra?

Sì, assume forme diverse nei vari Paesi. In alcuni casi, la destra del PPE – perché all’interno del PPE esistono una destra, un centro e una sinistra – può essere tentata di votare con l’ECR. Come dimostra l’esame dettagliato dei voti al Parlamento europeo pubblicato dall’Istituto Delors di Parigi, ciò è molto meno probabile da parte dell’ID e di altri raggruppamenti che non appartengono né all’ECR né all’ID di estrema destra.

Ci sono anche Paesi in cui questa possibile continuità sta emergendo. L’Italia, ad esempio, e ora anche la Francia. In Germania, il fatto che la CDU e la CSU siano nello stesso gruppo significa che tutti si uniscono ai cristiano-democratici, mentre in Baviera potrebbero forse avere una posizione diversa se le preferenze sugli assi politici fossero misurate correttamente. In un sistema parlamentare si devono fare dei compromessi; quindi dobbiamo essere forti, avere peso e occupare il maggior numero possibile di posizioni che contano nella definizione dell’ordine del giorno o nella conduzione dei lavori in commissione o in plenaria, e la forza viene dai numeri.

In alcuni casi, l’ala destra del PPE potrebbe essere tentata di votare con l’ECR.

PASCAL LAMY

Come descrivere questo movimento? È un rafforzamento dell’inerzia europea al di fuori del quadro comunitario?

Questo è uno degli ingredienti della graduale politicizzazione dello spazio sovranazionale e della sua articolazione con lo spazio nazionale. È una conferma di questa ibridazione: non si tratta di esercitare una forma di democrazia parlamentare a livello nazionale e un’altra forma di democrazia parlamentare a livello europeo. Il coinvolgimento dell’estrema destra in questa fase è anche un momento di progresso nella costituzione, di lento emergere di questo spazio politico europeo. Queste elezioni sono una tappa di questo processo.

Un tema che non è stato al centro della campagna, ma che sta guidando l’agenda strategica e la profonda inerzia delle istituzioni, è la questione della difesa.È un ingrediente chiave di questa ibridazione?

Sì, soprattutto per ragioni legate all’invasione russa dell’Ucraina. Se c’è una questione su cui l’opinione europea è sempre stata molto d’accordo – anche in Ungheria – è il sostegno a un esercito europeo. La percentuale di europei a favore di un esercito europeo è enorme. Questo desiderio è completamente scollegato dalla realtà di cosa significherebbe avere un esercito europeo in termini di trasmutazione di questo spazio politico – perché se avessimo un esercito europeo, significherebbe che lo spazio democratico sovranazionale è diventato più forte dello spazio democratico nazionale.

Se c’è una questione su cui l’opinione pubblica europea è sempre stata molto d’accordo – anche in Ungheria – è il sostegno a un esercito europeo.

PASCAL LAMY

Come si spiega questo paradosso?

Questo desiderio è una sorta di utopia. Le opinioni sono favorevoli, ma siamo bloccati dalla straordinaria difficoltà di portare le questioni militari a un livello sovranazionale, che implica un’unica strategia, armi intercambiabili, morti comuni, comandi unificati, ordini rapidi e un unico leader. Ma le forze che bloccano stanno diminuendo sotto la pressione del pericolo. L’Ucraina ha cambiato la situazione. Se rieletto, Donald Trump potrebbe agire come un secondo shock.

Non si può dire che questo sia stato un problema emerso durante la campagna elettorale…

Sì, ma se la difesa non è stata oggetto di controversia o di dibattito nelle elezioni europee, non è che la gente non voglia parlarne, è che è d’accordo. Tutto sommato, la preferenza dell’opinione pubblica per la difesa europea è simile al consenso sull’ambiente. Quando parlo di Europa con i non addetti ai lavori, sento molti di loro lamentarsi della mancanza di una difesa europea. Rispetto pienamente questa opinione; noto solo che trascura o ignora i passi che devono essere fatti per arrivarci, sia tecnicamente che politicamente. Se siete a favore di un esercito europeo, dovete accettare il fatto che il capo di tale esercito probabilmente non sarà qualcuno del vostro Paese.

In proporzione, la preferenza dei cittadini per la difesa europea è simile al consenso sull’ambiente.

PASCAL LAMY

Non siamo forse di fronte a un “consenso morbido”, come lo definisce Jean-Yves Dormagen nelle nostre pagine sulla transizione ecologica? In astratto, tutti sembrano d’accordo, ma non appena guardiamo alle conseguenze concrete e srotoliamo il sillogismo, troviamo subito nuove divisioni e fratture.

L’invasione dell’Ucraina ha creato un’energia politica che prima non c’era. Le crisi sono motori di energia politica. Grazie a questa energia, saremo in grado di andare avanti. Da quello che possiamo leggere dei segnali politici inviati dalle elezioni europee e dalle conseguenze per il Parlamento e il Consiglio, non vedo perché questo slancio, che sarà lento, debba essere interrotto. Anche perché all’interno dell’ECR non c’è una resistenza considerevole su questo tema e Orbán non è fondamentalmente contrario.

Sarebbe difficile non chiederle di approfondire l’effetto politico interno più impressionante di queste elezioni europee: lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale. Pensa che un governo Bardella segnerebbe una rottura con l’integrazione europea?

Non ne sono sicuro, perché, a parte la sua posizione nazionalista di principio, la RN si è guardata bene dal precisare la sua posizione, per mantenere la sua strategia “catch-all”. Quindi parlo con cautela, ma nel sistema istituzionale e costituzionale francese la questione europea è in gran parte di competenza del Presidente della Repubblica. Emmanuel Macron, eletto 7 anni fa, ha saputo creare e continua a creare una dinamica di integrazione europea, con la Sorbona 1 e ora con la Sorbona 2, anche se l’albero di Natale è ancora un po’ pieno.

A parte la sua posizione nazionalista di principio, la RN si è guardata bene dall’esplicitare la sua posizione, rimanendo fedele alla sua strategia “catch-all”.

PASCAL LAMY

Questo non vuol dire che non ci saranno cambiamenti, perché ci sono molte decisioni quotidiane e compromessi che devono essere presi a livello governativo, in particolare con la macchina del Segretariato Generale per gli Affari Europei (SGAE), che prepara, fa adottare e poi trasmette le istruzioni sulle posizioni francesi alla Rappresentanza Permanente a Bruxelles, che le difende. Questi arbitrati saranno diversi con un governo Bardella rispetto a un governo Attal. Se la Commissione ha bisogno di una maggioranza per approvare un testo in Consiglio dei Ministri e la posizione della Francia è decisiva per ottenere tale maggioranza, le cose possono cambiare.

Su quali questioni vedrebbe una possibile rottura?

Sulla questione cruciale della difesa dell’Ucraina, o su questioni future come la riforma della politica agricola comune, il bilancio europeo e il ritmo della transizione ecologica, un Primo Ministro RN potrebbe imprimere una svolta.

D’altra parte, per quanto riguarda l’immigrazione, ci sono relativamente poche possibilità che il tema venga ripreso a breve termine a livello europeo, perché abbiamo appena modificato in modo sostanziale la politica migratoria rendendo più rigidi gli accordi di Dublino.

Per quanto riguarda l’immigrazione, le possibilità che il tema venga ripreso a livello europeo nel breve periodo sono relativamente scarse, perché abbiamo appena apportato modifiche sostanziali alla politica migratoria con l’inasprimento degli accordi di Dublino.

PASCAL LAMY

Il movimento fondamentale di questo spostamento non potrebbe aprire una fase in cui la Frexit torna ad essere un’ipotesi?

Non credo. Le circostanze e i vincoli esterni – le vicende di un mondo dilaniato da molteplici crisi – spingono nella direzione opposta.

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SITREP 6/29/24: Il disfacimento di Biden segna un nuovo corso per l’Ucraina, di SIMPLICIUS

SITREP 6/29/24: Il disfacimento di Biden segna un nuovo corso per l’Ucraina

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Iniziamo con il dibattito che ci porta indirettamente agli sviluppi della guerra ucraina.

Innanzitutto, sappiamo tutti che il dibattito è irrilevante e non è altro che una farsa. Detto questo, è evidente che è stata messa in atto una grande operazione psicologica, dato che Biden non è stato affatto peggiore nel dibattito di quanto non sia stato in una qualsiasi delle sue recenti interviste o discorsi. In effetti, se si dovesse davvero dare un punteggio oggettivo, si potrebbe dire che ha vinto il dibattito contro Trump, dato che, nonostante il suo evidente declino mentale, è stato almeno in grado di recitare i fatti memorizzati che gli sono stati dati dopo che la CNN ha indubbiamente fatto trapelare tutte le domande al suo campo. Ma anche nonostante questi vantaggi, Trump ha raramente citato fatti o una parvenza di piano, e si è limitato a sprecare il suo tempo sulla difensiva, ripetendo gli stessi tre punti di discussione o vantandosi noiosamente di come tutto ciò che riguarda la sua amministrazione sia “il più grande di sempre” e tutto ciò che riguarda il suo avversario sia “il peggiore di sempre”.

Quello che voglio dire è che l’improvviso e totalmente coordinato “sdegno” e finto shock da parte degli opinionisti dei media pro-regime e dei MSM è chiaramente orchestrato al fine di utilizzare i dibattiti come trampolino di lancio per lasciare Biden in pace. Non potevano farlo prima perché avrebbero dovuto ammettere che Biden era mentalmente compromesso in un momento in cui speravano ancora di resistere e di sostenere il suo cadavere disseccato. Ma la natura concertata dell’apoplessia, ora inventata, permette loro di usare il dibattito come paravento per collettivizzare la loro ipocrisia e la precedente copertura di Biden, nascondendo ogni singola voce nel chiasso della più ampia cacofonia dei media corporativi: in questo modo non si può additare uno in particolare di loro come ipocrita, ma si è costretti a ricondurlo a un processo organico, che chiaramente non lo è stato.

Ma per gli osservatori più attenti è evidente la natura fasulla dell’indignazione, perché Biden non è ovviamente peggiore oggi di quanto non fosse solo un giorno, una settimana o addirittura mesi fa. Il dibattito non ha mostrato alcun “cambiamento” improvviso e inspiegabile, a parte la sua voce un po’ roca, che si dice sia il risultato di un “raffreddore”. Come hanno notato altri commentatori, è ovvio che hanno spostato il dibattito a una data molto più vicina al normale (il primo dibattito del 2020 è stato quasi a ottobre) per dare al DNC il tempo di scaricare Biden e trovare qualcuno di nuovo. Questo è indiscutibile ed è confermato solo dallo “shock” artificioso da parte di persone che da tempo sapevano – ma hanno volutamente nascosto e ignorato – la totale incompetenza mentale di Biden.

In sostanza, la conversazione è andata così: “Senti, bisogna fare qualcosa, dobbiamo liberarci di lui. Ma per ora manteniamo la linea e continuiamo a fingere che tutto sia roseo. Una volta che i dibattiti saranno terminati, fingeremo che abbia improvvisamente subito un declino catastrofico e lo dichiareremo inadatto all’unisono, per proteggerci individualmente dalle accuse di contraddittorietà”.

È stato comunque divertente vedere la rapidità con cui i media aziendali si sono scagliati contro Biden, caratterizzando improvvisamente la sua amministrazione come governata dall'”oligarchia”:

Dopo aver coperto questa linea di base, passiamo agli eventi collegati.

Negli ultimi giorni, sotto la superficie, sta nascendo qualcosa di strano, che sembra collegato alla scomparsa controllata di Biden. È iniziato quando Zelensky ha fatto un improvviso dietrofront e ha iniziato non solo a parlare di pace, ma ha persino stranamente ammesso che l’Ucraina sta subendo gravi perdite:

All’improvviso, secondo Zelensky, non c’è più molto tempo e non vuole che questa guerra si trascini per “anni” perché ci sono molti morti e feriti.

Ha continuato a sviluppare questa idea, affermando che stanno sviluppando le capacità produttive per ogni evenienza, ma che ora stanno cercando di mettere insieme una proposta di pace entro la fine dell’anno:

Questo avviene dopo che lo stesso MSM ha ricominciato a mettere in evidenza i risultati produttivi della Russia in ambito militare:

Il nuovo rapporto afferma con tristezza:

Secondo un nuovo rapporto di un think tank londinese, le sanzioni occidentali non sono riuscite a indebolire la produzione di armi russe e Mosca è addirittura riuscita a incrementare la produzione di armi chiave per alimentare la sua guerra contro l’Ucraina.

Fornisce anche un’analisi approfondita di alcune espansioni di munizioni chiave:

Nel 2021, prima dell’invasione delle forze russe, Mosca produceva 56 missili da crociera Kh-101 all’anno. Secondo il rapporto, l’anno scorso aveva prodotto 460 missili da crociera. Anche le scorte russe di missili balistici Iskander sono aumentate drasticamente, passando da circa 50 prima dell’invasione a 180, anche se la Russia ha lanciato un gran numero di missili sul campo di battaglia.

Naturalmente, il precedente rapporto che citava centinaia di fabbriche nordcoreane che lavoravano “a pieno regime” potrebbe avere qualcosa a che fare con l’improvvisa costernazione dell’Occidente:

Si suppone che una tale potenza manifatturiera faccia venire gli occhi lucidi all’Occidente e lo induca a pensare due volte a una guerra di logoramento contro il blocco guidato dalla Russia.

Anche questo potrebbe avere a che fare con il problema:

Ricordate quando si diceva che la Russia dipendeva totalmente dai componenti forniti dall’Occidente per i suoi armamenti? Qui un generale americano ammette letteralmente che l’intera struttura militare degli Stati Uniti crollerebbe in un giorno se la Cina emettesse un embargo contro di loro: .

Se fossimo in guerra con la Cina e questa smettesse di fornire componenti, non saremmo in grado di costruire gli aerei e le armi di cui abbiamo bisogno”, ha dichiarato.

Un rapporto sorprendente pubblicato all’inizio di quest’anno ha rivelato che le aziende cinesi hanno una morsa su 12 tecnologie critiche vitali per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, tra cui la modernizzazione nucleare, le tecnologie ipersoniche e spaziali.

Lo studio, condotto dalla società di software per la difesa Govini, ha lanciato un duro atto d’accusa contro l’industria americana degli armamenti.

La capacità produttiva interna degli Stati Uniti è un’ombra avvizzita del suo passato”, si legge nel rapporto.

Categorie industriali cruciali per la difesa nazionale degli Stati Uniti non sono più costruite in nessuno dei 50 Stati”.

Ricordate quando la Russia utilizzava chip occidentali in tutti i suoi missili?

L’aspetto forse più preoccupante è che Govini ha scoperto che oltre il 40% dei semiconduttori che sostengono i sistemi d’arma del Dipartimento della Difesa (DoD) proviene dalla Cina.

Come le maree si trasformano.

Sembra che l’Occidente si stia lentamente risvegliando: non ha alcuna possibilità in un conflitto a lungo termine contro la potenza produttiva del blocco Russia-Cina-Corea del Nord-Iran.

L’establishment sembra terrorizzato dalla possibilità che la prossima ondata di figure politiche patriottiche possa mettere in crisi l’intero progetto del deepstate. Non solo Trump ha appena detto che la Russia, la Cina e la Corea del Nord non sono veri nemici dell’America, lasciando intendere che sotto di lui non lo saranno più, ma altre figure populiste stanno cercando di frenare o di far fallire i piani globali dei neoconservatori:

La leader dell’estrema destra francese National Rally, Marine Le Pen, ha avvertito che il presidente Emmanuel Macron non potrà inviare truppe in Ucraina come capo dell’esercito se il suo partito formerà il prossimo governo.

“Il capo delle forze armate, per il presidente, è un titolo onorifico, poiché è il primo ministro a controllare i cordoni della borsa”, ha dichiarato il leader del National Rally in parlamento in un’intervista al giornale.

Ciò è di pessimo auspicio per le prospettive dell’Ucraina.

E già di recente i portavoce dell’establishment hanno lanciato l’allarme: senza gli Stati Uniti, la stessa NATO crollerà:

Per non parlare di molte altre piccole crepe che si stanno formando nel “fronte unificato” destinato a sostenere il simulacro ucraino:

Un altro articolo recente, dopo il fallimento del vertice di pace svizzero, affermava:

“Se il vertice di Zelensky ha dimostrato qualcosa, è che il sostegno internazionale per la guerra eterna è in declino e che sta iniziando il tempo dei brutti compromessi”, si legge nell’articolo.

L’ultima indiscrezione del canale Legitmny afferma che il team di Zelensky è in preda al panico per ciò che Trump farà una volta entrato in carica, e sembra una serie di possibilità realistiche:

Confermiamo l’informazione che i colleghi dell’Ufficio del Presidente sono andati nel panico dopo il dibattito tra Biden e Trump.
Zelensky ed Ermak hanno iniziato a preoccuparsi ancora di più che Biden possa perdere il potere, cosa che li riguarderebbe.
La nostra fonte sottolinea che Trump può accusare la leadership ucraina di corruzione, avviare un audit su larga scala e chiedere elezioni democratiche per avere un presidente legittimo dell’Ucraina con cui condurre un dialogo. Fino a quel momento, tutti i finanziamenti saranno sospesi.
Come si capisce, le elezioni sono la morte per Zermak, il che significa che ora cercheranno in tutti i modi di eliminare i loro concorrenti e rivali (potrebbero esserci morti accidentali e l’opera del DWG russo).

L’altra grande preoccupazione che ha ora spaventato l’establishment occidentale è la riluttante consapevolezza che le élite russe si sono messe in riga, facendo cadere gli innumerevoli slogan propagandistici su come Putin debba essere rovesciato “da un momento all’altro” dai suoi “oligarchi” in rivolta. L’ultimo numero di Foreign Affairs del CFR morde l’amara pillola:

Quando è iniziata la guerra in Ucraina, l’élite russa è entrata in uno stato di shock. Mentre l’Occidente imponeva sanzioni e divieti di viaggio, i cittadini russi ricchi e politicamente legati si convinsero che la loro vita precedente era finita. Le perdite sul campo di battaglia si sono rapidamente accumulate e molti hanno considerato l’invasione un errore catastrofico.

Ma era allora. Con l’avanzare del 2023, le élite iniziarono ad appoggiare la guerra. Sempre più musicisti iniziarono a viaggiare per esibirsi nei territori occupati. In ottobre, Fridman tornò a Mosca da Londra, avendo deciso che la vita in Occidente sotto le sanzioni era insopportabile e che la situazione in Russia era relativamente confortevole. E non ci sono state nuove registrazioni di oligarchi che si lamentano della guerra. In effetti, è difficile immaginare che tali conversazioni avvengano.

E perché queste élite hanno smesso di preoccuparsi della guerra? Foreign Affairs lo spiega: ora vedono chiaramente che la Russia sta vincendo:

Questa citazione sintetizza il taglio dell’articolo:

“È brutto essere emarginati come vincitori, ma è peggio essere emarginati come perdenti”, mi ha detto un oligarca russo che aveva criticato la guerra in precedenza, ma che ora sembra comprenderla (come altri, ha parlato a condizione di anonimato, per proteggere la sua sicurezza). L’oligarca ha detto che in Russia è cambiato tutto: gli atteggiamenti verso Putin, le opinioni sull’Ucraina e le prospettive sull’Occidente. “Dobbiamo vincere questa guerra”, mi ha detto. “Altrimenti non ci permetteranno di vivere. E, naturalmente, la Russia crollerebbe”.

L’articolo prosegue notando che l’unica domanda che rimane nella mente degli oligarchi è che cosa, precisamente, costituirebbe una vittoria russa; o, in altre parole, quanto lontano dovrebbe andare la Russia? Discutendo della conquista di Kharkov, essi affermano in modo promettente:

Ma per quanto orribile sia questo risultato, è la visione meno terribile sostenuta dall’élite russa. Secondo un uomo d’affari con stretti legami con il Cremlino, Putin non si accontenterà di conquistare il nord-est dell’Ucraina. L’unico risultato che accetterà sarà la conquista di Kyiv.

Si precisa che Putin e Belousov hanno entrambi una sorta di predilezione religiosa per Kiev e per il suo monastero ortodosso Lavra, luogo di riposo di molti venerati santi russi.

Putin ha un legame speciale, quasi mistico, con la capitale ucraina, che considera la culla della civiltà russa.

Terminano con questa nota inquietante:

Se la Russia lanciasse una seconda campagna per catturare la capitale ucraina, l’esercito inizierebbe probabilmente la sua offensiva in Bielorussia, proprio come ha fatto nell’inverno del 2022. Probabilmente, come allora, le truppe russe attraverserebbero la landa radioattiva che circonda la centrale nucleare di Chernobyl. Molti a Mosca credono che questa volta, con l’esercito russo rafforzato e le riserve ucraine indebolite, il loro Paese potrebbe vincere. Secondo le élite russe, gli ucraini sono semplicemente troppo stanchi per opporre un’altra tenace difesa.

Ed è su questa nota che passiamo all’ultima strana notizia. La Bielorussia ha effettuato controlli di prontezza e ha ridispiegato ulteriori forze sul suo confine occidentale a causa di quello che si afferma essere un aumento delle truppe ucraine nella regione di Zhitomir:

Il corrispondente militare di RT Pridybaylo scrive che il piano di sequestro del territorio bielorusso da parte dei collaborazionisti, secondo lui, è stato approvato da Boris Johnson. Egli osserva che le forze d’attacco si trovano sia in Ucraina che in Polonia. Lo scopo dell’operazione, a suo avviso, è la distruzione di Alexander Lukashenko.

Il Capo di Stato Maggiore del Ministero della Difesa bielorusso ha dichiarato che l’Ucraina ha intensificato i movimenti delle sue forze al confine tra Bielorussia e Ucraina. Ulteriori forze dell’esercito bielorusso sono state dispiegate nell’area.

Il Ministero della Difesa ha inoltre riferito che, nel contesto dell’attività degli UAV ucraini, ha anche ritirato le forze di difesa aerea per coprire il confine e le strutture critiche della repubblica.

Il punto di vista di un analista russo che naturalmente condivido:

Gli ucraini stanno ammassando truppe al confine con la Repubblica di Bielorussia. Allo stesso tempo, i servizi speciali ucraini sono diventati più attivi in questa direzione. Per quale motivo? Le forze armate ucraine hanno già molti problemi al fronte. Perché trascinare i bielorussi nella guerra contro se stessi?

A mio parere, l’obiettivo principale dell’Ucraina è quello di attirare la NATO in un confronto aperto e massimo contro la Russia. Avendo provocato la risposta militare della Bielorussia, la NATO avrà un motivo più convincente per inviare un contingente di “mantenimento della pace” sul territorio ucraino al confine con la Repubblica di Bielorussia. In questo modo, si invieranno le Forze Armate dell’Ucraina, le guardie di frontiera e la polizia delle regioni posteriori nel tritacarne del fronte orientale. E l’Ucraina della sponda destra sarà tecnicamente annessa dai Paesi della NATO.

Un altro portavoce dell’esercito bielorusso conferma che si tratta di un tentativo dell’Ucraina-NATO di trascinare la Bielorussia nella guerra:

Un esperto russo discute gli sviluppi della situazione in un talkshow russo:

In generale, è chiaro che una confluenza di esiti negativi sta iniziando a delineare il peggiore scenario possibile per le prospettive dell’Ucraina. Se si tiene conto della probabilità che Trump vinca, che Macron e altri big europei perdano il potere, con l’ascesa di altri come Farage e Le Pen, delle voci di un coinvolgimento della Corea del Nord e di trattati con l’Iran, della distruzione della rete elettrica ucraina e dell’inverno catastrofico in arrivo, delle improvvise e inusuali richieste di pace da parte di Zelensky e del totale fallimento dell’Ucraina nell’ottenere qualsiasi cosa di rilevante nell’assortimento di inutili vertici della NATO e dell’UE, diventa evidente che la speranza per l’Ucraina sta rapidamente svanendo.

Naturalmente, alcuni sosterranno che le voci di negoziati segreti tra la Russia e l’Occidente devono essere prese in considerazione. Dopotutto, non è stato Putin ad estendere la prima importante offerta negoziale di recente, proprio alla vigilia del vertice svizzero? Seymour Hersh ha seguito la notizia con le sue “fonti segrete”, secondo cui Putin e gli Stati Uniti starebbero conducendo colloqui di pace “backdoor”.

Tuttavia, una cosa che non ho visto trattare da nessun altro analista è il fatto che la Russia ha ufficialmente negato che siano in corso colloqui di pace di questo tipo – credo che siano stati Lavrov o Peskov a dichiararlo la settimana scorsa, rispondendo direttamente alle affermazioni di Hersh.

Nel frattempo, la Russia continua a sviluppare il suo potenziale militare e a rispondere in modo asimmetrico all’aggressione dell’Occidente. Secondo alcune indiscrezioni, la Russia avrebbe fatto delle proposte per armare gli Houthi e potenzialmente Hezbollah; Israele ha mostrato grande preoccupazione e un funzionario israeliano ha dichiarato che deve stare molto attento a non irritare la Russia:

Vladimir Putin ha “considerato” la possibilità di fornire missili antinave alle forze armate dello Yemen, ha dichiarato Middle East Eye, citando un anonimo alto funzionario dell’intelligence statunitense.

L’intelligence statunitense sostiene che il presidente russo Vladimir Putin abbia chiesto all’Arabia Saudita il permesso di armare gli Houthi dello Yemen con missili da crociera. Allo stesso tempo, da Sanaa arrivano notizie di una serie di attacchi a navi nel Mediterraneo e nel Mar Rosso. Le forze armate yemenite, insieme alla Resistenza islamica in Iraq, hanno attaccato la nave petrolifera “WALER” nel Mar Mediterraneo con l’aiuto di diversi droni. Si parla anche di un attacco missilistico contro la nave americana “Delonix” nel Mar Rosso e della sconfitta della nave “Johannes Maersk” nel Mediterraneo con l’ausilio di un missile da crociera. Inoltre, è stata condotta un’operazione nel Mar Rosso contro la nave Ioannis, attaccata da diverse imbarcazioni di superficie senza equipaggio.

Inoltre, Putin ha annunciato che la Russia può riprendere la produzione di missili balistici a medio raggio, proprio quelli vietati dal precedente trattato INF:

L’analista russo Older Eddy dà il suo parere:

Il previsto avvio della produzione di nuovi missili a medio raggio per spaventare la NATO è corretto, ma bisogna capire che li spaventerà solo in termini di conflitto diretto con noi. E poi dobbiamo escludere la presenza di inadeguati come i polacchi e i baltici, che potrebbero cercare di iniziare una guerra solo per attirare gli alleati. Ci sono persone che credono seriamente che la guerra nucleare sia meglio dei negoziati con la Russia sul destino dell’Ucraina.

Ma in Ucraina dovremo ancora risolvere tutto con le nostre forze e le armi nucleari, che siano strategiche o meno, non ci aiuteranno. L’Occidente sarà comunque pronto a dare tutto quello che può, purché si combatta più a lungo, e la perdita del Khokhl in questo processo è l’ultima cosa che gli interessa. L’unica cosa che può seriamente ostacolare l’Occidente in questa impresa è la perdita della capacità dell’Ucraina di mantenere il numero di truppe al fronte. Questo può essere ottenuto sia con le perdite in battaglia, ma questo è molto lontano, sia con la distruzione delle infrastrutture ucraine – nel qual caso avranno bisogno di persone in inverno per stabilizzare la situazione nelle città rimaste senza luce e riscaldamento. Le notizie più interessanti sono quindi i risultati dei nostri attacchi alle reti energetiche e di trasporto del khokhlah. È in nostro potere renderle inutilizzabili, causando la frammentazione del Paese con la distruzione del sistema unificato di trasporti ed energia.

Senza contare che la Russia ha ora dichiarato che l’Occidente rischia di veder declassati ufficialmente i suoi legami nella loro interezza dalla Russia:

Come molti sanno, la Russia si muove molto lentamente – lenta a sellare, veloce a cavalcare, come si suol dire – ma quando lo fa, lo fa con conseguenze pesanti e durature.
Come ho detto, nel frattempo la Russia sta accumulando risorse e potenziale offensivo. A differenza dei pessimi risultati dell’Occidente e dell’incapacità di tradurre i luoghi comuni in azioni, la Russia si attiene ai suoi piani e alle sue promesse:

L’ultima citazione di ISW riporta la notizia che la Russia ha creato un intero nuovo esercito di armi combinate che sta ora dispiegando unità in Ucraina:

Fonte: Istituto per lo studio della guerra (ISW)

Citazione: “L’esercito russo è attualmente sottoposto a riforme su larga scala, tuttavia, tra cui la creazione di nuove formazioni a livello di esercito di armi combinate, e i riferimenti delle fonti ucraine a una ’51esima armata’potrebbero costituire un primo indicatore del fatto che la Russia ha formato un altro esercito di armi combinate da schierare in Ucraina”.

Un nuovo rapporto ucraino sostiene che la Russia stia accumulando forze questa volta nel sud, in preparazione di una nuova offensiva meridionale da qualche parte vicino a Ugledar o alla regione di Zaporozhye:

Nel frattempo, nella NATO:

Continuano le conquiste sul fronte; in effetti, la giornata di oggi è stata così intensa, con così tanti nuovi avanzamenti su tutta la mappa, che ho deciso di non preoccuparmi di coprirli tutti fino a quando non ci sarà un consolidamento un po’ più deciso delle catture.

Ma la canzone non è ancora finita per l’Ucraina, infatti presto ci sarà un pezzo importante per discutere di come l’Ucraina potrebbe ancora potenzialmente ottenere una sorta di “vittoria”.

Concludiamo con alcuni articoli di interesse vario:
Qui Arestovich descrive come 6 battaglioni separati sul fronte di Toretsk si siano tutti ammutinati e siano fuggiti, il che ha permesso alcuni degli sfondamenti russi di cui sopra:

Nel frattempo, il grande Ihor Mosiychuk di Aidar, solo due giorni fa, ha descritto come i missili russi abbiano spazzato via un’altra caserma di ufficiali a Kharkov, uccidendo almeno 15 AFU e ferendone altre decine.
I bombardamenti russi stanno causando danni ingenti: eccone un altro di oggi che ha spazzato via un intero treno ucraino che si dice fosse pieno di armamenti e di materiale occidentale:

Di gran lunga il momento più “presidenziale” dei dibattiti, davvero simbolico di ciò che l’America è diventata:

Infine, vi lascio con questo nuovo e azzeccato spot russo:


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ORLANDO PER TOTI, di Teodoro Klitsche de la Grange

ORLANDO PER TOTI

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Ho letto che nei giorni scorsi Toti, agli arresti domiciliari ha tenuto (in casa propria) una riunione con (alcuni) assessori in (probabile) esercizio della sua funzione di Presidente della Regione Liguria (carica dalla quale non si è dimesso). Anche se, a leggere la stampa, è “sostituito” dal Presidente ad interim Alessandro Piana. Non del tutto a torto le opposizioni (al Consiglio regionale ligure) hanno detto che così Toti “governa ai domiciliari”; e che ciò loro dispiaccia è comprensibile.

Ciò mi ricorda quello che scriveva Vittorio Emanuele Orlando – e che forse qualche lettore ricorderà che ho talvolta citato – sull’inviolabilità di certi organi dello Stato (quelli apicali) e responsabilità, nella specie, di chi ne è investito. Orlando ironizzava sulla tesi di Duguit, acuto giurista francese il quale sul conflitto tra diritto-dovere di esercitare la funzione e soggezione alla responsabilità penale, sosteneva che (il capo dello Stato) doveva e poteva esercitarla anche in stato di detenzione. E il giurista siciliano replicava così “si potrebbe …chiedere come farebbe il Presidente a convocare a presiedere il Consiglio dei Ministri o a ricevere un ambasciatore straniero che gli abbia a presentare le credenziali, invece che al Palazzo dell’Eliseo, in una cella della prigione della Santé!”. Onde gli sembrava più logica la soluzione americana per cui “La costituzione americana infatti ammette la possibilità di un giudizio di responsabilità verso il Presidente, mediante la procedura così caratteristicamente anglo-sassone dell’impeachment. Questa comincia con un voto della Camera dei rappresentanti che mette in accusa e si chiude con un voto del Senato, l’effetto del quale, se affermativo, è di far decadere il Presidente dalla sua funzione; se ed in quanto il fatto commesso costituisca un reato, la giurisdizione di diritto comune resterà libera di esercitarsi dopo, quando la persona, che vi è soggetta, non è più rivestita di autorità”. Quindi la giurisdizione (anche per i reati comuni) comincia solo quando la persona non ha più l’ufficio.

Si dirà che Toti non esercita funzioni “apicali”; ma nel caso, soccorre il principio democratico che, essendo stato eletto dal corpo elettorale, con il quale c’è un rapporto diretto (e non mediato) dovrebbe essere sospeso, allontanato, dimissionato, revocato solo dallo stesso corpo elettorale che l’ha investito.

Altrimenti a designare chi governa la Liguria sarebbero più i giudici che gli elettori. Mentre la soluzione caldeggiata da Orlando non intaccava la giurisdizione, che si eserciterebbe da sola dopo la fine del mandato degli elettori. E neppure derogava, se non per la “sospensione” dovuta all’esercizio di funzione pubblica (elettiva), al principio di distinzione dei poteri (Montesquieu).

Ben diverso l’impatto della richiesta di dimissioni del Presidente inquisito. Anche se la richiesta non è fondata su alcun obbligo giuridico, il risultato pratico (l’inquisito si dimette) entra in aperto contrasto sia col principio democratico che con quello di distinzione dei poteri.

Quanto al primo, l’ha appena scritta e quanto al secondo è chiaro che dimettersi perché inquisiti assegna un  potere di “veto” (o meglio censorio) al potere giudiziario su quello amministrativo. Meglio quanto opinava (il vecchio ma sempre valido) Orlando.

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Il tema dell’Intelligenza Artificiale e delle sue insidie, di Andrea Zhok

CONTRIBUITE!! AL MOMENTO I VERSAMENTI NON COPRONO NEMMENO UN TERZO DELLE SPESE VIVE DI CIRCA € 3.000,00. NE VA DELLA SOPRAVVIVENZA DEL SITO “ITALIA E IL MONDO”. A GIORNI PRESENTEREMO IL BILANCIO AGGIORNATO _GIUSEPPE GERMINARIO
Il tema dell’Intelligenza Artificiale e delle sue insidie è da qualche tempo di moda.
Tra le “insidie” più sentite (e più risentite) c’è l’idea che l’Intelligenza Artificiale possa sostituire professioni qualificate, intellettuali.
Ora, in questo timore e in questa attenzione c’è un fraintendimento di fondo. Si immagina che la minaccia provenga dall’IA, mentre essa proviene da scelte organizzative della produzione e del lavoro, scelte che precedono di almeno due secoli ogni discussione sull’IA.
La ragione per cui è oggi realistico che un medico, un avvocato o un professore possano essere presto o tardi sostituiti da un’istanza meccanica non-umana è che da quasi tre secoli la forma presa dalla produzione economica mira sistematicamente ad assimilare il lavoro umano (ogni tipo di lavoro umano) ad istanze meccaniche non-umane.
Ci si sveglia oggi perché ad essere minacciati appaiono tradizionali mestieri d’élite, ma questa è semplicemente l’ultima propaggine del medesimo processo che ha sostituito la produzione artigianale con la produzione seriale, meccanizzata. La produzione artigianale era notoriamente diseguale e quantitativamente più ristretta della produzione seriale, che si parli di pelletteria, falegnameria, lavorazione del ferro, costruzione di strumenti musicali, ecc. Questa disuniformità della produzione artigianale consentiva vertici di eccellenza oggi irraggiungibili (si pensi alla tradizione dei maestri liutai come Stradivari o Guarneri del Gesù), ma naturalmente non garantiva uno standard, e dunque per distinguere un lavoro ben fatto da un prodotto mediocre richiedeva la maturazione di una capacità di giudizio nel fruitore.
La produzione meccanizzata produce dunque tre effetti: tende a perdere sistematicamente sul piano dell’innovazione sperimentale, tende a perdere le punte di eccellenza, e tende a degradare il gusto medio dei fruitori, cui viene offerto un prodotto standardizzato, di cui non bisogna riconoscere le peculiarità. Al tempo stesso, naturalmente, la produzione seriale consente di portare alla luce quantità di prodotto enormemente superiori a quelle disponibili in passato, abbattendone i prezzi e dunque incrementandone l’accessibilità.
Per poter ottenere questo risultato fu necessario utilizzare l’esperienza pregressa dei maestri artigiani. Tale apporto consentì di costruire apparati produttivi seriali cui potevano dare un contributo produttivo anche lavoranti che mai avrebbero passato la soglia di una bottega artigiana. Le competenze più alte e specifiche tendono così dapprima a restringersi, nei numeri dei soggetti coinvolti, per poi ridursi anche quanto all’altezza e specificità stessa di quelle competenze, che sempre meno persone sono in grado di valutare.
Nel passaggio dall’uomo artigiano all’operaio alla catena di montaggio, l’uomo viene sempre più assimilato alla macchina e questo permette ai processi di natura meccanica, con il loro carattere anonimo e infinitamente iterabile, di diffondersi. La meccanizzazione del processo produttivo conferisce una potenza inedita alla produzione, al prezzo di smarrirne gli aspetti qualitativamente irriducibili.
Oggi, quando ad un medico si richiede di affidarsi ai “protocolli”, conferendogli garanzie legali e di deresponsabilizzazione se i “protocolli” sono seguiti pedissequamente, si sta procedendo alla meccanizzazione progressiva dell’arte medica, che appunto scompare come arte, scompare come fattore che sollecita lo sviluppo di facoltà diagnostiche e osservative speciali. Ciò avviene nel nome di una “standardizzazione” che risulterà necessariamente ottusa nella valutazione dei casi “eccentrici”, ai margini della distribuzione normale della gaussiana, ma che garantirà risposte rapide, economiche e di massa nella maggioranza dei casi ordinari. Quanto più questo processo avanza, tanto più ciò che i medici in carne ed ossa fanno è “riducibile a meccanismo”. Più standardizzato il servizio, tanto più rapidamente ed efficacemente esso potrà venire sostituito da procedimenti di Intelligenza Artificiale, che mediamente produrranno diagnosi e ricette rapide, massive, economiche e anche efficaci, per i casi vicini alla distribuzione media. Naturalmente il prezzo da pagare per questo beneficio è la sempre maggiore irriconoscibilità di tutto ciò che presenta aspetti eccentrici, la sempre maggiore ottusità nei confronti delle specificità individuali.
Lo stesso processo bussa alle porte quando nell’insegnamento, scolastico e a maggior ragione universitario, si promuove l’esigenza dell’uniformazione dei programmi e delle metodologie di insegnamento. Quando inizia a diventare senso comune che se si studia “letteratura latina” o “epistemologia” ciò deve garantire che si studi LA STESSA COSA – perché il nome è lo stesso – si prende la strada per cui potremo fare un solo corso standard filmato, riproducendolo infinitamente ad un numero indefinitamente ampio di studenti. E gli aggiustamenti o aggiornamenti potranno essere consegnati all’IA, che si affiderà alle forme pregresse ricombinate. Anche questo processo avrà il grande vantaggio di abbattere drasticamente costi e tempi di produzione del prodotto “lezione”, con il marginale problema di distruggere in forma ultimativa buona parte di ciò che un tempo rappresentava “cultura umana”. Che lo si sappia oppure no, quanto più ci si adegua agli standard richiesti dall’esterno, dai “ministeri”, dalle “autorità internazionali”, ecc. tanto più si lavora per l’uniformazione e infine la meccanizzazione della produzione culturale, ad ogni livello.
In generale, quanto più questo processo va avanti, tanto più “perdibili” (o senz’altro scadenti) appaiono i contributi umani e tanto più sensata appare perciò la loro sostituzione con uno standard meccanico.
Ma forse è bene così – chi sono io per contestare il progresso – basta che non vi siano infingimenti e che si tratti di una scelta consapevole, senza che venga camuffata da “attenzione alla qualità”.

Max Cxxxxxxxo

Quest’analisi funzionava bene con l’AI tradizionale, quella che si programmava. Ma quella non ha mai veramente messo a rischio le professioni intellettuali e creative. L’AI generativa, come quella dei Large Language Model, funziona in maniera diversa e, in termini generali, non garantisce la standardizzazione e l’omologazione dei processi produttivi. Al contrario, il motivo per cui ancora scarseggiano le applicazioni industriali su larga scala e’ proprio la quasi-impossibilita’ di stabilire certificati “safe & reliable” e protocolli per la quality assurance come ISO per sistemi basati su deep learning (si specula di sviluppare “trust marks” qualitativi, ma per ora la soluzione migliore sembra essere quella di usare… macchine per valutare qualitativamente le operazioni eseguite da altre macchine su larga scala. E’ ovvio che c’e’ un problema irrisolto di circolarita’). Attualmente, le applicazioni piu’ caratteristiche di questi sistemi sono quelle di aiuto “creativo”, ma sono meramente ausiliarie e supplementari rispetto all’attivita’ umana (il designer, con l’AI, puo’ generare all’istante 100 concepts e sceglierne uno da sviluppare poi autonomamente, mentre con il suo team di umani ne avrebbe sviluppati solo 3 o 4). Ovviamente in futuro ci sara’ uno sforzo di rendere queste tecnologie omologabili e standardizzate: questo ad esempio e’ l’ostacolo principale nella commercializzazione di veicoli a guida autonoma di livello 4 e 5. Ma non e’ detto che, in ultima analisi, la traiettoria sia universalmente quella di una ulteriore omologazione e standardizzazione dei processi produttivi. Anzi, l’AI generativa, in congiunzione ad altre tecnologie emergenti, come il 3D printing, potrebbe portare alla lunga alla capacita’ di customizzazione universale da parte degli utenti e, nel breve periodo, a un’enorme diversificazione delle forme di produzione, anche e soprattutto quelle intellettuali: da dove verra’ la musica del futuro e in che forma la si ascoltera’ con che modalita’ di fruizione e pagamento? Avra’ senso parlare ancora di Proprieta’ Intelletuale? Boh, fare previsioni adesso e’ come scegliere un numero alla roulette. Un altro aspetto da considerare e’ che l’AI trasformera’ profondamente il mercato del lavoro e mettera’ a rischio i lavori intellettuali e creativi (almeno nella loro forma attuale) molto prima di aver sviluppato capacita’ paragonabili a quelle umane: attualmente l’AI puo’ fare solo l’80 o 90 per cento del lavoro di un radiologo professionista, per cui per quanto efficiente, accurato, e veloce il lavoro dell’AI deve essere sempre accompagnato dall’attivita’ di un radiologo umano (che supervede e mette la firma). ll problema e’ che se prima in un reparto di radiografia di un grosso ospedale servivano 3 radiologi senior e 20 junior, con l’AI ne basta 1 senior un paio di umani che lo aiutano a settare i parametri dell’AI. Complessivamente, c’e’ una perdita di opportunita’ di lavoro per gli umani. L’idea che l’AI possa rimpiazzare un insegnante al momento sembra ridicola, ma il problema grosso e’ che se prima per insegnare un corso a 2000 studenti servivano, diciamo, 2 Prof senior e 5 o 6 assistenti (per fare tutorial, grading, etc.) nel prossimo futuro (soprattutto se si diffondera’ il modello dell’insegnamento telematico diacronico) potrebbero bastare 1 Prof senior e 1 solo assistente specializzato in educazione tecnologica. La qualita’ dell’insegnamento potrebbe essere inferiore in alcuni ambiti ma la natura di questa inferiorita’ potrebbe essere intangibile o difficile da dimostrare e allora in quel caso, se le amministrazioni annuseranno un’opportunita’ per risparmiare sul personale, l’esito sara’ ovvio e scontato. Potrebbe pero’ anche verificarsi il contrario: che in alcuni contesti si decida di investire in insegnanti umani, soprattutto se specializzati nell’uso dell’AI, per promuovere un’offerta didattica innovativa, con l’idea che l’AI e’ un complemento e non un sostituto, per consentire nuove forme di insegnamento tecnologicamente aumentate. Anche in questo caso l’esito a lungo termine non e’ facilmente prevedibile ma l’equazione tradizionale per cui “tecnologia = standardizzazione e meccanizzazione” potrebbe non essere piu’ valida. In alcuni ambiti l’AI potrebbe favorire l’esito opposto (un chatbot si presta meglio per fare chiacchierate aperte di natura esplorativa e riflessiva, come un consellor, che per fornire informazioni precise in base e protocolli iterabili, tipo customer service). E questa e’ d’altra parte la differenza sostanziale tra “automazione” (che ha caratterizzato le rivoluzioni industriali del passato, soprattutto le prime due) e “autonomia” (che dovrebbe essere al centro della quarta e, ipoteticamente, della quinta). E autonomia vuol dire soprattutto imprevedibilita’, varieta’, e fluidita’ dei contenuti.

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La politica con altri mezzi Putin e Clausewitz, di BIG SERGE_ ottobre 2022

Previsioni e riscontri_Giuseppe Germinario

La politica con altri mezzi

Putin e Clausewitz

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Carl von Clausewitz

Con la sola possibile eccezione del grande Sun Tzu e della sua “Arte della guerra”, nessun teorico militare ha avuto un impatto filosofico così duraturo come il generale prussiano Carl Philipp Gottfried von Clausewitz. Partecipante alle guerre napoleoniche, Clausewitz si dedicò in tarda età all’opera che sarebbe diventata la sua opera simbolo: un denso tomo intitolato semplicemente “Vom Kriege” – Sulla guerra. L’opera è una meditazione sulla strategia militare e sul fenomeno socio-politico della guerra, con una forte componente di riflessione filosofica. Sebbene laGuerra abbia avuto un impatto duraturo e indelebile sullo studio dell’arte militare, il libro stesso è a volte di difficile lettura – un fatto che deriva dalla grande tragedia di Clausewitz, che non riuscì mai a terminarlo. Morì nel 1831, all’età di soli 51 anni, con il manoscritto in disordine e senza modifiche, e toccò alla moglie cercare di organizzare e pubblicare i suoi scritti.

Clausewitz è famoso soprattutto per i suoi aforismi – “In guerra tutto è molto semplice, ma la cosa più semplice è difficile” – e per il suo vocabolario della guerra, che comprende termini come “attrito” e “culmine”. Tra tutti i suoi passaggi eminentemente citabili, tuttavia, uno è forse il più famoso: la sua affermazione che “la guerra è una mera continuazione della politica con altri mezzi”.

È su questa affermazione che vorrei soffermarmi per il momento, ma prima può essere utile leggere l’intero passaggio di Clausewitz sull’argomento:

“La guerra è la semplice continuazione della politica con altri mezzi. Vediamo, quindi, che la guerra non è semplicemente un atto politico, ma anche un vero e proprio strumento politico, una continuazione del commercio politico, una realizzazione dello stesso con altri mezzi. Tutto ciò che è strettamente peculiare alla guerra si riferisce solo alla natura peculiare dei mezzi che utilizza. Che le tendenze e le opinioni politiche non siano incompatibili con questi mezzi, l’Arte della Guerra in generale e il Comandante in ogni caso particolare possono esigere, e questa richiesta non è davvero di poco conto. Ma per quanto ciò possa influire con forza sulle opinioni politiche in casi particolari, deve sempre essere considerato solo una loro modifica; perché l’opinione politica è l’oggetto, la guerra è il mezzo, e il mezzo deve sempre includere l’oggetto nella nostra concezione”.

Sulla guerra, volume 1, capitolo 1, sezione 24

Una volta superato lo stile denso e verboso di Clausewitz, l’affermazione è relativamente semplice: il fare la guerra esiste sempre in riferimento a qualche obiettivo politico più grande, ed esiste sullo spettro politico. La politica si trova in ogni punto dell’asse: la guerra viene iniziata in risposta a qualche esigenza politica, viene mantenuta e continuata come atto di volontà politica e, in ultima analisi, spera di raggiungere obiettivi politici. La guerra non può essere separata dalla politica, anzi è proprio l’aspetto politico a renderla tale. Possiamo anche andare oltre e affermare che la guerra, in assenza della sovrastruttura politica, cessa di essere guerra e diventa invece violenza grezza e animalesca. È la dimensione politica che rende la guerra riconoscibilmente distinta da altre forme di violenza.

Consideriamo in questi termini l’azione bellica della Russia in Ucraina.

Putin il burocrate

Capita spesso che gli uomini più importanti del mondo siano poco compresi nel loro tempo: il potere avvolge e distorce il grande uomo. Questo è stato certamente il caso di Stalin e Mao, ed è altrettanto vero sia per Vladimir Putin che per Xi Jinping. Putin, in particolare, è visto in Occidente come un demagogo hitleriano che governa con terrore e militarismo extragiudiziario. Questo non potrebbe essere più lontano dalla verità.

Quasi tutti gli aspetti della caricatura occidentale di Putin sono profondamente sbagliati, anche se questo recente profilo di Sean McMeekin vi si avvicina molto di più. Per cominciare, Putin non è un demagogo: non è un uomo naturalmente carismatico e, sebbene nel corso del tempo abbia migliorato notevolmente le sue capacità di politico al dettaglio e sia in grado di tenere discorsi d’impatto quando necessario, non è una persona che ama il podio. A differenza di Donald Trump, Barack Obama o persino – Dio non voglia – di Adolf Hitler, Putin non è semplicemente un naturale intrattenitore di folle. Nella stessa Russia, la sua immagine è quella di un funzionario politico di carriera piuttosto noioso ma con la testa a posto, piuttosto che di un populista carismatico. La sua popolarità duratura in Russia è molto più legata alla stabilizzazione dell’economia e del sistema pensionistico russo che alle foto che lo ritraggono a cavallo a torso nudo.

Fidarsi del piano, anche quando è lento e noioso.

Inoltre, Putin – contrariamente all’idea che eserciti un’autorità extralegale illimitata – è piuttosto attento al proceduralismo. La struttura governativa russa prevede espressamente una presidenza molto forte (una necessità assoluta dopo il crollo totale dello Stato all’inizio degli anni ’90), ma all’interno di questi parametri Putin non è visto come una personalità particolarmente eccitante e incline a prendere decisioni radicali o esplosive. I critici occidentali possono affermare chein Russia non esiste uno Stato di diritto, ma per lo meno Putin governa secondo la legge, con meccanismi e procedure burocratiche che costituiscono la sovrastruttura all’interno della quale agisce.

Ciò è stato reso vividamente evidente negli ultimi giorni. Con l’Ucraina che avanza su più fronti, si è innescato un nuovo ciclo di sventure e trionfi: le personalità filo-ucraine esultano per l’apparente crollo dell’esercito russo, mentre molti nel campo russo lamentano una leadership che, secondo loro, deve essere criminalmente incompetente. Mentre tutto questo è in corso sul piano militare, Putin ha portato avanti con calma il processo di annessione attraverso i suoi meccanismi legali: prima ha indetto i referendum, poi ha firmato i trattati di ingresso nella Federazione Russa con i quattro ex oblast’ ucraini, che sono stati poi inviati alla Duma di Stato per la ratifica, seguita dal Consiglio della Federazione, seguita ancora dalla firma e dalla verifica di Putin. Mentre l’Ucraina getta nella lotta i suoi accumuli estivi, Putin sembra impantanato nelle scartoffie e nelle procedure. I trattati sono stati persino rivisti dalla Corte costituzionale russa e sono state fissate le scadenze per porre fine al corso legale della grivna ucraina e sostituirla con il rublo.

È uno spettacolo strano. Putin si barcamena tra le noiose formalità legali dell’annessione, apparentemente sordo al coro che gli grida che la sua guerra è sull’orlo del fallimento totale. La calma implacabile che irradia – almeno pubblicamente – dal Cremlino sembra in contrasto con gli eventi al fronte.

Quindi, cosa sta realmente accadendo? Putin è davvero così distaccato dagli eventi sul campo da non rendersi conto che il suo esercito è stato sconfitto? Sta progettando di usare le armi nucleari in un impeto di rabbia? O potrebbe trattarsi, come dice Clausewitz, della mera continuazione della politica con altri mezzi?

Guerra di spedizione

Di tutte le affermazioni fantasmagoriche che sono state fatte sulla guerra russo-ucraina, poche sono così difficili da credere come l’affermazione che la Russia intendeva conquistare l’Ucraina con meno di 200.000 uomini. In effetti, una verità centrale della guerra con cui gli osservatori devono semplicemente fare i conti è il fatto che l’esercito russo è stato in forte inferiorità numerica fin dal primo giorno, nonostante la Russia abbia un enorme vantaggio demografico sull’Ucraina stessa. Sulla carta, la Russia ha impegnato una forza di spedizione di meno di 200.000 uomini, anche se ovviamente questa quantità non è stata in prima linea in combattimenti attivi negli ultimi tempi.

Il dispiegamento di forze leggere è legato al modello di servizio piuttosto unico della Russia, che ha combinato i “soldati a contratto” – il nucleo professionale dell’esercito – con un pool di riservisti generato con un’ondata annuale di coscrizione. Di conseguenza, la Russia ha un modello militare a due livelli, con una forza pronta professionale di livello mondiale e un ampio bacino di riservisti a cui si può attingere, aumentando le forze ausiliarie come i BARS (volontari), i ceceni e le milizie della LNR-DNR.

I figli della nazione – portatori di vitalità e spina dorsale dello Stato

Questo modello di servizio misto a due livelli riflette, per certi versi, la schizofrenia geostrategica che ha afflitto la Russia post-sovietica. La Russia è un Paese enorme, con impegni di sicurezza potenzialmente colossali e di portata continentale, che ha ereditato un’eredità sovietica di massa. Nessun Paese ha mai dimostrato una capacità di mobilitazione bellica su scala pari a quella dell’URSS. La transizione da uno schema di mobilitazione sovietico a una forza pronta professionale più piccola e snella è stata parte integrante del regime di austerità neoliberale della Russia per gran parte degli anni di Putin.

È importante capire che la mobilitazione militare, in quanto tale, è anche una forma di mobilitazione politica. La forza contrattuale pronta ha richiesto un livello piuttosto basso di consenso politico e di adesione da parte della maggior parte della popolazione russa. Questa forza contrattuale russa può ancora fare molto, militarmente parlando: può distruggere le installazioni militari ucraine, creare scompiglio con l’artiglieria, farsi strada negli agglomerati urbani del Donbas e distruggere gran parte del potenziale bellico indigeno dell’Ucraina. Tuttavia, non può condurre una guerra continentale pluriennale contro un nemico che lo supera in numero di almeno quattro a uno e che si sostiene con intelligence, comando e controllo e materiali che sono al di fuori della sua portata immediata – soprattutto se le regole di ingaggio gli impediscono di colpire le arterie vitali del nemico.

È necessario un maggiore dispiegamento di forze. La Russia deve superare l’esercito dell’austerità neoliberale. Ha la capacità materiale di mobilitare le forze necessarie – ha molti milioni di riservisti, enormi scorte di equipaggiamento e una capacità produttiva interna sostenuta dalle risorse naturali e dal potenziale produttivo del blocco eurasiatico che si è stretto intorno a lei. Ma ricordate: la mobilitazione militare è anche mobilitazione politica.

L’Unione Sovietica è stata in grado di mobilitare decine di milioni di giovani uomini per smussare, sommergere e infine annientare l’esercito terrestre tedesco, perché ha esercitato due potenti strumenti politici. Il primo era il potere impressionante e di vasta portata del Partito Comunista, con i suoi organi onnipresenti. Il secondo era la verità: gli invasori tedeschi erano arrivati con intenti genocidi (Hitler a un certo punto pensò di trasformare la Siberia in una riserva slava per i sopravvissuti, da bombardare periodicamente per ricordare loro chi comandava).

A Putin manca un organo coercitivo potente come il Partito Comunista, che aveva un potere materiale sorprendente e un’ideologia convincente che prometteva di accelerare il cammino verso la modernità non capitalista. In effetti, nessun Paese oggi ha un apparato politico come quella splendida macchina comunista, tranne forse la Cina e la Corea del Nord. Quindi, in assenza di una leva diretta per creare una mobilitazione politica – e quindi militare – la Russia deve trovare una via alternativa per creare un consenso politico per condurre una forma di guerra superiore.

Questo obiettivo è stato raggiunto, grazie alla russofobia occidentale e alla propensione alla violenza dell’Ucraina. È in corso una sottile ma profonda trasformazione del corpo socio-politico russo.

Creare consenso

Putin e coloro che lo circondano hanno concepito la guerra russo-ucraina in termini esistenziali fin dall’inizio. È improbabile, tuttavia, che la maggior parte dei russi l’abbia capito. È probabile invece che abbiano visto la guerra nello stesso modo in cui gli americani hanno visto le guerre in Iraq e in Afghanistan: come imprese militari giustificate, che tuttavia erano solo un compito tecnocratico per i militari professionisti; difficilmente una questione di vita o di morte per la nazione. Dubito fortemente che qualche americano abbia mai creduto che il destino della nazione dipendesse dalla guerra in Afghanistan (gli americani non combattono una guerra esistenziale dal 1865), e a giudicare dalla crisi di reclutamento che affligge le forze armate americane, non sembra che qualcuno percepisca una vera minaccia esistenziale straniera.

Ciò che è accaduto nei mesi successivi al 24 febbraio è piuttosto notevole. La guerra esistenziale per la nazione russa è stata incarnata e resa reale per i cittadini russi. Le sanzioni e la propaganda anti-russa – che demonizza l’intera nazione come “orchi” – hanno radunato anche i russi inizialmente scettici dietro la guerra, e l’indice di gradimento di Putin è salito alle stelle. Un’ipotesi centrale dell’Occidente, ossia che i russi si sarebbero rivoltati contro il governo, si è ribaltata. I video che mostrano le torture dei prigionieri di guerra russi da parte di ucraini furiosi, i soldati ucraini che chiamano le madri russe per dire loro beffardamente che i loro figli sono morti, i bambini russi uccisi dai bombardamenti a Donetsk, sono serviti a convalidare l’affermazione implicita di Putin secondo cui l’Ucraina è uno Stato posseduto da un demone che deve essere esorcizzato con alti esplosivi. In mezzo a tutto questo – utile, dal punto di vista di Alexander Dugin e dei suoi neofiti – gli pseudo-intellettuali americani “Blue Checks” hanno pubblicamente sbavato sulla prospettiva di “decolonizzare e smilitarizzare” la Russia, il che comporta chiaramente lo smembramento dello Stato russo e la spartizione del suo territorio. Il governo ucraino (in tweet ora cancellati) ha pubblicamente affermato che i russi sono inclini alla barbarie perché sono una razza meticcia con sangue asiatico mescolato.

Contemporaneamente, Putin si è avvicinato – e alla fine ha realizzato – il suo progetto di annessione formale del vecchio confine orientale dell’Ucraina. Questo ha anche trasformato legalmente la guerra in una lotta esistenziale. Ulteriori avanzamenti ucraini a est sono ora, agli occhi dello Stato russo, un assalto al territorio russo sovrano e un tentativo di distruggere l’integrità dello Stato russo. Recenti sondaggi mostrano che una supermaggioranza di russi è favorevole a difendere questi nuovi territori a qualsiasi costo.

Tutti i domini sono ora allineati. Putin e compagnia hanno concepito questa guerra fin dall’inizio come una lotta esistenziale per la Russia, per espellere uno Stato fantoccio anti-russo dalle sue porte e sconfiggere un’incursione ostile nello spazio della civiltà russa. L’opinione pubblica è ora sempre più d’accordo (i sondaggi mostrano che la sfiducia dei russi nei confronti della NATO e dei “valori occidentali” è salita alle stelle), e anche il quadro giuridico successivo all’annessione lo riconosce. I settori ideologico, politico e giuridico sono ora uniti nell’opinione che la Russia stia combattendo per la sua stessa esistenza in Ucraina. L’unificazione delle dimensioni tecnica, ideologica, politica e giuridica è stata descritta poco fa dal capo del partito comunista russo, Gennady Zyuganov:

“Il Presidente ha firmato i decreti di ammissione alla Russia delle regioni DPR, LPR, Zaporozhye e Kherson. I ponti sono bruciati. Ciò che era chiaro dal punto di vista morale e statalista è ora diventato un fatto legale: sulla nostra terra c’è un nemico, che uccide e mutila i cittadini della Russia. Il Paese richiede l’azione più decisa per proteggere i connazionali. Il tempo non aspetta”.

È stato raggiunto un consenso politico per una maggiore mobilitazione e una maggiore intensità. Ora rimane solo l’attuazione di questo consenso nel mondo materiale del pugno e dello stivale, del proiettile e della granata, del sangue e del ferro.

Breve storia della generazione di forze militari

Una delle peculiarità della storia europea è la misura davvero sconvolgente in cui i Romani erano molto più avanti del loro tempo nella sfera della mobilitazione militare. Roma conquistò il mondo in gran parte perché aveva una capacità di mobilitazione davvero eccezionale, generando per secoli costantemente alti livelli di partecipazione militare di massa da parte della popolazione maschile italiana. Cesare portò più di 60.000 uomini alla battaglia di Alesia quando conquistò la Gallia – una generazione di forze che non sarebbe stata eguagliata per secoli nel mondo post-romano.

Dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, la capacità statale in Europa si deteriorò rapidamente. L’autorità reale, sia in Francia che in Germania, si ridusse mentre l’aristocrazia e le autorità urbane crescevano di potere. Nonostante lo stereotipo della monarchia dispotica, il potere politico nel Medioevo era molto frammentato e la tassazione e la mobilitazione erano molto localizzate. La capacità romana di mobilitare grandi eserciti controllati e finanziati a livello centrale andò perduta e la guerra divenne dominio di una ristretta classe di combattenti, la piccola nobiltà o i cavalieri.

Di conseguenza, gli eserciti europei medievali erano incredibilmente piccoli. In battaglie cruciali tra Inghilterra e Francia, come Agincourt e Crecy, gli eserciti inglesi erano meno di 10.000 e quelli francesi non più di 30.000. La storica battaglia di Hastings, che sancì la conquista normanna della Gran Bretagna, mise uno contro l’altro due eserciti di meno di 10.000 uomini. La battaglia di Grunwald – in cui una coalizione polacco-lituana sconfisse i Cavalieri Teutonici – fu una delle più grandi battaglie dell’Europa medievale e vide comunque contrapposti due eserciti che contavano al massimo 30.000 uomini.

In quest’epoca, i poteri di mobilitazione e la capacità statale dell’Europa erano incredibilmente bassi rispetto agli altri Stati del mondo. Gli eserciti cinesi contavano abitualmente poche centinaia di migliaia di uomini e i mongoli, anche se con una sofisticazione burocratica notevolmente inferiore, potevano schierare 80.000 uomini.

La situazione iniziò a cambiare radicalmente quando l’intensificarsi della competizione militare – in particolare la feroce guerra dei 30 anni – costrinse gli Stati europei ad avviare finalmente un ritorno alla capacità statale centralizzata. Il modello di mobilitazione militare si spostò finalmente dal sistema servile – in cui una piccola classe militare autofinanziata forniva il servizio militare – allo Stato militare fiscale, in cui gli eserciti venivano raccolti, finanziati, diretti e sostenuti attraverso i sistemi fiscali-burocratici dei governi centralizzati.

Nel corso del primo periodo moderno, i modelli di servizio militare acquisirono una miscela unica di coscrizione, servizio professionale e sistema servile. L’aristocrazia continuò a fornire il servizio militare nel corpo degli ufficiali emergenti, mentre la coscrizione e l’imposizione furono usate per riempire i ranghi. In particolare, però, i soldati di leva venivano arruolati per periodi di servizio molto lunghi. Ciò rifletteva le esigenze politiche della monarchia nell’epoca dell’assolutismo. L’esercito non era un forum per la partecipazione politica popolare al regime, ma uno strumento per difendersi sia dai nemici stranieri sia dalle jacqueries contadine. Pertanto, i coscritti non venivano reinseriti nella società. Era necessario trasformare l’esercito in una classe sociale distinta, con qualche elemento di distanza dalla popolazione in generale: si trattava di un’istituzione militare professionale che fungeva da baluardo interno del regime.

L’ascesa dei regimi nazionalistici e della politica di massa permise di aumentare ulteriormente le dimensioni degli eserciti. Alla fine del XIX secolo i governi avevano meno da temere dalle proprie popolazioni rispetto alle monarchie assolute del passato: questo cambiò la natura del servizio militare, riportando finalmente l’Europa al sistema che avevano i Romani nei millenni passati. Il servizio militare era ora una forma di partecipazione politica di massa, che consentiva di richiamare i coscritti, addestrarli e reinserirli nella società – il sistema dei quadri di riserva che ha caratterizzato gli eserciti in entrambe le guerre mondiali.

In sintesi, il ciclo dei sistemi di mobilitazione militare in Europa è uno specchio del sistema politico. Gli eserciti erano molto piccoli durante l’epoca in cui la partecipazione politica di massa al regime era scarsa o nulla. Roma schierava grandi eserciti perché c’era una significativa partecipazione politica e un’identità coesa sotto forma di cittadinanza romana. Questo ha permesso a Roma di generare un’elevata partecipazione militare, anche in epoca repubblicana, quando lo Stato romano era molto piccolo e burocraticamente scarso. L’Europa medievale aveva un’autorità politica frammentata e un senso di identità politica coesa estremamente basso, e di conseguenza i suoi eserciti erano sorprendentemente piccoli. Gli eserciti hanno ricominciato a crescere di dimensioni con l’aumentare del senso di identità e partecipazione nazionale e non è un caso che la più grande guerra della storia – la guerra nazi-sovietica – sia stata combattuta tra due regimi con ideologie totalizzanti che hanno generato un livello di partecipazione politica estremamente elevato.

Questo ci porta ai giorni nostri. Nel XXI secolo, con la sua interconnessione e la schiacciante disponibilità di informazioni e disinformazioni, il processo di generazione della partecipazione politica – e quindi militare – di massa è molto più sfumato. Nessun Paese ha una visione utopica e totalizzante, ed è innegabile che il senso di coesione nazionale sia significativamente più basso oggi rispetto a cento anni fa.

Putin, molto semplicemente, non avrebbe potuto condurre una mobilitazione su larga scala all’inizio della guerra. Non possedeva né un meccanismo coercitivo né la minaccia manifesta per generare un sostegno politico di massa. Pochi russi avrebbero creduto che nell’ombra si nascondesse una minaccia esistenziale: bisognava dimostrarglielo, e l’Occidente non ha deluso. Allo stesso modo, pochi russi avrebbero probabilmente appoggiato l’annientamento delle infrastrutture e dei servizi urbani ucraini nei primi giorni di guerra. Ma ora, l’unica critica a Putin all’interno della Russia è quella di un’ulteriore escalation. Il problema di Putin, dal punto di vista russo, è che non si è spinto abbastanza in là. In altre parole, la politica di massa ha già superato il governo, rendendo la mobilitazione e l’escalation politicamente banali. Soprattutto, dobbiamo ricordare che la massima di Clausewitz rimane vera. La situazione militare è solo un sottoinsieme della situazione politica e la mobilitazione militare è anche una mobilitazione politica, una manifestazione della partecipazione politica della società allo Stato.

Tempo e spazio

La fase offensiva dell’Ucraina continua su più fronti. Si stanno spingendo nel nord di Lugansk e, dopo aver sbattuto la testa contro un muro per settimane a Kherson, hanno finalmente fatto progressi territoriali. Eppure, proprio oggi, Putin ha detto che è necessario condurre esami medici dei bambini nei nuovi oblast’ ammessi e ricostruire i campi da gioco delle scuole. Cosa sta succedendo? È totalmente distaccato dagli eventi al fronte?

Ci sono solo due modi per interpretare ciò che sta accadendo. Uno è quello occidentale: l’esercito russo è sconfitto e impoverito e viene cacciato dal campo. Putin è squilibrato, i suoi comandanti sono incompetenti e l’unica carta rimasta alla Russia è quella di gettare nel tritacarne coscritti ubriachi e non addestrati.

L’altra è l’interpretazione che ho sostenuto, secondo cui la Russia si sta ammassando per un’escalation e un’offensiva invernale, ed è attualmente impegnata in uno scambio calcolato in cui cede spazio in cambio di tempo e di perdite ucraine. La Russia continua a ritirarsi quando le posizioni sono compromesse dal punto di vista operativo o di fronte a numeri schiaccianti di ucraini, ma è molto attenta a estrarre le forze dal pericolo operativo. A Lyman, dove l’Ucraina ha minacciato di accerchiare la guarnigione, la Russia ha impegnato le riserve mobili per sbloccare il villaggio e garantire il ritiro della guarnigione. L’“accerchiamento” dell’Ucraina è svanito e il ministero degli Interni ucraino è stato bizzarramente costretto a twittare (e poi cancellare) un video di veicoli civili distrutti come “prova” che le forze russe erano state annientate.

La Russia continuerà probabilmente a ritirarsi nelle prossime settimane, ritirando unità intatte sotto il suo ombrello di artiglieria e aria, riducendo le scorte di attrezzature pesanti ucraine e consumando la loro manodopera. Nel frattempo, nuove attrezzature continuano ad accumularsi a Belgorod, Zaporizhia e in Crimea. La mia aspettativa rimane la stessa: un episodico ritiro russo fino a quando il fronte si stabilizzerà all’incirca alla fine di ottobre, seguito da una pausa operativa fino al congelamento del terreno, seguita da un’escalation e da un’offensiva invernale da parte della Russia una volta che avrà finito di accumulare unità sufficienti.

Dal Cremlino emana una calma inquietante. La mobilitazione è in corso: 200.000 uomini sono attualmente sottoposti a un addestramento di aggiornamento nei poligoni di tutta la Russia. Treni carichi di attrezzature militari continuano ad attraversare il ponte di Kerch, ma l’offensiva ucraina prosegue senza che si vedano rinforzi russi al fronte. Lo scollamento tra lo stoicismo del Cremlino e il deterioramento del fronte è impressionante. Forse Putin e l’intero stato maggiore russo sono davvero criminalmente incompetenti – forse le riserve russe non sono altro che un gruppo di ubriaconi. Forse non c’è alcun piano.

O forse i figli della Russia risponderanno di nuovo alla chiamata della patria, come hanno fatto nel 1709, nel 1812 e nel 1941.

Mentre i lupi si aggirano di nuovo alla porta, il vecchio orso si alza di nuovo per combattere.

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