LA LEGITTIMITÁ DI PUTIN, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA LEGITTIMITÁ DI PUTIN

1.0 L’esito – scontato – delle elezioni presidenziali in Russia, con un plebiscito a favore di Putin ha suscitato, in Occidente, una copiosa contestazione della legittimità delle stessa (e quindi dell’esito).

A parte il fatto che, indubbiamente, le condizioni in cui si sono svolte e, ancor di più, la storia della Russia – così diversa da quella dell’Europa occidentale – fanno sì che pretendere lì le stesse garanzie normali da noi è come sparare sulla croce rossa. Altro sono le elezioni in Stati che da secoli si sono evoluti in democrazie liberali altro quello di un popolo che, a parte qualche mese nel 1917 (!)fino al 1989 è passato da autocrazia al totalitarismo. Insomma il Cremlino e S. Basilio possono essere belli, ma sicuramente non profumavano di democrazia e libertà come Downing Street.

Tuttavia l’occasione è provvida per tornare sul concetto di legittimità, di cui, specie da noi, si fa, a parte questa occasione un uso parsimonioso e, nemmeno a dirlo, parziale.

La legittimità è definita (trascriviamo il tutto dal Dizionario di politica di Bobbio-Matteucci-Pasquino) consistere “nella presenza in una parte rilevante della popolazione un grado di consenso tale da assicurare l’obbedienza senza che sia necessario, se non in casi marginali, il ricorso della forza” tuttavia “il processo di legittimazione non ha come punto di riferimento lo Stato nel suo complesso, ma i suoi diversi aspetti; la comunità politica, il regime, il governo… Pertanto la legittimazione dello Stato è il risultato di una serie di elementi disposti a livelli crescenti, ciascuno dei quali concorre in modo relativamente indipendente a determinarla”. Riguardo al potere costituito si possono individuare “due tipi fondamentali di comportamento. Se determinati individui o gruppi percepiscono il fondamento e i fini del potere come compatibili o in armonia con il proprio sistema di credenze e operano per la conservazione degli aspetti di fondo della vita politica, il loro comportamento si potrà definire come legittimazione. Se, invece, lo Stato viene percepito nella sua struttura e nei suoi fini come contraddittorio con il proprio sistema di credenze e questo giudizio negativo si traduce in un’azione” allora non c’è legittimazione. Ora Weber individuava tre tipi di legittimità: tradizionale, razionale-legale, carismatica. In genere strumenti istituzionali di verifica della compatibilità dei governanti, con il common sense dei governati si trovano soltanto in un tipo di Stato: quello democratico, soprattutto attraverso le elezioni (a larga base elettorale). Il che non vuol dire che non votandosi in altri tipi di Stato questi non siano legittimi.

Pellicani scrive che “La legittimità è lo specifico attributo che hanno gli Stati che godono di un diffuso consenso da parte dei governati. Essa non va confusa con la legalità, Questa si riferisce al modus operandi del potere sovrano, mentre la legittimità riguarda la titolarità dello stesso. È legittimo il potere che l’opinione pubblica percepisce come l’istituzione che ha il diritto di governare” onde “naturalmente, il principio di legittimità varia da civiltà a civiltà, società e società e da epoca a epoca. Ma la sua funzione è sempre la stessa: quella di conferire a un soggetto (individuale o collettivo) il diritto di comandare e di dare all’obbedienza dei governati una base morale”.

Onde anche se non legittimati elettoralmente, come ad esempio i monarchi negli Stati dell’età moderna (come anche di quella feudale), erano legittimi perché i sudditi credevano che avessero il diritto di comandare. Fino al punto di prendere le armi per difenderne il trono come nell’insurrezione vandeana e nelle guerre partigiane (ossia di popolo) in Italia e in Spagna.

Nel caso di Putin quindi, e premettendo che le elezioni, tenuto conto della situazione interna, hanno comunque dato una legittimazione positiva a Putin

vediamo perché.

Dicono i sondaggi che il Presidente russo goda di un’ampia popolarità, non lontana dalla percentuale di voti favorevoli riscossi. Non sappiamo se fidarcene: comunque bisogna registrarla e cercare in altre, possibili cause il consenso che Putin avrebbe.

In primo luogo se è vero che il concetto più condiviso di legittimità è quello della “coincidenza di valori” o meglio dell’idem sentire de re publica tra governati e governanti è noto che ce n’è anche un altro, dovuto ad Hobbes, cioè della concreta ed effettiva prestazione della protezione da parte dei governanti a fronte dell’obbedienza richiesta ai governati che esponiamo trascrivendola dal Dizionario di politica citato “Quando il potere è stabile ed è in grado di assolvere in modo progressista o conservatore alle proprie funzioni essenziali (difesa, sviluppo economico ecc.), esso fa valere contemporaneamente la giustificazione della propria esistenza, facendo appello a determinate esigenze latenti nelle masse, e con la potenza della propria positività si crea il consenso necessario”. Orbene Putin ha conseguito indubbi risultati positivi nel suo più che ventennale governo della Russia. Emerge dai dati internazionali che il PIL individuale è cresciuto di circa 4 volte (tanto per fare un confronto in Italia la crescita è stata, nello stesso periodo, di pochi punti percentuali).

Quanto alla difesa non ha esitato a difendere lo Stato sia contro le forze secessioniste (v. conflitto ceceno) sia contro le intromissioni internazionali (Georgia ed Ucraina).

Se poi si condivide idea di un pensatore come Bonald secondo il quale la Costituzione è (in primo luogo) il modo di esistenza di un popolo, Putin, sia con le opere che con i discorsi, ha dimostrato di voler proteggere il mondo d’esistenza russo, e ancor più di non volerlo fotocopiare da quello americano-occidentale.

In sostanza la legittimità di Putin può essere contestata ma prendendo come elementi qualificanti l’accettazione  da parte dei governati e la conformità allo spirito e agli interessi nazionali.

2.0 Diversamente gli osservatori occidentali delegittimano Putin sulla base di presupposti e valutazioni ideologiche e soprattutto non riferentesi alla legittimità come rapporto tra capo e seguito, lubrificante del potere e del presupposto del comando/obbedienza. Vediamo come.

Sui soggetti. A giudicare se un potere sia legittimo o meno sono coloro che gli sono soggetti. Cioè i russi e non politici e giornalisti occidentali. Che un potere sia legittimo o meno è un giudizio su fatti: il consenso, la pace, l’ordine. Potrà pure essere un colossale errore condiviso, ma resta il fatto che se i sudditi sono convinti del diritto dei governanti a governare il potere è legittimo. Il fatto che non lo pensino gli stranieri non ha significato e conseguenze di rilievo.

Sui parametri. Anche qui mentre i parametri con cui gli esterni giudicano il potere di Putin sono procedurali e valoriali (e soprattutto non sono – o solo in parte – quelli dei russi); quelli dei russi sono assai più ampi e soprattutto più concreti: a cominciare dall’incremento del benessere economico e della salvaguardia delle specificità nazionali. I diritti LGBTQIA+ e l’attuazione del green deal non sembra che siano in cima alle aspirazioni ed ai giudizi dei russi. Probabilmente una maggiore libertà lo sarebbe: ma tenuto conto che ne hanno sempre avuta poco, quel di più che i governi post-comunisti hanno loro assicurato non appare disprezzabile.

Infine è curioso che a giudicare della legittimità di un governo siano coloro che, con quello, sono in uno stato di ostilità manifesta. A parte il resto, è chiaro che contestare, fino a demolire la legittimità del nemico è una risorsa importante – e spesso decisiva – della guerra psicologica. Perché indebolisce il nemico; e quindi è poco credibile sia come giudizio sine ira et studio che come strumento di pace.

3.0 C’è una terza considerazione da fare: politici e giornalisti omettono di considerare che se Putin deve fare ancora molta strada per essere considerato un ineccepibile liberaldemocratico, anche ad ovest della Vistola ci sono stati e governanti che dovrebbero “rifare gli esami”; e non ci riferiamo al solito Orban. Ma soprattutto all’Italia. Specialmente alla c.d. “seconda repubblica”. Se è vero che Putin è poco liberale, è altrettanto vero che in Italia abbiamo avuto: a) governanti mai eletti dal popolo, non solo in elezioni per la carica di governo ma in nessuna elezione, neppure nell’assemblea di condominio (Monti e Draghi). Per cui è impossibile verificare elettoralmente il consenso che avevano (per Draghi) e verificarne solo a posteriori (per Monti) accertando che godeva di percentuali da prefisso telefonico (v. elezioni europee del 2014 il risultato delle liste “montiane”); b) che tutti i Presidenti del Consiglio dal 2011 sono stati nominati malgrado non designati elettoralmente ma altrove. La prima a infrangere questa costante è proprio la Meloni, che ha rammendato (per noi) lo strappo tra democrazia parlata e oligarchia praticata; c) per essi come per il Presidente della Repubblica a decidere è il Parlamento. Pertanto se Putin ha riportato un consenso plebiscitario, anche se contraffatto, in genere i governanti italiani né sono stati nominati dal popolo, né al popolo piacevano un granché. E questo senza voler approfondire circostanze che, forse, hanno alterato i risultati elettorali in maniera decisiva (v. politiche 2006 con la maggioranza risicata dei voti al centrodestra in una Camera e nell’altra al centrosinistra) e che è superfluo ricordare. In particolare quelli che conseguono al controllo dei principali strumenti di informazione. Per cui se Putin lascia, come liberaldemocratico, a desiderare, certi governanti nostrani non sono certo un esempio di virtù. Anche nel senso di Machiavelli.

Teodoro Klitsche de la Grange

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IL PAPA E LA BANDIERA BIANCA, di Teodoro Klitsche de la Grange

IL PAPA E LA BANDIERA BIANCA

Dopo il discorso del Papa sulla “bandiera bianca” (ossia sull’esigenza di negoziati) c’è stata una copiosa produzione di articoli, asserenti in sostanza che, essendo Putin un aggressore era doveroso, lecito e necessario che fosse sconfitto e punito.

Cui è facile rispondere che siccome lo zar non è convinto di ciò, tutto questo argomentare si scontra con l’unica condizione indispensabile alla cessazione della guerra, la volontà di ambo le parti di fare la pace, e così anche di Putin. Ma se dalle critiche da salotto si va a valutare l’esortazione del Papa alla luce della teologia cristiana – che tanta parte ha avuto nel diritto internazionale – si nota che i presupposti di quanto sostenuto dal pontefice vi sono tutti.

Andiamo a leggere Francisco Suarez oltre che teologo anche gesuita. Scrive che la “guerra di difesa non solo è sempre lecita ma talvolta anche prescritta” e peraltro anche quella d’aggressione non è il male in sé “ma può essere lecita e necessaria” se ne ricorrono le condizioni individuate dai teologi: che la guerra sia dichiarata dal potere legittimo, che vi sia una justa causa e un corretto modo di condurla.

Anche De Vitoria riteneva legittima in ogni caso la guerra difensiva, anche da parte di privati (aggrediti). Ogni comunità politica (cioè una e totale) può comunque dichiarare e condurre la guerra. Anche la guerra d’aggressione può essere giusta ove rivolta a tutelare un (proprio) diritto offeso.

Ma se anche la guerra di aggressione può essere giusta e quella difensiva lo è sempre, al riguardo i teologi-giuristi scolastici si ponevano il problema conseguente che, in tal caso, poteva succedere che i belligeranti vantassero entrambi di combattere per una justa causa.

Deriva da ciò che se si desidera che la guerra cessi non è realistico condizionare il risultato al ripristino del diritto leso dal “crimine d’aggressione”, come è stato declinato in tutte le forme dalle anime belle (???), ma raggiungere un accordo che possa tener conto delle  posizioni (e situazioni) delle parti belligeranti, anche se non coincidenti – anzi quasi mai lo sono – con l’ordine precedente. Quasi tutte le guerre si concludono con trattati: le poche non concluse così sono le peggiori. Perché o chiuse con un diktat non negoziato ma imposto dal vincitore ovvero quando il nemico è politicamente distrutto (v. la Germania nel 1945, il Regno delle due Sicilie nel 1861 ecc. ecc.) onde non c’è un nemico con cui trattare, che rappresenti la comunità vinta.

Perché quello che si dimentica e che invece la Chiesa non ha obliato è che il nemico non è soltanto colui che ci fa (o cui facciamo) guerra, ma anche il soggetto con cui si può – e normalmente si conclude – la pace. Non è solo il perturbatore dell’ordine – come nella narrazione degli Sceriffi globali – ma quello con cui si costruisce un ordine nuovo.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Hilaire Belloc, Le due culture, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Hilaire Belloc, Le due culture, Oaks Editrice, Sesto S. Giovanni 2023, pp. 232, € 20,00.

Nella sua visione critica della modernità, un autore prolifico come Belloc non poteva non scrivere un saggio come questo, volto a demolire le principali critiche alla religione cattolica. Scrive l’autore che il cattolicesimo è stato oggetto di critiche assai diverse, a seconda delle epoche, neppure del tutto esauritesi, anche a distanza di secoli, che chiama sopravvivenze e di attacchi in fieri che denomina sopravvenienza. Oltre alle quali ogni periodo storico ha avuto un “oppositore principale”.

Così tra le sopravvivenze nel XX secolo Belloc ricorda il cristianesimo “biblico” ossia essenzialmente fondato su un’interpretazione delle Scritture spesso molto letterale ma altrettanto spesso poco razionale. E così lo scientismo notando che finiva per contraddire, con le sue esagerazioni, le proprie basi (Popper avrebbe scritto che certe tesi scientiste peccano di essenzialismo).

Attualmente, scrive Belloc, l’opposizione  principale è costituita dalla triade nazionalismo, anticlericalismo, mentalità moderna. Quest’ultima appare come la più pericolosa “nulla potrà liberarcene all’infuori del dissolvimento. È come un enorme mucchio di fango che si può distruggere soltanto per mezzo di un lento lavaggio. Sarà certo l’ultimo dei tre a resistere in forma di sopravvivenza”. Esso “tende invece a rendere intellegibile la Religione. Nei confronti della Religione agisce intorpidendo le facoltà analitiche. Rende ottusa la facoltà di valutare e blocca l’entrata della Fede. Da qui la sua potenza” e continua “Sezionandola, scopriamo che la ‘mentalità moderna’ contiene tre ingredienti principali combinati in maniera da presentare la forza di un unico principio. Essi sono l’orgoglio, l’ignoranza e la pigrizia intellettuale; il principio che li unifica è la cieca accettazione di una autorità che non si fonda sulla ragione”.

Quanto alla sopravvenienza, Belloc vede la crescita del Neo-paganesimo. Il quale differisce dal (vecchio) paganesimo in ciò “tutto il Paganesimo sfocia nella disperazione, questo nostro moderno la accetta come base. Ecco dunque la speciale caratteristica che abbiamo cercato di discernere in questa sopravvenienza. Da qui la sua mancanza di raziocinio che è la disperazione intellettuale, l’orrido in architettura, in pittura e in letteratura, il che significa la disperazione estetica, e la dissoluzione morale che vuol dire la disperazione etica”. Come sostiene Martino Cervo nell’introduzione “le istituzioni, le leggi, l’educazione, i cardini della politica estera e interna dei Paesi occidentali appaiono strutturalmente contrari o di ostacolo all’antropologia cattolica”. Per cui lo Stato laico moderno è permeato da una serie di contraddizioni fondate su una antropologia contrapposta a quella cattolica. Una nota: il libro è assai interessante e per molti versi, “profetico” della situazione della società attuale. Tuttavia la contrapposizione antropologica tra Stato liberaldemocratico e concezione cattolica esiste in misura marginale. Perché sia una mentalità religiosa che una laica si basano sulla natura problematica dell’uomo, capace di scegliere tra bene e male, e perciò necessitante d’istituzioni che tengano conto del fatto che né i governanti sono angeli, né lo sono i governati, come scritto nel Federalista (fra i tanti). Perciò più che al liberalismo ed al costituzionalismo “classici”, la critica serrata di Belloc pare indirizzata alle “vie traverse” autoproclamatesi “liberali” e cresciute, specie negli ultimi quarant’anni le quali con il pensiero liberale e costituzionale classico hanno non molto a che vedere.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Lorenzo Castellani, Eminenze grigie, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Lorenzo Castellani, Eminenze grigie, Liberilibri, Macerata 2024, pp. 167. € 16,00.

Lorenzo Castellani è particolarmente attento ai rami intermedi del potere; già nel saggio “L’ingranaggio del potere” (Liberilibri 2020) aveva valutato il ruolo  e il “peso” sia dell’organizzazione del potere che dei collaboratori dell’apice; tenendo presente la lezione di Carl Schmitt, in particolare del saggio, tradotto in italiano sul Behemoth n. 2 da A. Caracciolo col titolo “Colloquio sul potere e l’accesso al potere”. Com’è noto il giurista tedesco pone a fondamento del potere il rapporto di comando-obbedienza “Per il solo fatto che si trovano uomini che prestano obbedienza ad un altro uomo, essi procurano a questo il potere, Se non gli obbediscono più, cessa allora il suo potere”; perché hobbesianamente “Chi non ha il potere di proteggere uno, non ha nemmeno il diritto di pretendere da lui obbedienza. E viceversa: chi cerca protezione e la ottiene, non ha nemmeno il diritto di rifiutare l’obbedienza”. Tuttavia anche il potente è vincolato dai limiti della natura umana. Se poi deve governare realtà particolarmente grandi e complesse, come gli Stati, deve fare affidamento su resoconti, informazioni, giudizi dei propri consiglieri. I quali perciò sono partecipi del potere, per cui, scriveva Schmitt: “ogni potere diretto è… sottoposto a influssi indiretti”.

Tra i quali Castellani, nel saggio, tratta sia del tipo di potere indiretto che del collaboratore del potente. La cui caratteristica – per distinguerlo dagli altri aiutanti – è di essere più un partecipe del potere che un ingranaggio della catena di comando cui è delegato (e istituzionalizzato) in un ambito decisionale, una “competenza” delimitata.

Invece il proprio delle eminenze grigie è di indurre, influenzare comportamenti e risoluzioni di vertice più che provvedere in materie delegate.

Castellani lo fa ricordando dodici “eminenze grigie” (a partire dell’eponimo della categoria, padre Giuseppe) e – brevemente – i rapporti con il potere diretto e formale da loro influenzato, al di là della carica loro conferita.

L’autore formula anche regolarità dei poteri indiretti: aumentano con l’incremento di complessità, partecipazione e ampiezza dell’organizzazione politica. E una seconda che, al contrario del potere diretto, non hanno una necessità di legittimazione democratica. Comprovato anche, come ricorda l’autore, dai modesti risultati ottenuti dalle eminenze grigie presentatesi alle elezioni.

Questo, pur mantenendo la loro scarsa o nulla visibilità, concentrata sul potere diretto. La conclusione è che non è possibile fare a meno delle eminenze grigie, neanche nei regimi più trasparenti e democratici. Sono come gli Arcana Imperii, connaturali ad ogni potere perché necessitato a servirsene.

Teodoro Klitsche de la Grange

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MEGLIO FOUCHÉ, di Teodoro Klitsche de la Grange

MEGLIO FOUCHÉ

La morte di Navalny in detenzione (oltre il circolo polare artico) pone problemi non solo come quelli discussi (ed agitati) in questi giorni, sul tasso di democrazia del regime putiniano, sui diritti umani in Russia, sul ruolo (e lo status) dell’opposizione in un regime democratico (più o meno), ma, ancor di più sulla convenienza di chi ha il potere di uccidere (o procurare la morte) ad un avversario politico.

Due esempi (tra i tanti offerti dalla storia) vengono in mente: l’assassinio dopo un processo-farsa (al fine di contentare i legalitari un tanto al chilo) del Duca d’Enghien da parte di Napoleone. Il quale fu accusato di avere commesso un crimine (accusa non infondata). A tale proposito fu attribuito a Fouché (ministro di polizia di Napoleone) di aver così commentato la vicenda “è peggio di un delitto, e un’idiozia”. Giudizio esatto: la morte del Duca non arrecava alcun beneficio alla Francia e a Napoleone. Invece sia per le circostanze del fatto (il Duca era stato rapito dai francesi nel territorio di un altro Stato, era stato giudicato da un Tribunale ad hoc ecc. ecc.) che, e ancor più, per senso e conseguenza politica dell’azione (la quale allargava il divario di Napoleone con i legittimisti) generava gravi inconvenienti.

L’altro esempio è quello del trattamento praticato da Churchill a Gandhi durante la seconda guerra mondiale. Nel 1942, a seguito dell’intervento giapponese, l’India era invasa. I giapponesi conquistarono gran parte della Birmania (oggi il Mianmar). Il partito del congresso lanciò una (energica) campagna per l’indipendenza indiana (Quiet India) seguita da una sanguinosa repressione inglese. I leaders del partito del Congresso, Gandhi compreso, furono arrestati. L’accortezza politica di Churchill, tuttavia, fece si che Gandhi fosse recluso nel palazzo dell’Aga Khan a Pune, con moglie al seguito. Però il Mahatma aveva deciso di praticare lo sciopero della fame; dato che era un vecchietto macilento c’era un alto rischio che morisse prigioniero degli inglesi.

Il Premier britannico ordinò ai medici che assistevano Gandhi di alimentarlo anche a sua insaputa. Il tutto per evitare che la morte del leader indiano aggravasse la già difficile situazione politica e militare.

Putin non sembra aver preso esempio da tali vicende: aver fatto condannare Navalny, averlo recluso oltre il circolo polare artico (e non nel palazzo dell’Aga Khan) e quant’altro ha finito per provocare (o almeno agevolare) la morte dell’oppositore. Con “ritorno” politico a favore dei nemici della Russia, proprio quando la vicenda della guerra in corso, e il ridotto (forse) appoggio dell’Occidente dell’Ucraina, fa intravedere una soluzione – o almeno una fase discendente del conflitto.

Un risultato controproducente: proprio quello che un politico prudente deve evitare.

Avv. Teodoro Klitsche de la Grange

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Giovanni Sallusti, Mi mancano i vecchi comunisti, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Giovanni Sallusti, Mi mancano i vecchi comunisti, prefazione di Giuliano Ferrara, Liberilibri, Macerata 2024, pp. 120, € 16,00.

Chi scrive ha da anni la convinzione che nel cambio tra la vecchia sinistra pre 1989 e la contemporanea radical-chic, si è caduti, almeno per certi versi, dalla padella nella brace. Qualcuno, anche se non con la coerenza e l’approfondimento di Sallusti, ritiene che il marxismo avesse degli aspetti, per dirla à la Spengler, faustiani, ossia di apprezzamento – a tratti di vera e propria esaltazione – di quello che l’occidente e la sua ultima versione, cioè il capitalismo borghese (dal XIX secolo) aveva realizzato.

I vecchi comunisti, scrive Sallusti, “accettavano la Rivoluzione industriale come fatto storico-economico, dandone persino un giudizio positivo il che già li collocherebbe tra gli eretici, al tempo in cui la sinistra continentale vota compatta all’Europarlamento una surreale legge per il Ripristino della natura, motivo più che sufficiente per giustificare il rimpianto inconsolabile dell’autore” (è la prima tesi “eretica”). Credevano nell’autonomia della politica… “sia come oggetto di studio che come tecnicalità (anche troppo) spiccia, la consideravano un valore acquisito da Machiavelli (due). Infine, scusate se è poco, il Vecchio Comunista riconosceva appunto l’esistenza, la specificità e addirittura l’eccezionalità di un’entità meta-storica a sé stante, una postilla chiamata Occidente. Non voleva cancellare la nostra cultura, intendeva celebrarne i fasti nella Società Perfetta” (siamo a tre).

Invece i sinistri odierni, scrive Sallusti “Aboliscono la storia, questo è il punto di fondo, in favore di una posticcia metafisica buonista. Per questo sono ancora più pericolosi”, e hanno sostituito alla società senza classi, la “salvezza del pianeta”.

Analizzando le tre principali fratture elencate, quanto al produttivismo, l’autore evidenzia anche altri punti di incontro tra pensiero marxista e liberale-libertario. Tra i quali la polemica antiburocratica e antiparassitaria, iniziata dal giovane Marx con una rappresentazione, tuttora insuperata, della Weltaschauung del burocrate nella “Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico”. E della centralità della fabbrica (e dei consigli di fabbrica) nel pensiero di Gramsci.

Quanto al realismo, Sallusti ricorda la polemica di Marx ed Engels contro il socialismo utopistico (Fourier, Saint Simon): ora si passa dalla “nuova Gerusalemme” della società senza classi al “vitello d’oro” (ma non sarà ottone?) del gretinismo planetario, cioè la salvezza dell’ambiente, E sostanzialmente con la negazione della politica – e del “politico”, salvaguardata (eccome) dalla prassi del comunismo vintage, che la nuova sinistra occulta o non considera. E così tende ad eliminare il conflitto e la lotta (cioè l’amico-nemico), senza – ovviamente – riuscirci perché fa parte della condizione umana e perché crea, insieme dei nemici nuovi, negandoli (l’industriale inquinatore, la partita IVA, l’evasore) favorendo così una tecno-burocrazia di cui è la chiassosa (e subordinata) banda.

L’occidentalismo del vecchio comunista è evidente “Marx rimane hegeliano fino alla fine, dunque non cessa mai di essere occidentalista”; per cui “non si sognerebbe mai di rimuovere il padre, e di celebrare questo suicidio culturale chiamato Cancel Culture”. Per cui, contrariamente alla cultura Woke “Ogni volta che c’è occidentalizzazione c’è civilizzazione, è il teorema di Marx, ed è una spettacolare, a lungo occultata ma definitiva stroncatura ante litteram della lagna (auto)colpevolizzante Woke”. L’irrazionalismo stigmatizzato da Lukacs è oggi incarnato nella cultura Woke.  Questa (scrive Sallusti) non sfugge alla dialettica amico-nemico, anzi è il nemico “nemico implacabile, perché più ancora che la Ragione (qui saremmo ancora a Lukacs) sente di avere i Buoni Sentimenti dalla sua, è Wokista”. É nemico interno e il suo abito mentale è l’oicofobia (Scruton). Cioè il rifiuto della (propria) civiltà occidentale.

Per cui conclude l’autore nostalgicamente sui vecchi comunisti: “li rimpiango amaramente, non è nemmeno più nostalgia struggente, è un appello disperato, è una seduta storico-spiritica, sono un vedovo inconsolabile dei Vecchi Comunisti”; mentre i nuovi sinistri “non perseguono la sintesi dell’uguaglianza, non hanno una meta, vivono in un eterno presente ringretinito e perseguono l’apocalisse petalosa, la mera e benpensante distruzione della ragione, della (nostra) storia, della (nostra) civiltà”. C’è ancora tempo per fermarli: ma di danni, purtroppo, ne hanno già fatti tanti.

Teodoro Klitsche de la Grange

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ARCHÉ E I PRINCIPI DI MONTESQUIEU, di Teodoro Klitsche de la Grange

ARCHÉ E I PRINCIPI DI MONTESQUIEU

 

E principio oriuntur omnia ( Cicerone De re publica)

 

  1. Nell’Esprit des lois Montesquieu scriveva “Dopo aver esaminato quali sono le leggi di ogni governo, vediamo ora quelle che sono relative al suo principio. Fra la natura del governo e il suo principio esiste questa differenza: che è la sua natura a farlo tale, ed il suo principio a farlo agire. L’una è la sua struttura particolare, l’altro le passioni umane che lo fanno muovere[1]. L’importanza che il President à mortier annetteva al “principio del governo” era anticipata nel libro I, quando nell’illustrare i fondamenti delle leggi di ciascun popolo scrive “Esse devono essere in armonia con la natura e col principio del governo costituito, o che si vuol costituire, sia che lo formino, come fanno le leggi politiche; oppure che lo mantengano, come fanno le leggi civili”[2].

Per trovare il principio di ciascun governo prende le mosse dalla natura di esso, e in particolare di chi “esercita la suprema potestà, e, in secondo luogo, di come lo possa fare”[3] e conclude il capitolo “Non mi occorre altro per trovare i tre principi dei governi suddetti; essi ne derivano naturalmente. Comincerò col governo repubblicano e prima parlerò del democratico” del quale indica come principio la virtù. Subito dopo spiega perché “Ad un governo monarchico o ad uno dispotico non occorre molta probità per mantenersi o sostenersi. La forza delle leggi nell’uno, il braccio del principe ognora levato nell’altro, regolano o reggono ogni cosa. Ma in uno Stato popolare occorre una molla in più, la quale non è altri che la virtù… infatti, in una monarchia, dove chi fa eseguire le leggi giudica se stesso al di sopra di esse, si ha bisogno della virtù in misura minore che non in un governo popolare, dove chi fa eseguire le leggi sente che lui stesso vi è sottomesso, e ne porterà il peso”[4].

E, nelle stesse repubbliche, alle democrazie ne occorre assai di più che ai governi aristocratici “i politici greci che vivevano in un governo popolare, riconoscevano nella virtù l’unica forza capace di sostenerlo”; mentre “la virtù è altresì necessaria nel governo aristocratico, sebbene non vi sia richiesta in modo altrettanto assoluto… Per natura della costituzione occorre dunque che quel corpo (l’aristocrazia n.d.r.) possegga virtù”. E questa virtù minore (perché limitata al corpo governante) è la moderazione: “La moderazione è quindi l’anima di questi governi: ma quella…  che è fondata sulla virtù, non sulla viltà o sulla pigrizia dell’animo”[5].

Invece nella monarchia “lo Stato vive indipendentemente dall’amor di patria, dal desiderio di vera gloria… da tutte quelle eroiche virtù che troviamo tra gli antichi… Le leggi prendono il posto di queste virtù, ormai inutili… non ignoro affatto che i principi virtuosi non sono rari, ma dico che è assai difficile che in una monarchia il popolo lo sia”[6]. Per cui nelle monarchie il principio, la “molla” che fa funzionare lo Stato, è l’onore, perché “l’ambizione è pericolosa, in una repubblica, ma ha buoni effetti in una monarchia: essa le da la vita, ed ha il vantaggio di non essere pericolosa”[7]. Infine in un governo dispotico “Come in una repubblica occorre la virtù, e nella monarchia l’onore, così nel governo dispotico ci vuole la paura: la virtù non vi è necessaria e l’onore sarebbe pericoloso. Il potere immenso del principe passa tutto intero nelle mani di coloro ai quali egli confida… quando in un governo dispotico il principe dimentica per un momento di levare il braccio, quando non può annientare in un batter d’occhio coloro i quali detengono i primi posti, tutto è perduto… Occorre dunque che il popolo sia giudicato dalle leggi, e i grandi dal capriccio del principe; che la testa dell’ultimo fra i suddtiti sia sicura, e quella dei pascià sempre in pericolo”[8].

  1. In conclusione secondo Montesquieu:

Il principio (della “forma”) di governo è la molla che lo fa agire.

Tale principio è, in misura diversa, la virtù; questa dev’essere posseduta da chi governa: nelle democrazie da tutti i cittadini, nelle aristocrazie dagli ottimati, nelle monarchie dal re. Non lo scrive, ma anche negli Stati dispotici un barlume di virtù (magari diversa) la deve avere il despota. Onore e timore sono sentimenti che competono ai sudditi. In particolare  ai collaboratori dei sovrani.

Il principio è necessario, perché un corpo politico è composto di uomini, è un’istituzione vitale e non può prescindere da ciò che è suscettibile di far agire gli uomini e quindi l’istituzione. Le leggi sono necessarie, ma non sufficienti all’esistenza e vitalità dell’insieme.

Il principio è ciò che  “unifica” governanti e governanti: incide sul rapporto comando/obbedienza, ed è a un tempo fattore d’integrazione e di legittimità.

Come i pensatori politici “classici”, Montesquieu vede istituzioni fatte di uomini, dove taluni comandano ed altri obbediscono: è lungi dal pensatore francese credere che basti una bella costituzione, con tanto di commoventi enunciazioni di principi, e miriadi di leggi di attuazione (altrettanto commoventi) per fare uno Stato vitale. Le leggi non bastano: per costituirlo e conservarlo occorre la molla che le fa vivere. Anzi tra le leggi e il principio (la molla) vi dev’essere coerenza: sarebbe da sprovveduti costituire un governo democratico senza un minimo di virtù, e ancor più un governo dispotico senza la paura[9].

In tale contesto un ruolo di estremo rilievo riveste la virtù, in primo luogo perché ricorre – anche se non necessaria in egual misura per tutti – nelle tre forme di governo non dispotiche; e in questo Montesquieu si riallaccia al pensiero politico antico, per il quale era naturale legare il destino e la fortuna delle polis alla virtù dei cittadini; e non alla sola “bontà” delle leggi[10]. Se come scrive Montesquieu in apertura dell’Esprit des lois  “Le leggi… sono i rapporti necessari derivanti dalla natura delle cose; e, in questo senso, tutti gli esseri hanno le proprie leggi: le divinità, gli animali, l’uomo” fin dall’inizio dell’opera fissa – per così dire – il rapporto tra esistente e normativo: in cui il primo determina il secondo assai più di quanto quello possa fare sul primo.

In questo senso i principi del governo sono la molla indispensabile per la comunità: la quale non vivendo di sole regole, anche le migliori possibili, deve fondarsi su un principio (generale) che la determini ad agire. Perché sul piano storico – e non solo – esistere significa agire: e l’agire chiede di mobilitare la/le volontà umane; vale la regola tomista omne agens agit propter finem che, oltre un secolo dopo Montesquieu un grande giurista come Jhering avrebbe individuato nel collegamento tra scopo ed interesse.

  1. Poco tempo dopo la morte di Montesquieu iniziò ad enfatizzarsi la figura del legislateur, di colui (coloro) che da (danno) regole certe alla comunità; e delle stesse regole – fissate in leggi – che, piuttosto d’essere scoperte studiando la “natura delle cose”, sono il prodotto (prevalente od esclusivo) della volontà umana. È questa a dare leggi alle cose, e non viceversa. Il rapporto tra l’esistente ed il normativo comincia a pendere a favore del secondo. Le costituzioni moderne frutto della ragione (dell’equità, della giustizia, ma in effetti della volontà) umana ne sono il frutto più evidente. Quella costituzione che non è tale se, come scriveva Thomas Paine, non la si può mettere in tasca: scritta, frutto di una deliberazione pubblica, a seguito (per lo più) di una discussione libera e razionale. Tuttavia per lungo tempo non andarono smarriti i collegamenti principali che ancoravano il normativo all’esistente, in particolare alla volontà e alla virtù nei cittadini. Anzi la rivoluzione francese, ed i giacobini in particolare, fecero della virtù un elemento necessario e primario del nuovo regime politico: segno che i collegamenti col reale erano ancora robusti.

Successivamente, come scrive Ernst Forsthoff “la dottrina dello Stato ha preso una via che l’allontanò dalle qualità umane, e per conseguenza anche dalla virtù. Nell’opera di Georg Jellinek, che ben rappresenta il periodo a cavallo dei due secoli, non se ne parla più”[11].

Per cui quella successiva “è divenuta una dottrina dello Stato senza virtù”. Probabilmente, anzi a seguire Forsthoff sicuramente, il tutto è stata una conseguenza del positivismo giuridico (inteso in senso lato), per cui la dottrina dello Stato è la dottrina del di esso sistema istituzionale e funzionale, e prescinde dalle qualità umane. In questo si può ravvisare anche un prevalere di aspetti “tecnici”, e, in particolare “tecnico-normativi”; Carl Schmitt scriveva che già nel pensiero di Machiavelli era chiaro l’aspetto tecnico di conquista e conservazione del potere: ma tale tecnica non prescindeva né dalle qualità né dai rapporti umani. Mentre la “tecnica” normativistica contemporanea sottintende di fare a meno – o di ridurre ai minimi termini . le une e gli altri.

Tuttavia, come scrive Forsthoff, il successo del positivismo è stato tale “che il diritto tedesco, né prima né dopo, ha mai più raggiunto o mantenuto, nella giurisdizione e nell’amministrazione, un livello così alto”; e questo è stato possibile in buona parte, grazie alle qualità (alle “virtù”) della burocrazia professionale tedesca, frutto, in particolare, dell’alleanza “tra un illuminismo di stampo storico e l’eredità della Riforma”; per cui “questo sistema giuridico, apparentemente spogliato da ogni riferimento etico e bloccato al piano puramente tecnico, aveva pur sempre una sua etica, in quanto si basava su specifiche virtù umane, senza le quali esso non potrebbe essere compreso”[12]. Per cui pensare che uno Stato possa reggersi solo in forza della bontà delle leggi, è fare un’affermazione parzialmente vera (e quindi in parte falsa). Nessuna “buona costituzione” può funzionare bene, se non è adatta alla situazione oggettiva e alle forze reali esistenti, in cui rientrano, in misura determinante, le qualità morali (le virtù) di chi governa, o meglio esercita funzioni pubbliche (a partire dal voto).

  1. Anche le constatazioni di Forsthoff dovrebbero essere aggiornate in base a quello che si pensa – per lo più – in questi anni, nel tardo dopoguerra, diventato un (terzo) dopoguerra (fredda).

Oggigiorno chi parlasse di virtù, muoverebbe al riso (o al sorriso), e  non solo per il non edificante spettacolo offerto dalle elites dirigenti, ma, ancor più, perché nessuno pensa più alle virtù come fattore di sostegno della comunità, e della democrazia in primo luogo. Gli si risponderebbe che bastano buone leggi, e lo si considererebbe un tipo bizzarro. Ma a chi scrive, e data la considerazione riconosciuta dal pensiero occidentale al necessario rapporto tra virtù e buona istituzione, appare bizzarro chi sostiene il contrario; e la prima replica che viene in mente è il tacitiano corruptissima res publica, plurimae leges, d’altra parte ampiamente confermato in Italia nell’ultimo mezzo secolo. In secondo luogo se tanti pensatori, da Platone ad Aristotele, da Cicerone a Machiavelli, da Montesquieu a Mably (per citarne una minima parte) hanno ritenuto il contrario, non si capisce perché si dovrebbe condividere l’idea che ad uno Stato bastino le buone leggi e, soprattutto, non abbisogni di una certa dose di virtù (e soprattutto quale esperienza di quale unità politica la corrobori).

In gran parte questo è l’esito della fase estrema della funzionalizzazione e tecnicizzazione del diritto, la concezione più coerente della quale è il neopositivismo giuridico. Presupposto (e condizione generale) del quale è concepire il mondo come universo di norme, dove non esistono persone (o soggetti di diritto), ma centri d’imputazione di rapporti giuridici; non esistono gerarchie di uomini ma gradazione di norme; non diritti soggettivi, ma norme da applicare; non il sovrano, ma la grundnorm, e così via in una coerente dis-umanizzazione (e de-concretizzazione) della visione del mondo. L’unico elemento umano rimane la “conoscenza del giurista”; nella quale tale concezione si rivela come ideologia di un gruppo sociale particolare, dei funzionari della fase decadente dello Stato borghese di diritto[13].

In tale concezione tutto ciò che è “extra-normativo” non è giuridico (e quindi irrilevante): al massimo si arriva al richiamo ai “valori costituzionali”.

Questo sembra abbia la funzione di soddisfare (al minimo) la necessità di fondare l’esistenza collettiva su qualcosa che è comunque non normativo, e così di “guadagnare il terreno di una legittimità riconosciuta” superando la mera legalità[14]. Cioè costituisce l’eccezione rispetto alla visione per lo più condivisa (dai giuristi).

  1. In realtà la concezione “classica” (all’interno della quale collocare la teoria dei principi di Montesquieu) era la risposta alla domanda: quand’è che l’ordinamento è vitale (in primo luogo) e giusto?

La risposta – data da oltre due millenni di riflessione politica coniuga fattori “esistenziali” e “fattuali” con altri di carattere più propriamente “normativo” e giuridico, con i primi che prevalgono sui secondi. Le qualità personali, le credenze, la legittimità, l’autorità ne costituiscono (ma non ne esauriscono) i capisaldi essenziali[15].

Se invece si chiede risposta alla domanda di come si deve interpretare correttamente (validamente) una norma giuridica, e più in generale come si atteggia la conoscenza  del giurista rispetto al sistema normativo – cioè una domanda diversa – e a contenuto ridotto, la risposta che danno i normativisti, coll’espungere dall’orizzonte del giurista (pratico) ogni elemento “fattuale” ha una sua correttezza. Per la quale tuttavia, come notato, in particolare per il carattere formale di tale teoria del diritto (e simili)[16], esiste (e si verifica) il rischio che “riducendo il diritto a proposizioni logiche prescindendo dal loro contenuto, se ne perda per strada, per così dire, qualche pezzo troppo importante per essere trascurato, o messo tra parentesi, proprio come una teoria fisica è esposta al rischio di trascurare qualche aspetto della realtà troppo importante per non dover essere spiegato. D’altra parte, chi mi assicura che il mio modello di conoscenza della realtà sia veramente coestensivo alla realtà che voglio spiegare? In altri termini: chi mi assicura che il mio ragionamento spieghi veramente tutto ciò che devo spiegare? La scienza rischia di essere un insieme di proposizioni che, paradossalmente, non fotografa il mondo, ma se stessa: lo scienziato rischia cioè di non vedere altro che il proprio ragionamento, e non la realtà che vuole spiegare. La «verità» significa così soltanto la coerenza ai presupposti di partenza, che peraltro non sono dimostrati, e scompare ogni riferimento alla realtà, per spiegare la quale lo scienziato «puro» ha iniziato a fare scienza. Siamo di fronte a una vera implosione del sistema[17].

E proprio questo è il punto: restringendo il problema dell’ordinamento a quello della corretta applicazione delle norme, si espungono dall’orizzonte giuridico gli elementi principali e determinanti, e comunque gran parte di ciò che ne fa necessariamente parte. Ovvero sia l’aspetto dell’unità, dell’azione e della coesione del gruppo sociale, sia quello dell’applicazione del diritto (attraverso la coazione organizzata e la violenza legittima); per cui il normativismo è stato da molti considerato come una gnoseologia giuridica, e lo è, perché, coerentemente, elimina dall’orizzonte giuridico tutto ciò che è “fattuale”.

Di converso e nella linea del pensiero politico classico, troviamo (tra gli altri) i giuristi istituzionisti, i quali ovviamente prendono in considerazione (massima) l’ordinamento e tutti quei fattori esistenziali che ne condizionano e determinano la forma e l’azione, con particolare riguardo alla situazione concreta.

Hauriou, il quale nel Précis de droit constitutionnel critica ripetutamente Kelsen, iniziando dall’errore, che stigmatizza, di assimilare “l’ordine oggettivo all’ordine statico” e subordinare “strettamente il dinamico allo statico”[18]. Mentre “ciò che gli uomini chiamano stabilità non è l’immobilità, ma il movimento coordinato (d’ensemble) lento ed uniforme che lascia sussistere una certa forma generale delle cose…”. A dare il senso e comprenderlo è del tutto inadatto il sistema di Kelsen essenzialmente statico, in cui non c’è posto per la libertà umana.

Santi Romano con la costante attenzione che ha dato dalla gioventù fino a poco prima di morire ai problemi del mutamento, della legittimazione e della crisi degli ordinamenti è, parimenti, esemplare di una concezione dinamica e vitalistica del diritto. Tornando a Montequieu, questi aveva ben chiaro che una comunità umana vive nella storia, nello spazio e (anche) nel tempo: lo stesso si può dire di Hauriou e Romano, che hanno il senso del diritto “bidimensionale”.

Un sistema statico è invece, per così dire, a parafrasare Marcuse, un diritto ad una dimensione, giacché non tiene conto del tempo – e conseguentemente della storia; (come di tante altre cose).

In questo senso la critica di Hauriou ai sistemi “statici”, che si convertono in una contemplazione delle regole è penetrante[19].

  1. Ciò stante occorre vedere quale fosse il concetto di virtù per Montesquieu e se è ancora necessaria oggigiorno:

“La virtù in una repubblica è cosa semplicissima. È l’amore della repubblica: è un sentimento e non una serie di nozioni…”[20]. Tuttavia data l’equivocità del termine, Montesquieu fin dall’avertissement all’Esprit des lois tiene a definirlo, delineandone il carattere pubblico e politico e non privato (cioè “non politico”) precisando:

“Ciò che chiamo virtù nella repubblica è l’amore della patria… Non è una virtù morale né cristiana, è la virtù politica; essa è la molla che fa agire (mouvoir) il governo repubblicano…”[21].

Coerentemente a quanto ritenuto già da Platone (la tesi di Callicle nel Gorgia) e da Aristotele, la virtù politica è connotato del cittadino (del civis), cioè dell’uomo pubblico, non del bonus paterfamilias, cioè dell’uomo privato: distinzione essenziale, mantenuta dal pensiero filosofico e in particolare dalla teologia cristiana, da Lutero a Bellarmino. E che, coerentemente alla generale confusione di pubblico e privato, oggigiorno spesso non viene più capita, al punto che, a sentire qualche rozzo demagogo, basterebbe un qualsiasi brav’uomo (purché privatamente onesto) a guidare uno Stato. Cosa che (non nuova, ma spesso ripetuta) suscitava il sarcasmo di Croce, come d’ “ideale che canta nell’animo di tutti gli imbecilli…”. Sicuramente di quel tipo di virtù privata non c’è necessità: non che guasti, ma sicuramente lo Stato può esistere ed agire anche se i costumi sessuali sono rilassati e quelli commerciali non proprio adamantini.

Invece dell’altra, di quella che Montesquieu chiamava virtù politica se ne sente il bisogno, in misura proporzionale a quanto si è ridotta da oltre cinquant’anni.

Come si sente la necessità della lezione di Montesquieu sui principi di governo come sentimenti e come molle per far agire l’istituzione statale. La contraria tesi, tanto ripetuta che siano sufficienti delle buone regole (leggi) è viziata di (almeno) tre errori.

Il primo dei quali è la riduzione del diritto a gnoseologia giuridica, come tecnica di applicazione delle norme al caso concreto. A questa concezione si addice la critica sopra riportata che così se ne perde “qualche pezzo troppo importante”. Mentre il diritto è essenzialmente un sistema di regolazione dell’azione. E’ l’orientamento che da alle azioni umane l’aspetto decisivo per comprendere l’essenza del diritto.

In secondo luogo, e conseguentemente che le regole non bastano: queste possono disciplinare, permettere, comandare le azioni, ma senza trascurare mai che l’“oggetto” ne è l’agire umano.

E soprattutto, infine, che per sostenere il fenomeno giuridico originario, cioè l’istituzione occorre far leva (anche) sul sentimento che fa “agire il governo”.

Uno Stato che non agisce, che non fa leva sul sentimento (cioè sul principio) è un’istituzione in cancrena: esistere, nella storia, significa agire. Agire non vuol dire (soltanto) applicare delle regole, ma soprattutto avere ciò che con termini diversi di concetti simili è stato chiamato virtù, amore della patria, senso dello Stato.

Senza il quale – o carente il quale – lo Stato cade o decade.

Certo si può rispondere come don Abbondio che la virtù è come il coraggio: se uno non ce l’ha non se lo può dare: ma occorre replicare che un primo passo per (tentare di ) averlo è pensare che sia necessario. Cioè il contrario degli idola correnti.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Lib. III, cap. I a cura di S. Cotta, Torino 1965, p. 83 (i corsivi sono nostri).

[2] Op. cit., p. 64.

[3] Op. cit., Lib. III, cap. 2 (i corsivi sono nostri).

[4] Op. cit., Lib. III, cap. 3.

[5] V. Lib. III, cap. 4. Si noti che in una nota, cancellata, Montesquieu prendeva ad esempio di aristocrazie non virtuose proprio quelle italiane, che languiscono e sembra che tutti ne ignorino l’esistenza, dovuta più che altro alla gelosia che susciterebbe la loro distruzione; del resto avvenuta circa mezzo secolo dopo, con la rivoluzione francese. Giudizio che si potrebbe adattare ad altre elites governanti italiane, anche contemporanee (i corsivi sono nostri).

[6] Lib. III, cap. 5 (i corsivi sono nostri).

[7] Lib. III, cap. 7 (i corsivi sono nostri).

[8] Lib. III, cap. 9 (i corsivi sono nostri).

[9] A tale proposito Montesquieu aveva in qualche misura previsto alcuni tratti del totalitarismo del XX secolo, il quale, come scriveva, tra gli altri, Wittvogel per il comunismo, presentava diverse analogie col dispotismo orientale ed il “modo di produzione asiatico”.

[10] V. per la riflessione filosofica sulla polis greca Gianfranco Lami, Socrate, Platone, Aristotele, Soveria Mannelli 2005.

[11] V. E. Forsthoff nella raccolta di saggi tradotti in italiano Stato di diritto in trasformazione, Milano 1973, p. 12.

[12] Op. cit., p. 18.

[13] Per uno sviluppo di questa tesi ci permettiamo di rinviare – dati i limiti di questa comunicazione – al nostro scritto Normativismo, funzionarismo, nichilismo in Behemoth n. 43 (gennaio-giugno 2008) e in Empresas politicas(n. 10-11 2008, p. 55 ss.).

[14] v. Carl Schmitt Die Tyrannei der Werte, trad. it. La tirannia dei valori, Roma 1987, Antonio Pellicani Editore, p. 38-39.

[15] In realtà nessun ordinamento è stato salvato (conservato) solo dalla propria superiore razionalità e giustizia. L’impero romano con la sua sapienza giuridica, la sua ars boni et equi, e il suo ordinamento razionale, fu travolto da popolazioni assai meno civili, ma tanto più decise a difendere la loro esistenza.

[16] Anche non condividendo i presupposti del neo-positivismo giuridico, teoria che enfatizzava il ruolo delle regole, il ruolo della c.d. ingegneria costituzionale, rischiano di cadere in errori e rischi simili.

[17] V. O. De Bertolis S.I., La metodologia giuridica di Norberto Bobbio in Civiltà Cattolica, quaderno 3687.

[18] Op. cit., p. 6.

[19] Mentre per gli ordinamenti umani vale l’aforisma di Eraclito “che non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume”.

[20] L’esprit des lois V, cap. 1.

[21] Avertissement (i corsivi sono nostri).

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IL PUNTO D’ARCHIMEDE, di Teodoro Klitsche de la Grange

IL PUNTO D’ARCHIMEDE

Il politico e la sfera giuridica

 

La distinzione tra “politico” e “giuridico” è particolarmente ardua perché ambito, scopo, presupposti dell’uno e dell’altro sono uguali, o simili, o, almeno in parte, coincidenti.

Se, ad esempio ci si chiede “qual è lo scopo della politica?” la risposta prevalente è il “bene comune” inteso come sicurezza (e protezione) dalle minacce (interne ed esterne), come concordia (interna) e come benessere; se si pone la stessa domanda per il diritto, la risposta prevalente sarà di regolare giustamente e con certezza i rapporti sociali; il che coincide, in parte, col “bene comune” inteso come concordia nella comunità, data da un lato la necessità di regole, dall’altro che siano condivise e accettate (prevalentemente) dagli associati.

Se, del pari, si parte dall’ambito, mentre il carattere “sociale” della politica è dato per scontato, quello del diritto ha dato qualche problema: ciò non toglie che perché esista una norma o un comando giuridico occorre sempre che esista una società, magari di due persone soltanto. Una norma che, come quella morale, sia solo interiore ed abbia a soggetti l’individuo e Dio (o la coscienza), non è giuridica. Di più: è giuridica solo se concretamente applicabile (e violabile); e – almeno in qualche misura – applicata.

Il che porta all’altro problema della efficacia del diritto, che necessita dell’uso della coazione, cioè della forza, a sua volta mezzo (tipico) della politica. E così potrebbe continuarsi a lungo.

D’altra parte ci sono le differenze e l’irriducibilità dell’uno all’altro.

Un esempio, per l’attualità perdurante (e a ragione) di una differenza essenziale è quello fatto da Max Weber sulla diversa attitudine dell’uomo politico e del funzionario “…Giacchè lo spirito di parte, la lotta, la passione – ira et studium – sono l’elemento del politico. E specialmente del capo politico. Alla sua attività presiede un principio completamente diverso, anzi opposto a quello che regola l’attività del funzionario. Il funzionario, quando l’autorità a lui preposta insiste – nonostante le sue obbiezioni – su un ordine che a lui sembra errato, tiene ad onorare di saperlo eseguire, sulla responsabilità del superiore, coscienziosamente ed esattamente come se esso corrispondesse al proprio convincimento: senza tale abnegazione e disciplina etica nel senso più alto, l’intero apparato andrebbe in rovina. Viceversa l’onore del capo politico, e quindi del capo di stato,  consiste nell’assumersi personalmente ed esclusivamente la responsabilità delle proprie azioni, che egli non può né vuole evitare o addossare ad altri. Sono proprio le nature di funzionari di grande levatura morale a far dei cattivi politici, irresponsabili secondo il concetto politico della parola, e, in questo senso, moralmente vili”[1]. In questo passo è formulata la distinzione tra l’attitudine e la funzione politica (che è di dare comandi) e quella del funzionario (della burocrazia) che è d’eseguirli. Ciò stante per capire e delimitare i differenti ambiti del politico e del giuridico, occorre individuare i punti di contatto, come le differenze tra gli stessi.

  1. Quanto a quelli, il primo è dato dal carattere e dall’ambito sociale in cui si esplicano necessariamente. Come cennato, vale la regola ubi societas ibi ius, come la speculare ubi ius ibi societas. Il presupposto della socialità del giuridico, come del politico è evidente. Com’è stato scritto, anche nell’isola di Robinson Crusoe, il diritto è nato solo con la presenza di Venerdì: prima sarebbe stato assurdo. Per la politica (ed il politico) nessuno, che ci risulti, ha mai messo in forse il presupposto del rapporto (relazione) sociale, dato che la politica è sempre attività di gruppi umani.

Altro carattere comune è quello della conservazione della società, dato anch’esso, per lo più, scontato per la politica, un po’ meno per il “giuridico”. Nella realtà se il diritto porta in se, in maggiore evidenza rispetto alla politica, l’idea di giustizia (con la conseguenza estrema, espressa nel detto fiat justitia pereat mundus) è pur vero che perché un comando (una norma) giuridica sia (per lo più) applicabile (quindi efficace) è necessario sia condivisa, almeno in prevalenza, nella società: un certo grado di concordia la deve supportare. Più in generale occorre ricordare come una delle concezioni prevalenti del diritto è che sia una tecnica sociale: una buona “tecnica” deve conseguire lo scopo specifico e assegnato di conservare la società. Solo comandi su cui una larga parte di associati siano d’accordo sono suscettibili di essere eseguiti con un minimo di forza ed un massimo di consenso. E lo stesso discorso, mutatis mutandis, vale per il benessere: la “buona” tecnica deve raggiungere obiettivi di “buona” (cioè efficace e positiva) gestione.

  1. Quanto ai punti di differenza, il principale è dato dal carattere autonomo del politico, cui si contrappone quello eteronomo del giuridico. Occorre chiarire tali concetti, e il rapporto tra autonomia del politico ed eteronomia del giuridico.

In primo luogo l’autonomia della politica (e del politico) non va intesa soltanto nel senso tradizionale, come indipendenza da precetti morali (e giuridici), ma anche nel senso letterale, di ciò che da obiettivi, regole, a se stesso: ovvero in senso positivo, prima che negativo, di possibilità/capacità di prima che di libertà da. Vale per la politica (ed il politico) la considerazione di Spinoza che i limiti e le regole che lo Stato deve osservare sono quelli naturali e non delle leggi civili, e che l’essere autonomi consiste per l’uomo nell’essere “in grado di respingere ogni violenza, di esigere a suo giudizio il risarcimento del danno subito e, in una parola, di vivere a suo talento[2]; e per gli Stati, trovandosi “tra loro come uomini allo stato di natura”[3], la situazione è la medesima. Per cui carattere della politica è di essere autonoma, nel senso di dare legge: o ai sudditi, (in e con) la pace, o, ai (possibili) nemici in (e con la) guerra. Il collegamento che lo spirito romano aveva individuato tra hostis ed auctoritas ed espresso nelle XII tavole: adversus hostem aeterna auctoritas, può spiegarsi così.

Per cui carattere della politica (e del politico) è di non riconoscere leggi (comandi) che non siano quelli che (la comunità) scelga di darsi; se si obbedisce a comandi altrui, significa che si è in una situazione patologica. Come quella di uno Stato protetto rispetto alla potenza protettrice.

Di converso il “giuridico” non è pensabile se non in una cornice di eteronomia: Autonoma è, nell’uomo, o può esserlo, la coscienza (morale o religiosa); ma il comando, la norma giuridica mai. Il massimo che può farsi per aumentare il grado di “autonomia” è di partecipare alla formazione delle norme (dei comandi) pubblici, come sostenuto da Hobbes e da Rousseau. Ma anche in una democrazia quanto più vicina al “tipo ideale” della stessa il soggetto che comanda (cioè l’assemblea dei cittadini) è distinto dai “comandati” – per cui come scriveva Hobbes – non c’è “patto tra il sovrano ed alcun suddito”[4].

Quindi se l’autonomia è connotato del politico – intesa come attributo dell’unità collettiva (ovviamente non dell’individuo) – l’eteronomia lo è del giuridico.

In questo senso il principio di Kant per cui “il sovrano nello Stato ha verso i sudditi soltanto diritti e nessun dovere (coattivo)”[5], esprime compiutamente sia l’eteronomia del giuridico, che l’autonomia del politico, ovviamente in relazione allo Stato moderno. Avere solo diritti e nessun dovere significa sia poter dare comandi (leggi) sia (in caso di emergenza) non doverne rispettare alcuno (neanche quelli autonomamente assunti). Peraltro, quel coattivo tra parentesi indica proprio l’obbligo e il dovere giuridico, cioè applicabile ricorrendo alla forza (che il sovrano abbia doveri di altro genere – non giuridici – è concepibile e sostenuto, con ragione, da molti). Così da una parte il diritto, anche quello prodotto dalla autonomia privata, poggia in ogni caso su una decisione e volontà politica (anche di consentire e sostenere l’autonomia: è cioè un raro esempio di autonomia eteronoma); dall’altro il politico, cioè il carattere essenziale del potere sovrano è d’esser libero da ogni condizionamento e limite giuridico.

Il carattere “eteronomo” del diritto, riguardo alla decisione giuridica, risulta anche dalla struttura della medesima: la quale si fonda sull’autorizzazione/applicazione di comandi (norme) già decise (altrove); per cui un provvedimento o una sentenza sono sindacabili e qualificabili validi (o invalidi) in base ad un controllo di conformità rispetto alla norma o ai comandi che li supportano. Ciò sia se questi abbiano contenuto normativo (com’è, per lo più, nello Stato moderno) sia che consistano in semplici comandi (privi cioè di generalità e/o astrattezza). La decisione politica non è, di converso, sindacabile rispetto ad una norma. Mentre una sentenza è buona (valida) se il Giudice ha correttamente applicato il diritto vigente, la misura politica è buona in quanto congrua a risolvere una situazione, al limite infrangendo il diritto, comprese le norme costituzionali. Mentre per il Giudice vale il detto, sopra ricordato, fiat justitia, pereat mundus (intendendo per justitia il diritto applicabile), per la politica vale l’altro salus populi suprema lex[6]. E la salvezza dello Stato non è materia propriamente giuridica, e tantomeno di norme.

La stessa tesi fu fatta propria da Thomasius e da Kant, riguardo alla distinzione tra diritto e morale. Per il primo ogni diritto consiste di comandi esterni e non interni; Kant poi sostiene che “Il puro accordo e disaccordo di un’azione con la legge, egli dice, senza riguardo al movente dell’azione stessa, si chiama legalità (conformità alla legge) mentre quando l’idea del dovere, derivata dalla legge, è nello stesso tempo movente dell’azione si ha la moralità (dottrina morale). I doveri imposti dalla legislazione giuridica possono essere soltanto doveri esterni, perché questa legislazione non esige che l’idea del dovere, che è del tutto interna, sia di per se stessa motivo determinante della volontà dell’agente e siccome ha bisogno di moventi appropriati alle sue leggi, non può ammettere che moventi esterni. La legislazione morale, all’opposto, per quanto eriga a doveri anche azione interne, non esclude per questo le azioni esterne, ma si riferisce in generale a tutto ciò che è dovere”[7]. Da cui consegue che “al diritto è quindi immediatamente connessa, secondo il principio di contraddizione, la facoltà di costringere colui che lo pregiudica” e “un diritto stretto può dunque soltanto chiamarsi quello che è completamente esterno”; per cui “esso diritto s’appoggia unicamente sul principio della possibilità di una costrizione esterna la quale possa consistere con la libertà di ognuno secondo leggi generali”[8].

  1. Da ciò deriva che le regole (le leggi) della politica, ovvero quelle rispetto alle quali si valuta la congruità dei comportamenti politici (e delle istituzioni politiche) hanno come connotato comune proprio quello di non essere giuridiche; di non potersi cioè apprezzare (e coartare) quei comportamenti rispetto a regole di diritto (in particolare positivo, o a, seconda del significato che si da a quest’ultimo, a quello naturale). Si può condividere o meno l’opinione di Hobbes che “la legge naturale è, per definirla, un dettame della retta ragione riguardo ciò che si deve fare o non fare per conservare, quanto più a lungo possibile, la vita e le membra”, da cui consegue che i comportamenti relativi sono veri o falsi, e non come quelli, valutati sotto l’aspetto giuridico (così come le norme) leciti od illeciti, validi o non validi[9]; ovvero quella di Spinoza, secondo il quale lo Stato deve osservare solo le regole non del diritto civile, ma di quello naturale[10]; ma è sicuro che sul piano “effettuale”, questo appare vero.

D’altra parte, se si parte proprio dai “presupposti” del politico, come definiti da Freund, non si capisce come potrebbe formularsi in termini e in base a presupposti giuridici (preventivi e generali) la scelta tra pace e guerra, né se un’azione debba essere comandata e da chi, ovvero se un’attività debba essere pubblica o privata.

La prima, peraltro, non dipende (se non parzialmente) dalla volontà propria, perché scegliere di essere nemico di una data unità politica è decisione di un’altra unità; quanto agli altri due presupposti pretendere di codificare ciò che dev’essere pubblico o a chi si debba obbedire (compresa la forma di Stato) significa voler ingessare la storia. Anche se nell’illuminismo e tra i rivoluzionari dell’89 era diffusa la concezione del legislatore (e di legge, anche costituzionale) destinata a durare, tuttavia era parimenti diffusa la convinzione che una generazione non può vincolare (eternamente) le future; e, d’altra parte, a salvarli dalla deriva “giuridica” v’era il concetto del potere costituente che, comunque, sta sopra (e prima de) la stessa Costituzione, dallo stesso modificabile, anche integralmente.

L’altro presupposto del “giuridico” è, secondo Freund[11] la relazione tra permesso e vietato. Come quella tra sociale ed individuale non è esclusivo del diritto ma comune a molti altri settori dell’attività umana, in particolare alla morale. Tuttavia è la condizione di (pensabilità ed) esistenza di un comando, giacché comandare qualcosa presuppone la libertà di scegliere e quindi il vietare qualcos’altro. Né in una società in cui tutto è permesso, né in quella in cui si comandino cose impossibili (ad impossibilia nemo tenetur) è concepibile un comando eseguibile (in generale) e quindi neppure una regola giuridica.  Certo è immaginabile una società la cui grundnorm consista nel “tutto è permesso”, ma questa, oltreché mai vista nella storia, non avrebbe bisogno di diritto, inteso come apparato di coazione (quindi istituzione) atteso che non sarebbe possibile costringere ad alcunché. Una società del genere, senza istituzioni e senza divieti, è, in definitiva, l’esatta rappresentazione dello stato di natura hobbesiano.

  1. Consegue a quanto sopra che carattere essenziale delle regole della politica è proprio di non essere giuridiche, cioè suscettibili di comando e coazione esterna. Si potrebbe obiettare che la politica non ha regole (leggi); ma questa considerazione non è condivisibile. La politica ha infatti le regole che vuole osservare (questo è il primo volto dell’autonomia del politico); l’altro consiste in quelle regole che ne determinano il fine (l’hobbesiana salus rei publicae suprema lex); o nelle regole “tecniche” per la protezione della comunità e l’esercizio del potere. La filosofia ed il pensiero politico ne hanno elaborate tante. Da quella (De Benoist) di ridurre il numero dei nemici, che ha avuto le più varie formulazioni ed espressioni nel corso della storia (dal divide et impera romano al “mai la guerra su due fronti” del Quartier generale germanico del secolo scorso)[12]. Machiavelli, ma anche Hobbes e Spinoza ne hanno indicate diverse: il cui connotato comune (prevalente) è dipendere dallo scopo dell’attività politica. Cioè dalla protezione dell’esistenza comunitaria e dell’ordine che assicura, ai quali sono strumentali come mezzi al fine.

L’altro carattere del “politico” e delle sue regole è di essere “sovraordinate” al “giuridico” (e alle sue norme). Ciò non solo per la sovranità – concetto chiave perché è il punto di raccordo tra politica e diritto – e che ha (anche) la funzione di garanzia/protezione dell’ordine attraverso l’esercizio/disciplina della coazione; e non solo perché il fine della politica, nel caso d’emergenza (e talvolta non solo in quello) prevale su quello del diritto (la giustizia, o meglio l’equità), sicché, come scriveva Jhering “la forza sacrificherà il diritto per salvare la vita”; ovvero, secondo Santi Romano, la necessità è fonte di diritto[13]; ma anche perché a seguire le regole giuridiche (o, sotto un diverso aspetto, morali) piuttosto che quelle della “ragion di Stato”, una comunità prepara, come scriveva Machiavelli per il Principe “più tosto la ruina che la preservazione sua”. Se, ad esempio, le potenze occidentali avessero soccorso militarmente la Finlandia, aggredita nel 1939 dall’Unione Sovietica (come chiesto da buona parte dell’opinione pubblica), avrebbero avuto la normativa internazionale dalla loro parte (il protocollo di Ginevra del 1924 condannava la guerra di aggressione, e quella alla Finlandia lo era) ma fatta una pessima scelta politica: sia perché, oltre alla guerra con Hitler, se ne sarebbero trovati un’altra con Stalin, sia perché avrebbero consolidato la recente (e labile) alleanza tra i loro nemici. Citando Odilon Barrot, dato che talvolta la legalité nous tue, per non morire occorre “rompere” o “derogare” alla legalità.

D’altra parte è proprio il diritto positivo, con la nutrita casistica di deroghe ed eccezioni al diritto costituzionale ed ordinario che dimostra carattere e struttura di tale rapporto: rotture costituzionali, stati d’eccezione, stato di necessità, deroghe ed attenuanti alla legislazione penale.

Per cui correttamente Santi Romano riteneva, nel passo sopra citato, che anche in caso sia vietato far uso di poteri eccezionali, la necessità legittima la violazione del diritto (o meglio della legge) vigente.

In altri termini, in ogni ordinamento (che sia vitale) esiste una “clausola generale” (anche se non scritta, anche se vietata) in virtù della quale la protezione dell’esistenza (collettiva) prevale sulla legalità. Coincidendo, secondo Santi Romano il concetto d’istituzione con quello d’ordinamento[14], questa clausola è giuridica, perché costitutivo-conservativa dell’esistenza collettiva. Insieme alla sovranità – e sotto il profilo oggettivo – è il punto di raccordo tra fine del politico e finalità del diritto. Consegue da ciò che l’istituzione politica (nella modernità, e per eccellenza, lo Stato) ha il compito di far convivere esigenze della politica e del diritto, sein e sollen. Proprio nel pensiero (giuridico) istituzionista, e nel concetto d’istituzione ciò è avvertito più nettamente; secondo Hauriou “il potere è una libera energia della volontà che assume l’impresa di governo di un gruppo umano attraverso la creazione dell’ordine e del diritto”[15]. Quindi all’inizio c’è il potere; questo crea l’ordine attraverso l’istituzione[16]; il potere (e il governo) di fatto si trasforma così in un potere (e governo) di diritto. Il rapporto tra potere, ordine attraverso il diritto (cioè l’istituzione) e consenso coutumier fa si che l’istituzione debba tener conto sia del potere che del consenso e dell’ordine, e così dei “due” poli, politico e giuridico.

Il rapporto di “sovraordinazione” o di “decisività” tra politica e diritto, e di prevalenza-precedenza della prima sul secondo, cui ci ha avvicinato la tesi di Hauriou su potere ed ordine, è particolarmente evidente nel momento di fondazione (o ri-fondazione) dell’istituzione, e, in ispecie, dell’istituzione-Stato.

A questo è stato molto attento, sia negli scritti giovanili che negli ultimi, Santi Romano; lo stesso problema è, tuttavia, solitamente trascurato dai giuristi, in parte con l’attenuante che il giurista interpreta il diritto che è, e non indaga il momento genetico dell’istituzione. Ma proprio quest’ultimo mostra l’essenza e i modi del rapporto: la teoria di Sieyès sul potere costituente lo conforta (e ne è la più chiara espressione). Sieyès la fonda su tre caratteri distintivi di tale potere: il primo negativo, d’essere svincolato da ogni forma, “une nation est indèpendente de toute forme”. Al contrario dei poteri costituiti, che sono tenuti a rispettare la legalità (“il n’est legal qu’autant qu’il est fidèle aux lois qui lui ont été imposées”) la volontà nazionale (cioè il potere costituente) “au contraire n’a besoin que de sa réalité pour être toujours lègale, elle est l’origine de toute lègalité”. La nazione non è sottomessa ad una Costituzione, e non può (né deve) esserlo; non solo è indipendente d’ogni forma, ma non ha bisogno di alcuna giustificazione (supporto) giuridico. In essa realtà e legalità coincidono: la seconda è lo sviluppo-emanazione della prima. Infine “De quelque manière qu’une nation veuille, il suffit qu’elle veuille: toutes les formes sont bonnes, et sa volonté est toujours la loi suprême”; per cui è essa a determinare (ed istituire) la/e forma/e in cui si organizzerà ed articolerà l’istituzione[17]. Il politico non ha così una data forma, ma è creatore della (propria) forma. Il fatto che questa/e forma/e sia vitale (cioè efficace, capace di far esercitare il comando con successo e consenso) lo si deve al grado di accettazione da parte dei consociati, che si esprime in categorie (e concetti) essenzialmente politici (e “fattuali”) come autorità e legittimità. Così il “politico” e la volontà politica (tanto del “creatore” dell’ordine che dei governati) è il punto d’Archimede dell’ordinamento giuridico (statale): togliendo, modificando, o sostituendo quello, cambia questo: mentre non è vero il contrario; perché il cambiamento di una, o più norme (anche la maggior parte), e neppure quello di istituzioni modifica la costituzione (intesa nel senso schmittiano delle decisioni fondamentali sui modi e forme dell’esistenza politica) e ancor meno il potere costituente.

A tale proposito occorre ricordare come molti giuristi hanno notato che vi sono istituzioni originarie e derivate. Le prime sono “quelle in cui si concreta un ordinamento giuridico che non è posto da altre istituzioni e che è quindi, quanto alla sua fonte, indipendente. Ci sono viceversa istituzioni derivate, il cui ordinamento è, cioè, stabilito da un’altra istituzione, la quale afferma così, a questo riguardo, la sua superiorità sulla prima, che le rimane quindi subordinata[18]; così come lo Stato ha, secondo Rudolf Smend, il carattere che “il suo funzionamento non viene mantenuto da un motore o da un giudice esterni alla sua struttura, non viene sorretto da una causa o da una garanzia eteronome, ma si integra, grazie alla legislatività oggettiva rispetto al valore, esclusivamente in un sistema di integrazione gravitante su se stesso” per cui “In un senso del tutto diverso dalla costituzione di un’associazione, la costituzione scritta di uno Stato può perciò soltanto stimolare e limitare quella vita costituzionale che gravita su se stessa e che non può essere garantita eteronomamente[19]. In sintesi il carattere politico (e originario) dell’istituzione statale fa si che è il potere politico – e sovrano – inerente alla medesima a garantire unità, stabilità e applicazione del diritto; per le altre è un potere esterno all’istituzione (cioè, per lo più, un’altra istituzione), proprio perché priva di sovranità.

Si potrebbe con un paragone ardito,  adattare al diritto il teorema di incompletezza di Gödel, per il quale vi sono punti che il sistema non riesce a decidere né a dimostrare autonomamente. Di converso il politico, come scritto da Sieyès nel passo sopra citato, non ha necessità di legittimazione o d’essere conforme a una norma o ad una procedura giuridica.

  1. Il punto di giunzione (e frizione) tra giuridico e politico è dato dal diritto pubblico, intendendo con ciò quello che – in altre lingue romanze, come anche in italiano, ai tempi di Romagnosi – si chiama anche “diritto politico”. Nei suoi rami più alti, ma talvolta anche in quelli inferiori, sono ravvisabili diversi punti di raccordo (e di conflitto) tra esigenze della politica e principi ed istituti giuridici.

Proprio il diritto positivo (i diritti positivi) degli Stati moderni concorre a provare come il politico (e la politica) sono irriducibili al giuridico; in particolare, se si intende questo essenzialmente come regola, come norma applicabile esattamente da un giudice o da un funzionario. Le forme di questa irriducibilità sono varie. Ne ricordiamo le principali:

1) In primo luogo non c’è necessità di avere il diritto per creare il diritto: ciò è implicito nell’affermazione di Sieyès che la Nazione, per il solo fatto di esistere è tutto ciò che vuole essere: ovvero che non ha bisogno di alcuna legittimazione giuridica. Questo, oltre che da altri, è ripreso (e in certo senso, ampliato) nella nota tesi (v. supra nota 13) di Santi Romano, per cui anche senza autorizzazione legislativa all’uso di “poteri eccezionali e straordinari, questi potranno essere assunti ed esercitati in forza della necessità. Come è consuetudine, anzi a maggior ragione, data la sua maggiore energia, la necessità è fonte  autonoma del diritto, superiore alla legge[20].

2) Anche senza voler ricordare la funzione protettiva-conservatrice  dell’autorità politica, particolarmente chiara ed evidente nello “ stato di eccezione”, neppure in rapporti e situazioni non connotate dall’emergenza, ma, in un certo senso, normali, l’ambito del “politico” coincide col “normativo”. Infatti atti particolarmente rilevanti sono sottratti al sindacato del giudice, anche nelle democrazie liberali, dove il controllo è, di converso e di solito, penetrante e generale. Così nel diritto italiano gli atti politici, in quello francese gli actes de gouvernement non sono impugnabili davanti al Giudice. A tale proposito è stato sostenuto che “l’attività politica non può venir definita unicamente un’attività libera, ma un’attività libera perché politica[21]” e che gli atti espressione della funzione di governo sono “istituzionalmente sottratti ad ogni sindacato giurisdizionale. Essi sono sottratti per natura, non perché esiste l’art. 31 T.U. sul Consiglio di Stato”[22].

Anche in presenza dell’art. 113 della Costituzione italiana (che prescrive la sindacabilità generale degli atti amministrativi) la categoria degli atti politici è “sopravvissuta” alla Costituzione repubblicana[23] ; per cui ne risulta rafforzata la tesi che tali atti non sono justiciables per “natura”.

3) I poteri rappresentativi (e talvolta non solo quelli) sono immuni dalla giurisdizione penale. La prima costituzione europea moderna, cioè quella francese del 1791, già lo disponeva (titolo III, cap. I, art. 3) prescrivendo che i tribunali non potessero interferire nell’esercizio del potere legislativo né sospendere l’attuazione delle leggi: prescrizioni similari, e quelle sull’immunità dei parlamentari (dei Capi di Stato e dei Ministri) da arresti e processi erano riportate praticamente in tutte le costituzioni europee successive, degli Stati liberali prima e (poi) democratico-liberali; così come le deroghe alle competenze e forme ordinarie in caso di processo ipolitici.

L’argomento decisivo per spiegare le immunità (e le deroghe) per determinati organi “supremi” dello Stato è quello esposto, nel solco di una tradizione di pensiero sullo (o dello) Stato che risale a Bodin ed Hobbes, da Vittorio Emanuele Orlando, in un saggio del 1933. Scriveva infatti: “Che fra gli organi onde lo Stato manifesta la sua volontà e la attua, uno ve ne sia che su tutti gli altri sovrasta, superiorem non recognoscens, e che non potendo appunto ammettere un superiore (chè allora la potestà suprema si trasporterebbe in quest’altro) deve essere sottratto ad ogni giurisdizione e diventa, per ciò stesso, inviolabile ed irresponsabile, è noto” (il corsivo è nostro) [24].

  1. Il breve excursus che precede spero sia servito al chiarimento di ciò che è politico e ciò che è giuridico. La compenetrazione dei quali – nelle forme costituite – crea molteplici tipi d’interazione e rapporti, di cui il diritto positivo costituisce la testimonianza; e da cui i criteri distintivi sono registrati.

Resta il fatto che il diritto è per natura eteronomo, e gli sono essenziali (e “dati”) forma e procedura; mentre il politico è autonomo, è morfopoietico, e (in ultima analisi) non ha bisogno di osservare procedure o legittimazioni giuridiche per imporre la propria volontà.

Quando si cerca di dimenticare – o sminuire tali caratteri, i casi sono due: o si cerca di utilizzare il diritto come supporto in una battaglia politica ( come, ad esempio, l’uso leninista della legalità), ammantandosi del “valore aggiunto” della legge, rivolto – come arma in più – contro il nemico; o si confondono legalità e legittimità, forme e procedure, subordinazioni e coordinazioni, essere e dover essere, comando e obbedienza, pubblico e privato, in un caos, che la mancanza di un punto d’Archimede, visibile e riconosciuto (“pubblico”), rende durevole (quanto dannoso). Che può essere la forma ideologica di un moderatismo policratico, in cui la moderazione delle parole copre i fini particulari di una congerie (irresoluta e) tendenzialmente anarchica di poteri privati, anche se non sempre nell’oggetto, nella mentalità e nella funzione.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Politik als beruf, trad. it., Torino 1966, p. 72.

[2] V. Trattato politico, trad. it., Torino 1958, p. 168 (il corsivo è nostro).

[3] Op. cit., p. 195.

[4] Elements of Law Natural and Politic, trad. it., Firenze 1968, p. 178.

[5] Die Metaphisik der Sitten, trad. it., Bari 1973 p. 149.

[6] T. Hobbes scrive che legge, dovere e profitto del Sovrano “sono una medesima cosa, contenute nella sentenza, Salus populi suprema lex” v. Elements, sopra cit. p. 250.

[7] Die Metaphisik Der Sitten, I, Intr., § 3, op. cit., p. 21 (i corsivi sono nostri).

[8] Op. cit., p. 37

[9] “Per retta ragione nello stato naturale degli uomini non intendo, come molti fanno, una facoltà infallibile, ma l’atto di ragionare, cioè il ragionamento, proprio di ciascuno e vero, riguardo quelle proprie azioni che possono tornare a vantaggio o a danno degli altri uomini. Dico: proprio, perché, sebbene nello Stato la ragione dello Stato (cioè la legge civile) debba essere ritenuta retta da ciascun cittadino, fuori dello Stato, dove non si può distinguere la retta ragione dalla falsa, se non paragonandola alla propria, la ragione di ciascuno deve valere non soltanto come regola delle azioni proprie, fatte a proprio rischio, ma anche come misura della ragione altrui, nelle cose che ci riguardano. Ho detto: vero, cioè concluso mediante la corretta composizione di principi veri, perché ogni violazione delle leggi naturali consiste in un falso ragionamento, cioè nella stupidità di uomini che non considerano necessario alla propria conservazione l’adempimento dei loro doveri verso gli altri” Hobbes, op. cit., p. 90 (il corsivo è nostro).

[10] V. Spinoza “Vediamo dunque in qual senso si possa dire che lo Stato è soggetto alle leggi e che può delinquere. Se per legge si intende il diritto civile, ossia il diritto che si può civilmente rivendicare, e per delitto un’azione vietata dal diritto civile; ossia, se queste parole sono intese alla lettera, non si può in alcun modo dire che lo Stato sia soggetto alle leggi o che possa delinquere. Infatti, le regole e i motivi di soggezione e di ossequio, che lo Stato deve a propria garanzia conservare, non sono del diritto civile, ma del diritto naturale, giacché (per l’art. precedente) non si possono rivendicare per diritto civile, ma per diritto di guerra, e lo Stato non vi è tenuto se non per la sola ragione per cui anche l’uomo nello stato naturale è tenuto, se vuole mantenersi libero e se non vuole diventare nemico di se stesso, ad evitare di uccidersi: dovere, questo, che non implica soggezione, ma denota la libertà dell’umana natura. Il diritto civile dipende invece esclusivamente dalla volontà dello Stato, il quale, se vuole mantenersi libero, non deve adeguarsi se non al proprio talento e non riconoscere per bene o male se non ciò che esso stesso ha dichiarato tale; e quindi, non soltanto ha il diritto di imporsi, di promulgare leggi e di interpretarle, ma anche di abrogarle e di condonare la pena a qualsiasi delinquente per la pienezza del proprio potere”, op. cit., p. 205.

[11] Philosophie et sociologie, Louvain-La-Neuve 1984, p. 87 ss.

[12] Regola due volte non osservata, con le conseguenze, per la Germania, che tutti sanno.

[13] Santi Romano ritornò più di una volta sulla concezione della necessità come fonte di diritto (v. ad esempio il saggio del 1898 Saggio di una teoria sulle leggi di approvazione, ora in Scritti minori, vol. I). riportiamo il passo più significativo della seconda edizione del Diritto costituzionale generale (del 1947, l’anno della morte) “Talvolta, le leggi scritte accordano, in casi di necessità, al potere esecutivo la facoltà di emanare decreti o ordinanze, che si dicono per l’appunto di necessità o urgenza, in sostituzione del potere legislativo, cui normalmente spetterebbe la competenza di emanare le norme occorrenti. Ma anche quando tali leggi scritte mancano, o sono inadeguate alla situazione che si è formata, e persino quando espressamente vietano che si faccia uso di poteri eccezionali e straordinari, questi potranno essere assunti ed esercitati in forza della necessità. Come la consuetudine, anzi a maggior ragione, data la sua maggiore energia, la necessità è fonte autonoma del diritto, superiore alla legge. Essa può implicare la materiale e assoluta impossibilità di applicare, in certe condizioni, le leggi vigenti e, in questo senso, può dirsi che «necessitas non habet legem». Può anche implicare l’imprescindibile esigenza di agire secondo nuove norme da essa determinate e, in questo senso, come dice un altro comune aforisma, la necessità fa legge. In ogni caso, «salus rei publicae suprema lex» (il corsivo è nostro).

[14] V. L’ordinamento giuridico, rist. Firenze 1967, p. 27.

[15] Préçis de droit Constitutionnel, Paris 1929, p. 14.

[16] Op. cit., pp. 17 e ss.

[17] Qu’est-ce-que le tiérs État, Liv. V.

[18] v. Santi Romano, L’Ordinamento giuridico, cit. p. 141 (il corsivo è nostro).

[19] V. R. Smend Verfassung und Verfassungsrecht, trad. it. Milano 1988 p. 156; sul punto Smend ritorna nella voce Integration, trad. it. cit., p. 286 per sostenere che le istituzioni non statali “vengono garantite dalla dissoluzione interna per lo più mediante poteri esterni: il giudice, la coercizione amministrativa, sino agli strumenti della cosercizione sociale e a quelli della politica estera e del diritto internazionale. Per lo Stato, in quanto si pone semplicemente come compito, non vi sono affatto tali garanzie esterne” (il corsivo è nostro).

[20] Santi Romano. Diritto costituzionale generale, Milano 1947, p.92 (i corsivi sono nostri).

[21]  v.  Ranelletti-Amorth “Atti politici” in Noviss. Digesto italiano  vol. 3° p.1512 (il corsivo è nostro).

[22] v. P. Barile Atto del governo (e atto politico) in Enc. Diritto, vol, IV p. 225.

[23] V. p. es. Cass.,S.S.U.U. civili, 25/11/1983 n.7072 sugli atti della Commissione di vigilanza sui servizi radiotelevisivi.

[24]V. E. Orlando Immunità parlamentari ed organi sovrani, Rivista di diritto pubblico,  XXV Roma 1933, ora in Diritto pubblico generale, Milano 1954, p. 487. E prosegue: “circa gli attributi ed i caratteri dell’organo sovrano come furono definiti di sopra, non vi sono gravi difficoltà, quando l’ordinamento ne riconosce ed ammette uno solo: e non importa se questo unico organo sovrano sia, in relazione alle varie forme di governo, una persona fisica (monarchia), o un collegio, e questo sia costituito da componenti di una classe privilegiata o dalla universalità dei cittadini (aristocrazie o democrazie assolute)” e specifica: “Si giustifica pertanto la nostra teoria la quale può riassumersi così: non si può dare organo sovrano senza che esso sia coperto della garanzia della inviolabilità, la quale importa: essere sottratto ad ogni giurisdizione capace di esercitare una coazione fisica sulla persona. Naturalmente, come avviene sempre nel mondo del diritto, questo principio generale deve, nell’applicazione, adattarsi alle manifestazioni concrete della realtà costituzionale, assumendo forme diverse senza però venir mai meno in se stesso”.

Se si tratta di organo collegiale “come sono le assemblee parlamentari, l’inviolabilità fisica non può normalmente porsi se non in via indiretta, attraverso l’inviolabilità dei membri; ma, d’altra parte, non è necessario e sarebbe anzi sconveniente, che questa forma di inviolabilità del collegio nelle persone dei suoi membri fosse così assoluta e così rigida come deve essere in rapporto a una persona fisica”. Per cui “Attraverso tutte queste differenze, per quanto importanti possano essere, è però sempre lo stesso principio che si applica, riaffermando l’inviolabilità  come qualità inseparabile dell’organo sovrano: diritto comune e non diritto di eccezione, poiché deriva per virtù di semplice logica giuridica dalla stessa maniera di essere dell’ordinamento” perché ad essere “rigorosamente esatti” non è tanto che il Parlamento (e gli altri organi sovrani) si sottraggono ad ogni giurisdizione “ ma bensì, che compete ad esso (comprendendo il Re) la giurisdizione suprema e che tale sua qualità sia sufficiente perché possa risolvere senza concorso di un’altra autorità, le questioni della sua prerogativa”, op. cit. p. 495 ss..

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Salvador De Madariaga, La sacra giraffa_recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Salvador De Madariaga, La sacra giraffa, OAKS Editrice 2023, pp. 307, € 25,00.

Diplomatico, insegnante, uomo politico, presidente dell’Internazionale liberale, Salvator De Madariaga tra tante opere storiche scrisse questo libro distopico connotato da un umorismo á tous azimouths, ma, in particolare rivolto alla società inglese del secolo scorso, che conosceva bene, avendo insegnato ad Oxford. Immagina di aver trovato e tradotto un romanzo che descrive la civiltà dell’anno 6922, dove l’Europa (e la razza bianca) è scomparsa, primeggia l’Africa e gli Stati – come le società umane – sono dominati dalle donne, mentre gli uomini sono relegati a compiti domestici. Come nota Ingravalle nella diffusa introduzione, comunque le regolarità delle comunità umane non sono cambiate: in particolare l’ordinamento gerarchico delle stesse, l’aspirazione al potere e l’esigenza del sacro (e al mito).

E anche i difetti: a cominciare dalla vanità e dall’ipocrisia pubblica e privata.

A tale proposito basti leggere (il libro è stato pubblicato quasi un secolo fa)  il trattato internazionale che chiude il romanzo: zeppo di passaggi roboanti e commoventi che occultano la realtà di una spartizione tra due Stati “forti” di uno Stato debole. O la relazione sulla letteratura inglese, fatta da una storica secondo la quale più per fantasia e ricerca dell’originalità che della realtà sostiene che la rilegatura – cofanetto di un antologia di poeti inglesi pubblicata dall’Università di Oxford sia opera di un solo autore (anzi autrice), Oxford per l’appunto, che avrebbe scritto da solo gran parte della poesia e della prosa inglese attribuendola ad autori di fantasia come Chaucer, Milton, Shakespeare, Kipling, ecc. ecc. Il tutto con una pseudorazionalità che mutatis mutandis anche oggi conosciamo bene.

Il romanzo considera tanti aspetti della vita sociale; dal sacro al profano. Ai primi appartiene il mito fondatore dello Stato di Ebania; la cui prima regina sarebbe discesa dalla Luna alla Terra scivolando sul collo della sacra giraffa, la quale lo aveva allungato fino al satellite scambiandolo per una gigantesca noce di cocco; ai secondi la superiorità della donna sull’uomo, giustificata ad ogni piè sospinto, malgrado l’evidenza che non si tratta di una superiorità biologica, ma di ordinamento sociale.

L’umorismo di Madariaga può apparire (e in effetti spesso è) troppo fine per i palati rozzi. Ad esempio questo mito della discesa sul collo della sacra giraffa appare come una rappresentazione simbolica della costituzione dal cielo del potere sacro e dell’origine celeste dell’autorità. Fatta nell’immaginario di un popolo africano.

Sempre ai secondi (il profano) appartengono le regolarità delle comunità umane che pur cambiando razza, sesso, costumi, rimangono per certi aspetti immutato.

Così sia le società ove i dominanti sono maschi, ariani sia dove a dominare sono le donne di colore, le “costanti” della lotta per il potere e l’ordinamento gerarchico non mutano. Anche per questo “La sacra giraffa” rientra tra i migliori libri distopici del secolo scorso, come “1984” e “Il mondo nuovo”. Buona lettura.

Teodoro Klitsche de la Grange

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MEGLIO I RUSTICI DI DULCAMARA, di Teodoro Klitsche de la Grange

MEGLIO I RUSTICI DI DULCAMARA

La settimana di Natale non ha recato doni, tanto meno ricchi, ai buonisti in servizio permanente effettivo: dai pandori della Ferragni ai rinvii a giudizio per i congiunti di Soumahoro, ai bonifici vaticani per il no-global Casarino. È stato tutto un congiungere le buone intenzioni manifestate dai suddetti con le laute retribuzioni che ne conseguivano.

Mi son detto se il comune denominatore dei buonisti è la pratica di congiungere strettamente intenzioni e profitti, cosa li distingue da un “vecchio” piazzista da fiera, come ad esempio il Dulcamara?

Anche il ciarlatano dell’elisir d’amore racconta  un sacco di bugie agli ingenui paesani, e lo fa con logica di mercato: l’elisir che offre è magnifico, cura tutto: dal diabete all’impotenza, dal mal di fegato alla colite. È pure efficace come crema per la pelle, contro le rughe ed è un insetticida insostituibile. Il target di un prodotto del genere esonda nel (più) vasto pubblico dei consumatori, in ossequio alla prima legge di mercato: aumentare il numero degli acquirenti.

D’altro canto Dulcamara fa leva sempre sull’interesse all’acquisto dell’elisir: il prodotto non è solo utile a tante cose (ha un grande valore) ma costa poco (uno scudo). È il rapporto favorevole qualità/prezzo l’argomento determinante della pubblicità di Dulcamara. Gli altri argomenti (l’autorità scientifica del ciarlatano, nota dell’universo e in altri siti, i certificati, il successo nelle vendite, i costi) sono di contorno.

Ciò lo distingue dai suoi epigoni nostri contemporanei. I quali non promuovono pandoro, uova od altro facendo leva sull’eccellenza della merce e sulla modicità del prezzo. No. I nostri fanno leva sulle buone cause e sui buoni sentimenti. Chi non usa olio di palma salva tanti oranghi dalla distruzione del loro habitat (nessuno – per quanto risulta – si pone il problema di come la pensino i contadini indonesiani); chi acquista una macchina elettrica salva il pianeta dal cambiamento climatico; così coloro che mangiano pandori e uova della Ferragni aiutano i bimbi malati. E così via.

Con ciò da una promozione che si fonda sull’interesse si passa ad una che si basa, per così dire, sui valori. Che un pandoro sia fatto con grassi e farine di bassa qualità non importa: conta invece che comprarlo serve ad assistere dei bambini, come dice il testimonial. D’altra parte il concetto di “valore”, come inteso oggi, è nato nella scienza economica, e ad essa fa ritorno (sotto diverse spoglie). C’è da chiedersi: se Dulcamara avesse propagandato il proprio elisir chiedendo ai “rustici”    di comprarlo per assistere i bambini, lo avrebbe venduto? Penso che i rustici ci avrebbero riso su, abituati sia a far elemosina nelle sedi e modi tradizionali, sia a spendere oculatamente, come normale nelle società più povere. Invece, malgrado e date le cifre pagate ai testimonials le ditte produttrici riescono evidentemente a realizzare lauti profitti. Segno che i rustici di oggi abboccano assai di più che ai tempi di Dulcamara. E oltretutto non hanno la prospettiva della fortuna di Dulcamara e del suo “gonzo” Nemorino, del lieto fine, dell’eredità che arricchisce il truffato. Tutto a perdere, quindi, tranne che per i testimonials e i loro committenti.

Teodoro Klitsche de la Grange

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