IL PUNTO D’ARCHIMEDE
Il politico e la sfera giuridica
La distinzione tra “politico” e “giuridico” è particolarmente ardua perché ambito, scopo, presupposti dell’uno e dell’altro sono uguali, o simili, o, almeno in parte, coincidenti.
Se, ad esempio ci si chiede “qual è lo scopo della politica?” la risposta prevalente è il “bene comune” inteso come sicurezza (e protezione) dalle minacce (interne ed esterne), come concordia (interna) e come benessere; se si pone la stessa domanda per il diritto, la risposta prevalente sarà di regolare giustamente e con certezza i rapporti sociali; il che coincide, in parte, col “bene comune” inteso come concordia nella comunità, data da un lato la necessità di regole, dall’altro che siano condivise e accettate (prevalentemente) dagli associati.
Se, del pari, si parte dall’ambito, mentre il carattere “sociale” della politica è dato per scontato, quello del diritto ha dato qualche problema: ciò non toglie che perché esista una norma o un comando giuridico occorre sempre che esista una società, magari di due persone soltanto. Una norma che, come quella morale, sia solo interiore ed abbia a soggetti l’individuo e Dio (o la coscienza), non è giuridica. Di più: è giuridica solo se concretamente applicabile (e violabile); e – almeno in qualche misura – applicata.
Il che porta all’altro problema della efficacia del diritto, che necessita dell’uso della coazione, cioè della forza, a sua volta mezzo (tipico) della politica. E così potrebbe continuarsi a lungo.
D’altra parte ci sono le differenze e l’irriducibilità dell’uno all’altro.
Un esempio, per l’attualità perdurante (e a ragione) di una differenza essenziale è quello fatto da Max Weber sulla diversa attitudine dell’uomo politico e del funzionario “…Giacchè lo spirito di parte, la lotta, la passione – ira et studium – sono l’elemento del politico. E specialmente del capo politico. Alla sua attività presiede un principio completamente diverso, anzi opposto a quello che regola l’attività del funzionario. Il funzionario, quando l’autorità a lui preposta insiste – nonostante le sue obbiezioni – su un ordine che a lui sembra errato, tiene ad onorare di saperlo eseguire, sulla responsabilità del superiore, coscienziosamente ed esattamente come se esso corrispondesse al proprio convincimento: senza tale abnegazione e disciplina etica nel senso più alto, l’intero apparato andrebbe in rovina. Viceversa l’onore del capo politico, e quindi del capo di stato, consiste nell’assumersi personalmente ed esclusivamente la responsabilità delle proprie azioni, che egli non può né vuole evitare o addossare ad altri. Sono proprio le nature di funzionari di grande levatura morale a far dei cattivi politici, irresponsabili secondo il concetto politico della parola, e, in questo senso, moralmente vili”[1]. In questo passo è formulata la distinzione tra l’attitudine e la funzione politica (che è di dare comandi) e quella del funzionario (della burocrazia) che è d’eseguirli. Ciò stante per capire e delimitare i differenti ambiti del politico e del giuridico, occorre individuare i punti di contatto, come le differenze tra gli stessi.
- Quanto a quelli, il primo è dato dal carattere e dall’ambito sociale in cui si esplicano necessariamente. Come cennato, vale la regola ubi societas ibi ius, come la speculare ubi ius ibi societas. Il presupposto della socialità del giuridico, come del politico è evidente. Com’è stato scritto, anche nell’isola di Robinson Crusoe, il diritto è nato solo con la presenza di Venerdì: prima sarebbe stato assurdo. Per la politica (ed il politico) nessuno, che ci risulti, ha mai messo in forse il presupposto del rapporto (relazione) sociale, dato che la politica è sempre attività di gruppi umani.
Altro carattere comune è quello della conservazione della società, dato anch’esso, per lo più, scontato per la politica, un po’ meno per il “giuridico”. Nella realtà se il diritto porta in se, in maggiore evidenza rispetto alla politica, l’idea di giustizia (con la conseguenza estrema, espressa nel detto fiat justitia pereat mundus) è pur vero che perché un comando (una norma) giuridica sia (per lo più) applicabile (quindi efficace) è necessario sia condivisa, almeno in prevalenza, nella società: un certo grado di concordia la deve supportare. Più in generale occorre ricordare come una delle concezioni prevalenti del diritto è che sia una tecnica sociale: una buona “tecnica” deve conseguire lo scopo specifico e assegnato di conservare la società. Solo comandi su cui una larga parte di associati siano d’accordo sono suscettibili di essere eseguiti con un minimo di forza ed un massimo di consenso. E lo stesso discorso, mutatis mutandis, vale per il benessere: la “buona” tecnica deve raggiungere obiettivi di “buona” (cioè efficace e positiva) gestione.
- Quanto ai punti di differenza, il principale è dato dal carattere autonomo del politico, cui si contrappone quello eteronomo del giuridico. Occorre chiarire tali concetti, e il rapporto tra autonomia del politico ed eteronomia del giuridico.
In primo luogo l’autonomia della politica (e del politico) non va intesa soltanto nel senso tradizionale, come indipendenza da precetti morali (e giuridici), ma anche nel senso letterale, di ciò che da obiettivi, regole, a se stesso: ovvero in senso positivo, prima che negativo, di possibilità/capacità di prima che di libertà da. Vale per la politica (ed il politico) la considerazione di Spinoza che i limiti e le regole che lo Stato deve osservare sono quelli naturali e non delle leggi civili, e che l’essere autonomi consiste per l’uomo nell’essere “in grado di respingere ogni violenza, di esigere a suo giudizio il risarcimento del danno subito e, in una parola, di vivere a suo talento”[2]; e per gli Stati, trovandosi “tra loro come uomini allo stato di natura”[3], la situazione è la medesima. Per cui carattere della politica è di essere autonoma, nel senso di dare legge: o ai sudditi, (in e con) la pace, o, ai (possibili) nemici in (e con la) guerra. Il collegamento che lo spirito romano aveva individuato tra hostis ed auctoritas ed espresso nelle XII tavole: adversus hostem aeterna auctoritas, può spiegarsi così.
Per cui carattere della politica (e del politico) è di non riconoscere leggi (comandi) che non siano quelli che (la comunità) scelga di darsi; se si obbedisce a comandi altrui, significa che si è in una situazione patologica. Come quella di uno Stato protetto rispetto alla potenza protettrice.
Di converso il “giuridico” non è pensabile se non in una cornice di eteronomia: Autonoma è, nell’uomo, o può esserlo, la coscienza (morale o religiosa); ma il comando, la norma giuridica mai. Il massimo che può farsi per aumentare il grado di “autonomia” è di partecipare alla formazione delle norme (dei comandi) pubblici, come sostenuto da Hobbes e da Rousseau. Ma anche in una democrazia quanto più vicina al “tipo ideale” della stessa il soggetto che comanda (cioè l’assemblea dei cittadini) è distinto dai “comandati” – per cui come scriveva Hobbes – non c’è “patto tra il sovrano ed alcun suddito”[4].
Quindi se l’autonomia è connotato del politico – intesa come attributo dell’unità collettiva (ovviamente non dell’individuo) – l’eteronomia lo è del giuridico.
In questo senso il principio di Kant per cui “il sovrano nello Stato ha verso i sudditi soltanto diritti e nessun dovere (coattivo)”[5], esprime compiutamente sia l’eteronomia del giuridico, che l’autonomia del politico, ovviamente in relazione allo Stato moderno. Avere solo diritti e nessun dovere significa sia poter dare comandi (leggi) sia (in caso di emergenza) non doverne rispettare alcuno (neanche quelli autonomamente assunti). Peraltro, quel coattivo tra parentesi indica proprio l’obbligo e il dovere giuridico, cioè applicabile ricorrendo alla forza (che il sovrano abbia doveri di altro genere – non giuridici – è concepibile e sostenuto, con ragione, da molti). Così da una parte il diritto, anche quello prodotto dalla autonomia privata, poggia in ogni caso su una decisione e volontà politica (anche di consentire e sostenere l’autonomia: è cioè un raro esempio di autonomia eteronoma); dall’altro il politico, cioè il carattere essenziale del potere sovrano è d’esser libero da ogni condizionamento e limite giuridico.
Il carattere “eteronomo” del diritto, riguardo alla decisione giuridica, risulta anche dalla struttura della medesima: la quale si fonda sull’autorizzazione/applicazione di comandi (norme) già decise (altrove); per cui un provvedimento o una sentenza sono sindacabili e qualificabili validi (o invalidi) in base ad un controllo di conformità rispetto alla norma o ai comandi che li supportano. Ciò sia se questi abbiano contenuto normativo (com’è, per lo più, nello Stato moderno) sia che consistano in semplici comandi (privi cioè di generalità e/o astrattezza). La decisione politica non è, di converso, sindacabile rispetto ad una norma. Mentre una sentenza è buona (valida) se il Giudice ha correttamente applicato il diritto vigente, la misura politica è buona in quanto congrua a risolvere una situazione, al limite infrangendo il diritto, comprese le norme costituzionali. Mentre per il Giudice vale il detto, sopra ricordato, fiat justitia, pereat mundus (intendendo per justitia il diritto applicabile), per la politica vale l’altro salus populi suprema lex[6]. E la salvezza dello Stato non è materia propriamente giuridica, e tantomeno di norme.
La stessa tesi fu fatta propria da Thomasius e da Kant, riguardo alla distinzione tra diritto e morale. Per il primo ogni diritto consiste di comandi esterni e non interni; Kant poi sostiene che “Il puro accordo e disaccordo di un’azione con la legge, egli dice, senza riguardo al movente dell’azione stessa, si chiama legalità (conformità alla legge) mentre quando l’idea del dovere, derivata dalla legge, è nello stesso tempo movente dell’azione si ha la moralità (dottrina morale). I doveri imposti dalla legislazione giuridica possono essere soltanto doveri esterni, perché questa legislazione non esige che l’idea del dovere, che è del tutto interna, sia di per se stessa motivo determinante della volontà dell’agente e siccome ha bisogno di moventi appropriati alle sue leggi, non può ammettere che moventi esterni. La legislazione morale, all’opposto, per quanto eriga a doveri anche azione interne, non esclude per questo le azioni esterne, ma si riferisce in generale a tutto ciò che è dovere”[7]. Da cui consegue che “al diritto è quindi immediatamente connessa, secondo il principio di contraddizione, la facoltà di costringere colui che lo pregiudica” e “un diritto stretto può dunque soltanto chiamarsi quello che è completamente esterno”; per cui “esso diritto s’appoggia unicamente sul principio della possibilità di una costrizione esterna la quale possa consistere con la libertà di ognuno secondo leggi generali”[8].
- Da ciò deriva che le regole (le leggi) della politica, ovvero quelle rispetto alle quali si valuta la congruità dei comportamenti politici (e delle istituzioni politiche) hanno come connotato comune proprio quello di non essere giuridiche; di non potersi cioè apprezzare (e coartare) quei comportamenti rispetto a regole di diritto (in particolare positivo, o a, seconda del significato che si da a quest’ultimo, a quello naturale). Si può condividere o meno l’opinione di Hobbes che “la legge naturale è, per definirla, un dettame della retta ragione riguardo ciò che si deve fare o non fare per conservare, quanto più a lungo possibile, la vita e le membra”, da cui consegue che i comportamenti relativi sono veri o falsi, e non come quelli, valutati sotto l’aspetto giuridico (così come le norme) leciti od illeciti, validi o non validi[9]; ovvero quella di Spinoza, secondo il quale lo Stato deve osservare solo le regole non del diritto civile, ma di quello naturale[10]; ma è sicuro che sul piano “effettuale”, questo appare vero.
D’altra parte, se si parte proprio dai “presupposti” del politico, come definiti da Freund, non si capisce come potrebbe formularsi in termini e in base a presupposti giuridici (preventivi e generali) la scelta tra pace e guerra, né se un’azione debba essere comandata e da chi, ovvero se un’attività debba essere pubblica o privata.
La prima, peraltro, non dipende (se non parzialmente) dalla volontà propria, perché scegliere di essere nemico di una data unità politica è decisione di un’altra unità; quanto agli altri due presupposti pretendere di codificare ciò che dev’essere pubblico o a chi si debba obbedire (compresa la forma di Stato) significa voler ingessare la storia. Anche se nell’illuminismo e tra i rivoluzionari dell’89 era diffusa la concezione del legislatore (e di legge, anche costituzionale) destinata a durare, tuttavia era parimenti diffusa la convinzione che una generazione non può vincolare (eternamente) le future; e, d’altra parte, a salvarli dalla deriva “giuridica” v’era il concetto del potere costituente che, comunque, sta sopra (e prima de) la stessa Costituzione, dallo stesso modificabile, anche integralmente.
L’altro presupposto del “giuridico” è, secondo Freund[11] la relazione tra permesso e vietato. Come quella tra sociale ed individuale non è esclusivo del diritto ma comune a molti altri settori dell’attività umana, in particolare alla morale. Tuttavia è la condizione di (pensabilità ed) esistenza di un comando, giacché comandare qualcosa presuppone la libertà di scegliere e quindi il vietare qualcos’altro. Né in una società in cui tutto è permesso, né in quella in cui si comandino cose impossibili (ad impossibilia nemo tenetur) è concepibile un comando eseguibile (in generale) e quindi neppure una regola giuridica. Certo è immaginabile una società la cui grundnorm consista nel “tutto è permesso”, ma questa, oltreché mai vista nella storia, non avrebbe bisogno di diritto, inteso come apparato di coazione (quindi istituzione) atteso che non sarebbe possibile costringere ad alcunché. Una società del genere, senza istituzioni e senza divieti, è, in definitiva, l’esatta rappresentazione dello stato di natura hobbesiano.
- Consegue a quanto sopra che carattere essenziale delle regole della politica è proprio di non essere giuridiche, cioè suscettibili di comando e coazione esterna. Si potrebbe obiettare che la politica non ha regole (leggi); ma questa considerazione non è condivisibile. La politica ha infatti le regole che vuole osservare (questo è il primo volto dell’autonomia del politico); l’altro consiste in quelle regole che ne determinano il fine (l’hobbesiana salus rei publicae suprema lex); o nelle regole “tecniche” per la protezione della comunità e l’esercizio del potere. La filosofia ed il pensiero politico ne hanno elaborate tante. Da quella (De Benoist) di ridurre il numero dei nemici, che ha avuto le più varie formulazioni ed espressioni nel corso della storia (dal divide et impera romano al “mai la guerra su due fronti” del Quartier generale germanico del secolo scorso)[12]. Machiavelli, ma anche Hobbes e Spinoza ne hanno indicate diverse: il cui connotato comune (prevalente) è dipendere dallo scopo dell’attività politica. Cioè dalla protezione dell’esistenza comunitaria e dell’ordine che assicura, ai quali sono strumentali come mezzi al fine.
L’altro carattere del “politico” e delle sue regole è di essere “sovraordinate” al “giuridico” (e alle sue norme). Ciò non solo per la sovranità – concetto chiave perché è il punto di raccordo tra politica e diritto – e che ha (anche) la funzione di garanzia/protezione dell’ordine attraverso l’esercizio/disciplina della coazione; e non solo perché il fine della politica, nel caso d’emergenza (e talvolta non solo in quello) prevale su quello del diritto (la giustizia, o meglio l’equità), sicché, come scriveva Jhering “la forza sacrificherà il diritto per salvare la vita”; ovvero, secondo Santi Romano, la necessità è fonte di diritto[13]; ma anche perché a seguire le regole giuridiche (o, sotto un diverso aspetto, morali) piuttosto che quelle della “ragion di Stato”, una comunità prepara, come scriveva Machiavelli per il Principe “più tosto la ruina che la preservazione sua”. Se, ad esempio, le potenze occidentali avessero soccorso militarmente la Finlandia, aggredita nel 1939 dall’Unione Sovietica (come chiesto da buona parte dell’opinione pubblica), avrebbero avuto la normativa internazionale dalla loro parte (il protocollo di Ginevra del 1924 condannava la guerra di aggressione, e quella alla Finlandia lo era) ma fatta una pessima scelta politica: sia perché, oltre alla guerra con Hitler, se ne sarebbero trovati un’altra con Stalin, sia perché avrebbero consolidato la recente (e labile) alleanza tra i loro nemici. Citando Odilon Barrot, dato che talvolta la legalité nous tue, per non morire occorre “rompere” o “derogare” alla legalità.
D’altra parte è proprio il diritto positivo, con la nutrita casistica di deroghe ed eccezioni al diritto costituzionale ed ordinario che dimostra carattere e struttura di tale rapporto: rotture costituzionali, stati d’eccezione, stato di necessità, deroghe ed attenuanti alla legislazione penale.
Per cui correttamente Santi Romano riteneva, nel passo sopra citato, che anche in caso sia vietato far uso di poteri eccezionali, la necessità legittima la violazione del diritto (o meglio della legge) vigente.
In altri termini, in ogni ordinamento (che sia vitale) esiste una “clausola generale” (anche se non scritta, anche se vietata) in virtù della quale la protezione dell’esistenza (collettiva) prevale sulla legalità. Coincidendo, secondo Santi Romano il concetto d’istituzione con quello d’ordinamento[14], questa clausola è giuridica, perché costitutivo-conservativa dell’esistenza collettiva. Insieme alla sovranità – e sotto il profilo oggettivo – è il punto di raccordo tra fine del politico e finalità del diritto. Consegue da ciò che l’istituzione politica (nella modernità, e per eccellenza, lo Stato) ha il compito di far convivere esigenze della politica e del diritto, sein e sollen. Proprio nel pensiero (giuridico) istituzionista, e nel concetto d’istituzione ciò è avvertito più nettamente; secondo Hauriou “il potere è una libera energia della volontà che assume l’impresa di governo di un gruppo umano attraverso la creazione dell’ordine e del diritto”[15]. Quindi all’inizio c’è il potere; questo crea l’ordine attraverso l’istituzione[16]; il potere (e il governo) di fatto si trasforma così in un potere (e governo) di diritto. Il rapporto tra potere, ordine attraverso il diritto (cioè l’istituzione) e consenso coutumier fa si che l’istituzione debba tener conto sia del potere che del consenso e dell’ordine, e così dei “due” poli, politico e giuridico.
Il rapporto di “sovraordinazione” o di “decisività” tra politica e diritto, e di prevalenza-precedenza della prima sul secondo, cui ci ha avvicinato la tesi di Hauriou su potere ed ordine, è particolarmente evidente nel momento di fondazione (o ri-fondazione) dell’istituzione, e, in ispecie, dell’istituzione-Stato.
A questo è stato molto attento, sia negli scritti giovanili che negli ultimi, Santi Romano; lo stesso problema è, tuttavia, solitamente trascurato dai giuristi, in parte con l’attenuante che il giurista interpreta il diritto che è, e non indaga il momento genetico dell’istituzione. Ma proprio quest’ultimo mostra l’essenza e i modi del rapporto: la teoria di Sieyès sul potere costituente lo conforta (e ne è la più chiara espressione). Sieyès la fonda su tre caratteri distintivi di tale potere: il primo negativo, d’essere svincolato da ogni forma, “une nation est indèpendente de toute forme”. Al contrario dei poteri costituiti, che sono tenuti a rispettare la legalità (“il n’est legal qu’autant qu’il est fidèle aux lois qui lui ont été imposées”) la volontà nazionale (cioè il potere costituente) “au contraire n’a besoin que de sa réalité pour être toujours lègale, elle est l’origine de toute lègalité”. La nazione non è sottomessa ad una Costituzione, e non può (né deve) esserlo; non solo è indipendente d’ogni forma, ma non ha bisogno di alcuna giustificazione (supporto) giuridico. In essa realtà e legalità coincidono: la seconda è lo sviluppo-emanazione della prima. Infine “De quelque manière qu’une nation veuille, il suffit qu’elle veuille: toutes les formes sont bonnes, et sa volonté est toujours la loi suprême”; per cui è essa a determinare (ed istituire) la/e forma/e in cui si organizzerà ed articolerà l’istituzione[17]. Il politico non ha così una data forma, ma è creatore della (propria) forma. Il fatto che questa/e forma/e sia vitale (cioè efficace, capace di far esercitare il comando con successo e consenso) lo si deve al grado di accettazione da parte dei consociati, che si esprime in categorie (e concetti) essenzialmente politici (e “fattuali”) come autorità e legittimità. Così il “politico” e la volontà politica (tanto del “creatore” dell’ordine che dei governati) è il punto d’Archimede dell’ordinamento giuridico (statale): togliendo, modificando, o sostituendo quello, cambia questo: mentre non è vero il contrario; perché il cambiamento di una, o più norme (anche la maggior parte), e neppure quello di istituzioni modifica la costituzione (intesa nel senso schmittiano delle decisioni fondamentali sui modi e forme dell’esistenza politica) e ancor meno il potere costituente.
A tale proposito occorre ricordare come molti giuristi hanno notato che vi sono istituzioni originarie e derivate. Le prime sono “quelle in cui si concreta un ordinamento giuridico che non è posto da altre istituzioni e che è quindi, quanto alla sua fonte, indipendente. Ci sono viceversa istituzioni derivate, il cui ordinamento è, cioè, stabilito da un’altra istituzione, la quale afferma così, a questo riguardo, la sua superiorità sulla prima, che le rimane quindi subordinata”[18]; così come lo Stato ha, secondo Rudolf Smend, il carattere che “il suo funzionamento non viene mantenuto da un motore o da un giudice esterni alla sua struttura, non viene sorretto da una causa o da una garanzia eteronome, ma si integra, grazie alla legislatività oggettiva rispetto al valore, esclusivamente in un sistema di integrazione gravitante su se stesso” per cui “In un senso del tutto diverso dalla costituzione di un’associazione, la costituzione scritta di uno Stato può perciò soltanto stimolare e limitare quella vita costituzionale che gravita su se stessa e che non può essere garantita eteronomamente”[19]. In sintesi il carattere politico (e originario) dell’istituzione statale fa si che è il potere politico – e sovrano – inerente alla medesima a garantire unità, stabilità e applicazione del diritto; per le altre è un potere esterno all’istituzione (cioè, per lo più, un’altra istituzione), proprio perché priva di sovranità.
Si potrebbe con un paragone ardito, adattare al diritto il teorema di incompletezza di Gödel, per il quale vi sono punti che il sistema non riesce a decidere né a dimostrare autonomamente. Di converso il politico, come scritto da Sieyès nel passo sopra citato, non ha necessità di legittimazione o d’essere conforme a una norma o ad una procedura giuridica.
- Il punto di giunzione (e frizione) tra giuridico e politico è dato dal diritto pubblico, intendendo con ciò quello che – in altre lingue romanze, come anche in italiano, ai tempi di Romagnosi – si chiama anche “diritto politico”. Nei suoi rami più alti, ma talvolta anche in quelli inferiori, sono ravvisabili diversi punti di raccordo (e di conflitto) tra esigenze della politica e principi ed istituti giuridici.
Proprio il diritto positivo (i diritti positivi) degli Stati moderni concorre a provare come il politico (e la politica) sono irriducibili al giuridico; in particolare, se si intende questo essenzialmente come regola, come norma applicabile esattamente da un giudice o da un funzionario. Le forme di questa irriducibilità sono varie. Ne ricordiamo le principali:
1) In primo luogo non c’è necessità di avere il diritto per creare il diritto: ciò è implicito nell’affermazione di Sieyès che la Nazione, per il solo fatto di esistere è tutto ciò che vuole essere: ovvero che non ha bisogno di alcuna legittimazione giuridica. Questo, oltre che da altri, è ripreso (e in certo senso, ampliato) nella nota tesi (v. supra nota 13) di Santi Romano, per cui anche senza autorizzazione legislativa all’uso di “poteri eccezionali e straordinari, questi potranno essere assunti ed esercitati in forza della necessità. Come è consuetudine, anzi a maggior ragione, data la sua maggiore energia, la necessità è fonte autonoma del diritto, superiore alla legge”[20].
2) Anche senza voler ricordare la funzione protettiva-conservatrice dell’autorità politica, particolarmente chiara ed evidente nello “ stato di eccezione”, neppure in rapporti e situazioni non connotate dall’emergenza, ma, in un certo senso, normali, l’ambito del “politico” coincide col “normativo”. Infatti atti particolarmente rilevanti sono sottratti al sindacato del giudice, anche nelle democrazie liberali, dove il controllo è, di converso e di solito, penetrante e generale. Così nel diritto italiano gli atti politici, in quello francese gli actes de gouvernement non sono impugnabili davanti al Giudice. A tale proposito è stato sostenuto che “l’attività politica non può venir definita unicamente un’attività libera, ma un’attività libera perché politica[21]” e che gli atti espressione della funzione di governo sono “istituzionalmente sottratti ad ogni sindacato giurisdizionale. Essi sono sottratti per natura, non perché esiste l’art. 31 T.U. sul Consiglio di Stato”[22].
Anche in presenza dell’art. 113 della Costituzione italiana (che prescrive la sindacabilità generale degli atti amministrativi) la categoria degli atti politici è “sopravvissuta” alla Costituzione repubblicana[23] ; per cui ne risulta rafforzata la tesi che tali atti non sono justiciables per “natura”.
3) I poteri rappresentativi (e talvolta non solo quelli) sono immuni dalla giurisdizione penale. La prima costituzione europea moderna, cioè quella francese del 1791, già lo disponeva (titolo III, cap. I, art. 3) prescrivendo che i tribunali non potessero interferire nell’esercizio del potere legislativo né sospendere l’attuazione delle leggi: prescrizioni similari, e quelle sull’immunità dei parlamentari (dei Capi di Stato e dei Ministri) da arresti e processi erano riportate praticamente in tutte le costituzioni europee successive, degli Stati liberali prima e (poi) democratico-liberali; così come le deroghe alle competenze e forme ordinarie in caso di processo ipolitici.
L’argomento decisivo per spiegare le immunità (e le deroghe) per determinati organi “supremi” dello Stato è quello esposto, nel solco di una tradizione di pensiero sullo (o dello) Stato che risale a Bodin ed Hobbes, da Vittorio Emanuele Orlando, in un saggio del 1933. Scriveva infatti: “Che fra gli organi onde lo Stato manifesta la sua volontà e la attua, uno ve ne sia che su tutti gli altri sovrasta, superiorem non recognoscens, e che non potendo appunto ammettere un superiore (chè allora la potestà suprema si trasporterebbe in quest’altro) deve essere sottratto ad ogni giurisdizione e diventa, per ciò stesso, inviolabile ed irresponsabile, è noto” (il corsivo è nostro) [24].
- Il breve excursus che precede spero sia servito al chiarimento di ciò che è politico e ciò che è giuridico. La compenetrazione dei quali – nelle forme costituite – crea molteplici tipi d’interazione e rapporti, di cui il diritto positivo costituisce la testimonianza; e da cui i criteri distintivi sono registrati.
Resta il fatto che il diritto è per natura eteronomo, e gli sono essenziali (e “dati”) forma e procedura; mentre il politico è autonomo, è morfopoietico, e (in ultima analisi) non ha bisogno di osservare procedure o legittimazioni giuridiche per imporre la propria volontà.
Quando si cerca di dimenticare – o sminuire tali caratteri, i casi sono due: o si cerca di utilizzare il diritto come supporto in una battaglia politica ( come, ad esempio, l’uso leninista della legalità), ammantandosi del “valore aggiunto” della legge, rivolto – come arma in più – contro il nemico; o si confondono legalità e legittimità, forme e procedure, subordinazioni e coordinazioni, essere e dover essere, comando e obbedienza, pubblico e privato, in un caos, che la mancanza di un punto d’Archimede, visibile e riconosciuto (“pubblico”), rende durevole (quanto dannoso). Che può essere la forma ideologica di un moderatismo policratico, in cui la moderazione delle parole copre i fini particulari di una congerie (irresoluta e) tendenzialmente anarchica di poteri privati, anche se non sempre nell’oggetto, nella mentalità e nella funzione.
Teodoro Klitsche de la Grange
[1] Politik als beruf, trad. it., Torino 1966, p. 72.
[2] V. Trattato politico, trad. it., Torino 1958, p. 168 (il corsivo è nostro).
[3] Op. cit., p. 195.
[4] Elements of Law Natural and Politic, trad. it., Firenze 1968, p. 178.
[5] Die Metaphisik der Sitten, trad. it., Bari 1973 p. 149.
[6] T. Hobbes scrive che legge, dovere e profitto del Sovrano “sono una medesima cosa, contenute nella sentenza, Salus populi suprema lex” v. Elements, sopra cit. p. 250.
[7] Die Metaphisik Der Sitten, I, Intr., § 3, op. cit., p. 21 (i corsivi sono nostri).
[8] Op. cit., p. 37
[9] “Per retta ragione nello stato naturale degli uomini non intendo, come molti fanno, una facoltà infallibile, ma l’atto di ragionare, cioè il ragionamento, proprio di ciascuno e vero, riguardo quelle proprie azioni che possono tornare a vantaggio o a danno degli altri uomini. Dico: proprio, perché, sebbene nello Stato la ragione dello Stato (cioè la legge civile) debba essere ritenuta retta da ciascun cittadino, fuori dello Stato, dove non si può distinguere la retta ragione dalla falsa, se non paragonandola alla propria, la ragione di ciascuno deve valere non soltanto come regola delle azioni proprie, fatte a proprio rischio, ma anche come misura della ragione altrui, nelle cose che ci riguardano. Ho detto: vero, cioè concluso mediante la corretta composizione di principi veri, perché ogni violazione delle leggi naturali consiste in un falso ragionamento, cioè nella stupidità di uomini che non considerano necessario alla propria conservazione l’adempimento dei loro doveri verso gli altri” Hobbes, op. cit., p. 90 (il corsivo è nostro).
[10] V. Spinoza “Vediamo dunque in qual senso si possa dire che lo Stato è soggetto alle leggi e che può delinquere. Se per legge si intende il diritto civile, ossia il diritto che si può civilmente rivendicare, e per delitto un’azione vietata dal diritto civile; ossia, se queste parole sono intese alla lettera, non si può in alcun modo dire che lo Stato sia soggetto alle leggi o che possa delinquere. Infatti, le regole e i motivi di soggezione e di ossequio, che lo Stato deve a propria garanzia conservare, non sono del diritto civile, ma del diritto naturale, giacché (per l’art. precedente) non si possono rivendicare per diritto civile, ma per diritto di guerra, e lo Stato non vi è tenuto se non per la sola ragione per cui anche l’uomo nello stato naturale è tenuto, se vuole mantenersi libero e se non vuole diventare nemico di se stesso, ad evitare di uccidersi: dovere, questo, che non implica soggezione, ma denota la libertà dell’umana natura. Il diritto civile dipende invece esclusivamente dalla volontà dello Stato, il quale, se vuole mantenersi libero, non deve adeguarsi se non al proprio talento e non riconoscere per bene o male se non ciò che esso stesso ha dichiarato tale; e quindi, non soltanto ha il diritto di imporsi, di promulgare leggi e di interpretarle, ma anche di abrogarle e di condonare la pena a qualsiasi delinquente per la pienezza del proprio potere”, op. cit., p. 205.
[11] Philosophie et sociologie, Louvain-La-Neuve 1984, p. 87 ss.
[12] Regola due volte non osservata, con le conseguenze, per la Germania, che tutti sanno.
[13] Santi Romano ritornò più di una volta sulla concezione della necessità come fonte di diritto (v. ad esempio il saggio del 1898 Saggio di una teoria sulle leggi di approvazione, ora in Scritti minori, vol. I). riportiamo il passo più significativo della seconda edizione del Diritto costituzionale generale (del 1947, l’anno della morte) “Talvolta, le leggi scritte accordano, in casi di necessità, al potere esecutivo la facoltà di emanare decreti o ordinanze, che si dicono per l’appunto di necessità o urgenza, in sostituzione del potere legislativo, cui normalmente spetterebbe la competenza di emanare le norme occorrenti. Ma anche quando tali leggi scritte mancano, o sono inadeguate alla situazione che si è formata, e persino quando espressamente vietano che si faccia uso di poteri eccezionali e straordinari, questi potranno essere assunti ed esercitati in forza della necessità. Come la consuetudine, anzi a maggior ragione, data la sua maggiore energia, la necessità è fonte autonoma del diritto, superiore alla legge. Essa può implicare la materiale e assoluta impossibilità di applicare, in certe condizioni, le leggi vigenti e, in questo senso, può dirsi che «necessitas non habet legem». Può anche implicare l’imprescindibile esigenza di agire secondo nuove norme da essa determinate e, in questo senso, come dice un altro comune aforisma, la necessità fa legge. In ogni caso, «salus rei publicae suprema lex» (il corsivo è nostro).
[14] V. L’ordinamento giuridico, rist. Firenze 1967, p. 27.
[15] Préçis de droit Constitutionnel, Paris 1929, p. 14.
[16] Op. cit., pp. 17 e ss.
[17] Qu’est-ce-que le tiérs État, Liv. V.
[18] v. Santi Romano, L’Ordinamento giuridico, cit. p. 141 (il corsivo è nostro).
[19] V. R. Smend Verfassung und Verfassungsrecht, trad. it. Milano 1988 p. 156; sul punto Smend ritorna nella voce Integration, trad. it. cit., p. 286 per sostenere che le istituzioni non statali “vengono garantite dalla dissoluzione interna per lo più mediante poteri esterni: il giudice, la coercizione amministrativa, sino agli strumenti della cosercizione sociale e a quelli della politica estera e del diritto internazionale. Per lo Stato, in quanto si pone semplicemente come compito, non vi sono affatto tali garanzie esterne” (il corsivo è nostro).
[20] Santi Romano. Diritto costituzionale generale, Milano 1947, p.92 (i corsivi sono nostri).
[21] v. Ranelletti-Amorth “Atti politici” in Noviss. Digesto italiano vol. 3° p.1512 (il corsivo è nostro).
[22] v. P. Barile Atto del governo (e atto politico) in Enc. Diritto, vol, IV p. 225.
[23] V. p. es. Cass.,S.S.U.U. civili, 25/11/1983 n.7072 sugli atti della Commissione di vigilanza sui servizi radiotelevisivi.
[24]V. E. Orlando Immunità parlamentari ed organi sovrani, Rivista di diritto pubblico, XXV Roma 1933, ora in Diritto pubblico generale, Milano 1954, p. 487. E prosegue: “circa gli attributi ed i caratteri dell’organo sovrano come furono definiti di sopra, non vi sono gravi difficoltà, quando l’ordinamento ne riconosce ed ammette uno solo: e non importa se questo unico organo sovrano sia, in relazione alle varie forme di governo, una persona fisica (monarchia), o un collegio, e questo sia costituito da componenti di una classe privilegiata o dalla universalità dei cittadini (aristocrazie o democrazie assolute)” e specifica: “Si giustifica pertanto la nostra teoria la quale può riassumersi così: non si può dare organo sovrano senza che esso sia coperto della garanzia della inviolabilità, la quale importa: essere sottratto ad ogni giurisdizione capace di esercitare una coazione fisica sulla persona. Naturalmente, come avviene sempre nel mondo del diritto, questo principio generale deve, nell’applicazione, adattarsi alle manifestazioni concrete della realtà costituzionale, assumendo forme diverse senza però venir mai meno in se stesso”.
Se si tratta di organo collegiale “come sono le assemblee parlamentari, l’inviolabilità fisica non può normalmente porsi se non in via indiretta, attraverso l’inviolabilità dei membri; ma, d’altra parte, non è necessario e sarebbe anzi sconveniente, che questa forma di inviolabilità del collegio nelle persone dei suoi membri fosse così assoluta e così rigida come deve essere in rapporto a una persona fisica”. Per cui “Attraverso tutte queste differenze, per quanto importanti possano essere, è però sempre lo stesso principio che si applica, riaffermando l’inviolabilità come qualità inseparabile dell’organo sovrano: diritto comune e non diritto di eccezione, poiché deriva per virtù di semplice logica giuridica dalla stessa maniera di essere dell’ordinamento” perché ad essere “rigorosamente esatti” non è tanto che il Parlamento (e gli altri organi sovrani) si sottraggono ad ogni giurisdizione “ ma bensì, che compete ad esso (comprendendo il Re) la giurisdizione suprema e che tale sua qualità sia sufficiente perché possa risolvere senza concorso di un’altra autorità, le questioni della sua prerogativa”, op. cit. p. 495 ss..
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