sulla rappresentanza politica, di Teodoro Klitsche de la Grange

SULLA RAPPRESENTANZA POLITICA

 

  1. – Sul tema della rappresentanza politica occorre fare una precisazione preliminare: che di un termine o di un oggetto, com’è noto, possono aversi diverse definizioni e concetti, a seconda dell’angolazione da cui lo si studia. Così, per un giurista l’espressione de qua avrà un certo significato, per un politologo sarà diverso, per un filosofo o un sociologo un altro ancora. Tutti magari veri o validi e correttamente ricostruiti, ma, ovviamente, nell’ambito dei rispettivi “campi” scientifici.

L’essenziale è, trattando di tale argomento, da una parte non far confusioni, pretendendo di paragonare il concetto giuridico con quello sociologico e disputare sulla validità dell’uno o dell’altro; operazione impossibile, dato che la disomogeneità dei campi e criteri d’indagine la rende simile al tentativo di sottrarre triangoli a quadrati. Dall’altra a non perder del tutto i contatti, anche al fine di chiarire il concetto giuridico di rappresentanza, con i contributi che possono derivare da altre scienze umane.

Tale premessa si rende necessaria perché la rappresentanza è uno dei temi che più si prestano a confondere il diritto con la politica, la sociologia o la filosofia, ed addirittura con modi di intendere usuali ed atecnici. Per fare un esempio, il nesso spesso ripetuto, e che tratteremo in seguito, tra rappresentanza e scelta elettiva si spiega solo con l’adagiarsi su un modo corrente di intendere la prima, mutuato da assemblee sindacali e da congressi di partito.

  1. – Fatte queste brevi precisazioni, occorre ricercare il concetto di rappresentanza politica prima di tutto escludendo ciò che non è, o che è meramente accidentale rispetto ad esso.

In primo luogo che la rappresentanza sia un rapporto tra più soggetti, rappresentanti e rappresentati, concretamente identificabili come soggetti di diritto, titolari di obblighi e rapporti reciproci. Basta guardare la costituzione vigente, come quasi tutte le carte costituzionali, per rendersi conto che non è così. L’art. 67 recita testualmente: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Quindi, se può immaginarsi un rapporto, questo e’ tra un soggetto concreto (il parlamentare) e un’entità ideale (la Nazione), ma certo non è per nulla simile al rapporto giuridico “di rappresentanza” nel senso correntemente inteso.

In secondo luogo, che il rappresentante rappresenti chi l’ha eletto, scelto, delegato. La prevalente dottrina ha coerentemente negato ciò, non solo perché è del pari contraddetto dall’art. 67 della Costituzione, come da analoghe norme in ordinamenti similari, ma anche perché spesso chi elegge, sceglie o delega è esso stesso un corpo rappresentativo di un quid cui il rappresentante deve dare capacità d’azione. Così il corpo elettorale è in sé già rappresentativo, come notato dalla dottrina francese da quasi un secolo, del “popolo” e della “Nazione” e pertanto non coincide con questi, non foss’altro perché non ne fanno parte i minori e certe, sia pur limitate, categorie di cittadini.

Del pari, non c’è alcun nesso sostanziale tra rappresentanza e procedimento elettorale, né nel senso che tutti i rappresentanti sono elettivi, né nell’altro, e reciproco, che tutti gli eletti sono rappresentanti.

Quanto al primo occorre riprendere in mano la prima costituzione moderna europea, cioè quella francese del 1791, per leggervi (titolo III, art. 2 secondo comma) che “La constitution francaise est représentative: les représentants sont le corps législatif et le roi”: e il re non era sicuramente scelto per elezione. Formulazione mantenuta in gran parte dalle costituzioni monarchiche dell’800, ivi comprese alcune di quelle italiane pre-unitarie (v. per esempio artt. 2-3 Cost. Regno di Napoli del 1815; artt. 1 e 50 Cost. Regno delle Due Sicilie del 1848), anche se talvolta i termini rappresentanza, rappresentativa e rappresentante erano riferiti genericamente alla costituzione come forma di governo e specificatamente ai soli parlamentari (o ai deputati delle camere elettive). Perciò Santi Romano riteneva che “l’elezione è un mezzo, sia pure il più idoneo, ma non l’unico possibile per attuare la rappresentanza politica, della quale, comunque, non esaurisce e rivela la natura intrinseca.” Ancor più semplice è mostrare che eleggere un organo non implica che questo rappresenti alcunchè: gli esempi, nel diritto pubblico italiano e non, sono tanti e così noti che è inutile ricordarli. Più precisamente, e restringendo il discorso agli organi costituzionali, il fatto che i componenti di quelli rappresentativi sono scelti per elezione ed abbiano il mandato temporaneo è una conseguenza dell’idea di democrazia e non di quella di rappresentanza.

Inoltre, è da valutare se la rappresentanza implichi sempre responsabilità verso qualche soggetto, in particolare, nel caso di rappresentanza elettorale, verso gli elettori o il “rappresentato”.

Anche qui la risposta è tendenzialmente negativa: lo è del tutto, almeno in termini giuridici, se si ritiene – correttamente – che il rappresentato sia un’entità ideale come la Nazione e come il Popolo, e lo è in larga misura se si pensa che siano gli elettori, o meglio il corpo elettorale. Infatti, il rappresentante non è giuridicamente responsabile verso il corpo elettorale, almeno secondo il corrente concetto di responsabilità, lo è invece politicamente.

Con ciò, però, la responsabilità, che si vorrebbe connotato della rappresentanza politica, si rivela comunque assai ridotta. Come si vedrà in prosieguo, la responsabilità politica del rappresentante, lungi dal caratterizzarlo in quanto tale, è essa stessa conseguenza della natura e dei caratteri dell’istituto. Il rappresentante, in altri termini, non è tale perché è responsabile, ma è tale perché, a differenza di altri soggetti di funzioni pubbliche, è quasi totalmente irresponsabile. Tra i due concetti, nella disciplina degli istituti rappresentativi, c’è più opposizione che correlazione.

  1. – Occorre ora connotare positivamente il concetto di rappresentanza. Ma una comprensione di questa non può prescindere dall’analisi della funzione e dalla valutazione di una teoria più volte ripetuta, identificante la funzione delle istituzioni rappresentative nell’essere lo specchio, la “carta geografica” della società come diceva Mirabeau, di guisa da dar voce ai contrastanti interessi ed opinioni.

Orbene, è chiaro che una simile tesi può essere corroborata solo se l’organo rappresentativo è collegiale, abbastanza ampio ed elettivo: caratteristiche che non sempre ha. Di conseguenza, per gli stessi motivi sopra cennati, questa teoria non spiega e non comprende tutti i casi di rappresentanza politica: identifica, cioè, un aspetto accidentale, e tutto sommato subordinato (anche se importante), della composizione ed organizzazione delle istituzioni rappresentative, ma non ne individua i caratteri e la funzione essenziale.

Funzione essenziale che va individuata nel dare capacità di azione politica e quindi di esistenza ad una comunità organizzata.

Potrebbe sembrare strano a chi pensa che rappresentare consista nel dare “una voce”, nel far “partecipare”, ma è proprio questo che può ricavarsi dalla teoria politica e costituzionale positiva del XVII secolo in poi. Un breve esame storico mi permetterà di argomentare tale tesi, d’altra parte già esplicitata da altri.

Infatti Hobbes, nel noto passo del Leviathan (cap. XVI), intuisce tale funzione della rappresentanza giudicando che “una moltitudine di uomini diventa una persona, quando è rappresentata da un uomo o una persona” e nel capitolo successivo chiarisce il concetto: dopo aver descritto gli inconvenienti dello “stato di natura” scrive “il solo modo per stabilire un potere comune, che sia atto a difendere gli uomini dalle invasioni degli stranieri e dalle offese scambievoli… è di conferire tutto il proprio potere ad un uomo o a un’assemblea di uomini, che possa ridurre tutti i loro voleri con la pluralità dei voti, ad un volere solo: che è quanto a dire a deputare un uomo od un’assemblea di uomini a rappresentare le loro persone, ed a riconoscersi… autore di qualunque cosa colui, che così lo rappresenti, possa fare o cagionare…”. In altri termini Hobbes identifica la funzione caratteristica della rappresentanza, nel dare volontà unitaria ad una società umana e con ciò l’unità necessaria ad un’esistenza sicura ed ordinata (cioè, nella visione di Hobbes, è un principio di forma costituzionale).

Passando a Montesquieu, si può leggere che “il grande vantaggio dei rappresentanti, è che sono capaci di discutere gli affari. Il popolo non vi è adatto: e ciò è forse uno dei grandi inconvenienti della democrazia”. E Montesquieu insiste sul fatto che un governo rappresentativo è necessario sia per l’incapacità del popolo di gestire la cosa pubblica, mentre d’altra parte è, ovviamente, vitale che siano prese le decisioni: e non vi è altro sistema per decidere che con rappresentanti.

Arrivando a quella grande fucina del diritto pubblico moderno che è l’opera dei costituenti francesi della fine del ‘700, troviamo Sieyès che fonda la necessità della rappresentanza in gran parte adducendo gli stessi motivi di Montesquieu e, in altra, come effetto della divisione del lavoro. Ma, soprattutto, nell’affermare la sovranità nazionale, l’art. 2 primo comma del titolo III della Costituzione del 1791 afferma “La Nation, de qui seule émanent tous les pouvoirs, ne peut les exercer que par délegation”.

Con ciò la ragione della rappresentanza aveva, in un certo senso, un’espressione costituzionale. Ma del pari, dall’assemblea costituente erano fissati altri caratteri essenziali del rappresentante: l’indipendenza dagli elettori, con il rifiuto dell’imperatività del mandato; la rappresentanza della nazione e non di singole parti o frazioni, anche se organizzate; infine la distinzione tra rappresentante (politico s’intende) ed altri esercenti pubbliche funzioni. In particolare il rifiuto del mandato imperativo e l’affermazione di una rappresentanza “generale” implica una conseguenza di notevole importanza per confutare la tesi della rappresentanza, anche se elettiva, come “specchio” o “carta geografica” della società civile.

Una rappresentanza “frazionistica” comporterebbe la logica conseguenza di istituti simili a quelli medievali e cetuali, col vincolo del mandato e la consapevolezza d’esser delegato di parte: la conformazione di quella moderna invece col vietare l’imperatività del mandato, ed affermare, nel singolo parlamentare, la rappresentanza del tutto, esclude proprio perciò quella della parte. Detto in altre parole, e precisamente con quelle di Santi Romano, le istituzioni rappresentative sono istituzioni necessarie, perché il “popolo, quando non si ha un governo democratico diretto, non ha la possibilità giuridica di curare e tutelare i suoi interessi se non per mezzo di rappresentanti e, di solito, scegliendo esso stesso questi ultimi”.

Che poi vi sia una rispondenza tra corpo elettorale ed eletti, del tipo di quella criticata, è un sovrappiù; ed è errato credere che la rappresentanza politica, così come voluta dai costituenti delle prime costituzioni democratico-liberali, volesse dire dar voce ai contrasti d’opinioni e d’interessi. Tutt’altro: basta leggere il discorso di Sieyés all’Assemblea costituente contro il mandato imperativo del settembre 1789, o il decimo saggio del “Federalista”, per rendersi conto che il frazionamento pluralistico di una rappresentanza elettiva era ciò che questi più temevano; ed il senso di quel “rappresentare la Nazione” (o il popolo) e di agire senza dipendenze è in gran parte rivolto contro gli esiti paralizzanti di un eccessivo frazionamento dell’istituzione, o delle istituzioni, rappresentative.

  1. – Ma detto ciò, e chiarito che funzione della rappresentanza è dar capacità d’azione ad una collettività che “come tale non può agire”, occorre ora vedere cosa sia rappresentato dal rappresentante.

A noi sembra di poterlo riassumere in tre proposizioni: a) che      rappresenti un’entità ideale; b) come unità; c) e come totalità.

Un’entità ideale. – Ho appena ricordato che quasi tutte le costituzioni borghesi postulano che ad esser rappresentata sia la Nazione o il Popolo. Ed è chiaro che né l’una né l’altro sono soggetti concretamente esistenti. Concretamente esistente è una moltitudine di uomini. L’entità “popolo” o quella “nazione” sono pertanto astrazioni ideali, comunque non paragonabili, per intendersi, al Sig. Rossi che nomina procuratore il rag. Bianchi per acquistare una appartamento.

Certo popolo e nazione esprimono particolari legami, anche non politici, esistenti tra uomini, che valgono a costituirli in comunità; ma questo, ovviamente non basta a personificarle.

Del pari, anche là dove – come nelle costituzioni dei paesi del socialismo reale – si parlava di “rappresentanza” del “popolo lavoratore”, o dei “lavoratori”, bisogna dire che anche qui si trattava di entità ideali, che hanno bisogno di essere impersonate per avere una concreta esistenza e capacità d’azione.

Come unita’. – In effetti, il rappresentato è sempre concepito come uno (il popolo, la nazione, i lavoratori, la classe lavoratrice), ma non è solo questo tratto a costituire l’unità del rappresentato, nel (o nei) rappresentante. Anche le istituzioni rappresentative sono produttrici di unità, o per meglio dire, sono esse stesse l’unità. L’intuizione di Hobbes sopra ricordata, che il rappresentante fa di una moltitudine un’unità, è tuttora valida ad individuare uno dei caratteri, forse anzi il principale, sia strutturale che funzionale, della rappresentanza. Senza una struttura rappresentativa una collettività non può agire come unità, ma è solo disordinata espressione di volizioni individuali. D’altra parte ove il rappresentante non sia un solo uomo, ma un collegio, è costituito di guisa da raggiungere l’unità attraverso regole di decisione. Ed è indubbio che un Parlamento, anche quelli meno capaci a decidere perché frazionati e poco omogenei, raggiunge una decisione unitaria (e perciò esprime l’unità) con una facilità enormemente superiore ad un’assemblea di diecine di milioni di persone (del tutto impossibile) o di un referendum (lungo e macchinoso).

E come totalità. – Nella rappresentanza c’è anche il carattere (qualcuno direbbe la pretesa) di rappresentare la totalità implicita nell’entità ideale rappresentata, e spesso statuita esplicitamente nelle carte costituzionali. E’ chiaro comunque come una rappresentanza che non fosse quella della totalità, sarebbe contraddittoria alla propria funzione, di dar capacità d’azione ed esistenza ad una collettività, unitariamente concepita. Il che non significa che non possono coesistere due o più istituzioni rappresentative; esclude soltanto che ciascuna di esse, quando “politica”, rappresenti una parte e non il tutto.

Ciò stante occorre tirare le conseguenze di quanto detto.

In primo luogo appare superata la vexata questio se quella politica sia rappresentanza d’”interessi” o di “volontà”. Di volontà non può essere perché solo una (o più) persone sono capaci di aver una volontà. Se ad esser rappresentato è qualcosa di ideale, è escluso che possa esservi una rappresentanza di volontà come insegnava, anche per altre ragioni, Santi Romano. Non resta, a seguir questa classificazione, che ritenerla rappresentanza d’interessi. Ma con due precisazioni.

Da una parte il carattere pregnante e più rilevante della rappresentanza politica non può trovarsi in tale dicotomia e nella conseguente sussunzione.

In secondo luogo che come rappresentante d’interessi, deve intendersi quel che intendeva il Romano, e cioè la rappresentanza degli interessi nazionali o generali e, non, per intendersi, quelli della corporazione X o dell’associazione Y.

Secondariamente, appare opportuno trattare brevemente della distinzione tra rappresentanza politica (del “Popolo” o della “Nazione”) e quelle istituzioni rappresentative di realtà locali (Regioni, Provincie, Comuni) i cui componenti sono eletti su liste solitamente partitiche, a seguito di campagne elettorali fortemente caratterizzate in senso politico. Non manca chi fa di ogni erba un fascio, riconoscendo carattere di rappresentanza politica agli uni e agli altri.

In effetti tale impostazione non può essere condivisa: sopra accennavamo che la costituzione francese del’91 disponeva (cap. IV, sezione II, art. 2) che “Les administrateurs n’ont aucun caractére de répresentation”. C’era nei costituenti la piena consapevolezza e la volontà di negare ogni carattere rappresentativo (politico) agli agents incaricati delle funzioni amministrative: ciò era fatto prevalentemente risalire al carattere d’indipendenza che hanno i rappresentanti politici e che manca ad amministratori, giudici e funzionari.

Anche nella costituzione italiana vigente il carattere di rappresentanza politica è riconosciuto ai parlamentari (art.67) e al presidente della Repubblica (art.87). Tuttavia, è scritto che il Presidente della Giunta regionale “rappresenta la regione” (art.121), mentre nulla è detto sul carattere di rappresentanza, e tanto meno politica, di altri organi. Ciò non toglie che la rappresentanza, come istituto giuridico derivato dall’analogo privatistico, sia largamente impiegata nelle leggi ordinarie per designare alcune funzioni o i titolari di tali organi.

Ma è certo che non trattasi di rappresentanza politica: il perché è stato tanto spesso ripetuto e con argomentazioni svariate, che appare inutile ricordarlo. Proviamo comunque ad aggiungerne una.

Nella rappresentanza comunemente intesa si esprime una particolare relazione del rappresentante con una persona o un’istituzione, una posizione dello stesso nei confronti del rappresentato o dei terzi.

Così, che il Presidente della Giunta regionale rappresenti la Regione, che il Sindaco rappresenti il Comune in giudizio, è cosa analoga al Presidente della FIAT che rappresenta la società verso i terzi. Invece nella rappresentanza politica l’altro termine del rapporto non è un’istituzione, ma, come cennato, un’entità ideale. Si noti la differenza tra quel “rappresenta la Regione” e la rappresentanza del capo dello Stato e del Parlamento di cui la Costituzione non dice che rappresentano lo Stato ma “l’unità nazionale” e la “Nazione”: non un Ente è rappresentato, ma un quid che di per sé è considerato precedente e superiore a qualsiasi forma, giuridica o politica che sia. Tutto si può dir di concetti come “Nazione” ed “unità nazionale” tranne che si tratti di Enti, di persone fisiche o giuridiche.

E ciò è conseguente al carattere della rappresentanza politica e ne costituisce il connotato pregnante: infatti appartiene a quella categoria di concetti del diritto pubblico in cui il giuridico si salda con qualcosa che giuridico non è, e perciò rimane sempre al di là del diritto.

Sovranità, potere costituente e “diritto” di resistenza sono tra questi. La cosa più interessante è che questi sono, in un certo senso, i punti d’Archimede dell’organizzazione costituzionale, laddove la dimensione esistenziale della politica si congiunge col diritto. Pensare di poterli formalizzare con termini, concetti e relazioni esclusivamente giuridiche, vale a precludersene una comprensione esauriente ed i significati, anche giuridici, più interessanti.

In altri termini la rappresentanza è politica, proprio perché il rappresentato ha un carattere esclusivamente e genuinamente politico, ovvero perché il rappresentato non è per nulla (o è solo in parte) giuridificabile. In effetti, seguendo Carl Schmitt, si può dire con formula generale che il rappresentante rappresenti l’unità politica.

In ciò, nel dar forma ad un’entità informale, ideale e pre-giuridica, è la sua caratteristica peculiare, che lo differenzia dagli altri tipi di rappresentanti, sia di diritto pubblico che privato.

  1. – Dal rappresentare l’unità politica derivano ben precise conseguenze, che è appena il caso di ricordare. Il rappresentante politico è indipendente ed ha la garanzia di questa indipendenza: non ha (quasi) responsabilità giuridica; è sottratto, almeno relativamente, alla giurisdizione ordinaria, e, in alcuni casi, soggetto alla “giustizia politica”.
  2. – Concludendo questo breve excursus su un tema che avrebbe bisogno di trattazione ben più approfondita, devo trarne conseguenze in ordine all’incidenza che le sopra esposte considerazioni possono avere sull’attualità costituzionale.

Quando si propongono riforme volte al fine di facilitare il raggiungimento di maggioranze parlamentari attraverso una riduzione od un accorpamento dei gruppi ( o dei partiti) si sente subito parlare d’attentato al principio rappresentativo; e la “rappresentanza” viene contrapposta al governo secondo un uso risalente al XIX secolo, il cui senso, peraltro, è stato in larga parte smarrito. Le cose non stanno così: un’impostazione del genere identifica nel Parlamento l’unica possibile espressione del principio rappresentativo; e l’essenza di quest’ultimo, come cennato, nella riproduzione “in scala” della società civile.

Si dimenticano così i connotati essenziali della rappresentanza, opposti a questi, ripetuti in tante costituzioni e riconosciuti da tanti giuristi: basti ricordare con le parole di Romagnosi che “il potere governativo in qualunque stato civile, fu è e sarà sempre, rappresentativo” e che, come sopra spesso ripetuto, funzione principale della rappresentanza è dare capacità di agire alla comunità, e non voce ai contrasti sociali.

Le conclusioni che possono trarsi sono opposte a quelle tratte da altri. In primo luogo non è contrapponibile rappresentanza e governo; e tantomeno può identificarsi la prima con il Parlamento.

Rappresentante dell’unità politica può essere anche un organo monocratico, come il Capo dello Stato o un organo collegiale ristretto, come il Governo. Se una rappresentanza parlamentare non è in grado di agire politicamente, di garantire l’unità attraverso congrue decisioni, è buona regola che la rappresentanza dell’unità e della totalità sia assunta da un altro organo costituzionale, in concorrenza con il Parlamento o in esclusiva.

In secondo luogo se al Parlamento vuol conservarsi la funzione rappresentativa occorre che le regole per la formazione ed il funzionamento di questo siano tali da assicurarne la capacità di decidere. E’ certo che, con un Parlamento frammentato in gruppi o gruppetti, largamente condizionato  dagli interessi organizzati, tormentato dai tattici del voto segreto, la decisione politica è merce rara. Con un Parlamento del genere non si ha il “massimo di rappresentanza, ma il minimo di governo”.

 

TEODORO KLITSCHE DE LA GRANGE

 

 

 

Crisi della sinistra. Botta e risposta tra T. K. de la Grange e Carlo Gambescia

Qui sotto un interessante e puntuale confronto tra due rappresentanti eminenti del pensiero liberale italiano sulla crisi della sinistra. Il segno di come l’affermazione progressiva delle categorie del realismo politico stia divaricando sempre più le posizioni all’interno delle grandi correnti del pensiero politico affermatesi nei due secoli precedenti aprendo finalmente, anche in Italia nuove strade e nuove e più adeguate chiavi di interpretazione del contesto politico. Buona lettura, Giuseppe Germinario

qui il link originario https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/

La crisi della sinistra

Botta e risposta tra Teodoro Klitsche de la Grange e Carlo Gambescia

Caro Carlo,

a distanza di cinque mesi dal 4 marzo e di parecchi anni dal momento in cui si capiva che il vento della storia stava cambiando, la sinistra non si è ancora rassegnata al deperire della dicotomia destra/sinistra, o meglio, borghese/proletario, come scriminante (prevalente) dell’amico/nemico.

A fronte di qualcuno che avverte la necessità di un “populismo di sinistra” (alla Laclau?), il che significa aver maturato la convinzione che il “vecchio” armamentario è ormai obsoleto, ve ne sono altri, più incardinati nell’establishment, i quali ritengono: a) che quella distinzione non sia obsoleta; b) che potrà riemergere; c) che il di essa deperimento di questa sia il frutto della (più abile) propaganda populista; d) e comunque è radicata e pertanto non tarderà a manifestarsi di nuovo.

Il tutto spesso confondendo tra distinzione del secolo breve (borghese/proletario) con altre scriminanti (e lotte) di classe. Se nel “Manifesto” del partito comunista Marx ed Engels sostengono che “La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue tuttavia perché ha semplificato i contrasti fra le classi. La società intera si va sempre più scindendo in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente opposte l’una all’altra: borghesia e proletariato” è pur vero che scrivono anche che “La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotta di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta”; ossia identificano come costante la lotta di classe, in particolare tra oppressori ed oppressi, ma come variabile il discrimine tra i gruppi sociali contrapposti. Il problema che si pone, cui occorre dar risposta non è se esiste o meno il conflitto, e neanche se esista  o meno tra “oppressi e oppressori” – domande la cui risposta è “scontata” – ma se sopravviva quella tra borghesi e proletari e, ancor più se abbia ancora il carattere di scriminante politica prevalente, o piuttosto non sia ormai neutralizzata e depoliticizzata come, in altri periodi storici, quella tra cattolici e protestanti, rivoluzionari (borghesi) e reazionari dell’ancien régime, e così via.

È un tratto comune a tali ragionamenti della sinistra in affanno di essere iniziati da due-tre anni (o poco più), cioè da quando il doppio colpo dell’elezione di Trump e della Brexit dimostrava che la “ribellione della masse” alle politiche delle élite era così intensa da prevalere prima nel “centro” dell’impero, e in due Stati particolarmente importanti.

Qualche giorno fa ha suscitato un certo dibattito l’affermazione dell’on. Franceschini secondo il quale al PD occorre impedire che si consolidi il “blocco sociale” corrispondente alla maggioranza populista di governo (dividere e quindi ridurre i nemici è la migliore tattica per conseguire la vittoria, come già espresso dal detto romano divide et impera). Resta da vedere se una simile tattica sia ancora tempestiva e credibile essendosi già costituito il “blocco sociale” populista sul rifiuto delle terapie, sostenute (più) energicamente dal PD nell’ultimo ventennio, di aumento delle imposte e riduzione delle prestazioni sociali (mentre il “contratto di governo” prevede diminuzione di quelle e aumento di queste).

Più ancora la separazione delle élite (PD e non solo) dalle masse (il nuovo “blocco sociale”) era stata prevista già da decenni da commentatori e intellettuali marginalizzati dall’establishment, non solo italiano. E non era, di converso, affatto capita dalla cultura “ufficiale”.

All’uopo, caro Carlo,  credo sia  interessante rileggere – tra i non tanti – un libro pubblicato nel 1997 da un piccolo e coraggioso editore, deceduto da oltre quindici anni, Antonio Pellicani, “Destra/Sinistra” che raccoglie le opinioni al riguardo di pensatori italiani e non, i quali declinavano in vario modo il deperimento della distinzione destra/sinistra e il progressivo distacco dalla classe dirigente dei governati (in particolare gli elettori dei partiti di sinistra).

Il volume, proprio perché collettaneo, dimostra come, oltre vent’anni orsono, la distinzione suddetta fosse in via di neutralizzazione e come tale considerata sempre meno sentita ed utilizzabile. Tutti gli autori del libro erano marginali rispetto al “pensiero ufficiale” italiano, e neppure granché amati all’estero; tuttavia, a leggerlo ora, si può, in larga misura, constatare che le valutazioni lì fatte mostrano una preveggenza di larga parte di quanto sarebbe successo, in Italia e all’estero, nei successivi vent’anni.

In particolare l’attenzione dei suddetti autori si era soffermata sui seguenti punti:

1) il progressivo distacco tra classi dirigenti e popolo, peraltro analizzato sotto diversi profili (politico, di costumi, di convinzioni, di modi di vita, di redditi).

2) In conseguenza la scarsa considerazione dei governanti verso i governati, sulla scorta del noto lavoro di Cristopher  Lasch “La ribellione delle élite”.

3) E sempre di conseguenza la mera e calante rappresentatività del popolo da parte delle élite, per cui partiti asseritamente o storicamente “aperti” ad istanze dei meno abbienti (come quelli progressisti), perdevano consensi malgrado che, in taluni casi, le condizioni dei loro (ex) elettori fossero peggiorate.

4) La difesa delle “particolarità” nazionali rispetto alla globalizzazione.

5) La perdita di senso della distinzione destra/sinistra o meglio Borghese/proletario

Di tutte, questa era la previsione più facile:  una volta imploso il comunismo e L’Unione Sovietica, la “ guerra fredda” era cessata per…K.O. tecnico. È vano cercare contributi altrettanto  preveggenti  nei politici e intellettuali della sinistra (o del centro sinistra) italiano. Per vent’anni la loro liturgia ha oscillato tra anatemi all’arcinemico Berlusconi ( che poi tanto nemico, oggettivamente, non è mai stato ma, piuttosto un concorrente al potere) paragonato a Hitler a Videla, e Te deum alla Costituzione più bella del mondo, che, nel frattempo era spesso disapplicata allegramente – e da coloro che salmodiano.

Di analisi come quelle testè ricordate, e che tenessero conto delle novità in arrivo, non risultano; se non, e alla  lontana, l’Impero  di Negri – Hardt (peraltro anch’essi pensatori non proprio ortodossi).

A questo punto occorre prendere atto della scarsa chiaroveggenza di un certo settore delle classi dirigenti, in particolare di quelli che avevano più spazio nella cultura – e nell’industria culturale – di regime. Spazio completamente negato agli altri. Ancora qualche mese fa, uno degli autori di quel libro – e di tanti altri sul tema – Alain de  Benoist, è stato attaccato – e con esso la Fondazione Feltrinelli – con un appello di insegnanti di università, perché non fosse invitato a parlare a un Convegno della Fondazione, in quanto ideologicamente di destra. Ma dato che De Benoist da trent’anni va ripetendo proprio quelle tesi che successivamente sono state confermate dai fatti,, sarebbe il caso, per i suoi contestatori, che lo andassero ad ascoltare, dato che i suoi libri non hanno probabilmente mai letto, e sicuramente non hanno capito.

Discriminare ideologicamente, quando le analisi eretiche, confortate dai fatti, provano il contrario, è solo imitare donna Prassede che, come scrive  Manzoni, aveva poche idee ma a quelle era – come agli amici – incrollabilmente affezionata.

E più ancora, che se politici ed intellos  non hanno previsto nulla di quello che stava accadendo – non fosse altro che per attutire la loro caduta prevedibile e da altri prevista – le spiegazioni possibili sono soltanto due, non antitetiche ma concorrenti. La prima che la loro “cassetta degli attrezzi”, cioè, in massima parte, il marxismo e un certo illuminismo in parte distorto, in altre depotenziato, non è il migliore paio d’occhiali per leggere la realtà e la storia. L’altra, che quella cassetta non la maneggino bene. Ovvero che i risultati negativi non sono dovuti allo strumento ma all’operatore. Il che conforta la necessità di cambiare la classe dirigente italiana – o almeno gran parte di essa.

Perché, caro Carlo,  al contrario del criterio selettivo di Deng-Tsiao-Ping che l’importante non è il colore del gatto, ma che acchiappi i topi, in Italia da tanti decenni si applica il contrario: di scegliere il gatto in base al colore, invece che alla capacità di cacciare i topi.

E i risultati, purtroppo per la nazione, si vedono.

Un caro saluto,

Teodoro Klitsche de la Grange

***

 Caro Teodoro,

lungi da me l’idea di voler difendere la sinistra, ma questa tua idea che la dicotomia destra-sinistra rinvii alla dicotomia borghesi-proletari e che di conseguenza, venuta meno questa sia venuta meno quella, scusami, non sta in piedi.

Eppure tu sei, come me  buon lettore,  di Pareto.  Potranno mai cadere i due principali residui   psico-sociologici  da lui individuati? L’istinto delle combinazioni  e la persistenza degli aggregati?  Il primo rimanda alla psicologia e pratica  progressiste, il secondo a quelle conservatrici.  E Pareto, fornisce esempi storici di un destra-sinistra, che va al di là delle etichette, ma che  esiste, anzi pre-esiste, in  natura sociale e politica,   risalendo fino agli antichi romani.  Altro che Marx e  Schmitt…  Certo, le loro analisi sono  interessanti, ci mancherebbe altro.  Ma, ecco il punto,  limitate al mondo moderno e comunque ripiegate su una visione della realtà sociale panpolitica (Schmitt) e paneconomica (Marx): da un lato le depoliticizzazioni (Schmitt), dall’altro il conflitto tra borghesi e proletari (Marx).  Non scorgono altro. Semplificando,  Pareto parla a tutti.   Schmitt e Marx al proprio pubblico.

Inoltre,  le idee dell’inutilità della sinistra e della destra  e  del  cosiddetto conflitto élite  vs popolo, non è che risalgano al convegno di Perugia,  che anch’io ricordo bene (con l’editore, Antonio Pellicani, bella e dotta persona)… Ma, per dirla con Pareto, rimandano  a una  derivazione,  o razionalizzazione ex post,  inventata e usata  dalle destre reazionarie, bonapartiste, fasciste e populiste per andare contro la legittimazione  liberale della democrazia rappresentativa post-1789.
Ovviamente, come aveva giustamente visto Ortega,  siamo davanti a una  derivazione, di volta in volta, sadicamente rimescolata come un  mazzo di vecchie carte, con le grandi questioni sollevate  dalla società di massa, ma sempre nei  termini di pesanti offensive  contro le  élite liberali. A prescindere.
Ciò spiega, perché  il  populismo, continuazione del fascismo con altri mezzi (per ora), insista sulla fine delle dicotomia destra-sinistra e, quando si dice il caso, sul superamento del Parlamento.

Non capisco, come un liberale del tuo valore,   rilanci, contro la   sinistra,  le stesse  critiche dei populisti e ancora prima dei fascisti. In Italia, il Centrosinistra (senza trattino…),  sta  pagando  il   prezzo per  aver governato  sette anni, portando fuori il paese dalla crisi: i dati economici, fino a giugno, sono a lì a confermarlo.  Opera non indolore, ma necessaria. E dunque meritoria. Facendo per giunta fronte, non sempre linearmente (lo ammetto), contro il populismo.   A differenza, caro Teodoro,  di quella  plutocrazia demagogica, per dirla sempre con Pareto,  che invece nel Primo Dopoguerra, pur di restare al comando, si alleò con Mussolini. Va detto che anche allora molti liberali non capirono la gravità del momento. E il prezzo da pagare  fu molto salato.

Pertanto,  se ora,  c’è una critica da fare alla  sinistra è proprio quella di strizzare l’occhio ai populisti. Scelta  che implica, l’accettazione della  tesi reazionaria, anche a sinistra,  del  superamento della dicotomia destra-sinistra. Certo,  non nego che il PD –  o una parte del PD –   sostenga di voler aprire un dialogo con le forze di sinistra  interne a Cinque Stelle, puntando su una specie di populismo al quadrato, appena temperato da un  antifascismo di maniera contro Salvini, l’altro azionista di maggioranza.

In realtà, facendo  così, la sinistra spiana la strada al populismo (come se già non bastasse il notevole lavorio della destra post-berlusconiana, perfino liberale…). Non  la si apre di certo  a una sinistra riformista, democratica, rispettosa delle istituzioni rappresentative,  dell’economia di mercato  e, cosa più importante dell’esistenza stessa del principio  di  alternanza (che secondo Sartori, e non solo, definisce la democrazia dei moderni).   Si spiana la strada invece  a quello che tu, incautamente, chiami “nuovo armamentario”,  che invece, come insegna Pareto, nuovo non è.  E poi,  perché gli italiani dovrebbero preferire la copia all’originale?   Questo –  scusami –  dovevi scrivere nel tuo articolo.

Quanto al colore del gatto, caro Teodoro, non tutti i gatti sono uguali. Mussolini era un gattone, nero, che  dopo aver cacciato i topolini rossi, se la prese con quelli bianchi, rosa, gialli,  e via discorrendo. Il colore conta,  eccome.

Ricambio il caro saluto.

Carlo Gambescia

La replica di Teodoro Klitsche de la Grange  e la  controreplica di Carlo Gambescia

Che c’entrano Marx, Schmitt e Pareto  con la crisi della sinistra? 

Caro Carlo, la tua stimolante e dotta risposta al mio articolo, da te titolato “La crisi della sinistra” mi dà il diritto “forense” alla replica (*)
Tu inizi col criticare “questa tua idea che la dicotomia destra-sinistra rinvii alla dicotomia borghesi-proletari e che di conseguenza, venuta meno questa sia venuta meno quella, scusami, non sta in piedi” e continui poi col contrapporre la tesi di Pareto (sui residui) per cui “Potranno mai cadere i due principali residui   psico-sociologici da lui individuati? L’istinto delle combinazioni e la persistenza degli aggregati?  Il primo rimanda alla psicologia e pratica progressiste, il secondo a quelle conservatrici” mentre le analisi di Marx e Schmitt sarebbero “limitate al mondo moderno e comunque ripiegate su una visione della realtà sociale panpolitica (Schmitt) e paneconomica (Marx): da un lato le depoliticizzazioni (Schmitt), dall’altro il conflitto tra borghesi e proletari (Marx).  Non scorgono altro. Semplificando, Pareto parla a tutti.   Schmitt e Marx al proprio pubblico”.

Ma non è così: le analisi di Marx e Schmitt hanno carattere universale (o almeno pretendono di averlo). La lotta di classe è secondo Marx, una costante storica; l’amico-nemico di Schmitt una regolarità (Miglio) e presupposto (Freund) del politico, come tu ben sai.

Quello che fa la differenza tra le varie opposizioni è il contenuto della distinzione: per quella borghese/proletario è la proprietà dei mezzi di produzione, mentre per le altre ricordate nel Manifesto del partito comunista la scriminante è la libertà personale (liberi e schiavi), l’appartenenza gentilizia (patrizi e plebei), il ruolo politico (baroni e servi della gleba) e così via. Ancor più vario il contenuto della distinzione schmittiana che, non essendo economicista, è aperta ad ogni dicotomia (a fondamento religioso, economico, sociale) che sia in grado di contrapporre i gruppi sociali secondo il “criterio del politico”. Per cui proprio non le vedo le tesi di Schmitt e Marx limitate alla storia europea moderna. Quanto alla distinzione destra/sinistra, notoriamente risalente alla divisione tra partiti nel Parlamento francese all’epoca della restaurazione, tra liberali e ultras – conservatori, mi pare:

  1. a) che sia generica al punto di equivocare sul dato fondamentale: quel’è il fondamentum distinctionis della contrapposizione? Per i liberali e gli ultras era il potere del Parlamento o del Re; per i borghesi e i proletari la proprietà dei mezzi di produzione.
  2. b) Riportarla ai residui paretiani da te citati, è anch’esso generico e facilmente contestabile. Oggi appartiene alla “persistenza degli aggregati” sia considerare decisiva per la distinzione suddetta la proprietà dei mezzi di produzione (lascito del “secolo breve”), sia il querulo richiamo allo Stato sociale e ancor più l’implementazione di questo con una fiscalità rapace e la compressione di prestazioni e garanzie giuridiche, ampiamente praticate nella “seconda repubblica”, sia i peana alla “Costituzione più bella del mondo” che tale non era, ma, ancor più, è stata ampiamente disapplicata (in peggio) – dalla “seconda repubblica”, ancor più che dalla prima.

Peraltro, in politica si giudica in base ai risultati più che all’intenzione. E tutti i dati – da ultimo quelli pubblicati sul numero dell’ “Espresso” ora in edicola, mostrano che la “seconda repubblica” ha avuto i peggiori risultati economici tra tutti i paesi dell’UE, che il rapporto debito pubblico/PIL è aumentato negli ultimi dieci anni, e così via. Pensare che di fronte a un tale sfascio non vi sia una incapacità di comprensione (e una responsabilità) della sinistra, magna pars del potere e del governo, è un giudizio troppo benevolo.

In realtà, ma occorrerebbe molto spazio per argomentare è che, gli ultimi decenni al criterio borghese proletario se ne sia sostituito un altro. Proprio come è sotteso al successo populista. Prenderne atto, e agire di conseguenza, è urgente. Pretendere di valutare la nuova situazione con lo sviluppo concreto e lo strumentario concettuale del secolo breve, come fa l’establishment della sinistra di regime, è imitare donna Prassede, come ho scritto. O, più paretianamente, si può considerare un caso-limite di persistenza degli aggregati.

Con la concreta stima ed amicizia.

Teodoro Klitsche de la Grange

***

Grazie Teodoro della gentile e,  come tuo stile, forbita replica.   

Vengo subito al punto, anzi ai punti.

Marx, Schmitt, Pareto (P.S. Su Freund, da te introdotto, va fatto un discorso a parte e in altra sede).  È vero che il conflitto di classe e il conflitto  amico-nemico sono considerati, rispettivamente da Marx e Schmitt, regolarità e costanti, ma d’altra parte   Marx e  Schmitt,  non le  riconducono  al concetto sociologico, realmente universale,  di conflitto, che, come vedremo non sta in piedi da solo. Mi spiego.  Marx  universalizza  la sottospecie (sociologicamente parlando)  lotta  di  classe.  Schmitt, addirittura, parla, in chiave quasi metafisica,  del conflitto amico-nemico, come di un criterio assoluto di distinzione,  alla stregua del bello, del buono, eccetera, eccetera.  Ciò significa, che di conseguenza, Marx e Schmitt, sminuiscono  il concetto sociologico  di cooperazione, che è un’altra regolarità e costante che  affianca quella di conflitto.  Per Schmitt e Marx  la cooperazione è un sottoprodotto del conflitto, non è data come esistente in sé. In realtà,  ecco la lezione di Pareto fin dai Sistemi Socialisti, la dicotomia principale  non è fra le classi e  tra l’  amico e il  nemico, ma tra conflitto e cooperazione.  Non per nulla nel Trattato (ma non solo), Pareto  sottolinea la perenne ricerca,  volontaria e involontaria da parte degli uomini,  di  un punto di  equilibrio storico tra  i due fattori della cooperazione e del conflitto.  Insomma, in Pareto, conflitto e cooperazione sussistono alla pari, pur in un quadro storico e sociale, dunque reale, di non sempre facile ricomposizione. In questo senso, rispetto alle sociologie parziali di Schmitt e Marx, Pareto parla  al mondo.  Inoltre,  l’età antica, per la maggioranza degli  storici  non ha conosciuto la lotta di classe nel senso marxiano. Quanto a Schmitt, i suoi “processi di neutralizzazione” rinviano, a grandi linee,  al mondo post-vestfaliano. Di ben altro respiro,  come tu ben sai,  risulta essere l’approccio storico e sociologico di Pareto (direttore, rispettatissimo, tra l’altro, delle celebre Biblioteca di Storia Economica della Società Editrice Libraria).  Pareto,  insisto, che  proprio per questo continua a a parlare  al mondo e  non ai soli  devoti della lotta di classe e del conflitto per il conflitto. In questa chiave, come per la filosofia di Nietzsche, la sociologia di Pareto è per tutti e per nessuno. Insomma, per chi voglia porsi in ascolto…

Quanto ai contenuti, di cui tu dibatti,  ritengo ben più profondi quelli individuati da Pareto nella sua classificazione dei residui e delle derivazioni. Vi si parla di  forme di mentalità e modelli di razionalizzazione, semplificando, di destra e sinistra,  che assumono valore trans-storico, cioè che ritroviamo in tutte le epoche.  Pareto ci spiega, e con una forza argomentativa inaudita, che la persistenza degli aggregati ( alla base del pensiero e del comportamento di tipo conservatore) e l’ istinto delle combinazioni ( alla base del pensiero progressista) praticamente, sono eterni, se preferisci, ripeto,  trans-storici. Ne consegue, che  destra e sinistra vivono e lottano tuttora insieme a noi.  Altro  che le sociologie parziali di    Schmitt e   Marx, i parlamenti  della Restaurazione, i rapporti di proprietà, eccetera, eccetera.  Sul piano sociologico, per usare un termine dell’amico Fabio Brotto, siamo davanti, caro Teodoro,  a una distinzione ontologica, non in senso metafisico, mi permetto di specificare,  ma sociologico.

I   numeri riportati  dall’ “Espresso” –  che nemesi  per un collaboratore e lettore del  “Borghese”  come tu sei… –   sulle  performance non entusiasmanti della Seconda Repubblica sono la classica scoperta dell’acqua calda.  In una situazione di semi-guerra civile (belusconiani vs antiberlusconiani ) e di crisi economica mondiale (nell’ultima parte, dal 2008),  in realtà,  ci siamo abbastanza difesi,  in particolare grazie ai governi di centrosinistra, soprattutto negli ultimi due anni (2016-2017). In argomento,  ti rinvio all’ottimo articolo  dell’economista Marco Fortis, corredato di cifre e grafici, apparso sul “Foglio” venerdì 31 agosto (**) .

Ciò  che invece dovrebbe preoccuparti, caro Teodoro, non è la sinistra,  che pure ha i suoi problemi, che però consistono, non nel rifiuto del populismo, ma nel rischio di una sua accettazione, elevata al quadrato:  una specie terzomondismo pauperista con sessant’anni di ritardo.  Dicevo, ciò che invece dovrebbe preoccuparti   sono le future performance della “Terza Repubblica” pentaleghista (per semplificare).   Parlo di  un pittoresco, ma pericoloso,  governo di asini ed energumeni, chiaramente orientato a destra,   su posizioni (per ora) di fascismo perseguito con altri mezzi: quelli del populismo. Un governo  pieno zeppo, direi saturo,  di persistenza degli aggregati, a cominciare dal  nazionalismo e dal  protezionismo economico.

Governo, che tu, liberale a tutto tondo, quindi “naturalmente” nemico del populismo,   continui invece sui Social,  se non a difendere, a giustificare,  puntando su una euristica debitrice di categorie cognitive populiste all’insegna del transeunte.  Altro che la trans-storicità della sociologia paretiana.

Con  pari  stima  e  grande amicizia.

Carlo Gambescia

la fine della storia o l’inizio del liberalismo, di Teodoro Klitsche de la Grange

Questo breve saggio comparve su “Opinione-Mese” di dicembre 1990. Era da poco stato pubblicato il notissimo articolo di F. Fukuyama sulla “Fine della storia”. Lo ripropongo ai lettori di “Italia e il mondo”! perché alcuni spunti, in particolare la “regolarità” (o il presupposto) del politico, tra cui quella dell’amico-nemico, sono connaturali all’uomo, e non possono essere rimossi come pensava Fukuyama. Cosa che i quasi trent’anni decorsi dal crollo del comunismo con le tante guerre (vario tipo) successive hanno confermato. E che il nuovo contenuto della scriminante amico-nemico principale conforta ulteriormente: alla scriminante borghesia/proletariato è succeduta ormai quella popoli/globalizzazione. Oltre a tutte quelle scriminanti meno “universali”, conseguenti al “pluriverso” delle sintesi politiche. Teodoro Klitsche de la Grange

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La fine della storia o l’inizio del liberalismo

 

NOTE SU COSTITUZIONE E INTERPRETAZIONE COSTITUZIONALE, 2a parte_ di Teodoro Klitsche de la Grange

NOTE SU COSTITUZIONE E INTERPRETAZIONE COSTITUZIONALE

II PARTE

Secondo la tesi di Leibnitz, sopra cennata, teologia e giurisprudenza si basano ambedue su scriptura e ratio; a giudizio di Gierke (prima ricordato) i teologi-giuristi della Seconda Scolastica si servivano con dovizia della ratio. Questo sia per il carattere razionalista della teologia cristiana, sia perché il diritto positivo costituiva solo una parte del diritto, sia perché la rivelazione divina (la scriptura) non era un insieme univoco, esauriente e per così dire, “privo di lacune” che l’interprete non dovesse colmare. In particolare la distinzione fondamentale concerneva ciò che è necessario, perché corrispondente all’ordine creato da Dio – e quindi il diritto naturale – e ciò che era frutto di decisione (divina o umana). Mentre il primo non poteva essere altro da quello che era, il secondo era rimesso alla determinazione della volontà di chi lo poneva in essere. Anche Sieyès riteneva che “Una Nazione si costituisce solo in virtù di un diritto naturale. Un governo, al contrario, è frutto solo del diritto positivo. La Nazione è tutto quel che può essere per il solo fatto di esistere”.[41] Tale distinzione era stata (in parte) ripresa (e sviluppata) da Hegel nella formulazione sopra riportata[42], tra ciò che è necessario perché una moltitudine sia uno Stato (e quindi costituisca un potere comune) e ciò che essendo solo un modo di esistenza dello Stato, appartiene “alla sfera del caso e dell’arbitrio”. Trasponendola al diritto pubblico, ciò che rende possibile la stessa esistenza dello Stato, ne pone e collega gli elementi necessari perché l’istituzione (e la comunità) esista ed agisca, è costituzionale, anche se nessun testo (o dichiarazione costituzionale) la qualifica come tale: è costituzionale per natura, non perché una dichiarazione, per quanto solenne lo statuisca[43]. Anzi è esso che, nell’extremus necessitatis casus prevale sulla vigenza dell’apparato normativo (ed anche sull’assetto “normale” dei poteri) così come, con massima evidenza) nel momento genetico è l’esistenza di quello che consente al diritto – da esso posto o riconosciuto – abbia validità ed efficacia. Ma in quanto è costituzionale in se, non c’è nessuna norma che possa “costituirlo” né eliminarlo ( e tanto meno modificarlo); onde per comprenderlo non occorre alcuna scriptura, ma necessita la ratio. E infatti la ratio appare la sola via per capire ciò che è necessario, non essendo modificabile da una decisione umana, con la conseguenza che, anche se vi fosse – ed è anche capitato che vi siano – decisioni umane, anche espresse in testi costituzionali, che contraddicano ciò che è necessario, sono inapplicabili, in primo luogo (e quel che poi conta) nella concreta realtà, e, di conseguenza, non possono essere oggetto di comandi eseguibili, quindi neppure interpretabili in quel senso. E’ appena il caso di ricordare quanto scriveva Spinoza  che il sovrano può far tutto ma non modificare le leggi di natura (ovvero ciò che è necessario), e comandare cose impossibili come toccare gli anelli di Saturno o sedersi sugli angoli del triangolo (ad impossibilia nemo tenetur), o superflue perché non rientranti nell’ambito (delle possibilità di violazione e con ciò) della libertà umana (ad es. ordinare di rispettare la legge di gravità). Quel che più rileva è come in quel necessario non rientra soltanto ciò che è riconducibile alle leggi naturali (c.d. limite ontologico), ma ciò che è riconducibile alle costanti dell’azione sociale umana: come la necessità della comunità politica e dell’ordine (v. sopra); dell’assetto gerarchico del potere; della  classe politica[44] .

Mano a mano  che dal necessario (in senso assoluto) si passa al (relativamente) necessario[45] e all’accidentale (direbbe Hegel) si riduce l’uso necessario della ratio e cresce quella della “scriptura”, cioè della statuizione (scritta), in quanto tale oggetto d’interpretazione (nel senso tradizionale, anche se con le specificità dovute al carattere costituzionale della materia). Ad esempio, per qualificare democrazia il regime frutto della decisione costituente occorre che sia prescritto il diritto d’accesso di tutti i cittadini alla funzione pubblica (art. 51 della Costituzione) che è considerato una delle condizioni, (necessaria anche se non sufficiente) perché esista una democrazia politica da 25 secoli (cioè dal famoso passo di Tucidide in cui riporta il discorso di Pericle per i caduti della prima fase della guerra del Poleponneso): Una norma che, di converso, escludesse dall’accesso la grande maggioranza dei cittadini,  sarebbe a dispetto della dichiarazione costituzionale contraria, istitutiva di un regime oligarchico.

In una recente polemica, reperibile in rete[46] si possono trovare motivi e spunti su cosa possa essere l’interpretazione della costituzione, sotto il profilo di differenti teorie del diritto. Secondo Baldassarre i tratti fondamentali del positivismo giuridico sono:

– “il diritto (oggettivo) è «posto da una volontà (se no, perché chiamarlo «positivismo»?), nel senso che è il prodotto di un «potere» o di un’autorità, ossia è un atto di volontà di un sovrano precostituito (ora soggettivizzato, come lo Stato, la Nazione, il Popolo o altro Soggetto politico; ora oggettivizzato nell’ordinamento normativo, sia quello nazionale o internazionale, sia l’una o l’altra delle norme fondamentali che si impongono «di fatto»);”

– “il diritto (oggettivo) consiste in norme assistite da una sanzione (istituzionalizzata), vale a dire consiste in norme coattive;”

– “l’applicazione del diritto (norma,legge) è il frutto di una deduzione logica, di modo che la decisione di un caso (controversia) è sempre la conclusione di un «sillogismo deduttivo (o sussuntivo)», derivante da una scelta (valutazione) interamente ascrivibile al «legislatore», ossia alla «volontà» di chi ha posto la norma considerata (sovrano).”

Da cui conclude che “questi tratti comuni ad ogni approccio giuspositivista (esclusivista)… si siano dissolti nella vita pratica del diritto costituzionale dell’ultimo cinquantennio (in Europa)”.

Ad avviso di Guastini, che cita Bobbio, l’espressione positivismo giuridico “è di fatto usata per denotare non una sola ed univoca corrente di pensiero, ma tre modi di vedere distinti e logicamente irrelati tra loro: il positivismo «metodologico», il positivismo «teorico», e il positivismo «ideologico»” di cui il positivismo teorico è “grosso modo, la teoria del diritto, dominante nel secolo XIX: quel modo di vedere secondo cui le norme giuridiche (ivi incluse quelle consuetudinarie) sono interamente riducibili a comandi coattivi del sovrano politico (i. e., di un legislatore umano), un ordinamento giuridico è un insieme di norme completo e coerente, l’interpretazione del diritto è atto di conoscenza(non di volontà), la sua applicazione è attività logico-deduttiva.”. Avendo sostenuto Baldassarre “ che l’antica massima hobbesiana –vero manifesto del positivismo giuridico in tutte le sue forme-auctoritas, non veritas, facit legem sia ormai inattuale. Se ne  deve concludere che nello stato costituzionale di diritto “ratio,non auctoritas, facit legem”. Una tale tesi non è condivisa da Guastini “La tesi che il diritto nasca non dall’autorità, ma dalla “verità” o dalla “ragione” (così sostiene Baldassarre), significa che le norme giuridiche sono il prodotto non di atti di volontà, bensì di atti di conoscenza: di conoscenza, dobbiamo supporre, non della (eterna) “natura” umana, bensì dei “costumi” e della “coscienza sociale”. E ciò implica che le norme giuridiche – proprio come le proposizioni scientifiche – possono dirsi vere o false. Tesi classica dei giusnaturalisti, d’altronde, i quali disgraziatamente non hanno mai saputo indicare a noi, poveri giuspositivisti, quali mai possono essere i criteri di verità degli enunciati del discorso prescrittivo.”

In questo riepilogo  – largamente parziale e sintetico di quanto scritto – entrambi gli autori presuppongono che la costituzione sia un atto (documento) scritto e statuito (mentre per le parti più importanti, non è scritto e neppure statuito): nell’esposizione di Baldassarre una importanza decisiva (specie per le sentenze dei giudici costituzionali) riveste il fatto che le costituzioni (cioè gli atti/documenti) contengono enunciazioni di principio e statuizioni di valore, onde l’applicazione/interpretazione consiste in una valutazione di compatibilità “tra due distinti ordini di «principi»: quelli stabiliti, secondo una certa gerarchia e un certo ordine di preferenza, dalla costituzione e  quelli implicati… dalla «regola (generale e astratta)» contenuta nella norma legislativa  della cui costituzionalità si dubita”. Tale è il modo di “operare di tutte le corti costituzionali occidentali”.

Tuttavia sia che si tratti d’interpretare norme, sia di applicare principi (e/o valori) le due posizioni si riferiscono entrambe al diritto statuito (e scritto) tralasciando così tutto ciò che non è scritto né statuito[47]. Quanto all’altra questione– che più interessa ai fini del presente scritto – se il diritto nasca dall’autorità o dalla ragione (verità), occorre appena ricordare che un simile dilemma (se la legge sia atto della volontà e dell’intelletto) era stato largamente dibattuto dai teologi[48] e la soluzione che dava Suarez non era un “aut…aut” ma un “et…et”, nel senso che la legge era atto sia d’intelletto che di volontà[49]. La legge positiva è sia  ratio che voluntas; che sia la seconda è evidente; e che presupponga (e incorpori) anche la ratio (quasi altrettanto) evidente, giacché una legge bizzarra e/o superflua non è suscettibile di esecuzione e coazione, diventando così una bizzarria normativa, non potendo essere un comando eseguibile.

Se, come sostiene chi scrive, la costituzione non è (solo) un atto, e spesso neanche scritto, resta da vedere come si possa interpretare/applicare ciò che non è né scritto né statuito.

Nella realtà un problema siffatto è familiare al giurista: che come regola di una decisione (ad es. giudiziaria) il legislatore imponga all’interprete di ricavare il diritto da un comportamento (cioè da un fatto) è disposto (ad es. dall’art. 1362 c.c., o dalla previsione della consuetudine come fonte di diritto). Nel diritto internazionale è quello, analogo, dello jus non scriptum internazionale; la cui applicazione chiede in primo luogo l’accertamento storico dell’effettiva vigenza (e ancor prima esistenza) della norma.

Fatta questa premessa la disposizione costituzionale interpretanda può non essere formulata nello schema abituale “Se F (fattispecie), allora G (conseguenza giuridica)[50]” o in qualche formulazione analoga (cara alla giurisprudenza analitica); e ancor più la disposizione spesso non è espressa neanche come principio (cioè di guisa da non collegare la fattispecie alla conseguenza giuridica), e talvolta non espressa (non “statuita”). Ma se interpretare è per lo più enucleare il significato di un testo normativo, in tal caso il significato deve essere ricavato da rapporti, fatti, comportamenti (e principi) inespressi il che non è inconsueto, anche se, in un ordinamento moderno, meno frequente.

Piuttosto un’interpretazione/applicazione costituzionale richiede un cambiamento di prospettiva, che pone in secondo piano la classica  dicotomia sein/sollen, per riportare in auge quella dell’Amleto: essere o non essere. Inteso in un doppio significato: che il normativo presuppone l’esistente e che l’esistente prevale sul normativo, che potremmo chiamare limite naturale e criterio funzionalistico –teleologico. Nel limite naturale non c’è solo quello ontologico, ma in genere ogni condizionamento necessario dovuto a leggi, anche dell’agire sociale; così una costituzione non può essere interpretata nel senso che non costituisca rapporti di comando/obbedienza, perché ogni comunità politica, per esistere, necessita di  qualcuno che comanda e altri che obbediscano. Così, ma sul punto rinviamo alla prima parte di questo lavoro, il senso della massima  salus rei publicae suprema lex, è che l’esistente (la comunità) prevale sul normativo, onde il diritto dev’essere interpretato-applicato nel senso di salvaguardare l’esistenza collettiva e non l’esattezza dell’interpretazione/applicazione delle norme o dei valori o della giustizia, implicita nella (contrapposta) espressione fiat justitia, pereat mundus.

In entrambi i casi è così l’essere che condiziona in modo cogente il dover-essere, nel primo caso perché l’ordine comunitario, se non si osservano le leggi naturali (nel senso precisato) neppure può venire ad esistenza, o la conduce breve e grama; nel secondo perché verrebbe meno alla prima crisi (seria). Ma dato che, come scriveva Jhering, il diritto serve alla vita è pertanto da interpretare di guisa da conservare l’ordine e la vita comunitaria (ed individuale).

D’altra parte il limite “ontologico” all’applicazione dei precetti (norme, comandi) giuridici è già “codificato” non solo nel codice civile vigente (v. il combinato disposto dell’art. 1418-1346 c.c. sull’impossibilità dell’oggetto come causa di nullità del contratto) ma fin dalla giurisprudenza romana come risulta dai brocardi impossibile habetur id, cui natura impedimento est quominus existat; impossibilium nulla est obligatio; quae rerum natura prohibentur, nulla lege confirmata sunt.

Piuttosto da ciò derivano due problemi: il primo, quello cennato, e dato per scontato che l’obbligo (dovere, obbligazione) relativo ad un oggetto impossibile per natura è nullo, occorre ricordare che lo stesso trattamento compete alla norma (precetto, obbligo, ordinamento) che pretende di  violare le leggi del funzionamento e dell’equilibrio sociale, come risultano dall’uniformità sperimentale e (talvolta) dalla stessa analisi razionale. Come è (a dir poco) bizzarro presupporre una società politica senza comando, obbedienza, potere, così lo è concepire un’attività economica senza scarsità dei beni. Il secondo problema è che quei brocardi citati (ed altri) sono la conversione in termini giuridici di constatazioni e valutazioni di fatto. Potrebbe sembrare che così si violi la “legge di Hume”  per la quale non è possibile dedurre giudizi precettivi da proposizioni  assertive [51]. La tesi che le norme giuridiche (come il diritto) non possa essere dedotto dalle leggi di natura è stata più volte esposta – tra gli altri – da Kelsen[52]; il quale – ma non solo il giurista viennese – aveva sottolineato tuttavia un’essenziale distinzione tra diritto e morale, relativa al modo in cui essi prescrivono o  vietano un certo comportamento umano[53].

Tale distinzione, ancora più dell’altra, spesso ripetuta, che il diritto sanziona comportamenti “esterni”, mentre la morale sanziona (soprattutto) quelli interni, costituisce la differenza fondamentale tra dovere giuridico e morale: esserci o meno un apparato coercitivo  deputato (anche) a (prevenire e ) reprimere le violazioni del diritto (come ad incentivare l’osservanza dello stesso). Ma la violazione dev’essere possibile, la coazione – che è l’essenza della differenza – dev’essere esercitabile, così come l’obbligazione giuridica eseguibile. Come sopra cennato, un legislatore che prescrivesse di sedersi sugli angoli del triangolo, produrrebbe solo ilarità[54], ma nulla di concretamente efficace[55].

Contrariamente a quanto giudicava Hume per la morale, nel diritto che un obbligo sia coercibile o meno  non è un giudizio di valore, un sollen, ma un sein. Pertanto il legislatore (o nel caso di altri precetti giuridici – e con le dovute diffferenze -, il giudice o il funzionario) compie sia un giudizio di “fatto” che una scelta di valore, nel formulare le norme legislative[56].

Anche Bobbio considerava  connotato peculiare dell’ordinamento giuridico la coazione[57]  pur precisando per l’appunto che “la teoria del diritto come regola della forza, sin qui esaminata, è una teoria non già della norma giuridica isolatamente considerata, come la teoria tradizionale, ma dell’ordinamento giuridico nel suo complesso”[58].

Ciò conferma che, da un lato, la differentia spaecifica del diritto, rispetto alla morale, è la coercibilità; dall’altro che, proprio per ciò l’applicazione al diritto della legge di Hume – pensata e scritta per la morale –  necessita  di adattamenti di guisa da non poter essere di carattere esclusivo e portata generale. Una cosa è sanzionare con qualche anno di Purgatorio i peccati; altro è adempiere un contratto d’appalto per la costruzione di una villa su Marte (o chiedere al Giudice la relativa esecuzione dell’obbligo di fare – art. 2931 c.c.). Ogni precetto richiede (quanto meno) un giudizio sulla di esso coercibilità/applicabilità/efficacia. Per cui ogni precetto giuridico consta di un duplice giudizio sia al momento della statuizione che a quello dell’applicazione: è sia un atto di conoscenza che di volontà: la tesi di Suarez (e non solo) appare confermata[59].

Infatti giudicare che un’obbligazione sia possibile è una constatazione (un giudizio) di fatto; il giudizio che tutte le costituzioni disciplinano il rapporto di comando/obbedienza (cioè il potere) può essere storicamente (e sociologicamente) verificato e così anche i  corollari di questo. Ovvero che se c’è un potere di comando obbedito allora c’e una costituzione (Hegel e Santi Romano); se questo non c’è – viceversa – non vige la costituzione (nel senso di costituzione statale) – e neppure esiste lo Stato; e che una costituzione non è interpretabile nel senso che non costituisca e disciplini rapporti di comando-obbedienza: E il tutto è applicabile anche agli altri “presupposti del politico”: pubblico-privato, amico-nemico, tutti verificabili storicamente e sociologicamente.

Ulpiano sosteneva Ius nostrum constat aut ex scripto aut sine scripto (D I, 1, 6). Concezione condivisa  quindi (e per lo più) da (almeno) diciotto secoli. Ma che negli ultimi due  appare un po’ in affanno. Un ausilio a capire la ragione ce l’offre Max Weber, il quale nel delineare i presupposti del potere razionale-legale (cioè la rappresentazione del potere prevalente nelle concezioni moderne) ne indica (tra gli altri) i seguenti: “ Il potere legale riposa sulla validità dei seguenti presupposti, tra loro connessi:  che qualsiasi diritto possa essere statuito rispetto al valore o rispetto allo scopo (o a entrambi), mediante pattuizione o imposizione…che ogni diritto sia nella sua essenza un cosmo di regole astratte,  e di norma statuite di proposito, che la giurisdizione costituisca l’applicazione di queste regole al caso particolare…il tipico detentore del potere legale – il «superiore» – mentre dispone e insieme comanda, da parte sua obbedisca all’ordinamento impersonale in base al quale orienta le sue prescrizioni…che i membri del gruppo – in conformità al n. 3 – obbedendo al detentore del potere obbediscano non alla sua persona, ma a quegli ordinamenti impersonali[60]. L’identificazione della costituzione con un atto scritto e statuito appare quindi conseguenza della fede dei moderni nella legittimità del potere razionale-legale, d’altra parte enunciata nello (spesso ricordato) art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, dove, oltre ad essere enunciati i principi dello Stato borghese è formulata la concezione della costituzione come statuizione consapevole (e scritta) al punto di negare il carattere di costituzione agli ordinamenti privi di queste caratteristiche[61]. Com’è noto questo non era il concetto di costituzione di Weber secondo il quale “Per costituzione di un gruppo si deve intendere la possibilità effettiva di disposizione a  obbedire – possibilità diversa per misura, specie e presupposti – nei confronti della forza di imposizione dell’autorità di governo sussistente” e precisa “ Il concetto di «costituzione» qui impiegato è uguale a quello usato da Lassalle: Esso non coincide con il concetto di una costituzione «scritta», e in genere di costituzione  in senso giuridico. La questione sociologica è semplicemente la seguente: accertare quando, per quali oggetti ed entro quali limiti, ed eventualmente in base a quali presupposti particolari (per esempio in base all’approvazione di divinità o di sacerdoti, o al consenso di comizi elettorali) i membri del gruppo si piegano al capo”[62];concezione imperniata sul rapporto comando-obbedienza.

Il carattere necessario dei presupposti costituzionali condiziona l’interpretazione, dato che senza quelli non c’è né esistenza né capacità di azione politica. Chiedersi se la norma (costituzionale) o il valore (costituzionale) sono stati violati presuppone che ci sia unità politica e ordinamento giuridico senza i quali non si capisce come far rispettare le une e gli altri. Vale il giudizio di Hegel che lo Stato è la “realtà della libertà concreta”[63]; o come scriveva Croce “prima vivere e poi filosofare, prima essere e poi essere morale”[64]; e il giudizio del filosofo si adatta bene al rapporto tra esistenza dell’istituzione,  i principi e le norme che impone o i valori cui fa riferimento. Senza vita (e vitalità) di quella non c’è possibilità di applicare o di realizzare questi. Così  si può aggiungere che se le norme cambiano – spesso vorticosamente – pur lasciando sostanzialmente inalterata l’istituzione; e anche i principi e i valori mutano – anche se più lentamente – l’istituzione – Stato – è sempre la stessa, anche nel mutamento di norme, valori (e classi dirigenti), per cui, secondo i principi del diritto internazionale risponde degli obblighi contratti verso gli altri Stati, cui quei cambiamenti (di norme e/o valori) sono del tutto indifferenti.

Così l’Italia ha cambiato tre costituzioni (liberale, fascista e repubblicana) e  relative “tavole di valori” senza che fosse alterata la (continuità dell’) istituzione statale. Consegue da ciò che né norme né valori possono essere interpretati nel senso che mettano in pericolo l’esistenza (e la capacità d’azione) dell’istituzione.

Nel caso questo si verifichi è l’esigenza primaria (d’esistenza) che deve prevalere sulle altre. Il tutto non è “negoziabile” né “bilanciabile” e non per la ragione onde si ritengono tali (e sottratti anche alla revisione costituzionale) i principi fondamentali (o i valori altrettanto fondamentali) della Costituzione, ma perché – come sostenuto – il normativo presuppone l’esistente[65]. E mentre questo può cambiare quello, di converso il primo non può modificare il secondo.

  1. La conseguenza è che, al contrario di quanto spesso si pensa, ogni conseguenzialità (e coerenza) normativa non può prevalere sull’esistenza comunitaria. In caso contrario la massima di Jhering, già sopra ricordata, che il diritto è un mezzo finalizzato alla vita sarebbe capovolta nel senso che la vita (l’esistenza) è un mezzo del diritto. Come sopra cennato, una Corte costituzionale – o un altro organo pubblico – che interpretasse il sistema normativo nel senso di attentare all’esistenza concreta (alla salus rei publicae), anche se normativamente (e logicamente) fondata (nel senso “corrente”), sarebbe invalida. Anzi potrebbe costituire (in tutti gli ordinamenti vi sono norme volte a tutelare l’esistenza e l’unità politica) un illecito penale tra i più gravi (attentato alla costituzione, usurpazione e via emunerando).

La massima fiat justitia pereat mundus non vale per gli organi statali costituiti: non è nel loro potere distruggere l’istituzione e la comunità[66], da cui dipende il loro esser costituiti.

Se si ammette, come molti giuristi, e tra questi Santi Romano, che la necessità sia fonte di diritto, vale la regola necessitas non habet legem (e infatti imporre una legge alla necessità è un bisticcio logico e una contraddizione concreta); regola che è anch’essa la specificazione della prevalenza dell’esistente (e della conservazione dell’esistente) sul normativo[67].

Per cui se per necessità è consentita la deroga alla legge (o la normazione praeter legem) a ratione majus la necessità costituisce criterio di giudizio per valutare la costituzionalità (o meno) di presunte trasgressioni alla costituzione.

  1. Dato che il significato usuale dell’interpretazione (e dell’attività interpretativa) è l’attribuzione di significato a un testo, un segno, un simbolo[68], ove si tratti d’interpretare lo jus involuntarium, l’operazione (prima) che si richiede all’interprete è la ricostruzione (l’individuazione) del precetto applicabile.

È stato sopra cennato come questo sia familiare al giurista. È chiaro che la ricostruzione del precetto può avvenire (talvolta) applicando i principi della logica deduttiva (identità, non contraddizione, terzo escluso e quanto ne consegue) ma per lo più attraverso verifiche storiche e sociologiche (e combinandoli, se necessario, con i primi). Ad esempio la vexata (in Italia)  quaestio della legittimità costituzionale delle deroghe alla giurisdizione ordinaria (nel caso di processi a carico di personale politico apicale). Se si parte dal principio d’uguaglianza è chiaro che la deroga (di qualsiasi genere) possa essere facilmente ritenuta contrastante con quello[69]. Ma se si parte dalla natura dell’istituzione, dal carattere della forma di governo e li si verifica anche in concreto, la conclusione è opposta. Occorre tener presente quanto scriveva Santi Romano sullo jus involuntarium, la cui prima specie era costituita dai “principii generali o fondamentali che sono impliciti nella stessa esistenza dello Stato, nella sua struttura, e nei suoi atteggiamenti concreti, dai quali sono da esprimersi e desumersi. Se alla c.d. «natura delle cose» o «dei fatti» non si può riconoscere valore di vera e propria fonte formale del diritto, lo stesso non è da ritenersi per la natura delle istituzioni e, quindi, in primo luogo dello Stato, giacché queste sono da per sé diritto positivamente vigente”[70].

Per cui, operando una verifica comparativa, tutti i principali testi costituzionali vigenti stabiliscono deroghe alla giurisdizione ordinaria nel caso di “giustizia politica” (onde tutti sarebbero lesivi del principio d’uguaglianza, pur essendo stabilite nelle costituzioni moderne considerate democratiche – l’argomento criticato quindi prova troppo) per cui, oltretutto c’è una concordanza in quello che Hauriou chiamava droit commun constitutionnel; le stesse costituzioni italiane precedenti quella vigente stabilivano vistose deroghe (nel tempo e nello spazio la regola è quindi la deroga); ragione di ciò è che, se così non fosse, la scelta del personale di governo, immediatamente o mediatamente riconducibile al corpo elettorale, come naturale in democrazia, sarebbe “controllata” da un potere burocratico, non selezionato con procedimenti democratici (elezione o nomina di organi elettivi) e irresponsabile verso il corpo elettorale. Ma dato che la repubblica è democratica (e ciò sia per disposizione costituzionale espressa dall’art. 1 sia perché desumibile dall’intero testo della costituzione scritta) e che la scelta per la democrazia è un modo d’esistenza dell’istituzione, è questa a prevalere sulla competenza normale del giudice ordinario. Alla stessa conclusione si arriva partendo dalla distinzione dei poteri fatta propria dalla Costituzione (e dalla legislazione ordinaria), anche se non applicata (del tutto) coerentemente: se non fosse prevista una qualche deroga alla giurisdizione, la repubblica parlamentare diverrebbe uno Stato giurisdizionale (justizstaat) consentendo al potere giudiziario d’intromettersi (liberamente) nel funzionamento (e nella composizione) degli altri poteri costituzionali, e stravolgendo il principio di distinzione dei poteri.

Combinando le conclusioni (concordanti) di questi tre percorsi argomentativi si ha che l’applicazione “meccanica” del principio di isonomia (nel caso, della legge processuale) potrebbe ledere le capacità di azione politica, la forma democratica di Stato (e di governo) e il principio di distinzione dei poteri. Tutti principi fondamentali (due dei quali scritti), sicuramente non secondari a quello d’isonomia.

Occorre peraltro vedere se sia utilmente applicabile il criterio del bilanciamento cioè di determinare un ordine “gerarchico o preferenziale di valori o di principi” (v. Baldassarre op. cit.), e più in generale i parametri (non normativi) del giudizio di costituzionalità, come intesi da molti[71].

In effetti nel caso sopra considerato ad applicare letteralmente l’art. 3 della Costituzione, la deroga non sarebbe possibile; ma ricorrendo ai criteri di cui al passo citato di Baldassarre, e soccorrendo anche la massima di Celso scire leges non hoc est verba earum tenere sed vim ac potestatem (D I, 3, 17) – uno dei capisaldi dell’interpretazione sistematica – il risultato cambia completamente. Anche a tener conto delle considerazioni di Baldassarre che “se, per tale teoria, l’«interpretazione» è, in generale, una «mediazione creativa», nella quale il contributo degli interpreti concorre al «perfezionamento» o al «completamento» (Gadamer) del segno oggetto dell’interpretazione medesima, nel campo specifico del diritto, proprio in quanto «comprensione» eminentemente rivolta ai fini pratici, il fattore principale della mediazione ermeneutica è dato dagli «effetti veicolati dal segno» (Peirce), vale a dire dagli effetti pratici riferibili alla disposizione normativa nel relativo contesto sociale di attuazione. Sono, insomma, questi «effetti», vale a dire le conseguenze pratiche ipotizzate in relazione all’applicazione della disposizione normativa nell’ambiente sociale dato (attuale), che contribuiscono maggiormente a quella «attribuzione di significato» nella quale consiste il risultato finale (ancorché «anticipatorio» rispetto all’applicazione effettiva) di quel complesso processo chiamato «interpretazione»”.

In effetti nel caso della controversia sulla “giustizia politica”, l’inesistenza di deroghe, consentirebbe l’effetto pratico di cambiare la maggioranza parlamentare o la composizione del governo, cioè gravissime limitazioni e condizionamenti alla capacità di azione politica e/o al pouvoir déliberant del parlamento[72].

Cioè “effetti” contrari sia alla capacità d’azione dell’istituzione sia, alla specifica forma di governo scelta nella costituzione medesima.

  1. Più in generale occorre chiedersi come “graduare” o “bilanciare” (ovvero “determinare il valore relativo di due principi” costituzionali – Guastini). In questo caso il valore relativo tra ciò che è necessario, (assolutamente); ciò che lo è in relazione alle scelte costituzionali (relativo); e ciò che è accidentale. E insieme tra lo jus involontarium (non scritto) e il diritto statuito.

Quanto al rapporto tra ciò che è necessario (in senso assoluto) e l’ “accidentale”, sia che si tratti di norme che di principi o valori, il contrasto tra il primo e il secondo non può che risolversi con il riscontro dell’inesistenza/inapplicabilità del secondo. Almeno finché l’esistenza (e l’unità) politica  perdura è sul presupposto di questa – e del suo durare – che vige un diritto e può avere efficacia concreta. Per cui è l’esistenza di quella a costituire il presupposto necessario di questo; e una decisione contraria all’esistenza è, come sopra scritto, opposta all’essenza (ai presupposti essenziali e allo scopo) della costituzione. Del pari una decisione lesiva della capacità di azione (politica), perché, avendo gli Stati un’esistenza storica e politica, è loro essenziale la capacità d’azione.

Più sfumato è ove la necessità sia relativa (cioè consegua non dalle generali condizioni d’esistenza ed azione, ma da quelle particolari della forma di stato e di governo e dalle decisioni fondamentali della costituzione; cioè di qualcosa rimesso alla volontà – ed alla possibilità di scelta – del potere costituente) È chiaro che questi precetti possono essere esplicitati nella costituzione (ad es. per quella vigente, il principio democratico)  o impliciti (ad esempio la distinzione dei poteri).

Un aiuto a determinare ciò che è (relativamente) necessario lo può dare Lassalle. Questi nella (notissima) conferenza Über verfassungswesen, nel definire l’espressione legge fondamentale, diceva “ma una cosa che ha un fondamento non può più essere a piacere così o diversamente; ma deve essere così come essa è. Del fatto che essa è diversa non soffre il suo fondamento. Solo ciò che non ha fondamento e quindi anche ciò che è casuale può essere così come è e anche diversamente. Ma ciò che ha un fondamento, è necessario così come è. I pianeti hanno per esempio un certo movimento”[73].

Un altro ce lo offre il concetto di “rottura” della Costituzione. Com’è noto la prima formulazione della (necessità di istituti che comportino la )rottura della costituzione è di Machiavelli. Questi scrivendo della dittatura romana, sostiene “E però le repubbliche debbano intra loro ordini avere uno simile modo… Perché quando in una republica manca uno simile modo, è necessario, o servando gli ordini rovinare, o per non rovinare rompergli… Talché mai fia perfetta una republica se con le leggi sue non ha provvisto a tutto, e ad ogni accidente posto il rimedio e dato il modo a governarlo. E però chiudendo dico che quelle republiche le quali negli urgenti pericoli non hanno rifugio o al Dittatore o a simili autoritadi, sempre ne’ gravi accidenti rovineranno” (Discorsi, I, XXXIV). È chiaro, nel passo del Segretario fiorentino, che l’ “ottima” costituzione deve prevedere i modi per essere disapplicata o sospesai (parzialmente).

Onde potrebbe individuarsi il limite tra quello che è (relativamente) necessario a quello che è – per usare la terminologia hegeliana – accidentale in ciò che, in caso di previsione costituzionale della rottura, è immodificabile da quello che non lo è. Ad esempio nel caso dell’art. 16 della Costituzione francese vigente, il Presidente, pur utilizzando i poteri eccezionali, non può sciogliere il Parlamento; analogamente nell’art. 48 della Costituzione di Weimar il Presidente, pur potendo prendere le misure eccezionali, doveva riferire al Reichstag e revocarle a richiesta di questo. Schmitt a tale proposito sosteneva “La costituzione come un tutto resta non solo lo scopo di ogni provvedimento sulla base dell’art. 48: essa è anche determinante in quanto fondamento dei suoi presupposti… Essenzialmente ogni costituzione è l’organizzazione. Per questo l’unità dello Stato è creata come quella di un ordinamento”[74].

Da ciò consegue che, nelle rotture costituzionali, a non poter essere innovata, è la costituzione intesa come (decisione sulla) forma di Stato e di governo (e cioè sull’essenziale dell’organizzazione di governo); nei casi esaminati, come repubblica democratica semi-presidenziale, con i due organi (dotati) di rappresentanza politica (cioè Presidente della repubblica e Parlamento), che rimangono intangibili, mentre sono disapplicabili (momentaneamente l’esercizio dei) diritti, anche se garantiti dalla costituzione[75].

Tutto ciò può servire a chiarire se le decisioni riconducibili al (relativamente) necessario possano essere oggetto di valutazioni contemperabili con altre disposizioni della costituzione formale.

Ad avviso di chi scrive la risposta è negativa: non può “bilanciarsi” un principio che da forma allo Stato ed al governo – rientrando così nel “nocciolo duro” della costituzione – con prescrizioni, anche ricondotte dal testo costituzionale a quelle di principio, che comunque non sono costitutive della forma politica.

Nella costituzione vigente sicuramente di questa sono costitutivi il principio democratico (e quello – connesso – d’eguaglianza) quello di libertà nonché di tutela dei diritti dell’uomo – e le conseguenze immediate di quelli, come il diritto d’elettorato attivo e passivo, l’inviolabilità della libertà personale, di domicilio, di riunione (e, in genere, di tutti i diritti di cui agli artt. 13-27 della Costituzione vigente), mentre non sono “costitutivi” della forma politica il principio di tutela delle minoranze (art. 6) la tutela della cultura e del paesaggio (art. 9) la conformazione all’ordinamento internazionale (art. 10, I e II comma), il ripudio della guerra (art. 11).

Piuttosto un “bilanciamento” appare possibile all’interno della categoria dei precetti “costitutivi” della forma politica: ad esempio se una riduzione delle libertà di cui agli artt. 13-27 della Costituzione sia compatibile in occasione di gravi turbative all’ordine ed alla sicurezza pubblica, di guisa da mettere in dubbio il funzionamento delle istituzioni. In questo caso una compressione della libertà va commisurata all’ineliminabilità, specie in certi periodi (come quelli elettorali) – della fruizione delle stesse, ai fini di un corretto funzionamento dell’istituzione e della forma di governo in cui è organizzata[76].

Mentre tali esigenze di salvaguardare il “nocciolo duro” della Costituzione (cioè la costituzione e non le leggi costituzionali nel senso di Schmitt) non sussistono se i valori da bilanciare sono riconducibili a ciò che è “accidentale”; ossia non necessariamente (nei due sensi specificati) facente parte della Costituzione.

  1. Altro problema è quello del carattere prevalentemente teleologico dell’interpretazione. Qua s’intende per teleologico non tanto la considerazione privilegiata del “fine” della norma, quanto quello della funzione della costituzione, cioè di disciplinare l’esistenza e l’azione della comunità, anche con riguardo agli effetti concreti.

In questo senso è determinante il carattere di “comunità perfetta” che il pensiero teologico attribuisce a quella politica[77] e presente anche nel pensiero giuridico dello scorso secolo, in particolare in Santi Romano[78]; e in Rudolf  Smend[79].

La conseguenza che ne traeva Santi Romano era che “il diritto costituzionale è quella parte del diritto dello Stato, in cui meglio si rivela l’esattezza del concetto sopra fugacemente accennato sulla garanzia del diritto. L’opinione comune che ripone questa garanzia in una norma che dovrebbe farsi valere da una potestà sopraordinata ai soggetti vincolati ad essa o in altra norma, cui la prima servirebbe di sanzione,  nel campo del diritto costituzionale è manifestamente inammissibile. Se la costituzione è l’ordinamento supremo dello Stato, non ci può essere una norma ancora superiore che la protegga e quindi essa deve trovare nei suoi stessi elementi e atteggiamenti la propria garanzia[80].

Dato il carattere di comunità perfetta e il fatto di non essere obbligata (o facultata) a chiedere (e ad ottenere) la garanzia del proprio ordinamento ad un’altra istituzione (tanto meno ad una norma, a un principio, o a un valore), l’interpretazione della costituzione deve avere connotati particolari, così come la decisione delle controversie costituzionali.

In effetti, e tornando al criterio di conservazione dell’esistenza (cioè la salus rei publicae…) esso è del tutto peculiare (alla costituzione e) all’interpretazione costituzionale: un giudice ordinario che applica la norma in una lite tra privati non deve porsi il problema delle salus rei publicae. Lo stesso accade in ogni caso d’applicazione di precetti giuridici che poggino (e presuppongano) la saldezza e la vitalità dell’insieme (e non li ponga a rischi – il che è un’ipotesi rarissima, quasi di scuola – per le disposizioni non aventi carattere costituzionale).

Smend scriveva in proposito che “Il criterio che distingue la costituzione dal resto dell’ordinamento giuridico è sempre e di nuovo il carattere «politico» del suo oggetto”, e “qui il metodo formalistico rinuncia consapevolmente a fondare la teoria dello Stato nel senso delle scienze dello spirito, cioè ad assumere, come punto di partenza del lavoro giuridico, una teoria dell’essenza materiale specifica del suo oggetto”. Infatti così rinuncia a comprendere la costituzione non come “regolamentazione astratta di un infinito numero di casi”, mentre “qui si tratta di una legge individuale di un’unica e concreta realtà di vita”[81]. È chiaro che la funzione d’integrazione come essenza della costituzione costituisce “il principio del divenire dinamico dell’unità politica[82].

Pertanto il criterio interpretativo, in questa come nelle altre concezioni costituzionali improntate a considerare la  costituzione come “modo d’esistenza di un popolo” (de Bonald) è (segnatamente) sistematico ma soprattutto teleologico, mentre uno spazio assai minore rispetto all’interpretazione della norma legislativa è riservato all’interpretazione letterale.

E, come scrive Smend, si tratta di interpretare la costituzione, come la “legge vitale di un essere concreto”, cioè in funzione della vitalità dell’insieme; per cui il criterio teleologico non è incentrato sullo scopo che la singola norma si propone di raggiungere (la ratio legis) ma quelli che la costituzione, nel suo insieme, persegue (per così dire la ratio constitutionis).

Ne consegue che da un canto la garanzia della costituzione, come scriveva Hegel, viene dalle istituzioni stesse[83]. Il che è un modo di significare che, come per il diritto internazionale non ci sono Pretori tra gli Stati[84], anche per il diritto costituzionale la garanzia effettiva deriva più dal (complesso) assetto istituzionale che da un ricorso al “Pretore” costituzionale del tutto incongruo a proteggere effettivamente l’unità e la forma dello Stato[85]. Sul piano interpretativo ciò conferma il particolare carattere teleologico e “fattuale” dell’interpretazione costituzionale: quanto Baldassarre sostiene che occorre guardare anche agli effetti (alle conseguenze) dell’interpretazione (nel caso della Corte, delle sentenze); questo criterio che per un giudice non costituzionale, sarebbe del tutto residuale, perché, per lo più, vietato – di converso è  peculiare all’interpretazione della costituzione (molto meno per le leggi costituzionali, a seguire la distinzione di Schmitt).

Anche in questo è confermata la regola che l’esistente prevale sul normativo: la costituzione – che è il modo d’esistenza politica di un popolo – va interpretata nel senso che le relative decisioni conservino quel modo d’esistenza. Se un potere costituito lo mettesse in pericolo, ciò non rientrerebbe nei suoi poteri: sarebbe come segare il ramo (o la pianta) su cui è appollaiato (e da cui è sostenuto). Cioè costituirebbe un atto rivoluzionario o almeno un atto apocrifo di sovranità, essendo riservato al sovrano (o al potere costituente, laddove l’uno e l’altro coincidono – v. sopra).

  1. Le tesi sopra esposte confermano quanto sostenuto (da buona parte) della dottrina politica – e del diritto pubblico – classica, le cui conseguenze si riflettono sull’interpretazione costituzionale.

In particolare che non si ha a che fare (per lo più) con un diritto scritto e statuito (de Maistre e Santi Romano, tra gli altri)[86]; in buona parte ciò che è (realmente) costituzionale non è rimesso alla volontà umana; lo jus dicere, e più ancora il condere leges è un atto di volontà, ma anche di conoscenza (assertivo) (Suarez e Vico); c’è un diritto costituzionale necessario – nei due significati indicati – e uno volontario (Vico, Spinoza ed Hegel); la ratio, dati i presupposti di cui sopra, ricopre un ruolo superiore a quanto usuale in altri campi del diritto; la distinzione tra costituzione e leggi costituzionali (Schmitt) è feconda e spesso decisiva – anche ai fini esegetici; la costituzione è il modo d’esistenza di un popolo (de Bonald) e come tale va, in primo luogo, considerata; il diritto serve alla vita e non viceversa (Jhering, tra i molti); leggi, principi e valori cambiano più o meno velocemente, mentre comunità, istituzioni, Stati cambiano i primi, ma non mutano – o mutano poco e lentamente – il loro ordinamento (Hauriou e Santi Romano).

Tutti aspetti che non risultano particolarmente frequentati né (implicitamente) condivisi: ai quali si preferiscono altrettante riduzioni/semplificazioni: che il diritto sia statuito (e scritto), che la costituzione sia un determinato (e deliberato) documento, distinguibile dalla legge solo per la sua posizione nella stufenbau; che le “regolarità” dell’agire sociale siano modificabili ad libitum del legislatore (aspetto del “prometeismo” moderno, di cui il marxismo realizzato nel socialismo reale – e la sua fine ingloriosa – hanno mostrato l’inconsistenza); che la costituzione sia (solo) un atto connotato dalla rigidità.

E altro, il cui limite manifesto e ricorrente è di spiegare solo (parte) dell’oggetto, con l’accorgimento di delimitarlo in misura assai più stretta di quello che la realtà mostra; e con l’inconveniente di lasciarne fuori gran parte: non il troppo e il vano, ma l’essenziale e il decisivo.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

[41] Qu’est-ce-que le Tièrs Etat  ora in Opere Milano 1993 p. 256 ss e ribadisce : “Non solo la Nazione non è sottomessa a una Costituzione, ma non può neanche esserlo, il che è come ribadire una volta di più che non lo è… (le nazioni) vanno considerate come individui privi di ogni legame sociale, ovvero, come si suol dire, nello stato di natura. L’esercizio della loro volontà è libero ed indipendente da ogni forma civile…comunque una Nazione voglia, è sufficiente che essa voglia; tutte le forme sono buone, e la sua volontà è sempre legge suprema…” op. cit, pp. 257-258 (i corsivi sono nostri). La distinzione fra potere costituente/diritto naturale e poteri costituiti/diritto positivo è chiaramente formulata.

[42] v. Behemoth n. 45 p. 12

[43] L’espressione “natura delle cose” (e quelle similari) è stata intesa come essenzialmente giusnaturalistica. Bobbio ritiene che “si tratta di una nozione di derivazione prettamente giusnaturalistica. L’essenza del giusnaturalismo consiste infatti nella convinzione di poter ricavare le regole fondamentali della condotta umana dalla natura stessa dell’uomo: ora, è evidente la stretta parentela fra il concetto di natura dell’uomo e quello di natura delle cose; intendendo il termine “cose” in senso lato (come sinonimo di “enti”), il primo concetto può essere ricompreso nel secondo”. Il Positivismo giuridico, Torino s.d., p. 265.

È chiaro che nel presente scritto s’intende qualcosa di diverso, ovvero la necessità (assoluta) di un ordinamento per le comunità umane, o la necessità (relativa) cioè in relazione al fine, al modo d’essere, alla forma di Stato e di governo. Onde appartiene alla natura delle cose (per necessità assoluta) che vi sia una società politica con un potere di comando ed obbedienza (et simili); alla natura della democrazia (ad es.) che i governati eleggano i governanti (direttamente e/o indirettamente), che abbiano il diritto d’accesso alle cariche pubbliche (e così via). Mentre nel primo caso non può esistere qualcosa di diverso, nel secondo la necessità deriva dalla scelta, libera e consapevole (e realisticamente conseguente), di quelle che Schmitt chiama le “decisioni politiche fonamentali” (cioè l’essenza della Costituzione) v. Verfassungslehre, trad. it. di A. Caracciolo, Milano 1984, pp. 38 ss.. Per una concezione della “natura delle cose” prossima a come la poteva intendere Spinoza (v. nota 54). v. M.S. Giannini Introduzione al diritto costituzionale, Roma 1984, p. 72.

[44] v. per le “regolarità” del politico la presentazione di G. Miglio alla raccolta di saggi di Schmitt Categorie del politico, Bologna 1972 p. 13; quanto alle costanti, alle leggi dell’agire sociale, basti ricordare, tra i molti, Comte, per cui la società ha una realtà naturale ed originaria: gli uomini vivono in società perché questo fa parte della loro natura sociale; la società ha proprie leggi di funzionamento; la sociologia che la studia si divide in statica sociale, che costruisce la teoria dell’ordine; e in dinamica che sviluppa la dottrina del progresso. “La liberté véritable se trouve partout inhérente et subordonnée à l’ordre, tant humain qu’extérieur”; infatti “si la liberté humaine consistait à ne suivre aucune loi, elle serait encore plus immorale qu’absurde, comme rendant impossible un régime quelconque, individuel ou collectif” in Catéchisme positiviste(I parte, IV colloquio).

[45] Sul concetto di necessità assoluta e necessità relativa (conseguente alle scelte politiche fondamentali v. supra nota 42.

[46] v. articoli di Riccardo Guastini “Sostiene Baldassarre” e Antonio Baldassarre “Una risposta a Guastini” – reperibili in rete.

[47] La distinzione tra enunciati di principio e norme giuridiche, spesso all’attenzione della dottrina contemporanea, in rapporto alla tesi esposta non fa differenza, perché sia i principi che le norme sono ricavate dal diritto statuito.

[48] V. per un’esposizione delle tesi v. F. Suarez,  Tractatus de legibus ac Deo legislatore, trad. it a cura di O. De Bertolis, Padova 2008, pp. 81 ss.

[49] “Per gli argomenti che abbiamo addotti a favore di queste opinioni sembrano persuaderci che l’uno o l’altro atto, di intelletto e di volontà, sono necessari per la legge, e perciò può sostenersi la terza tesi, che dice che la legge si forma e si compone con un atto di entrambe le potenze; perché in queste cose morali non si richiede di ottenere un’unità perfetta e semplice ma accade che una realtà, che moralmente è una, può constare di molte realtà fisicamente distinte, e che si aiutano l’una con l’altra”  op. cit. pag. 96

[50] v. Guastini op. cit.

[51] v. “Non posso evitare di aggiungere a questi ragionamenti un’osservazione, che forse può avere una certa importanza: In ogni sistema morale che ho finora incontrato, ho sempre trovato che l’autore procede per un po’ nel consueto modo di ragionare, e afferma l’esistenza di Dio o si esprime riguardo alle questioni umane; e poi improvvisamente trovo una certa sorpresa che, invece delle abituali copule è e non è incontro soltanto proposizioni connesse con un deve, o non deve. Questo cambiamento è impercettibile; ma è comunque molto importante. Infatti, dato che questo deve, o non deve, esprime una certa nuova relazione o affermazione, è necessario che siano osservati e spiegati; e allo stesso tempo è necessario spiegare ciò che sembra del tutto inconcepibile, ossia che questa nuova relazione possa costituire una deduzione da altre relazioni completamente diverse” A treatise on human nature, trad. it. di P. Guglielmoni, Milano 2005, p. 329 (i corsivi sono nostri)

[52] V. General theory of law and state,  trad. it. Milano 1952 pp. 8 ss; v. anche Reine Rechtslehre, trad. it. Torino 1968. pp. 86 ss, ma è rivisitata in altre opere

[53] e prosegue “Si può distinguere sostanzialmente il diritto dalla morale soltanto se – come si è dimostrato in precedenza – si concepisce il diritto come ordinamento coercitivo, cioè come ordinamento normativo, che tenta di generare un certo comportamento umano, ricollegando al comportamento opposto un atto coercitivo dell’organizzazione sociale, mentre la morale è un ordinamento sociale che non prevede alcuna di tali sanzioni, un ordinamento, cioè, le cui sanzioni consistono soltanto nell’approvazione del comportamento conforme alla norma e nella disapprovazione del comportamento in contrasto con essa¸un ordinamento in cui non si prende quindi neppure in considerazione la possibilità di applicare la coazione fisica. V. Reine Rechtslehre, trad. it. cit. di Mario Losano p. 78. Anche nella  Reine rechtslehre Einleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik trad, it. Torino 1952 p. 66 Kelsen scrive “Con la categoria formale del dovere o della norma si è riusciti però soltanto a determinare il genere prossimo, non già la differenza specifica del diritto. La teoria del diritto del secolo XIX è stata in genere concorde nel ritenere che la norma giuridica fosse una norma coattiva…In questo punto la dottrina pura del diritto continua la tradizione della teoria positivistica del diritto del secolo XIX. Essa sostiene che in una proposizione giuridica, a una determinata condizione è unito come conseguenza l’atto coattivo dello Stato, cioè la pena e l’esecuzione forzata civile e amministrativa…Ciò fa si che un determinato comportamento umano valga come illecito, come delitto nel più ampio senso della parola, non è affatto una qualità immanente e neppure un rapporto con una norma meta-giuridica, con un valore morale, cioè trascendente il diritto positivo, ma è solo ed esclusivamente il fatto che nella proposizione giuridica tale comportamento sia posto come condizione di una conseguenza specifica e che l’ordinamento giuridico positivo reagisca a questo comportamento come un atto coattivo”. (I corsivi dei passi citati sono nostri)

[54] V. sul punto, la tesi, già ricordata  (Trattato politico  Torino 1958 pp. 204-206) di Spinoza: “Se, per esempio, io dico che ho diritto di fare quel che voglio di questo tavolo, non intendo, perbacco, di poter far sì che esso mangi erba; così, pur dicendo che gli uomini non sono liberi di sé, ma soggetti allo Stato, non intendiamo che essi perdano la natura umana e ne assumano un’altra, o che lo Stato abbia diritto di far sì che gli uomini volino… esistono  certe condizioni, poste le quali si impone si impone ai sudditi il rispetto e l’ossequio verso lo Stato, e tolte le quali, non soltanto vengono meno il rispetto e l’ossequio, ma lo Stato stesso cessa di esistere: Per conservare la propria autorità, insomma, lo Stato deve badare che non gli vengano meno i motivi del rispetto e dell’ossequio, altrimenti perde il suo essere di Stato”

[55] Si nota la differenza tra la tesi qui sostenuta e quella di Bobbio dal seguente passo del filosofo torinese, sempre sulla “natura delle cose” in cui introduce (nella propria concezione del diritto) la “legge di Hume” “La natura delle cose è una nozione che nasce dunque dall’esigenza di garantire l’oggettività della regola giuridica. Il problema è appunto se esiste effettivamente questo rapporto fra la natura del fatto e la regola. A nostro avviso la nozione di natura delle cose è inficiata da quella che in filosofia morale è detta la fallacia naturalistica, cioè dall’illusoria convinzione di poter ricavare dalla constatazione di una certa realtà (il che è un giudizio di fatto) una regola di condotta (la quale implica un giudizio di valore): il sofisma della dottrina della natura delle cose, come del giunaturalismo, è il pretendere di ricavare un giudizio di valore da un giudizio di fatto”, op. ult. cit., p. 268. In effetti qua non si ricava una scelta (giudizio di valore) da un giudizio di fatto, in quanto l’atto (il fatto) non è giuridico perché non coercibile, non efficace, non applicabile. Semmai la scelta del legislatore è nel disciplinare gli effetti giuridici di un atto privo delle possibilità concrete di applicazione. In tal senso, ad esempio, il c.c. sanziona di nullità il tutto, prescrivendo alle parti (e al giudice) la restituzione delle prestazioni eseguite in “esecuzione” del contratto ad oggetto impossibile (art. 2033 c.c.) in applicazione del principio quod nullum est nullum producit effectum. In realtà il legislatore nel caso di prestazione impossibile non costituisce un precetto, ma riconosce ciò che risulta dal giudizio di fatto, statuendo solo sullo statuibile (la conseguenza dell’atto nullo).

[56] Per le norme d’ “applicazione” il discorso – che qui non interessa – è diverso.

[57] v. Studi per una teoria generale del diritto Torino 1970 pp. 143 ss.

[58] e prosegue “ Sia in Kelsen sia in Olivecrona e in Ross l’idea di coazione è strettamente connessa all’idea di forza (fisica): “il dire che l’ordinamento giuridico è un ordinamento coattivo (coercive order, Zwangsordnung) equivale a dire che contiene regole per l’esercizio della forza, anzi è caratterizzato da queste. Ciò presuppone che l’unico espediente cui ricorre un ordinamento giuridico per rendere efficaci le norme primarie sia il ricorso della forza”, precisando successivamente “Mi pare si possa proporre, per le nullità, questa interpretazione: quando si dice che l’ordinamento giuridico è un ordinamento coattivo, caratterizzato dall’esistenza di norme che regolano l’esercizio della forza, si vuol dire, come si è visto, che l’ordinamento giuridico stabilisce le condizioni (norme sostanziali) in base alle quali l’intervento della forza diventa lecito, e le modalità (norme procedurali) con cui questo intervento deve essere esercitato”… “ in altre parole, il giudizio di illiceità, presupposto di una pena (o un’esecuzione forzata, pone le condizioni per l’intervento di una forza vendicatrice (o riparatrice); il giudizio di invalidità presupposto della nullità, pone le condizioni per il non intervento di una forza protettrice” – p. 134-137 (i corsivi sono nostri). Bobbio non prende in considerazione le sanzioni  premiali   anch’esse “coercibili”, che tratta Carnelutti.

[59] È da considerare la tesi di G. B. Vico sul rapporto tra verità e certezza “Verum gignit mentis cum rerum ordine conformatio; certum gignit conscientia dubitandi secura. Ea autem conformatio cum ipso ordine rerum est et dictur «ratio». Quare, si alternus est ordo rerum, ratio est aeterna, ex qua verum aeternum est: sin ordo rerum non semper, non ubique, non omnibus constet, tunc in rebus cognitionis ratio probabilis, in rebus actionis ratio verisimilis erit” De uno universi juris principio et fine uno (proloquium); e nel cap. LXXXII “Ratio autem legis eidem dat esse verum- Verum autem est proprium ac perpetuum adiunctum iuris necessarii.

Certum est pars veri.

Certum vero est proprium et perpetuum iuris voluntarii attributum, sub aliqua tamen veri parte, ut Ulpianus nuper ius civile definivit”.

[60] Wirtschaft und Gesellschaft trad. it. vol. I. Milano 1980 pp. 212-213 (i corsivi sono nostri).

[61] In realtà si è scambiata quella che è un’aspirazione, per quanto condivisibile e diffusa, con la realtà (e la necessità) dell’esistenza politica e sociale. Per cui se è possibile (ed auspicabile) regolare molti istituti e materie, è impossibile (e dannoso) credere di poter regolare tutto. Cioè arrivando ad una giuridificazione di (tutta) la vita.

[62] Op. cit. p. 48-49

[63] Lineamenti di filosofia del diritto  § 260

[64] v. B. Croce Etica e politica Bari 1931 p.185.

[65] Ovvero come sostiene Santi Romano criticando l’opinione fondata sull’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 20-26 agosto 1789 “l’errore dell’opinione di cui si è fatto cenno è evidente: Ogni Stato è per definizione, come si vedrà meglio in seguito è coevo all’esistente (politicamente),  un ordinamento giuridico, e non si può immaginare, quindi, in nessuna sua forma fuori del diritto: Qualunque sia il suo governo e qualunque sia il giudizio che se ne potrà dare dal punto di vista politico, esso non può non avere una costituzione e questa non può non essere giuridica, perché costituzione significa niente altro che ordinamento costituzionale. Uno Stato «non costituito» in un modo o in un altro, bene o male, non può avere neppure un principio di esistenza, come non esiste un individuo senza almeno le parti principali del corpo. Il diritto costituzionale del c.d. Stato assoluto o dispotico sarà poco sviluppato; si concreterà in una sola istituzione fondamentale, quella del suo sovrano; sarà regolato da poche norme che, esagerandone e stilizzandone la figura tipica, si potranno ridurre magari soltanto a quella che dichiarerà l’appartenenza del sovrano di tutti i poteri; ma almeno questa norma non potrà mancare e non essere giuridica, se su di essa si impernia per intero quell’ordinamento giuridico quale è sempre, per sua  indeclinabile natura, lo Stato”. Diritto Costituzionale generale Milano 1947, p. 3

[66] Il giovane Hegel esercitava la sua (amara) ironia su come il rispetto per il diritto contribuisse ad indebolire l’Impero nel momento in cui aumentava l’aggressività della Francia rivoluzionaria “è un elemento, se pur non razionale, almeno in certa misura nobile del carattere tedesco il fatto che il diritto in generale, comunque siano costituiti il suo fondamento o le sue conseguenze, è per esso qualcosa di sacro. Se pur la Germania in quanto Stato proprio e indipendente, di cui ha tutta l’apparenza, e la nazione tedesca in quanto popolo, va del tutto in rovina, tuttavia procura sempre una vista piacevole il notare tra gli spiriti distruttori il rispetto per il diritto” v. Verfassung Deutschlands, trad. it. Bari 1960, p. 21.

[67] V. l’opinione di Santi Romano “Come la consuetudine, anzi a maggior ragione, data la sua maggiore energia, la necessità è fonte autonoma del diritto, superiore alla legge. Essa può implicare la materiale e assoluta impossibilità di applicare, in certe condizioni, le leggi vigenti e, in questo senso, può dirsi che «necessitas non habet legem». Può anche implicare l’imprescindibile esigenza di agire secondo nuove norme da essa determinate e, in questo senso, come dice un altro comune aforisma, la necessità fa legge. In ogni caso «salus rei publicae suprema lex»” in Diritto costituzionale generale, Milano 1947, p. 92.

[68] Ricordiamo la concezione di Bobbio “interpretare significa risalire dal segno (signum) alla cosa significata (designatum), cioè comprendere il significato del segno individuando la cosa da esso indicata. Ora, il linguaggio umano (parlato o scritto) è un complesso di segni” op. ult. cit., p. 325.

[69] In effetti, a seguire la teoria di Rousseau sulla volontà generale, essa è tale perché lo è nell’oggetto e nell’essenza, perché “deve partire da tutti per applicarsi a tutti” (Du conrtact social, II, 4). Nella concezione dell’eguaglianza come (mera) isonomia passiva, c’è una visione estremamente riduttiva del principio d’uguaglianza, visto solo quale assoggettamento alla legge (e al comando), tralasciando la partecipazione alla funzione di “governo” (in senso lato).

[70] V. op. ult. cit., p. 92. Bobbio sostiene (v. prima) che “in realtà non è il fatto in sé che impone la regola, ma il fine che si vuole raggiungere: è il fine che fa valutare in un certo modo i fatti; nel nostro caso il fine è di garantire la sicurezza del traffico e la possibilità per tutti gli automobilisti di poter parcheggiare. Ma nell’individuazione del fine interviene necessariamente un giudizio (o una serie di giudizi) di valoreop. ult. cit., p. 269. A parte le pendenti considerazioni, qua non si nega che vi sia un giudizio di valore, ma che non vi sia quello di fatto (assertivo). Sul punto ritorniamo in seguito.

[71] Sul punto v. Baldassarre op. cit.: “Nell’ipotesi del giudizio di costituzionalità, invece, colui che interpreta/applica le norme (costituzionali) procede in modo diametralmente inverso. Innanzitutto, tutte le norme costituzionali, incluse quelle che appaiono come le più particolari (ad es. la necessità di convertire i decreti-legge entro 60 giorni dalla loro emanazione), vanno comprese nel significato loro attribuibile in modo da riferirle ai principi supremi e ai valori ultimi della costituzione (come sentiti e vissuti dalla comunità politica). Così, per riprendere l’esempio fatto, il termine di conversione dei decreti-legge entro 60 giorni è stato inteso restrittivamente, cioè nel senso di precludere la possibilità di reiterazione del medesimo decreto, solo a partire da una sentenza del 1996, in quanto solo se così interpretato il principio della conversione è stato ritenuto più coerente con il principio della democrazia parlamentare, come allora, e non prima, sentito e condiviso.  In secondo luogo,  dai principi costituzionali non vengono «dedotte» le «regole» per decidere il giudizio, per il semplice motivo che la questione di costituzionalità viene decisa, non in base a una (presunta) «regola», ma in base a «principi»: in genere, il giudice della costituzionalità procede a una «riduzione» della «regola» legislativa (= generale e astratta) oggetto del giudizio ai principi o ai valori ad essa sottesi, al fine di valutare la compatibilità/incompatibilità di questi ultimi con il quadro dei principi e dei valori costituzionali ritenuti rilevanti rispetto alla «regola» contestata”.

[72] E anche altro. È per lo più dimenticato che la legge sui pieni poteri al governo del Reich del 23 marzo 1933 –legge di modifica (abolizione) della costituzione di Weimar, e quindi necessitante della maggioranza qualificata – raggiunse il quorum grazie all’opportuno scioglimento del PC tedesco e l’arresto di una dozzina di deputati dell’opposizione.

[73] E proseguiva “Questo movimento o ha un fondamento, che lo determina, o non ne ha. Se non ne avesse, questo movimento, sarebbe casuale e ad ogni momento potrebbe anche essere diverso. Ma se ha un fondamento, come dicono gli scienziati, cioè la forza d’attrazione del sole, con ciò è già determinato il fatto che questo movimento dei pianeti è determinato e regolato attraverso il fondamento, la forza d’attrazione del sole, in modo tale da non potere essere altro rispetto a ciò che è. Nella rappresentazione del fondamento vi è quindi l’idea di una necessità attiva, di una forza effettiva, che con necessità rende ciò che è fondato su di essa ciò che esso è. Se quindi la costituzione rappresenta la legge fondamentale di un paese, o essa è così – e qui albeggia forse per noi la prima luce, miei Signori, – un qualcosa puramente ancora da determinare in modo più preciso ovvero, come abbiamo intanto scoperto, una forza attiva che rende obbligatoriamente  tutte le altre leggi e istituzioni giuridiche che vengono varate in questo paese ciò che sono” v. trad. it. di Clemente Forte in Behemoth n. 20, p. 6 (i corsivi sono nostri).

[74] Die Diktatur (App. I) trad. it. di A. Caracciolo, Roma 2006, p. 283 (i corsivi sono nostri).

[75] E’ da notare che nell’evoluzione dell’istituto francese dell’état de siège, alle misure straordinarie non è connessa alcuna alterazione (dei rapporti) tra organi costituzionali. v. M Hauriou Prècis de droit costitutionnel.  Paris 1929 p. 705 ss

[76] In questo senso quelle libertà – normalmente inquadrate, come da rubrica, tra i rapporti civili (diritti dell’uomo, libertà liberali) – sono anche condizioni per l’esercizio dei diritti (politici) del cittadino di partecipare alla formazione della volontà pubblica, e così della forma democratica di governo. Tra i (non pochi) esempi delle conseguenze di una mancata garanzia dell’esercizio di questi, ricordiamo il decreto per la protezione del popolo e dello Stato (del 28/02/1933) proposto da Hitler e sottoscritto da Hindenburg, pochi giorni prima delle elezioni del 05/03/1933 (e i risultati di queste), v. William Shirer, Storia del Terzo Reich, vol. I, Torino 1990, p. 303 ss. A tale proposito Hauriou, citando Thiers, ritiene che questi aveva ragione a sostenere che la libertà di stampa, riunione, d’associazione (e d’insegnamento) nella società moderna erano delle libertà necessarie: in questo caso il necessario era inteso sia rispetto al principio (politico) democratico sia a quello liberale di protezione delle libertà (della società civile rispetto allo Stato)  Prècis de droit constitutionnel. Paris 1929 p. 711

[77] v. Suarez op. cit., p. 118 ss.. Suarez distingue – sulla base del pensiero di Aristotele e S. Tommaso – tra comunità sufficienti a se stesse (perfette) e non sufficienti a se stesse: “È detta perfetta nel suo genere quella che è capace di governo politico, che, in quanto è tale, è detta sufficiente in questo ordine; come disse Aristotele e S. Tommaso, che la città è una comunità perfetta… Ma è detta «comunità imperfetta» non in relazione ad altre, ma in senso assoluto, la casa privata, alla quale presiede il padre di famiglia, come ha notato S. Tommaso, e Soto, e sopra è preso da Aristotele.

Il motivo è che quella comunità non è sufficiente a se stessa, come ora sarà spiegato… E così tale comunità, parlando di per sé e in termini propri, non è retta da una propria potestà di giurisdizione, ma da [una potestà che si può chiamare] dominativa… Per cui [la casa privata] non possiede perfetta unità o un potere uniforme, e nemmeno partecipa propriamente di un governo [che possa essere detto] propriamente politico, e così quella comunità è detta assolutamente imperfetta” (i corsivi sono nostri).

[78] “Si possono distinguere le istituzioni perfette, che sono sempre originarie e che possono essere o semplici o complesse, dalle imperfette, che cioè si appoggiano ad altre istituzioni rispetto alle quali sono, non soltanto presupposte, ma coordinate o subordinate”, L’ordinamento giuridico, rist. Firenze 1962, p. 143; v. anche p. 38 “Ci sono istituzioni che s’affermano perfette, che bastano, almeno fondamentalmente, a se medesime, che hanno pienezza di mezzi per conseguire scopi che sono loro esclusivi. Ce ne sono altre imperfette o meno perfette, che si appoggiano a istituzioni diverse”.

[79] V. “Qui non è possibile discutere a fondo il criterio che distingue lo Stato dalle altre associazioni. Dalla particolare posizione dello Stato derivano comunque due elementi. In primo luogo, la sua stabilità non viene garantita, come per le altre associazioni, da un potere situato all’esterno; il suo funzionamento non viene mantenuto da un motore o da un giudice esterni alla sua struttura, non viene sorretto da una causa o da una garanzia eteronome, ma si integra, grazie alla legislatività oggettiva rispetto al valore, esclusivamente in un sistema di integrazione gravitante su se stessoVerfassung und verfassungsrecht trad. it., Milano 1988, p. 156; nella voce Integration, scritta da Smend per Evangelisches Staatlexikon e riportato nel volume citato, chiarisce: “Ciò è inesatto poiché, per quanto anche le altre formazioni sociali, dal matrimonio o dalle associazioni private sino alle più complesse comunità politiche e apolitiche, necessitino di una continua e sempre nuova inclusione degli uomini che le sorreggono, dispongono tuttavia di garanzia di stabilità del tutto differenti da quelle statali. Quelle comunità e associazioni vengono garantite dalla dissoluzione interna perlopiù mediante poteri esterni: il giudice, la coercizione amministrativa, sino agli strumenti della coercizione sociale e a quelli della politica estera e del diritto internazionale. Per lo Stato, in quanto si pone semplicemente come compito, non vi sono affatto tali garanzie esterne: esso riposa in ultima istanza non sul diritto o sul suo potere di fatto, ma sulla sempre nuova e volontaria adesione dei suoi appartenenti”, op. cit., p. 286 (i corsivi sono nostri)..

Nella diversità delle concezioni, ambedue i giuristi citati concordano nel fatto che diversamente da altre (associazioni e) comunità umane lo Stato (e quindi la costituzione statale) devono trovare all’interno dell’ordinamento gli strumenti di garanzia dello stesso. Questo perché, come scriveva de Bonald, riguardo alla costituzione della monarchia francese “la nazione era costituita, e così ben costituita, che essa non ha mai chiesto a nessuna nazione vicina la protezione della sua costituzione”. Il che è un’applicazione della regola (hobbesiana) del protego ergo obligo; e in termini giuridici (e politici), significa la perdita (o la restrizione) dell’indipendenza dello Stato.

[80] Principii di diritto costituzionale generale, cit., p. 57 (i corsivi sono nostri).

[81] E prosegue “A tale metodo sfugge il fatto che si tratta della legge vitale di un essere concreto e precisamente, dal momento che tale essere concreto non è una statua ma un processo di vita unitario che riproduce di continuo questa realtà,  della legge della sua integrazione… ogni singolo aspetto del diritto dello Stato è comprensibile non in se stesso e isolatamente, ma come momento della connessione di senso da realizzare, cioè della totalità funzionale dell’integrazioneop. cit., pp. 216-217. Così “non si può comprendere la giustizia costituzionale in analogia con la giustizia civile o amministrativa. La tutela delle minoranze parlamentari da parte del giudice costituzionale è una cosa diversa dalla tutela di un gruppo di azionisti, con i loro interessi individuali, da parte di un giudice civile, in quanto deve servire alla ricomposizione integrativa delle parti”, op. cit., p. 218 (i corsivi sono nostri).

[82] Così C. Schmitt op. ult. cit., p. 18.

[83] Op. cit., § 286.E anche, a seguire Hauriou – per le costituzioni liberali, dal complesso e dall’assetto generale, che fa sì che  la “libertà si protegga da sola” v. Précis. cit. pag. 709.

[84] Hegel, op. cit., § 333; e anche, per conflitti acuti, all’interno dello Stato, come sosteneva Locke, che quindi non restava altro che l’appello al cielo, cioè la rivoluzione.

[85] È chiaro che nel caso di grave crisi politica la “garanzia della costituzione” dipende ancor più da circostanze meramente “fattuali”, come il consenso dei governati e la determinazione dei governanti. Ossia sulla legittimità, l’autorità, la virtù – intesa nel senso classico di Machiavelli. Anche l’assetto istituzionale (i poteri costituiti), in tali casi, diviene quasi evanescente.

[86] A tale proposito è opportuno ricordare l’introduzione di Roberto de Mattei al “Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche e delle altre istituzioni umane” da tale opera di de Maistre è “un saggio polemico rivolto contro una determinata categoria di avversari, i fabbricatori di costituzioni a tavolino, gli autori di artificiose costruzioni intellettuali, gli ideologi rivoluzionari che, disprezzando la lezione della storia e dell’esperienza, avevano preteso elaborare un modello puramente astratto delle strutture sociali e politiche” (op. cit., p. 12).

NOTE SU COSTITUZIONE E INTERPRETAZIONE COSTITUZIONALE , di Teodoro Klitsche de la Grange 

NOTE SU COSTITUZIONE E INTERPRETAZIONE COSTITUZIONALE

  1. E’ opinione generalmente condivisa che i testi costituzionali (spesso identificati con le costituzioni) sono interpretabili, ma che l’interpretazione di questi non è del tutto assimilabile a quella delle leggi ordinarie (o dei negozi, o dei provvedimenti).Questo sia per la presenza, in molte costituzioni, di disposizioni di principio, sia perché alcuni enunciati non hanno carattere normativo, ovvero per l’importanza dei “valori coessenziali alla forma di Stato”[1]; o anche per l’importanza delle “convenzioni costituzionali”, e ancor più di quelle che Mortati chiamava le “esigenze istituzionali latenti” ( e si potrebbe continuare).

A questo si aggiunge che certi tipi di interpretazione sono, per così dire di non agevole attivazione. Ad esempio, in una costituzione “rigida” l’interpretazione “autentica”, essendone competente il titolare del potere costituente il quale, a meno che non si voglia identificarlo- ma ciò non appare possibile in molti testi costituzionali, tra i quali quello italiano vigente- con quello deputato alla revisione costituzionale, non è istituzionalizzato in un organo[2]. Inoltre in tal caso non ne sarebbe previamente giuridificabile l’esercizio, atteso che vale la considerazione di Sieyès che il potere costituente (cioè, per l’abate, la Nazione) al contrario di quelli costituiti non necessita di alcuna legittimazione (né regolamentazione) “giuridica”; “alla volontà nazionale basta invece soltanto la propria realtà per essere sempre legittima. Essa è la fonte di ogni legalità”, cioè non è tenuta a osservare alcuna forma e/o procedimento giuridico previamente stabilito[3]. Inoltre anche le “tecniche” dell’interpretazione costituzionale sono oggetto di vaste discussioni, tendenti ad escluderne talune (come per l’interpretazione evolutiva, che in particolare nelle costituzioni rigide, può costituire violazione della competenza dell’organo di revisione costituzionale) o a ridimensionarne altre (come quella letterale).

Ma la differenza che appare più evidente e peculiare dell’interpretazione costituzionale rispetto a quella legislativa è quella relativa all’oggetto interpretato. Nell’interpretazione della legge o di un atto ci si trova dinanzi ad un testo; nel caso della legge anche ad un sistema legislativo, comunque – almeno in un sistema di diritto moderno continentale[4] -, coordinato o coordinabile e valutabile secondo criteri logico-sistematici.

Tuttavia nel caso della Costituzione non è chiaro, in primo luogo, cosa sia costituzione e cosa no. La dicotomia tra costituzione materiale e formale ne è uno degli esempi. In secondo luogo è controversa anche la distinzione tra costituzione e leggi costituzionali[5]. In terzo luogo vi sono disposizioni costituzionali non scritte; inoltre alcune leggi – come la legge elettorale per la scelta degli organi rappresentativi dello Stato – rientrano nella materia costituzionale, ma non sono “norme costituzionali” (nel senso della rigidità); o queste non sono proprio espresse in un testo, come le “esigenze istituzionali latenti”, ovvero, (come di seguito) i presupposti della costituzione, ovvero le decisioni costituzionali implicite. Appare decisivo il fatto quindi che altro é interpretare un testo (un atto, o un documento) altro è interpretare qualcosa che non lo è.

  1. All’inizio del periodo storico caratterizzato (tra l’altro) dal diffondersi delle costituzioni scritte, de Maistre stigmatizzava la convinzione di “credere che una costituzione politica potesse essere scritta e creata a priori, mentre ragione ed esperienza si uniscono per dimostrare che una costituzione è un’opera divina e che proprio ciò che vi è di più fondamentale e di più essenzialmente costituzionale nelle leggi di una nazione non potrebbe mai essere scritto.” [6]. E dopo aver illustrato gli argomenti a favore della propria tesi enuncia le proposizioni che ne conseguono: “1- Le radici delle costituzioni politiche esistono prima di ogni legge scritta.

2- Una legge costituzionale non è e non può essere che lo sviluppo o la sanzione di un diritto preesistente e non scritto.

3- Ciò che vi è di più essenziale, di più intrinsecamente costituzionale e di veramente fondamentale non è mai scritto, e neppure potrebbe esserlo, senza esporre a pericolo lo Stato.

4- La debolezza e la fragilità di una costituzione sono direttamente proporzionali proprio alla molteplicità degli articoli costituzionali scritti.”[7] E in questa convinzione ironizza su chi crede “che i legislatori siano uomini, le leggi pezzi di carta, e le nazioni possano essere costituite con l’inchiostro. Esse mostrano invece che la scrittura è costantemente un segno di debolezza, di ignoranza o di pericolo; che quanto più una istituzione è perfetta, meno scrive”[8] .

Smend partendo dal proprio peculiare concetto di costituzione afferma “La Costituzione è l’ordinamento giuridico dello Stato, più precisamente della vita in cui esso ha la sua realtà vitale, cioè del suo processo d’integrazione. Il senso di questo processo è la sempre nuova produzione della totalità di vita dello Stato, e la costituzione è la normazione tramite leggi (gesetzliche Normierung) di singoli aspetti di questo processo”[9]e, per cui “La corrente di vita politica spesso può giungere a questa riuscita per vie diverse e non propriamente costituzionali: in questo caso l’adempimento del compito d’integrazione, posto dalle leggi dello spirito rispetto al valore come dagli articoli della costituzione, corrisponderà, nonostante queste singole deviazioni, al senso della costituzione”; ne deriva che “Dunque il senso stesso della costituzione, la sua intenzione tendente non al particolare, ma alla totalità dello Stato e alla totalità del suo processo d’integrazione, non soltanto consente, ma addirittura esige quell’interpretazione elastica, suppletiva della costituzione, che è di gran lunga lontana da ogni altra interpretazione del diritto[10] (i corsivi sono nostri).

Schmitt, come noto, sostiene che “Un concetto di costituzione è possibile soltanto se costituzione e legge costituzionale vengono distinte. Non è ammissibile lo scomporre la costituzione prima in una molteplicità di singole leggi costituzionali e poi definire la legge costituzionale per qualche contrassegno esteriore o addirittura a seconda del metodo della sua revisione. In questo modo va perso un concetto essenziale della dottrina dello Stato e il concetto fondamentale della dottrina della costituzione”[11]; la costituzione nasce da un atto del potere costituente “Questo atto costituisce la forma e la specie dell’unità politica, la cui esistenza è presupposta. Non è che l’unità politica si forma proprio perché «è data una costituzione». La costituzione in senso positivo contiene soltanto la determinazione consapevole della forma speciale complessiva, per la quale l’unità politica si decide”; una costituzione “siffatta è una decisione consapevole che comporta di per sé e si dà essere da se stessa l’unità politica tramite il titolare del potere costituente”[12]; onde “La costituzione vige in forza della volontà politica esistente di chi la pone. Ogni specie di normazione giuridica, anche la normazione legislativo-costituzionale, presuppone come esistente una simile volontà”[13]. La conseguenza è che “ogni unità politica esistente ha il suo valore ed il suo «diritto all’esistenza» non nella giustezza o utilizzabilità delle norme, ma nella sua stessa esistenza. Ciò che esiste come entità politica, è – giuridicamente considerato – meritevole di esistere. Perciò il suo «diritto all’autoconservazione» è il presupposto di ogni ulteriore discussione; essa cerca di conservarsi soprattutto nella sua esistenza, «in suo esse perseverare» (Spinoza); essa protegge «la sua esistenza, la sua integrità, la sua sicurezza e la sua costituzione» – tutti i valori esistenziali”[14]. La costituzione è quindi una decisione, non una legge od una norma “Prima di ogni normazione c’è una decisione politica fondamentale del titolare del potere costituente, cioè in una democrazia del popolo, nella monarchia pura del monarca”[15]. Le disposizioni più importanti non sono norme: “frasi come: «Il popolo tedesco si è data questa costituzione»; «Il potere dello Stato emana dal popolo»; oppure «Il Reich tedesco è una repubblica», non sono leggi e quindi nemmeno leggi costituzionali. Non sono neppure una sorta di leggi-quadro o di principi fondamentali. Ma non per questo sono qualcosa di insignificante o di scarsa importanza. Sono più che leggi e normazioni, ossia le decisioni politiche concrete, che fissano la forma dell’esistenza politica del popolo tedesco e formano il presupposto fondamentale per tutte le altre normazioni, anche quelle delle leggi costituzionali. Tutto quello che c’è all’interno del Reich tedesco nella legalità e nella normatività, vale soltanto sulla base e nell’ambito di queste decisioni. Esse formano la sostanza della costituzione”[16] (i corsivi sono nostri).

L’errore della dottrina dello Stato è “non riconoscere l’essenza di queste decisioni e al di là della sensazione che c’è ancora qualcosa d’altro che una normazione legislativa parlare «conseguentemente» di «mere proclamazioni», «mere dichiarazioni» o addirittura «luoghi comuni». La costituzione stessa in questo modo si dissolve da ambo i lati in un nulla: da una parte alcune locuzioni più o meno di buon gusto, dall’altra una quantità di leggi disparate e caratterizzate esteriormente. Esattamente considerate, queste decisioni politiche fondamentali sono anche per una giurisprudenza positiva l’elemento decisivo e quello veramente positivo[17] (i corsivi sono nostri).

Kelsen, pur notoriamente sostenendo l’opportunità del Giudice (e della Giustizia) costituzionale, non si nascondeva le difficoltà relative, in particolare per le disposizioni di principio e quelle di “valore”. Scrive infatti che “Proprio nel fatto che la considerazione o l’incorporazione di questi principi, ai quali finora, nonostante ogni sforzo, non è stato possibile dare un contenuto piuttosto univoco, non hanno e non possono avere nel processo di creazione del diritto, per motivi indicati, il carattere di una applicazione del diritto in senso tecnico, si trova la risposta al problema se possono essere applicati da un organo di giustizia costituzionale” di guisa che “Proprio nel campo della giustizia costituzionale esse possono svolgere tuttavia un ruolo assai pericoloso: Le disposizioni costituzionali che invitano il legislatore a conformarsi alla giustizia, all’equità, all’uguaglianza etc. potrebbero essere infatti interpretate come direttive riguardanti il contenuto delle leggi: naturalmente a torto, giacchè sarebbe così solo se la costituzione stabilisse una direttiva precisa, se indicasse essa medesima un qualunque obiettivo criterio”[18]

Secondo Santi Romano “La costituzione, nel suo primo aspetto, meglio che come norma, si presenta come un edificio o un complesso di ingranaggi, nel quale si concreta la struttura fondamentale di quella istituzione che si chiama Stato e, quindi, lo stesso Stato. Ma, essendo lo Stato niente altro che un ordinamento giuridico, essa non è che la parte essenziale di quest’ultimo”[19]; “Costituzione in senso materiale e diritto costituzionale sono espressioni equivalenti. Costituzione, infatti, significa, come si è detto, assetto o ordinamento che determina la posizione, in sé e per sé e nei reciproci rapporti che ne derivano, dei vari elementi dello Stato, e, quindi, il suo funzionamento, l’attività, la linea di condotta per lo stesso Stato e per coloro che ne fanno parte o ne dipendono”[20] (i corsivi sono nostri).

Hauriou osservava che la Costituzione della Terza repubblica francese (cioè le tre leggi del 1875 e loro modifiche) non comprendeva che venticinque articoli, limitati alle sole attribuzioni e rapporti dei poteri pubblici, ma la questione più interessante era se si riducesse solo a quelli; in particolare perché non vi era alcun elemento di “costituzione sociale” la cui conseguenza logica era che “i diritti individuali dei francesi, non avrebbero più alcuna esistenza costituzionale”[21].

La conclusione che ne trae – come la grande maggioranza dei giuristi dell’epoca della Terza Repubblica – è che la dichiarazione dei diritti, o meglio la constitution sociale che essa delinea, è diritto vigente malgrado non fosse menzionata dalle leggi costituzionali del 1875.

Questa elencazione – ovviamente non esauriente – delle tesi sostenute da autorevoli giuristi mostra che l’oggetto dell’interpretazione costituzionale differisce radicalmente da quella dell’esegesi legislativa. Vuoi perché  l’oggetto non è una norma, o perché non è espressa in un testo, ovvero perché è controverso se, in casi determinati, sia riconducibile alla costituzione o alla materia costituzionale. Inoltre nella costituzione, nel potere costituente o nel processo costituente c’è preponderanza di elementi “fattuali”, esistenziali e storici (a secondo di come li si sia denominati) il cui connotato comune, al di la delle differenze, è di non essere riconducibili a un dover-essere, e comunque a fatti (giudiziariamente) non valutabili, ma che, al contrario, sono fondanti il diritto.

  1. Ancor più questi giudizi mostrano l’attualità delle considerazioni di de Maistre. Quanto alla prima, cioè che le radici delle costituzioni politiche esistono prima di ogni legge scritta, questa appare sia dal rapporto potere costituente/costituzione, in cui l’esistenza di quello è condizione (di esistenza) e validità di questa; e la cui validità si misura sulla legittimità, e in genere, sulla conformità all’ethos prevalente nella comunità. Quanto alle considerazioni sulla costituzione scritta, è vero che le disposizioni più intrinsecamente costituzionali e realmente fondamentali (per lo più) non sono scritte; e che a scriverle c’è rischio di esporre a pericolo lo Stato, perché ciò rende più fragile l’assetto costituzionale. E questo, si può aggiungere, anche per le costituzioni moderne (intendendo come tali quelle vigenti dal XIX secolo).

A rendere tuttora valida la tesi di de Maistre è la stessa rassegna – meramente esemplificativa – sopra ricordata. Infatti i giuristi (e altri) ivi ricordati, fanno riferimento, come fondamento delle carte costituzionali scritte, a qualcosa che non è scritto; e spesso, che non ha carattere giuridico. Lo stesso Kelsen, nel ritenere non esser possibile “accettare l’estremismo paradossale della celebre tesi di Lassalle che la costituzione di uno stato siano, in definitiva, l’esercito e i cannoni dei quali il governo dispone – giacché essa sottovaluta la forza delle idee e soprattutto delle idee giuridiche – bisogna tuttavia concedere che la costituzione esprime le forze politiche di un determinato popolo, è un documento che attesta la situazione di equilibrio relativo nella quale i gruppi in lotta per il potere permangono fino a nuovo ordine[22] (i corsivi sono nostri).

Nello stesso senso è stato individuato che “il principio normativo originante e giustificante un ordinamento, cioè la costituzione per eccellenza, consiste nella forza normativa della volontà politica, con applicazione realistica del principio di effettività”[23].

Dalla “forza normativa del fattuale” alla realtà della Nazione che ha la propria legittimità, fino ai cannoni di Lassalle è tutto un fondare la Costituzione scritta su elementi non scritti e neppure giuridici, nel senso di fondare il diritto senza essere (in larga misura) giustiziabili (Justiciables). Quel che parimenti interessa è che proprio tali elementi e presupposti non scritti sono quelli squisitamente costituzionali nel senso di co-stituire (cioè tenere insieme in modo stabile e ordinato) una comunità politica.

Quanto alla scrittura come elemento di debolezza e fragilità della Costituzione, occorre dire che è presupposto del ragionamento di molti giuristi, in particolare per quanto riguarda l’essenza dell’ordinamento (e quindi della costituzione), che l’esistenza di un testo scritto non sia necessario. Ciò che è essenziale (e insostituibile) per l’ordine politico e sociale è che vi sia un insieme organizzato di autorità, organi, uffici che assicurino l’unità dell’agire e la regolarità dei rapporti sociali. Come scrive Santi Romano “il diritto, prima di essere norma, prima di concernere un semplice rapporto o una serie di rapporti sociali, è organizzazione, struttura, posizione della stessa società in cui si svolge e che esso costituisce come unità, come ente per sé stante[24] (i corsivi sono nostri).

Ed è nota la tesi di Carré de Malberg che non condivideva la costruzione kelseniana di una gradazione di norme dato che non teneva conto della “gradazione” degli organi statali[25].

In realtà non è soltanto vero che necessario (e sufficiente) perché esista un ordinamento è che vi sia un sistema organizzato di rapporti di subordinazione e coordinazione (“la complessa e varia organizzazione dello Stato” di Santi Romano); e proprio perciò che questi rapporti e comandi siano espressi in norme è opportuno, ma non indispensabile all’esistenza dell’ordinamento; ma ne consegue – spesso – che il carattere normativo (e scritto), come sosteneva de Maistre, non è opportuno, anzi corre il rischio di rivelarsi dannoso (e insieme o no, anche ultroneo).

Anzi procedendo in modo discendente giù per li rami dell’ordinamento, si va dal non scritto allo scritto come dal non justiciable (nel senso sopra precisato) al justiciable.

Ad esempio, per il potere costituente, l’apice della piramide dell’ordinamento: si può solo sapere chi sia (il fatto è storico) e può essere designato nella costituzione (designazione che vale fin quando la Storia non ci ripensa), ma non tollera limiti giuridici né di essere tenuto all’osservanza di quelli; cioè non è giuridificabile né justiciable. Passando al sovrano (ove si acceda alle teorie che vedono anche in un potere costituito – e non solo nel costituente – i connotati della sovranità) buona parte degli atti dello stesso si fondano su mere autorizzazioni, indeterminate (o quasi del tutto) nei presupposti e nel contenuto (la dittatura commissaria del Presidente del Reich secondo Schmitt)[26].

Le stesse espressioni della Costituzione in relazione alle attribuzioni (ed alle limitazioni) degli organi “apicali” in particolare quelli a carattere rappresentativo sono ampie nel conferimento dei poteri, ma scarne e vaghe nell’indirizzare i contenuti (questo vale in particolare per le dichiarazioni cosiddette “programmatiche” delle costituzioni).

L’applicazione della norma ad un caso concreto, nel senso – variamente qualificato – della sussunzione di questo a quella (cioè il modo più “tipico” dell’applicazione/gradazione tra norme) è così realmente possibile solo per gli atti del potere giudiziario di uno Stato di diritto, en quelque façon nul come sosteneva Montesquieu e in forma più limitata per il potere governativo-amministrativo, tenuto conto della discrezionalità nell’an, nel quid o nel quomodo che compete in misura maggiore o minore, totale o parziale, alla pubblica amministrazione secondo le norme di conferimento (e regolanti l’esercizio) delle relative potestà.

Questa costante (dal non justiciable al justiciable), verificabile dall’esame del diritto e della legislazione (costituzionale e ordinaria), in particolare per i casi d’emergenza, corrisponde ad una esigenza razionale perché reale. Il diritto, come scriveva Jhering, serve alla vita[27]. Di qui la necessità sia di autorizzazioni indeterminate che di azioni di salvataggio per salvare l’esistenza delle comunità; come scrive Jhering “Il criterio per valutarle è insito nel loro successo. Dal foro del diritto, che le ha condannate, appellano al tribunale della storia e, fino ad oggi, questa istanza è sempre stata considerata da tutti i popoli come l’istanza suprema. La sentenza da essa pronunciata è decisiva e definitiva”[28]. Questo è il punto in cui “il diritto sfocia nella politica e nella storia”[29].

Alla stessa funzione adempie secondo Santi Romano la necessità “che implica un’esigenza esplicita ed impellente di bisogno sociale, che imponga una determinata condotta in difesa delle istituzioni vigenti” questa “acquista il carattere di una norma giuridica quando si esplica come un’esigenza non puramente razionale, ma istituzionale”[30].

La necessità, così, non solo è diritto non scritto, ma è connaturale all’istituzione, anzi all’essenza di questa.

L’indeterminatezza della “norma” e la sua gradazione inversa (dall’indeterminato al determinato) serve a salvaguardare proprio l’istituzione che ha il proprio fondamento non nel diritto, ma nella storia; e quindi, ai livelli apicali non è (o non è in parte) oggetto di coazione giuridica (e predeterminata dal diritto). Così dalla totale non giuridificabilità, come per il potere costituente e la costituzione, si passa per gradi a norme sempre più determinate perché cresce l’esigenza di salvaguardare un certo grado di certezza (e prevedibilità) attraverso un diritto via via più ricco di contenuti espressi (di comandi applicabili) e così definiti o esattamente definibili: analogamente all’albero di Porfirio che dalla sostanza arriva alla classe indivisibile (o all’individuo concreto) perdendo di estensione e arricchendosi in intensione (cioè di contenuto), così nel diritto indeterminatezza e certezza (nel senso weberiano di calcolabilità e prevedibilità) sono inversamente proporzionali. E ciò che determina il calare dell’una e il progredire dell’altra è la prossimità al momento genetico dell’istituzione (alla “storia”, al “fatto” , alla “vita”).

  1. A questo punto si potrebbe pensare che non solo de Maistre aveva colto nel segno, ma che l’interpretazione della Costituzione è una chimera, perché più è praticabile, meno l’oggetto su cui si esercita è importante e “decisivo”. Il che in subiecta materia è naturale perché a far le costituzioni non sono i giuristi ma la Storia (cioè i più volte ricordati cannoni di Lassalle); ed avendo i giuristi al massimo la funzione, come scriveva sempre Lassalle, di vergare su un foglio di carta le decisioni prese dalla politica, il risultato non è dei più governabili.

Comunque anche se le norme scritte e dal contenuto certo hanno un ruolo costituzionale limitato, ciò non toglie che all’interprete possa essere consentito ricavare un senso (e un significato) da quanto è non scritto e non normativo (o indeterminato) nella Costituzione.

Infatti, e cominciando dalle espressioni a carattere non normativo (quelle che Schmitt definisce le decisioni fondamentali nella costituzione di Weimar)[31] è certo che espressioni come quelle dell’art. 1 della Costituzione italiana vigente: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nella forma e nei limiti della Costituzione” esclude tutta una serie di modifiche che, stante il potere di revisione costituzionale potrebbero essere apportate alla medesima, possano esserlo, appunto, in sede di procedimento di revisione. Con ciò ciascuna di tale modifiche comporta non una revisione della Costituzione, ma un mutamento (radicale) della medesima, cioè una Costituzione nuova. È escluso quindi che la Costituzione vigente sia compatibile con la forma monarchica di governo; che possa trasformarsi in una Repubblica sovietica (uno Stato del socialismo reale) perché un ordinamento comunista-leninista non è una democrazia ma è la forma di oligarchia (ideocratica) più conseguente espressa dalla modernità; o in uno Stato a partito unico fascista o nazionalsocialista; che sovrano possa essere un potere costituito; che uno straniero, o un potere anche non statale possa appropriarsi della sovranità o i poteri costituiti cedergliela. Questo per le di essa determinazioni che appaiono più sicure (secondo la regola in claris non fit interpretatio) tralasciando quelle più controverse.

Nonostante la forma (e il contenuto) non normativo, questo articolo è, comunque, estremamente ricco di senso e, in larga parte, interpretabile in modo univoco[32].

Così del pari le decisioni di cui alla maggior parte dei “principi fondamentali” della costituzione vigente.

Peraltro occorre considerare che l’indeterminatezza delle disposizioni è spesso parziale, a differenza delle norme legislative, le quali consentono (per lo più, ma non sempre) un’applicazione “calcolabile”; ovvero senza zone d’indeterminatezza (e quindi di “libertà” anche dell’organo chiamato ad applicarle). Ciò non toglie che anche una disposizione assai vaga, come in genere quelle attributive di competenza, ad esempio l’art. 70 della costituzione vigente (la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere) permette:; a) di escludere che possano esercitarla altri organi, non abilitati a ciò dalla Costituzione; b) che lo possa fare una Camera da sola. Oltre, s’intende, agli altri limiti derivanti dalla Costituzione e dal suo carattere rigido. Queste conseguenze operano per lo più in negativo: nel senso che non è determinato ciò che l’organo può (e/o deve) fare ma è determinato ciò che è vietato (sia riguardo alla competenza che al contenuto).

Il che comunque è di notevole utilità per l’interprete dato che vale a sgombrare il campo da una considerevole parte dei dubbi e delle possibili lacune che si possono presentare; anche perché la logica della reiezione (quella rivolta ad escludere ragionamenti fallaci o scegliere tra più soluzioni la più probabile) ha una larga applicazione – anche se poco consapevole- in sede giudiziaria (e giuridica)[33].

Ma ciò che più conta è che, anche in assenza di redazione (proclamazione, disposizione, norma) scritta è possibile enucleare delle norme (comandi) dai presupposti fondamentali, condizionanti la validità anche di quelle scritte e utili, e spesso necessari, a chiarirne il significato.

In un certo senso, operando similmente a come fatto dai teorici del diritto naturale, e in particolare dai teologi della Seconda Scolastica. Questi “svilupparono in effetti una dottrina dello Stato scevra di qualsiasi presupposto dogmatico, su fondamenti puramente filosofici. Anche i maggiori teorici di questa tendenza sono d’accordo nel ritenere che l’unione statale abbia le sue radici nel diritto naturale, che in forza di questo spetti alla collettività associata la sovranità sui suoi membri, e che ogni diritto dei governanti provenga dal volere della collettività alla quale il diritto naturale attribuisce la facoltà e l’obbligo di trasmettere i propri poteri”[34].

In effetti come i teologi sostenevano che Dio ha creato l’uomo essere naturalmente sociale, ha voluto anche il potere pubblico, e che nessuna società può conservarsi senza un’autorità dotata del potere di comandare a ciascuno, e quindi la necessità del potere consegue dalle leggi stesse che condizionano l’ordine sociale. Leggi di cui Dio è l’autore[35]. E proprio perché Dio ne è l’autore sono immodificabili dall’uomo, che tuttavia può, nell’esercizio della libertà politica darsi forme politiche diverse, nei limiti delle leggi di natura che condizionano l’ordine sociale e politico. Ad esempio l’intera costituzione, ancor più se – come quasi tutte le costituzioni moderne – frutto di una decisione deliberata, presuppone l’esistenza sia della comunità politica che del potere costituente. E l’uno e l’altro non sono “modificabili” attraverso una procedura giuridica perché sono essi a costituire le condizioni minime perché una costituzione (atto del potere costituente) esista e abbia validità; con l’ulteriore conseguenza che ogni norma costituzionale e in generale la costituzione stessa debbano interpretarsi nel senso di presupporre l’esistenza della comunità politica e del pouvoir constituant. Sono questi imperi causae et fundamenta naturalia: senza i quali non avrebbe senso né scopo un documento chiamato “costituzione”. Ma, proprio perciò la costituzione non può interpretarsi nel senso che neghi (o porti alla rovina) l’esistenza dello Stato – cioè della comunità organizzata – né del potere costituente. Anche perché una simile conclusione interpretativa ha altrettante possibilità di essere efficace, quanto le pillole contro il terremoto: non è nel potere del diritto e tanto meno dell’interprete di questo creare unità politiche o poteri costituenti (semmai, lo è – in una certa misura – di regolarli).

Comunità e poteri non sono enunciati normativi, ma realtà concretamente esistenti: sono tali perché esistono, e in, quanto esistenti, hanno il diritto di essere quel che possono essere (Sieyès)[36] ossia di “conformarsi” come vogliono, nell’ambito del possibile.

Compito del diritto è regolare l’esistente: per cui presupposto ne è che esista qualcosa da regolare: si può pensare, seguendo Santi Romano, che l’esistente sia contemporaneo al diritto[37], ma è impossibile che questo consista in una forma o una regola giuridica di ciò che non esiste.

Di conseguenza e tenuto conto che “diritto non è l’insieme delle statuizioni consacrate in un testo di legge ed operanti pel solo fatto di tale consacrazione, ma quel complesso ordinato di situazioni e di rapporti che si raccoglie in un centro di autorità, e costituisce il diritto «vivente», valevole come tale anche se contrastante con quello legale, allorché l’osservazione documenti l’avvenuta sua stabilizzazione, non si rende possibile escluderne l’autonomo rilievo. In altri termini quando la categoria del giuridico si collochi sotto il segno della effettività si rende necessario alla sua comprensione l’esame del concreto modo di operare delle istituzioni sociali sottostanti alle norme”[38], ciò che è presupposto, nella costituzione, (cioè è “valevole come tale”) è, confermando l’intuizione di de Maistre, la parte “decisiva” e più “importante” della costituzione stessa. Perché, come scrive Sieyès non ha alcuna necessità di essere conforme al diritto, ma è esso a esserne il presupposto e la condizione di validità.

Ad esempio la regola salus rei publicae suprema lex è tale che, oltre a condizionare il normativo costituisce anche il criterio di validità del medesimo: nel senso che la norma o il complesso di norme, confliggenti con l’esistenza dell’istituzione e della comunità organizzata, sono interpretabili solo nel senso che non contraddicano l’esigenza di salvaguardare l’esistenza della comunità. Tale regola contiene la decisione per l’esistenza (politica) della comunità ed è prevalente rispetto all’osservanza del diritto, anche di quello modellato sui “valori” fatti propri dalla costituzione[39].

  1. Analizzando le varie categorie di “fatti normativi”[40], in primo luogo, vi sono realtà che costituiscono i presupposti della costituzione.

Prima si è ricordato la comunità e il potere costituente; occorre specificare che quest’ultimo non va inteso nel senso di organo (lo può essere, ma che lo sia non è connaturale al concetto), ma come entità concreta che decide (e/o mantiene) la costituzione[41].

Più in generale i presupposti sono quelle realtà necessarie perché lo Stato abbia esistenza: lo Stato e non una determinata forma di governo. La dottrina dello Stato ne ha indicati diversi. Secondo von Seydel “questi requisiti essenziali sono:

“1) Territorio e popolo

2) Dominati da un supremo volere”[42]

Nel pensiero di Hauriou ciò che è essenziale nella Costituzione lo si deduce principalmente da quello che è tale perché esista un’istituzione. Così i tre presupposti necessari perché esista lo Stato sono il potere di un governo centrale (elemento coercitivo); l’unità spirituale della nazione (elemento consensuale); l’«entreprise» della cosa pubblica (elemento ideale). Senza andare all’esame delle diverse teorie – che non sempre identificano come “presupposti” essenziali ciò che s’intende per tali, i quali sicuramente sono un elemento oggettivo, cioè un popolo e uno soggettivo, un potere che organizza e controlla – occorre andare alla distinzione, intrinseca alla dottrina teologica cattolica (e non solo) del XVII secolo tra ciò che è legge di natura (sottratta al volere umano) e ciò che è forma di governo (cioè modellabile e conformabile dalla volontà umana)[43].

Di conseguenza occorre anche andare alla ricerca di ciò che è comunque, per natura, costituzionale, anche se non è regolamentato dalla Costituzione (e neppure menzionato); perché non ha bisogno di una decisione (e ancor meno di una norma) umana per essere costituzione; anche perché, a seguire Santi Romano se è l’esistenza dello Stato a implicare necessariamente la costituzione[44], non è necessaria a uno Stato esistente, una esplicita redazione in un testo di ciò che, per il fatto di esistere, “possiede già”.

Hegel scriveva a tale proposito distinguendo “ciò che è necessario, che cioè una moltitudine sia uno Stato e un potere comune, e ciò che invece è soltanto una particolare modificazione di questo potere e non rientra nella sfera del necessario, bensì appartiene, per il concetto, alla sfera del più o meno bene, per la realtà invece alla sfera del caso e dell’arbitrio”; ciò che non è necessario all’essenza, cioè all’esistenza dello Stato e tuttavia fa parte della “realtà di uno Stato che appartiene al caso si deve ascrivere il modo e la maniera in cui il comune potere statale esiste in un centro unitario. Che il detentore del potere sia una sola persona o più persone; che questa sola o queste molte persone giungano a tale maestà per nascita o per elezione: è indifferente per l’unica cosa necessaria, che cioè una moltitudine formi uno Stato”. Per cui né l’unità del diritto, né il procedimento di formazione delle leggi, né l’organizzazione e le procedure giurisdizionali costituiscono parti essenziali della Costituzione.

Nella Verfassung Deutschlands Hegel delinea – in buona sostanza – come contenuto essenziale di una costituzione statale, l’istituzione di un potere pubblico, assoluto in via di principio, dotato dei mezzi sufficienti a far eseguire le proprie deliberazioni. Senza questi requisiti non esiste Stato, né di conseguenza costituzione dello Stato.

Tesi in larga misura simili sono state ripetute da molti, giuristi e non, che si sono occupati del problema di ciò che è essenziale alla costituzione[45]. Tuttavia è da ricordare che la tesi di G. Burdeau che le “costituzioni, per loro ragione d’essere e loro oggetto, obbediscono a regole ineluttabili”[46]. E tali costanti del contenuto di una costituzione sono l’organizzazione del Potere, e la natura e i fini dell’attività politica dei governanti.

Per cui si può individuare ciò che è essenziale nella costituzione nelle disposizioni necessarie all’esistenza ed all’azione della comunità; le quali non sono solo i presupposti dell’unità politica sopra ricordata. Ciò che veramente conta, ed ha carattere essenziale, è che siano previsti i mezzi perché il potere legittimo sia pure efficace: l’organizzazione concreta e particolare che ne consegue, i modi per assicurare ciò, sono secondari, e variano a seconda del tipo e della forma dell’unità politica.

In buona sostanza esistono – e non potrebbe essere diversamente – dei “fatti di normazione” i quali pur non essendo espressi in un testo, costituiscono diritto e più ancora lo determinano[47].

Questi sono intendibili ed interpretabili, come riteneva Betti, secondo cui l’intendere “concerne «i valori dello spirito oggettivati» in testi e, più in generale, in «forme rappresentative», vale a dire «istituzioni, leggi, riti, strutture e forme strumentali che per la loro stessa destinazione debbono rimanere e rimangono in uso o in vigore». L’interpretazione verte in effetti su queste oggettivazioni del pensiero, che, «come vennero in origine impresse o configurate da uno spirito vivente e pensante, così fanno assegnamento sopra uno spirito capace di intenderne il senso, che nel presente le ritrovi, (…) animandole della sua stessa vita»”[48].

Il che è una prospettiva non frequente, ma non del tutto insolita per il giurista. Dover interpretare non un testo, ma ricavare il precetto da una situazione di fatto (non quindi da una norma) è cosa che, per l’appunto ricorre con maggior frequenza che in altri casi nel diritto pubblico. In particolare ne costituiscono un esempio le concezioni del diritto naturale del XVI – XVIII secolo (sopra cennate), con la distinzione tra ciò che, venendo direttamente da Dio, quale creatore della stessa natura (e della legge naturale) non è modificabile; e quello che appartiene all’uomo e al potere umano[49]; onde mentre il secondo può essere espresso in un testo ed avere forma normativa, per il primo ciò è ovviamente escluso: se ne può cogliere il senso solo attraverso la ragione.

Nel duplex principium per cui Leibnitz accostava il diritto alla teologia, cioè la ratio (con la conseguente teologia naturale e la giurisprudenza naturale) e la scriptura, cioè “un libro contenente rivelazioni e comandamenti positivi”[50], è quindi giocoforza servirsi – per lo più – della prima.

D’altra parte la distinzione tra diritto di natura e legge positiva (con la necessità del primo) ritorna in altri pensatori. Per tutti ricordiamo Spinoza[51].

Ciò stante occorre ripartire da quella considerazione di Hauriou, secondo il quale il diritto naturale non è tanto una collezione di precetti di giustizia, quanto un corpo di diritto (corps de droit) costituito insieme di ordine sociale e di giustizia[52]. Anche in questo è ravvisabile la concezione cristiana dell’ordine, naturalmente gerarchico[53]: se questa non trascura la giustizia (quae sint imperia sine justitia nisi magna latrocinia?), la colloca sempre nel quadro di un’esistenza ordinata.

Ma non ordinata (solo) dalla legge positiva: ordinata perché conforme all’ordine sociale qui naturam sequitur, proprio perciò inderogabile (o, in pochi casi, derogabile a proprio danno e per durata limitata)[54].

Per cui è d’uopo applicare, in difetto di scriptura, la ratio a quelle “leggi” dell’ordine sociale che sono costitutive di comunità ordinate e proprio perché tali non sono derogabili “positivamente”, ma anzi determinano esse ciò che può essere disposto dalla legge positiva, compresa quella costituzionale.

Di più: la stessa costituzione positiva (cioè quella statuita) deve interpretarsi in modo conforme a quella, e il senso delle disposizioni (positive) non può derogarvi: ad esempio ritorniamo sulla massima salus rei publicae suprema lex.

Interpretare le norme costituzionali in modo che, per l’appunto, mettano in forse l’unità e l’esistenza politica non costituisce, come prima cennato, un’interpretazione valida né, comunque, solida: perché, come scriveva Jhering “al di sopra del diritto è la vita” per cui, nelle situazioni d’emergenza “la forza sacrificherà il diritto per salvare la vita”[55]. E un concetto assai simile è espresso da Santi Romano con la sua teoria delle necessità. E si potrebbe aggiungere anche da Manzoni che lo fa esprimere da Adelchi morente “Una feroce forza il mondo possiede, e fa nomarsi dritto”.

E la ratio in tal caso non è una scelta obbligata solo dall’assenza di scriptura; lo è anche perché gran parte di quelle “leggi” non sono frutto di decisione (e di volontà) umana, ma di necessità, a meno di non volere – il che (raramente) succede – la distruzione dell’unità politica e/o dell’ordine sociale della comunità[56].

Quindi nell’espressione – presa a mo’ d’esempio e su cui è d’uopo ritornare – salus reipublicae suprema lex la sapienza romana affermava anche l’essenza giuridica di quella massima. Al contrario di quei giudizi (a quella contrapposti) che tendono a escludere dal mondo giuridico massime e regole non riconducibili a “norme” o a “leggi positive”.

A far l’analisi delle quali si potrebbe affermarne la coerenza ai presupposti da cui partono: se si pensa invero che il diritto sia riducibile (solo) a norme statuite (poste in essere) da organi competenti in base a regole prestabilite, massime come quella, non statuite da alcun organo competente, sono fuori del diritto. Ove, di converso, si prenda come fondamento del diritto l’istituzione, è chiaro che quella massima è giuridica, e al massimo grado, perché tende alla salvaguardia dell’istituzione cioè, secondo il notissimo paragone della scacchiera di Santi Romano, del giocatore che muove le pedine (le norme) sulla scacchiera. Per cui queste sono determinate, “derivate” e “secondarie” rispetto a quella che è la principale e primaria “essenza” del diritto.

A costituire l’istituzione e mantenerla (in suo esse perseverare) è il rispetto (e l’attivazione) di massime come quella: mentre hanno un carattere secondario, spesso non costituente alcunché, e talvolta di rilievo decisamente marginale non poche delle norme inserite nei testi costituzionali. All’uopo è istruttivo leggere le sentenze della Corte Costituzionale la quale, come giudice costituzionale, con quotidiana frequenza, per proprio compito, ha la funzione di verificare la conformità alle norme costituzionali (intese generalmente come diritto statuito e scritto) di quelle legislative.

Ne esce fuori una rassegna di decisioni che con l’esistenza, la forma, il tipo dell’unità politica non hanno nulla a che vedere.

Possiamo ricordare, limitando la ricerca, per ragioni di spazio, agli ultimi tre anni, che la Corte si è occupata del “diritto di precedenza dei lavoratori stagionali nelle assunzioni presso la medesima azienda e con la medesima qualifica” (Corte Cost., 04/03/2008, n. 44): ovvero dei requisiti del personale dei gruppi consiliari della Regione Abruzzo: “È incostituzionale l’art. 1, 22º comma l.reg. Abruzzo 8 giugno 2006 n. 16, nella parte in cui, abrogando le parole «in possesso dei requisiti per l’accesso alla categoria D» nell’art. 6, 3º comma, l.reg. Abruzzo 9 maggio 2001 n. 18, prescinde, per l’assegnazione della qualifica di responsabile delle segreterie dei gruppi consiliari e con riguardo ai soggetti esterni all’amministrazione, dal possesso dei suddetti requisiti, richiesti invece per i dipendenti interni” (Corte cost., 21/02/2008, n. 27), del registro regionale (marchigiano) degli amministratori di condominio “Sono incostituzionali gli art. 2, 1º comma, e 3, 1º e 3º comma, l.reg. Marche 9 dicembre 2005 n. 28, nella parte in cui prevedono l’istituzione, presso la struttura competente della giunta regionale, del registro regionale degli amministratori di condominio e di immobili in cui possono iscriversi coloro che siano in possesso di determinati requisiti professionali” (Corte cost., 02/03/2007, n. 57) e del personale in esubero da inserire nei ruoli del S.S.N. (regione Marche): “Sono incostituzionali gli art. 1, 2 e 3 l.reg. Marche 24 febbraio 2004 n. 4, nella parte in cui disciplinano l’inserimento nei ruoli del ssn del personale, già assunto con contratto a tempo indeterminato da unità operative o strutture sanitarie private, che risulti in esubero a seguito dei processi di riconversione o disattivazione o soppressione delle predette unità e strutture” (Corte cost., 10/05/2005, n. 190).

E così via: quanto sopra citato è una minima parte della minutaglia che costituisce il lavoro quotidiano della Corte Costituzionale.

Viene naturale la domanda: cos’ha di costituzionale il registro degli amministratori di condominio o gli esuberi del personale delle cliniche marchigiane (e così via)? È chiaro che la ragione di tanto lavoro è soltanto la presenza nel testo della Costituzione di molte norme che hanno il carattere (e la rigidità) di legge costituzionale, ma “costituiscono” poco o niente.

E il ragionamento si può fare anche partendo dall’altro corno del dilemma: quante sono le sentenze della Corte in cui ci si occupa delle decisioni politiche fondamentali (nel senso di “costituire” le forme e il tipo dell’unità politica)? Praticamente (quasi) nessuna. Più si sale verso il fondamento, il nocciolo duro della forma politica, più gli interventi della Corte Costituzionale si rarefanno: ad avvicinarsi, e nemmeno tanto, all’Empireo, cessano del tutto.

Per cui, come sopra cennato è giuridica nel senso ricordato in primo luogo quella massima – ed altre consimili -, come implicito in quel suprema lex: suprema proprio perché superiore a tutte le altre. E la cui superiorità è comprovata non solo dalla possibilità – anzi dal dovere – di “rompere la costituzione”, o di derogare e sospendere il diritto positivo (anche non costituzionale) ove lo richieda la salvezza dello Stato ma dal fatto che in base a quella suprema lex l’istituzione richiede, nei casi d’urgenza, anche il sacrificio della vita: quel “sacro dovere” che anche nella vigente Costituzione (statuita), l’art. 52 prescrive.

Il fatto che principi come quello siano considerati meta – o pre-giuridici – è condivisibile solo in parte. Vale per concetti e massime del genere quel che si può affermare della sovranità: che è, a un tempo, esterna ed interna al diritto, vi “partecipa”. Se, come scriveva von Seydel “il volere sovrano è sempre un volere sopra lo Stato, non un volere dello Stato”, è pur vero che una volta voluto, diventa volere dello Stato e perciò diritto. Per ragioni analoghe Kant sosteneva che “il sovrano nello Stato ha verso i sudditi soltanto diritti e nessun dovere (coattivo)[57], per cui c’è un rapporto giuridico tra l’uno e gli altri, per cui il primo ha solo diritti e i secondi solo doveri. Il sovrano è così il punto d’Archimede dell’ordinamento giuridico; e la massima salus rei publicae… è la clausola “costitutivo-conservativa” in virtù della quale la protezione dell’esistenza (collettiva) prevale sulla legislazione positiva, anche costituzionale. Coincidendo, secondo Santi Romano il concetto d’istituzione con quello d’ordinamento, questa clausola è così giuridica, perché costitutivo-conservativa dell’esistenza della comunità organizzata, politicamente e giuridicamente, nell’istituzione.

Scriveva von Seydel, quanto alla massima suddetta “Questo limite del volere sovrano però non è giuridico, poiché il diritto comincia soltanto dal sovrano, ma naturale, ossia derivante dalla natura della sovranità stessa. Tosto quindi che la volontà del sovrano oltrepassa questi suoi limiti naturali, diventa egoistica (tirannia, governo di classe) e si mette in contraddizione con gli interessi collettivi dei cittadini, essa distrugge la base dello Stato, e incorre in contraddizione con la sua propria natura[58]. Quindi la massima suddetta è “di diritto naturale” (come affermava – in termini simili – Spinoza); ma è anche un comando giuridico, almeno, nei confronti dei poteri costituiti – tra i quali quelli che hanno il potere d’interpretare la Costituzione.

Per cui non pare possibile ridurre l’interpretazione della costituzione a quella del diritto scritto (legislativo). L’interpretazione del quale, è (fondamentalmente) quella prescritta dall’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale: norma che per l’appunto è pensata per un diritto scritto, statuito (e in larga misura codificato): ma è proprio perciò di applicazione assai difficile quando non si tratta di esegesi di testi, ma di principi, massime, usi, non codificati in un testo e – in larga misura – neppure codificabili.

Ove se ne espunga la parte non-scritta, il risultato è un’interpretazione spesso non solo fallace, ma anche inutile, perché inidonea a comprendere il senso del diritto “vivente”, espresso nell’istituzione statale.

Si può rivolgere a una tesi del genere la critica analoga a quella rivolta alla teoria normativista: che riducendo l’interpretando e interpretabile al normativo “se ne perde per strada, per così dire, qualche pezzo troppo importante per essere trascurato”[59].

E che questi, come scriveva Lassalle, siano dei bei pezzi di costituzione, anzi la maior pars, non appare dubbio: a conferma della terza tesi (sopra citata) di de Maistre.

La contraria tesi, molto frequentata è conseguente all’identificazione tra diritto e norma, e di norma intesa come comando statuito: per cui essendo (quasi) tutto il diritto statuito, si identifica questo con quello, cioè la parte con il tutto. Come scriveva Max Weber il potere (razionale-legale) poggia su certi presupposti, tra cui “che ogni diritto sia nella sia essenza un cosmo di regole astratte, e di norma statuite di proposito, che la giurisdizione costituisca l’applicazione di queste regole al caso particolare”. Se questo è vero, in particolare per un diritto moderno (meglio ancora se codificato) tuttavia non lo è, o non lo è altrettanto, né per il diritto (in genere) né, anche nella tarda modernità, per il diritto costituzionale.

Ciò non toglie che, proprio perciò, la problematica che si apre a non seguire la tesi riduttivistica che vede nella costituzione solo un insieme di norme “rigide” (o “meno flessibili”), è ampia.

Infatti interpretare norme (scritte) è sicuramente più agevole, e supportato da una notevole – spesso bimillenaria – dottrina (e pratica) che ha elaborato regole, topoi, “norme di chiusura” e quant’altro; lo è assai meno “interpretare” qualcosa che non è scritto, non è statuito e non ha quasi sempre forma normativa. In fondo è stato visto con ragione che “una forma è necessaria per l’esistenza di una norma”[60].

E, nella specie, di “forma”, intesa in quel senso, c’è poco o nulla. Il positivismo classico si reggeva sulla concezione di un ordinamento di norme positive statuite da organi competenti, la cui volontà formalmente espressa era riferibile – mediatamente – a quella del sovrano. Tutte cose che mancano – per lo più – nel caso delle massime e dei presupposti essenziali o fondamentali. Per capire i quali bisogna partire da metodi, modi e regole – in gran parte – diversi.

Il che è il tema della seconda parte di questo scritto.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] V. C. Mortati voce Costituzione (dottrine generali): “Se l’essenza della costituzione è da riporre, come si è visto, nei valori coessenziali alla forma di Stato, da essi anzitutto l’interpretazione dovrà attingere l’aspirazione necessaria a determinare l’esatto significato dei principi consacrati nel testo, a graduarli secondo il diverso rilievo da assegnare a ciascuno, ad individuare quelli che, se pure non formulati espressamente, sono tuttavia impliciti perché presupposti da singoli gruppi di norme o ricavabili dal sistema, che appunto deve essere ricostruito muovendo dalla considerazione dei valori predetti. La pretesa di esaurire nella costituzione scritta l’intero sistema si è rivelata sempre più illusoria, e sempre più manifesto è apparso il bisogno di attingere da fonti extratestuali gli elementi necessari a fare abbracciare la totalità di vita sociale unificata dalla costituzione nel senso materiale che si è illustrato.” in Enciclopedia del diritto, vol. XI, p. 181.

[2] In effetti il testo dell’art. 1 della Costituzione vigente, decidendo che la sovranità appartiene al popolo, enuncia (implicitamente) che gli compete anche il potere costituente come, e contrario sensu che questo non spetta ad alcun potere costituito diversamente da come è – o meglio era- ad esempio, nelle monarchie assolute.

[3] Oltre che per l’altra ragione, desumibile da Hobbes, che se ci fosse un giudice in grado di statuire sulla legalità dell’esercizio del potere costituente, a essere “titolare” di questo sarebbe esso e non il “popolo” o la “nazione”.

[4] Diverso, in parte, è il caso della common law e del vincolo al precedente:

[5] Per cui vedi la “classica” esposizione di Carl Schmitt nella Verfassungslehre, trad. di A. Caracciolo, Milano 1984 p. 35 e ss.

[6] Essai sur le principe génerateur des costitutions politiques et des autres institutions humaines, trad. it. a cura di Roberto De Mattei, Milano 1975, p.33.

 

[7] Op. cit. pag. 40 (i corsivi sono nostri).

[8] Op. cit. pag. 52 (i corsivi sono nostri).

[9] Verfassung und verfassungsrecht, trad. it., Milano 1988, p. 150.

[10] Op. loc. cit.

[11] Op. cit. p. 38.

[12] Op. cit., p. 39.

[13] Op. cit., p. 40.

[14] Op. cit., p. 41 e “Di fronte a questa decisione esistenziale tutte le regolamentazioni normative sono secondarie”.

[15] Op. loc. cit..

[16] Op. cit., p. 42-43.

[17] Op. cit., p. 43 e prosegue “Le altre normative, le enumerazioni e le delimitazioni delle competenze nei singoli dettagli, le leggi, per le quali per motivi determinati è scelta la forma della legge costituzionale, sono di fronte a quelle decisioni relative e secondarie; la loro particolarità esteriore è caratterizzata per il fatto che possono essere rimosse o modificate soltanto con il procedimento di modificazione aggravata dell’art. 76”.

[18] V. La garantie jurisdictionnel de la Costitution, trad.it. (dal testo francese) ne La Giustizia Costituzionale, Milano 1981 pp.189 ss. e prosegue  “il limite tra queste disposizioni e le tradizionali disposizioni sul contenuto delle leggi che si rinvengono nelle dichiarazioni dei diritti individuali scompare facilmente e non è quindi impossibile che un tribunale costituzionale, chiamato a decidere sulla costituzionalità di una legge, l’annulli perché è ingiusta, essendo la giustizia un principio costituzionale che esso deve conseguentemente applicare. In tal caso però il potere del tribunale  dovrebbe essere considerato semplicemente intollerabile: La concezione della giustizia  della maggioranza dei giudici di questo tribunale potrebbe contrastare del tutto con quella della maggioranza della popolazione e contrasterebbe evidentemente con quella del parlamento che ha voluto la legge”; per evitare un simile spostamento di potere (dal Parlamento al Giudice costituzionale) “un organo estraneo e che può diventare il rappresentante di forze politiche ben diverse da quelle che si esprimono nel parlamento, la costituzione deve, specie quando crea un tribunale costituzionale, astenersi da questa fraseologia e, se intende porre  principi relativi al contenuto delle leggi, li deve formulare nel modo più preciso possibile”. ( I corsivi sono nostri).

[19] Principi di diritto costituzionale generale, Milano 1947, p. 5.

[20] Op. cit., p. 2.

[21] Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, pp. 338-339.

[22] V. Der drang zur Verfassungsreform, trad. it. di C. Geraci ne La giustizia costituzionale, cit. p. 49; e prosegue: “Se la richiesta di modifica della costituzione cresce a tal punto che non può essere ulteriormente accantonata, è certo un segno che c’è stato uno spostamento di forze che cerca di esprimersi sul piano costituzionale”; le tesi di Lassalle sono esposte nello scritto Über Verfassungswesen, trad. it. di C. Forte in Behemoth n. 20, pp. 5-14.

[23] V. G. De Vergottini, voce Costituzione in Dizionario di politica. Tale principio è in grado “di garantirne l’unità in sede di valutazione interpretativa delle norme esistenti e di completarne le lacune, di permettere di individuare i limiti della continuità e dei mutamenti dello Stato tenendo conto della medesima come parametro di riferimento. Sono dunque i principi costituzionali sostanziali cui si fa cenno che rivestono un ruolo essenziale per la comprensione di una costituzione”.

[24] L’ordinamento giuridico, rist. Firenze 1967, p. 27; e poco prima scrive “È stato detto più volte che è possibile concepire un ordinamento, che non faccia posto alla figura del legislatore, ma solo a quella del giudice. Ed è ripiego, suggerito dalla nostra mentalità moderna, ma non corrispondente alla realtà, il dire che in questo caso il giudice, nel medesimo tempo in cui decide il caso concreto, pone la norma che presiede al suo giudizio. La verità è, invece, che questo può essere determinato dalla c.d. giustizia del singolo caso, dall’equità o da altri elementi che sono qualche cosa di ben diverso dalla norma giuridica vera e propria, che, per sua natura, concerne una serie o classe di azioni ed è quindi astratta e generale. Se così è, il momento giuridico, nell’ipotesi accennata, deve rinvenirsi, non nella norma, che manca, ma nel potere, nel magistrato, che esprime l’obiettiva coscienza sociale, con mezzi diversi da quelli che son propri di ordinamenti più complessi e più evoluti”.

[25] V. “non sembra che si possa sperare di costruire una teoria normativista nella quale la gradazione tra norme si possa dedurre unicamente dai caratteri propri e dalla natura intrinseca di ciascuna delle specie di norme che sono destinate a succedersi” perché “la gradazione delle norme, non proviene dal grado di qualità inerente a ogni specie di norma presa in sé, ma dal grado di potere degli organi o delle autorità da cui la norma è stata emanata, dalla funzione esercitata o dall’atto compiuto. In altri termini, il percorso graduale e successivo che si osserva nella elaborazione del sistema di norme dello Stato moderno non ha la sua causa primaria nella gradazione, naturale o logica, delle norme stesse considerate nel rapporto che collega le une alle altre, ma per gradazione di norme bisogna intendere una gradazione che ha la sua causa effettiva nelle considerazioni organiche alle quali è sottomessa, secondo l’ordine giuridico positivo, la formazione del diritto” ne La teoria gradualistica del diritto, Milano 2003, p. 35.

[26] V. sul punto in particolare Die Diktatur a cura di A. Caracciolo, Roma 2006, pp. 243-303.

[27] “Il diritto non è quanto di più elevato vi sia al mondo, non è fine a se stesso, ma è soltanto un mezzo diretto ad un fine, ed il suo fine ultimo è l’esistenza della società” e “al di sopra del diritto è la vita; e se la situazione concreta è quella da noi ipotizzata – cioè una situazione di emergenza politica riducibile all’alternativa: o il diritto  o la vita – non vi possono essere dubbi sulla decisione da prendere: la forza sacrificherà il diritto per salvare la vita” Der Zweck im Recht, trad. it., p. 148.

[28] Op. cit, p. 186.

[29] Op. loc. cit e prosegue “qui il giudizio del politico, dell’uomo di stato e dello storico deve sostituirsi a quello del giurista, che giudica soltanto alla stregua del diritto positivo. Quest’ultimo criterio, infatti, si rivela adatto alle situazioni normali da cui è desunto, ma non è applicabile a situazioni eccezionali per cui non è stato pensato e da cui non può essere applicato. Se non ci si fanno scrupoli nell’usare il termine ‘diritto’ in questo senso, potremmo qui parlare di un diritto eccezionale della storia, che in linea di principio rende praticamente possibile l’esistenza del diritto e, sporadicamente, il riaffiorare della forza nella sua missione e funzione storica originaria, cioè come fondatrice dell’ordinamento e creatrice del diritto”.

[30] Corso di diritto costituzionale, Padova 1934, p. 284.

[31] V. Verfasungslehre, p. 41 ss.

[32] A tale proposito si potrebbe sostenere, applicando criteri e topoi dell’interpretazione della legge, come il brocardo ubi lex dixit voluit, ubi non dixit noluit, che prescrivendo l’art. 139 che la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale, la Costituzione consente di trasformarla in Stato fascista o in repubblica sovietica, o conferire la sovranità all’ONU o agli USA o all’UE anche attraverso procedimenti di revisione costituzionale. La conclusione non regge anche ad applicare il criterio d’interpretazione “sistematica”. Ma decisivo è che il costituente stesso ha presupposto tacitamente che democrazia, sovranità popolare fossero scelte immodificabili nel quadro costituzionale, non foss’altro perché conseguenti non solo dalla costituzione, ma dal potere costituente.

 

[33] Sul che ci permettiamo di richiamare il nostro piccolo lavoro Spunti su logica della reiezione e ragionamento giudiziario ne Il Consiglio di Stato, n. 6-7 giugno-luglio 1983, p. 855 e ss.

[34] O. von Gierke Johannes Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien e prosegue “Non rinunciano naturalmente in alcun modo al principio che lo Stato è fondato sul volere divino e che ogni potere viene da Dio: ma lo sviluppano sempre più in un senso che non offre alcun ostacolo alla costruzione esclusivamente giuridico-razionale dello Stato; e quel principio rimane ancora soltanto a significare che la natura e la ragione naturale, e quindi anche i rapporti, i diritti e i doveri su esse fondati, sono in ultima analisi emanazione dell’essenza divina” trad. it. Torino 1974, p. 70.

[35] Sintetizziamo così quanto scrive Carré de Malberg in La contribution à la théorie générale de l’État, Paris 1929, tomo 2°, p. 151.

[36] La tesi di Sieyès è una (nuova) formulazione della tesi di Spinoza che nello stato di natura vale la regola tantum juris quantum potentiae.

[37] “Il diritto costituzionale è perciò, come si vedrà meglio più avanti, il diritto che segna la stessa esistenza dello Stato, il quale comincia ad avere vita solo quando ha una qualche costituzione; gli dà una forma e, per dir così, una determinata fisionomia” e poco dopo “Uno stato «non costituito» in un modo o in un altro, bene o male, non può avere neppure un principio di esistenza, come non esiste un individuo senza almeno le parti principali del corpo” Principii di Diritto costituzionale generale, pp. 2-3, Milano 1947.

[38] C. Mortati, istituzioni di diritto pubblico, Tomo I, Padova 1975, p. 34.

[39] È chiaro che se invece prevale la scelta per i “valori” o la religione o quant’altro – come i briganti del XV secolo, che preferivano il turbante turco alla tiara papale – la comunità, come istituzione ovvero come esistenza organizzata politicamente, cessa di esistere e così la di essa costituzione. Si può sempre decidere per non avere un’esistenza (politica) e l’istituzione che le da forma.

[40] Raggruppiamo sotto tale definizione, momentaneamente, tutto ciò che è accomunato da essere una decisione costituzionale inespressa, ma necessaria.

[41] Anche nel caso delle costituzioni “naturali” cioè formate storicamente, esiste comunque una realtà effettuale che legittimi e mantenga la costituzione, come il consenso dei governati.

[42] E prosegue: “Da questo stesso principio risulta chiaramente che lo Stato non è affatto il volere sovrano, né possiede il volere sovrano, anzi, è diverso da esso. Il volere sovrano è sopra lo Stato, e la soggezione ad esso dà al territorio e al popolo la qualità di Stato. Essi si chiamano Stato soltanto se sono dominati, analogamente come si chiama proprietà la cosa solo quando ha un padrone”, Principi di una dottrina generale dello Stato, (trad. it.) Torino 1902, p. 1155.

[43] Sul che v. Otto von Gierke Johannes Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien “Non sono però i singoli che con la loro volontà stabiliscono la sovranità della collettività sopra i propri membri: essi infatti non possiedono inizialmente alcuno dei diritti sorti con la collettività stessa (per es. il diritto di vita e di morte e il vincolo di coscienza), né, volendo l’associazione, possono impedire che essa divenga sovrana. Ma nemmeno è Dio ad attribuire, con un atto particolare alla collettività (come al Papa), la sovranità, pur essendo, in qualità di «primus auctor», la fonte di ogni potere. Il potere sovrano spetta piuttosto ad essa «ex vi rationis naturalis», e Dio lo concede come «proprietas consequens naturam», «medio dictamine rationis naturalis ostendentis, Deum sufficienter providisse humano generi et consequenter illi dedisse potestatem ad suam conservationem et convenientem gubernationem necessariam». Esattamente come l’uomo, per il fatto solo che è e non appena è, è libero ed è dotato di potere su se stesso e sulle sue membra, così il corpo politico, dal momento che esiste, ha il potere e la sovranità sopra se stesso e di conseguenza sopra i suoi membri”, trad. it, Torino 1974, p. 71.

[44] SANTI ROMANO, Principi di diritto costituzionale generale, Milano 1947, p. 2 ss.

[45] Per un esame delle principali ci permettiamo di rinviare a nostro scritto Note sull’essenza della Costituzione in Behemoth n. 18-19.

[46] G. BURDEAU, Droit constitutionnel et institutions politiques, Paris 1980, p. 68.

[47] V. sul punto C. Mortati in Istituzioni di diritto pubblico, tomo I, Padova 1975, p. 31 in nota “Cfr. ORESTANO, I fatti di normazione nell’esperienza romano-arcaica, Torino 1967, p. 28, che efficacemente definisce «fatti normativi» quelli ai quali, al di fuori di una preventiva posizione di norme regolatrici, valgono, in virtù del loro realizzarsi e stabilirsi, a instaurare o modificare un ordinamento giuridico, nel suo insieme o in singole strutture ponendosi essi stessi fattori determinanti della propria legittimità ed efficacia”.

[48] E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, vol. I, p. 50 ss. citato da V. Marinelli in Dire il diritto, Milano 2002, p. 36.

[49] Ricordiamo S. Roberto Bellarmino in Scritti politici, pp. 233 ss., Bologna 1950 il quale scrive “A questo proposito però son da farsi alcune osservazioni. La prima è questa: il potere politico in generale, cioè non considerato nelle sue forme particolari di monarchia, aristocrazia o democrazia, viene immediatamente soltanto da Dio, poiché è una conseguenza necessaria della natura dell’uomo; perciò viene immediatamente da colui che ha fatto la stessa natura. Inoltre questo potere è di diritto naturale; non dipende infatti dal libero consenso degli uomini: vogliano o non vogliano, gli uomini devono essere governati da qualcuno, a meno che non vogliano che il genere umano vada in rovina; ma ciò è impossibile perché sarebbe contro l’inclinazione della natura… Essendo infatti questo potere di diritto divino, questo diritto non diede il potere a un qualche uomo particolare; lo diede quindi a tutta la moltitudine” e prosegue “lo stesso diritto naturale trasferisce il potere politico della moltitudine a uno o a più individui. La moltitudine infatti non può esercitare essa stessa questo potere, e perciò è obbligata a trasferirlo a uno o ad alcuni pochi individui. Pertanto il potere dei principi, considerato in generale, è esso pure di diritto naturale e divino, e il genere umano, anche se tutti gli uomini in ciò s’accordassero, non potrebbe stabilire il contrario, che cioè non vi fossero principi e capi. La quarta osservazione è questa: le norme particolari di regime politico sono «de jure gentium» e non di diritto naturale, poiché è chiaro che dipende dalla libera volontà della moltitudine stabilire che governi un re o alcuni consoli o altri magistrati; e, se v’è una legittima causa, la moltitudine può mutare un regime monarchico in aristocratico o democratico e viceversa, come sappiamo che è avvenuto a Roma” (i corsivi sono nostri); Suarez scrive “In primis enim requiritur, ut Deus sit causa proxima, sua voluntate conferens talem potestatem. Non enim satis est, ut Deus tanquam prima causa et universalis potestatem tribuat”; perché “nulla est potestas, quae hoc modo non sit a Deo, ut a prima causa, ac proinde immediate in illo genere” per cui “sine ulla prorsus ambiguitate evidentique ratione statui potest quomodo principatus politicus sit immediate a Deo, et nihilominus regibus et senatibus supremis non a Deo immediate, sed ab hominibus commendatus sit. Primo enim suprema potestas civilis per se spectata immediate quidem data est a Deo hominibus in civitatem, seu perfectam communitatem politicam congragatis, non quidem ex peculiari, et quasi positiva institutione, vel donatione omnino distincta a productione tal naturae, sed per naturalem consecutionem ex vi primae creationis eius; ideoque ex vi talis donationis non est haec potestas in una persona, neque in peculiari congrgegatione multarum, sed in toto perfecto populo seu corpore communitatis” v. Defensio fidei catholicae et apostolicae, Lib. III, cap. XI.

[50] Prendiamo l’esposizione che ne fa Schmitt in Politische theologie ora ne Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 62.

[51] “Se, dunque, la potenza per cui le cose naturali esistono è operano è la medesima potenza di Dio, è facile capire che cosa sia il diritto naturale. Infatti, poiché Dio ha diritto a ogni cosa, e poiché il diritto di Dio non è altro che la stessa potenza divina considerata come assolutamente libera, ne segue che ciascuna cosa naturale ha da natura tanto diritto quanta potenza a esistere e a operare: giacché la potenza, per la quale ciascuna cosa naturale esiste e opera, non è altra che la stessa potenza di Dio, la quale è assolutamente libera” in Trattato politico, Torino 1958, p. 160; poco dopo scrive “la natura non si esaurisce nelle leggi della ragione umana, che non hanno riguardo se non alla vera utilità e alla conservazione degli uomini, ma si estende ad infinite altre, che riflettono l’ordine eterno della intera natura, di cui l’uomo è una piccola parte e della cui sola necessità tutti gli individui sono in certo modo determinati a esistere e a operare”; lo stato civile (cioè vivere in società politica) non ripugna alla ragione “lo stato civile è naturalmente istituito al fine di vincere il comune timore e di ovviare alla comune indigenza, e quindi ha appunto di mira ciò che i singoli viventi secondo ragione tenterebbero invano nello stato naturale”; ma lo Stato è soggetto alla legge di natura “poiché le parole legge e contravvenzione riguardano ordinariamente, non soltanto il diritto civile, ma anche le regole comuni di tutte le cose naturali, e in primo luogo della ragione, non possiamo escludere in assoluto che lo Stato sia soggetto alle leggi o che possa ad esse contravvenire. Infatti se lo Stato non fosse soggetto ad alcuna delle leggi o regole, grazie alle quali è quello che è, non sarebbe una realtà naturale ma una chimera” perché “le regole e i motivi di soggezione e di ossequio, che lo Stato deve a propria garanzia conservare, non sono del diritto civile, ma del diritto naturale” (i corsivi sono nostri) op. cit., cap. IV, 4-5.

[52] V. “Il est vrai que le droit naturel est considerée comme plus près de la nature que les droits positifs, naturam sequitur, de là vient son nom; mais quelle est la véritable nature de l’homme et des sociétés, est-ce seulement l’équité dans les relations, n’est-ce point, en même temps, l’ordre dans la structure sociale?op. cit., p. 59.

[53] V. S. Agostino De civitate Dei, lib. XIX, cap. 13: “la pace della città è l’ordinata concordia dei suoi cittadini nel comandare e nell’obbedire; la pace della città celeste è la più perfetta e armoniosa concordia nel gioire di Dio e nel godere vicendevolmente in Dio; la pace di tutte le cose è la tranquillità dell’ordine. E l’ordine è la disposizione degli esseri uguali e disuguali che assegna a ciascuno il posto che gli conviene” (i corsivi sono nostri).

[54] Così se viene meno l’autorità, o se questa è priva dei mezzi per garantire l’ordine sociale, la conseguenza è il venir meno dell’ordine per entrare in una situazione d’anarchia. Il che è non solo contrario alla concezione dell’uomo come zoon politikon, ma è, ancor più, “impossibile” se non come stato di transizione tra due diversi ordinamenti, dato che inevitabilmente, dopo una fase di disgregazione sociale, la naturale tendenza all’ordine ricompone le relazioni e i gruppi umani, anche se in un ordine diverso. L’anarchia, come ideale politico è utopico, dato che da millenni non si vede una società anarchica, se non nelle favole; come situazione sociale è ricorrente, ma transeunte, come parentesi tra due forme di ordine.

[55] Der Zweck im Recht, trad. it., Torino 1972, p. 185 e poco dopo scrive “Abbiamo così individuato il punto in cui il diritto sfocia nella politica e nella storia: qui il giudizio del politico, dell’uomo di stato e dello storico deve sostituirsi a quello del giurista, che giudica soltanto alla stregua del diritto positivo… Se non ci si fanno scrupoli nell’usare il termine ‘diritto’ in questo senso, potremmo qui parlare di un diritto eccezionale della storia, che in linea di principio rende praticamente possibile l’esistenza dei diritto e, sporadicamente, il riaffiorare della gorza nella sua missione e funzione storica originaria, cioè come fondatrice dell’ordinamento e creatrice del diritto”.

[56] Un caso recente è stata la dissoluzione dell’Unione sovietica a seguito dell’implosione del comunismo. Non è in questione – né interessa – la “legalità” della trasformazione dell’URSS in CSI, fondata sull’art. 72 della Costituzione sovietica, riconoscente il diritto di secessione alle repubbliche, anche perché il vero “nucleo” costituzionale dell’URSS era nell’art. 6 della Costituzione per cui il PCUS era “la forza che dirige ed indirizza, la società sovietica, il nucleo del suo sistema politico”; piuttosto il PCUS, come altri partiti comunisti, implose perché non esisteva più la volontà politica di (credere e) sostenere quell’ordine sociale (e relativa unità politica).

[57] E prosegue: “E anche se l’organo del sovrano, il reggitore, agisse contrariamente alle leggi, se per esempio con imposte, reclutamento e simili egli violasse la legge dell’uguaglianza nella divisione degli oneri dello Stato, il suddito può a quest’ingiustizia opporre bensì querela (gravamina), ma nessuna resistenza.

Non può anzi esser contenuto nella costituzione nessun articolo, che renda nello Stato possibile a un potere di opporsi a colui che possiede il comando supremo nel caso che questi trasgredisca le leggi costituzionali: che renda quindi possibile di limitarne il potere” Die Metaphysik der Sitten, trad. it., Bari 1973, p. 149.

[58] Principii di una dottrina generale dello Stato, cit., Torino 1902, p. 1157.

[59] E prosegue “o messo tra parentesi, proprio come una teoria fisica è esposta al rischio di trascurare qualche aspetto della realtà troppo importante per non dover essere spiegato. D’altra parte, chi mi assicura che il mio modello di conoscenza della realtà sia veramente coestensivo alla realtà che voglio spiegare? In altri termini: chi mi assicura che il mio ragionamento spieghi veramente tutto ciò che devo spiegare? La scienza rischia di essere un insieme di proposizioni che, paradossalmente, non fotografa il mondo, ma se stessa: lo scienziato rischia cioè di non vedere altro che il proprio ragionamento, e non la realtà che vuole spiegare. La «verità» significa così soltanto la coerenza ai presupposti di partenza, che peraltro non sono dimostrati, e scompare ogni riferimento alla realtà, per spiegare la quale lo scienziato «puro» ha iniziato a fare scienza. Siamo di fronte a una vera implosione del sistema” v. Ottavio De Bertolis S.I. La metodologia giuridica di Norberto Bobbio in Civiltà cattolica 3687 (2004).

[60] V. V. Gueli  il quale così continua “Tale assioma è così formulato, ad es., dal Regesbelger, (tuttavia in maniera troppo limitata, perché con esclusivo riguardo alle norme legislative): «Una espressione della volontà è indispensabile per l’esistenza della legge e precisamente l’espressione deve consistere nelle parole della legge»; e similmente, da noi, da Alfredo Rocco, (riferendosi però anch’egli alla legge definita come «erklärter Gemeinwille» e dal Carnelutti”, Elementi di una dottrina dello Stato e del diritto, Roma 1959, p. 327.

NEMICO, OSTILITA’ E GUERRA, di Teodoro Klitsche de la Grange

NEMICO, OSTILITA’ E GUERRA

  1. La crisi finanziaria che da qualche mese ha colpito l’ “eurozona” pone – di nuovo – il problema di comprendere se si tratti – come in parte è – di un fatto puramente economico – finanziario (dovuto in larga parte – secondo molti – a difetti di costruzione dell’euro, a cominciare dall’essere una moneta senza Stato) ovvero, in buona misura, politico.

Se si giudica dagli effetti finora prodotti, il carattere politico è innegabile: basti ricordare che, in meno di otto mesi, sono stati sostituiti i governi (d’investitura popolare) di due paesi dell’euro-zona (Italia e Grecia) con governi tecnici; mentre in un terzo (Spagna) il governo è stato battuto (e rimpiazzato) dall’opposizione. Fatto comunque in buona parte causato dalla crisi finanziaria. Non è sufficiente comunque giudicare la natura politica di una causa (situazione, fatto) dagli effetti che comporta: anche una malattia può portare – e la Storia ce lo dimostra – conseguenze politiche di grande rilievo[1]. Ciò non toglie che la malattia non sia una causa politica.

Ma del pari, che la causa sia normalmente qualificata come economica non implica che i soggetti che la producono e gli scopi che perseguono non possano essere politici. Un esempio (tra tanti) è la decisione degli Alleati nel 1941 di imporre l’embargo al Giappone sulle esportazioni di petrolio e materiali ferrosi (e altro). Ciò risultava più efficace dell’intero esercito cinese: infatti costrinse il Giappone ad attaccare le potenze anglosassoni prima della fine dell’anno. Se i generali nipponici avessero indugiato qualche altro mese, i giapponesi avrebbero subito una devastante crisi economica che li avrebbe costretti probabilmente a ritirarsi dalla Cina subito dopo. Il che significa che, anche se in quella situazione non si era fatto uso di violenza, non si può ridurre il tutto alla mera constatazione (economica) che il Giappone mancava di ferro e petrolio e che gli Alleati  – che ne abbondavano – avessero il diritto di non rifornirlo (giuridicamente ovvio). A qualificare quella misura come politica erano i soggetti (le potenze anglosassoni e i loro  satelliti) e lo scopo (ottenere la ritirata del Giappone dalla Cina occupata).

Ciò non toglie che, almeno in Italia, ma per quanto ne so, anche in Europa, quasi nessuno abbia dato attenzione al possibile carattere e scopo politico della crisi, e tanto meno all’esistenza di soggetti interessati a provocarla per raggiungere fini di carattere politico.

Il che, per certi aspetti non sorprende: rientra nella tendenza al rifiuto della politica (non solo dell’attività, ma della politica come costante dell’esistenza umana) che ha connotato (in parte prima piccola, ma crescente) la modernità, in particolare dal XVIII secolo e che negli ultimi decenni è diventata di gran lunga prevalente in Europa (e nell’Occidente).

Vent’anni fa era di moda la tesi – espressa da Fukuyama – che la conclusione della guerra fredda fosse la fine della storia: che il pianeta avesse solo una Superpotenza (gli U.S.A.); che non ci fosse nessun nemico, perchè quello esistente (il comunismo) era collassato e niente faceva presagire che il sistema comunista sarebbe risuscitato (valutazione – quest’ultima –  da confermare anche oggi).

Tutte tali tesi (e le altre similari) si fondavano su una convinzione: che il nemico non ci fosse più e neppure un conflitto (politico) estremo, per cui ogni tipo di lotta (residuata dopo la “fine della storia”) fosse gestibile con mezzi giuridici ed economici: governance, tecnocrazia, amministrazione delle cose al posto del governo degli uomini.

L’occidente, così rallegrato, si inoltrava, senza accorgersene, non tanto verso la fine della storia, quanto, probabilmente (e sicuramente l’Europa) nella propria decadenza costituita – sul piano interno – da una variante (peggiore) di quel “dispotismo mite”, profetizzato da Tocqueville nella parte IV della Democratie en Amérique.

Qualche anno fa “Catholica” organizzava un incontro a Parigi: il libro che ne raccoglie le relazioni ha il titolo – quanto mai significativo – de “La culture du refus de l’ennemi”. Difficilmente un titolo ha reso così efficacemente il senso del convegno[2], né poteva essere altrettanto preciso: perché un certo tipo di cultura non si limita a negare la (possibilità) di guerra (anche nel senso limitato che la si possa sempre evitare); ma si spinge assai più lontano, asserendo di possedere il rimedio che evita l’inimicizia e i conflitti.

  1. Tipico esempio ne è Marx (e i marxisti) che, nella fase compiuta del comunismo (la società senza classi), immagina una società umana senza Stato/i (senza politica), armonica e quindi non necessitante né di un apparato di difesa e di repressione: priva di tutti i presupposti del politico, come individuati da Freund, ovvero delle regolarità costanti della politica (Miglio). Quindi senza lotta per il potere (Tucidide), senza autonomia del politico (Machiavelli), senza sovranità (Bodin), senza classe politica (Mosca e Pareto), senza nemico (Hobbes e C. Schmitt), senza conflitti.

Qualcosa di assai simile all’età dell’oro degli antichi, alla terza età di certe riflessioni teologico-storiche cristiane (per lo più eretiche) o al “Paese dei balocchi” descritto in Pinocchio[3].

Ma, a parte l’illusione (prevedibile) teorie siffatte – o similari – sono connotate da un errore e confusione “fattuale” e concettuale: quella tra guerra, nemico, conflitto. Nel senso che evitare la guerra non significa far cessare l’inimicizia (né l’intenzione ostile e neanche il conflitto); affermare non c’è guerra, quindi non c’è nemico (né conflitto) significa confondere soggetti (nemico), presupposti (conflitto), fini (obiettivo politico) e mezzi (tra i quali c’è la guerra). La guerra è (un’attività) e uno status; come la pace essa è un mezzo della politica. La politica non implica (in ogni situazione) necessariamente e ineluttabilmente la guerra; ma non è pensabile senza nemico. Così il conflitto: questo presuppone solo la pluralità di soggetti – e correlative pretese – a uno stesso oggetto (bene). Dato che molti beni sono limitati, ne consegue che il conflitto esiste indipendentemente dai mezzi usati per risolverlo: la concorrenza o la guerra (o altro, come l’accordo)[4]. Mentre conflitto e nemico sono (relativamente o totalmente) indipendenti dalla volontà (perché esistono) la guerra richiede comunque la volontà di aggredire e di difendersi (e quindi due volontà irriducibilmente ostili)[5].

La guerra, in definitiva presuppone il nemico e il conflitto: ma non ne è la conseguenza necessaria. Ne deriva che l’assenza di guerra non significa che non esistono conflitti e nemici: ma solo che questi non hanno deciso di risolvere i conflitti e raggiungere i loro obiettivi politici col mezzo della guerra.

  1. La speranza della fine del nemico (in una con quella della Storia) fu contraddetta subito dopo il crollo del comunismo, dai conflitti che tale collasso generò (Balcani, Cecenia). Passato qualche anno provvide Bin Laden a confermarne l’illusorietà con l’attacco dell’11 settembre 2001. Tra la conclusione del comunismo e l’emergere del terrorismo di Al Quaeda, era pubblicato uno studio dei colonnelli cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui destinato a dare un grosso dispiacere alle speranze e alle illusioni del pacifismo “senza se e senza ma”. Sostenevano i colonnelli che “la nuova situazione creatasi dopo il 1989-1991 facesse sì che “da questo momento in poi la guerra non sarà più ciò che è stata tradizionalmente. Il che significa che, se in futuro l’umanità non avrà altra scelta che entrare in conflitto, non potrà più condurlo nei modi consueti… Quando la gente comincia ad entusiasmarsi e a gioire propendendo per la riduzione di forze militari come mezzo per la risoluzione dei conflitti, la guerra è destinata a rinascere in altre forme e su di un altro scenario… In tal senso esistono fondate ragioni per sostenere che l’attacco finanziario di George Soros all’Asia Orientale, l’attacco terroristico di Osama Bin Laden all’ambasciata militare in Sudan… rappresentano una ‘semi-guerra’, una ‘quasi –guerra’ e una ‘sotto-guerra’, vale a dire la forma embrionale di un altro genere di guerra[6]. Il tutto significava assimilare alla guerra delle situazioni in cui l’ostilità non è riconducibile al concetto classico di questa (atto di forza).

L’acuto giudizio dei colonnelli in effetti non fa che confermare sia il famoso discorso sul potere di Tucidide (l’ambasciata degli ateniesi agli abitanti di Melo) sia, ancor più, il giudizio di Karl von Clausewitz e Giovanni Gentile[7] che la guerra è un atto di forza (comunque un mezzo) per costringere un’altra (potenza) a fare la nostra (di potenza) volontà: se a raggiungere questo fine tuttavia non è necessario mobilitare gli eserciti, ma bastano le scalate in borsa o gli attentati terroristici, ciò non toglie né che questi modifichino i rapporti di forza né che costringano l’aggredito a doversi adeguare alla volontà del nemico, se si arrende; se intende difendersi, al modo di combattere dell’aggressore.

In sostanza i due colonnelli, innovando alla (prima) definizione della guerra data da Clausewitz avevano acutamente posto il problema, prevedendo come l’inimicizia poteva ricorrere a forme inconsuete (ma non del tutto) una volta ritenuto inutile, inopportuno o antieconomico il ricorso alle armi.

Questa concezione dei colonnelli era tributaria dell’antico pensiero strategico cinese (Sun Zu) e indiano (Kautilya).

Scriveva Sun Zu: “Ottenere cento vittorie su cento battaglie non è il massimo dell’abilità: vincere il nemico senza bisogno di combattere, quello è il trionfo massimo[8]: per cui la vittoria è realizzare l’obiettivo politico: i mezzi sono secondari. Se lo si raggiunge senza far uso della forza, risparmiando sangue (e denaro) è meglio.

Nell’Arthasastra, Kautilya distingue vari tipi di guerra: quella aperta; quella dissimulata che consiste nell’infondere paura, nel colpire in modo imprevedibile; silenziosa con pratiche clandestine e complotti suscitati da spie[9].

D’altra parte è ripetuto da Kautilya che la scelta tra pace e guerra è funzionale all’interesse di potenza degli Stati, onde se mantenendo la pace si rovina (o decresce) la potenza – anche economica – del nemico, è meglio non fare guerra; l’inverso se la potenza si accresce[10]. Così anche se la guerra non è in atto, l’ostilità è sempre presente.

Pur nella diversità (inevitabile, anche se parziale) Sun Zu e Kautilya danno due insegnamenti, poi ripetuti in forma diversa e sotto vari profili, e tuttora validi: che il nemico (e il conflitto) non si manifestano sempre nella guerra (l’insopprimibilità dell’ostilità e della competizione di e per il potere), onde la guerra (mezzo) è subordinata alla politica (scopo); e che i tipi di “guerra” possono essere diversi, e non sempre richiedere l’impiego della violenza[11].

Per cui appare logico – e in linea con l’antico pensiero strategico orientale – quanto sostenuto da Quiao Liang e Wang Xiangsi che “se si riconosce  che i nuovi principi della guerra non sono più quelli di «usare la forza delle armi per costringere il nemico a sottomettersi ai propri voleri», quanto piuttosto quelli di «usare tutti i mezzi, inclusa la forza delle armi e sistemi di offesa militari e non-militari e letali – non letali per costringere il nemico ad accettare i propri interessi», tutto ciò costituisce un cambiamento: un cambiamento nella guerra e un cambiamento nelle modalità della guerra da ciò provocato”. Il che comporta un concetto più ampio di guerra che “non può che ridurre l’attaccamento dei soldati alla categoria di «operazioni militari diverse dalla guerra» nella quale, in ultima istanza, essi non saranno in grado di inserire il nuovissimo concetto di «operazioni di guerra non militari»”, in particolare il concetto di “«operazioni di guerra non militari», amplia la nostra percezione di ciò che esattamente costituisce uno stato di guerra a tutti i campi dell’attività umana, ben oltre, dunque, i contenuti racchiusi nell’espressione «operazioni militari». Questo ampliamento è il risultato naturale del fatto che gli esseri umani useranno qualsiasi mezzo per conseguire i loro obiettivi”.

  1. Indubbiamente a far maturare il nuovo/vecchio concetto di guerra, è da un lato la novità della tecnologia, dall’altro il progredire delle ideologie pacifiste.

Quanto alla prima ragione, non si può che rimandare a quanto scrivono i due colonnelli. Ma occorre aggiungere alle precedenti una terza ragione: il  tramonto dello jus publicum europeaum e dello stesso razionalismo occidentale, fondati in larga misura sul realismo e la teologia politica cristiana.

Per l’irenismo, tanto accresciuto dalle straordinarie distruzioni delle guerre del “secolo breve”, si è passati dal rifiuto della guerra – di per se una scelta, per lo più opportuna, la quale va valutata sotto tale profilo – alla negazione “a prescindere” della guerra e ancor più del nemico, in se totalmente irreale. Illusione che si può giudicare con le parole di Tucidide (rivolte dagli ambasciatori ateniesi agli abitanti di Melo) “giudicate il futuro più evidente della realtà concreta, e il desiderio vi fa trattare come cosa salda l’inesistente”[12]. Pretendere che il nemico non esista perché non è gradito e turba i sogni di pace fa parte delle stesse (pericolose) illusioni del non capire che azioni ostili possono compiersi (e ottenere il loro scopo politico) pur senza atti di violenza.

Tuttavia il giudizio di Tucidide, che corrisponde a quello di Machiavelli nel XV capitolo del Principe[13], introduce la terza ragione della “soppressione” del nemico: l’abbandono della concezione realistica cristiana e dello jus publicum europeaum.

É inutile dire che per la teologia politica cristiana la guerra è da evitare, ma essendo sempre possibile, data l’insopprimibilità dell’inimicizia tra uomini (e gruppi umani), non si può escludere né condannare sempre il ricorso a questa[14].

Tale concezione è realistica: parte dall’osservazione della realtà, ovvero l’esistenza di una pluralità di soggetti in grado di far guerra e aventi motivi di conflitto, per identificare le condizioni che consentano di evitare le guerre, e, se inevitabili, ridurne le potenzialità distruttive: i tre (poi quattro) requisiti della guerra giusta (auctoritas, justa causa, recta intentio, debitus modus gerendi bellum) limitavano i soggetti, le occasioni, le modalità e i fini della guerra. Ne contenevano gli effetti più devastanti e le ragioni più discutibili, senza né pretendere di aver trovato il rimedio per l’inimicizia e la guerra. Anche perché, a negare il nemico, ed in presenza di  qualcuno che ci fa comunque la guerra (a dispetto delle nostre buone intenzioni) la conclusione è che si tratta di un criminale, come sosteneva Carl Schmitt[15].

Quei principi passavano nel diritto internazionale westphaliano, con la nota “enfatizzazione” dell’auctoritas, cioè del soggetto legittimato alla guerra e così justus hostis, e il deperimento della justa causa (almeno fino all’inizio del secolo scorso).

Resta il fatto che, fino all’inizio del XX secolo la guerra era un mezzo giuridicamente lecito, il nemico era quel soggetto con cui si faceva la guerra, ma (poi) la pace. Come riteneva Raymond Aron “Il diritto internazionale pubblico europeo non aveva mai avuto lo scopo di mettere fuori legge la guerra, né mai si era attenuto a questo principio”[16]. Ma se quel mezzo è stato già condannato in sedi internazionali[17] e quel che più conta, è rifiutato da gran parte della popolazione, resta tuttavia l’esercizio dell’ostilità tramite mezzi non violenti.

  1. Scrive Max Weber che potenza significa la capacità d’imporre la propria volontà in una relazione sociale[18]; Aron, trasponendo tale definizione nel contesto internazionale sostiene che “la potenza o capacità di una collettività di imporre la sua volontà ad un’altra non va confusa con la sua capacità militare”. Freund elenca, esemplificandoli, i mezzi non violenti dell’ostilità, con cui si cerca di piegare la volontà di una comunità[19].

Correntemente per potere s’intende la capacità “d’un soggetto individuale o collettivo, di conseguire in modo intenzionale e non per accidente determinati scopi in una sfera specifica della vita sociale, ovvero di imporre in essa la propria volontà, nonostante la eventuale volontà contraria o la resistenza attiva o passiva di un altro soggetto o gruppo di soggetti”.

Ne consegue che ai fini della lotta per il potere è del tutto indifferente che l’effetto sia conseguito con l’uso della forza o con altro. L’essenziale è il risultato.

Tuttavia di fronte al conseguimento del risultato è peccato d’ingenuità non solo pensare che non sia un atto ostile, ma anche credere che la fondatezza giuridica (ad esempio, l’embargo all’esportazione di beni propri) escluda l’intenzione politica e l’ostilità: tutt’altro, semmai le occulta[20].

  1. Secondo Schmitt “Pensiero politico ed istinto politico si misurano perciò, sul piano teoretico come su quello pratico, in base alla capacità di distinguere amico e nemico. I punti più alti della grande politica sono anche i momenti in cui il nemico viene visto, con concreta chiarezza, come nemico” e prosegue “dovunque nella storia politica, di politica estera come di politica interna, l’incapacità o la non volontà di compiere questa distinzione appare come sintomo della fine della politica”.

Quello che sta succedendo è qualcosa che viene prima dell’incapacità di non distinguere amico e nemico: è la volontà e prima ancora la convinzione di non poterli distinguere: perché si presuppone che il nemico non esista ove la guerra non sia dichiarata, o perché non è tale in quanto ha ragione sul piano giuridico e/o economico.

Entrambe illusioni: quanto alla prima, stigmatizzata da Freund[21], consegue, come scrive, dalla concezione giuridica dell’ostilità[22]. Anche se il tutto è influenzato dal nominalismo giuridico (conseguente alle correnti neo-positiviste) e dalle sue versioni più modeste e “popolari”; per cui non c’è guerra se non la si dichiara (formalmente) tale. Con la consegueza che chi la dichiara è formalmente e apertamente un guerrafondaio; e per evitare tale nomea – così nociva in una società – spettacolo come quella globalizzata – la si fa evitando di dichiararla[23].

Credere poi che il compimento di atti d’ostilità sia giustificato sul piano giuridico ed economico (e quindi non è guerra, in senso lato, ma è attuazione di un diritto, riscossione di un credito) è anch’esso un truffarsi da soli, per almeno due ragioni: la prima perché sottovaluta che sotto le pretese giuridiche (ed economiche) c’è sempre un interesse (e un effetto) di potere. Il “diritto per il diritto” non è tale neppure nelle procedure giudiziarie (che richiedono, in linea generale, un interesse), tantomeno nei conflitti internazionali di guisa che, come scriveva Suarez il sovrano è legittimato a muovere guerra per i diritti della propria comunità politica non per quelli altrui[24].

D’altra parte se tali atti non sono atti di guerra, non si devono applicare neanche le limitazioni del diritto di guerra: le cui conseguenze possono essere devastanti[25].

Schmitt già nello scritto “Inter pacem et bellum nihil medium[26], giudicando cosa s’intendeva per “guerra” e “pace” negli anni ’30 del secolo scorso riteneva che “dimostra che l’ostilità, l’animus hostilis è divenuto il concetto più importante riguardo alla guerra”; ciò considerando che “In tutti i tempi ci sono state guerre «a metà», «parziali», «incompiute», «dosate», «localizzate», «wars sub modo»”[27].

  1. Se si condivide il giudizio di Schmitt che l’incapacità di operare la distinzione tra amico e nemico è sintomo della fine politica, si deve anche concludere che il capolavoro del nemico è quello di far credere che non esista: non c’è sistema più efficace di esercizio dell’ostilità. Sun Zu sostiene che l’abilità strategica consiste nel disorientare l’avversario “L’attacco migliore è quello che non fa capire dove difendersi, La difesa migliore è quella che non fa capire dove attaccare” di guisa che muovendosi “con rapidità senza lasciare traccia, quasi fossi evanescente, meravigliosamente misterioso, impercettibile: sarai padrone del destino del nemico”; ma gli stratagemmi consigliati dallo stratega cinese sono giochi da bambini rispetto al creare l’illusione che non esiste né ostilità né nemico. La clausewitziana “nebbia della guerra” così non copre solo il campo di battaglia, ma, per intero, lo stato conflittuale.

Il rifiuto dell’inimicizia consegue – come sopra scritto – a quello della guerra; quest’ultimo è il prodotto di un approccio (prevalentemente) di carattere giuridico al fenomeno guerra. Freund nel passo sopra citato si riferisce a concezioni giuridiche e non ad atti, e non fa pertanto riferimento alle costituzioni italiana e giapponese, successive alla fine del secondo conflitto mondiale, dov’è prescritto il rifiuto della guerra anche se con espressioni diverse[28].

Bisogna dar atto che malgrado il dettato pacifista, le due norme costituzionali non si sono spinte a negare l’esistenza e la possibilità dell’ostilità e del nemico, né che lo Stato lo possa individuare. Anzi il fatto che sia legittima la guerra difensiva presuppone che il nemico possa esistere e muovere guerra, e che ci si debba difendere.

Diverso appare il rifiuto del nemico in voga nella società contemporanea globalizzata: questo appare non solo come un residuo d’illusioni ideologiche smentite dalla storia (l’ultima e più conseguente delle quali è stata il comunismo), ma anche come derivato della società-spettacolo e della capacità di manipolare le credenze nella società di massa.

Se si prende per guerra (per conflitto) solo quello praticato con mezzi violenti, peraltro tanto spettacolari grazie alla tecnologia, è chiaro che dove non c’è spettacolo (la guerra classica con missili, bombe, corazzate e carri armati)  allora non c’è conflitto. Se poi a questo si aggiunge che la società di massa è drogata dai mezzi di comunicazione, è sufficiente un’attenta campagna di disinformazione – che sarebbe stata approvata da Kautylia e Sun Zu – per convincere che non essendoci violenza in atto, non ci sono né atti di ostilità né nemico. Specie se tale disinformazione si basa su notizie che all’uditorio piace sentire e occulta quelle sgradite: l’aspetto psicologico (nella e) della guerra è sempre stato fondamentale. L’aveva già sostenuto Joseph de Maistre, affermando che una battaglia persa è una battaglia che si è convinti di aver perduto. L’aveva ribadito Giovanni Gentile per il quale la guerra era un modo di superare l’opposizione tra volontà umane, e la soluzione della lotta era che il nemico riconosca “come sua la nostra volontà”, e cessi così di essere “volontà avversaria”[29].

Perché cessi di essere tale i modi possono essere tanti, il più efficace dei quali è non farla nascere cioè non far percepire l’esistenza di inimicizia e atti di ostilità a chi subisce (o subirà) l’aggressione.

Neppure il fatto che il nemico abbia ragione sul piano giuridico, lo assolve dall’ostilità politica e dalla conseguente necessità di difendersi. Solo una concezione decadente e limitata del diritto, ridotto a norme (e alle conseguenti decisioni giudiziarie, magari di Corti internazionali) può legittimare una concezione così lesionista. Se ci si richiama al principio romano che salus rei publicae suprema lex, è chiaro che nessun governante della comunità aggredita “a ragione” (normativa) potrebbe sacrificare l’esistenza della comunità, o anche “solo” la vita di molti cittadini, al rispetto dei trattati o comunque delle norme di diritto internazionale, applicando il contrario principio fiat justitia, pereat mundus. La politica, come sosteneva Max Weber, esige un’etica della responsabilità: degli uomini possono (e talvolta devono) decidere di morire per il rispetto delle leggi, e talvolta tale scelta può avere un significato di conservare il vincolo comunitario[30], ma non procurare morte e sofferenza ai propri concittadini in ossequio alla legalità[31].

D’altra parte la politica genera rendite politiche[32] e quindi ne produce la guerra. Un tempo si chiamavano tributi; nel XX secolo spesso “riparazioni”: ambedue i termini presuppongono un rapporto tra unità politiche. Nel XXI secolo dovremo forse chiamarle interesse differenziale, spread o quant’altro: il nomen conta (e dice) poco. Ciò che rileva è che trattasi di spostamento di risorse dal dominato al dominatore, dal vinto al vincitore. Quello che un tempo i primi pagavano ai secondi diventandone schiavi o prestando corvées; ed oggi, meno scomodamente (ma la società moderna è molto più comoda di quelle antiche, per cui la comodità non è merito del dominatore, ma dell’epoca), contraendo i consumi, modificando modi ed abitudini di vita per pagare debiti ed interessi. E in questa strada verso la servitù (e la povertà) ci s’inoltra tranquilli e contenti, per aver perso la guerra senza neanche accorgersene.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Tra le tante ricordiamo che, a giudizio di molti storici, l’unità d’Italia fu propiziata dalla morte di Ferdinando II di Borbone – Napoli, morto nel 1859 per un’infezione mal curata; l’opinione dei quali è che se Garibaldi avesse dovuto combattere col padre (Ferdinando II) invece che col figlio (Francesco II) l’esito sarebbe stato probabilmente diverso. Ovvero che le imprese dei conquistadores in America siano state assai favorite dall’epidemie di vaiolo e tubercolosi nelle popolazioni amerinde.

[2] Come scritto da G. Dumont nell’Avant-propos “…La première, qui est l’objet du prèsent ouvrage, est le modérantisme, considéré comme recherche du compromis, plus encore que du consensus, c’est-à-dire comme refus a priori de la possibilité même de toute situation conflictuelle”. I lavori sono stati di recente pubblicati in volume dal titolo “La guerre civile perpetuelle” (ed. Artège – Perpignan 2012); sulla guerra economica v. gli interventi di De Lauzun, Bonnet e Mescheriakoff.

[3] E del protagonista della favola di Collodi, tale illusione condivide anche il “naso lungo”:  d’essere una falsa profezia, cioè una menzogna, giacché della società comunista, nel socialismo reale, non s’è visto che il contrario: guerre, campi di concentramento, dittatura, governi totalitari più che polizieschi.

[4] É interessante ricordare, a tal riguardo, le distinzioni che fa Carnelutti in Teoria generale del diritto, Roma 1946, p. 15 e ss..

[5] Freund definisce il conflitto così: “Le conflit consiste en un affrontement ou heurt intentionnel entre deux êtres ou groupes de même espèce qui manifestent les uns à l’égard des autres une intention hostile, en général à propos d’un droit, et qui pour mantenir, affirmer ou rétablir le droit essaient de briser la résistance de l’autre, éventuellement par le recours à la violence, laquelle peut le cas échéant tendre à l’anéantissement physique de l’autreSociologie du conflit, Paris 1983, p. 65.

[6] E proseguono “Comunque si scelga di definirla, questa nuova realtà non può renderci più ottimisti che in passato. Ciò perché la riduzione delle funzioni della guerra in senso stretto non implica affatto che quella guerra abbia cessato di esistere. Anche nella cosiddetta era postmoderna e post-industriale la guerra non sarà mai eliminata del tutto. É solo tornata a invadere la società in modi più complessi, più estesi, più nascosti e sottili… La guerra che ha subito i cambiamenti della moderna tecnologia e del sistema di mercato verrà condotta in forme ancor più atipiche. In altre parole, mentre si assiste a una relativa riduzione della violenza militare, allo stesso tempo si constata una aumento della violenza politica, economica e tecnologica. Tuttavia, indipendentemente dalle forme assunte dalla violenza, la guerra è guerra, e un cambiamento nella sua veste esteriore non le impedisce di mantenere i principi della guerra in sé” v. Guerra senza limiti, Gorizia 2001, p. 39; si può dire, mutuando una frase di Clausewitz, che la guerra ha una grammatica, ma non una logica, cambia la grammatica, ma non la logica.

[7] Il concetto di Gentile è più sfumato, distinguendo tra diverse forme di guerra: v. appresso al punto 7.

[8] La stessa tesi, sotto diversi profili – riecheggia in altri passi di Sun Zu, con “agisci soltanto nell’interesse dello Stato. Se non sei più che sicuro di riuscire, non impiegare uomini. Se non sei in pericolo, non combattere”; o sul calcolo (costo) delle risorse necessarie alle spedizioni militari “Ricorda: quando si mobilita un esercito di centomila uomini per impegnarlo in una campagna militare a mille li dallo Stato, le spese che ne derivano per il popolo, costituite dagli esborsi dell’Erario, ammontano a mille pezzi d’oro al giorno. Possono essere necessari anni di guerra per un giorno di vittoria. Ne nascerà un grande turbamento, sia interno che esterno; il popolo sarà sfibrato dalle imposte, e i bilanci di settecentomila famiglie andranno in dissesto” v. L’arte della guerra, Edizioni Mediterranee, Roma 2005, pp. 49, 143, 145.

[9] v. Kautilya, Arthasastra, trad. fr. Paris 1998, p. 40.

[10] L’esame nell’Arthasastra di cause, presupposti, condizioni della guerra e della pace è assai più articolato, e vi rimandiamo; lo consideriamo qui solo per l’aspetto “economico” che è quanto interessa ai fini dello scritto.

[11] Ad esempio basta appoggiare, anche con mezzi economico-finanziari, uno dei belligeranti. É la linea, tra tanti, seguita dal Cardinal Richelieu nella guerra dei Trent’anni, aiutando i protestanti fino alla (prima) battaglia di Nordlingen (poi si trasformò in guerra aperta agli Asburgo); o di F.D. Roosevelt nell’appoggio finanziario ed economico alla Gran Bretagna, alla Cina (e all’Unione Sovietica), fino a Peral Harbour (dopo di che fu guerra).

[12] La guerra del Peloponneso, V, 113. G. Miglio riconduce il concetto di “pace” intesa come anti-politica a “una tendenza culturale squisitamente borghese”. Ovviamente la pace come situazione permanente dell’umanità non è mai esistita e non può esistere, a meno che non venga meno la costante dell’obbligazione politica (e l’esigenza umana che la fonda). In questo senso intesa, la pace è riconducibile a quelle “anti-realtà” ideologiche che “si contrappongono alla struttura dell’obbligazione politica. Sono valori utopici, la cui permanenza è legata proprio al fatto che contraddicono parti di quella struttura costante; pretendono di contraddire alcune regolarità fondamentali dell’obbligazione politica. La pace nega la realtà indistruttibile della conflittualità e della guerra, sulla quale è basata la sintesi politica; l’eguaglianza nega la struttura articolata delle istituzioni politiche; la libertà nega la stessa struttura delle procedure convenute delle convenzioni pattuite e delle istituzioni politiche”, v. G. Miglio Lezioni di politica, vol. II°, Bologna 2011, p. 419.

[13] “E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere. Perché gli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa, per quello che si dovrebbe fare, impara più presto la ruina che la perseverazione sua”.

[14] Evitiamo di ricordare i principali teologi che se ne sono occupati. Rinviamo per questo a Roberto De Mattei, Guerra Santa. Guerra giusta, Casale Monferrato 2002.

[15] La necessità di distinguere nemico e criminale è già nel Digesto: “Hostes’ hi sunt, qui nobis aut quibus nos publice bellum decrevimus: ceteri ‘latrones’ aut ‘praedones’ sunt”, Nemici sono coloro che ci hanno o cui noi abbiamo dichiarato pubblicamente guerra; gli altri sono briganti o pirati (v. D. 118, 50, 16).

[16] Paix et guerre entre les nations, trad. it. Milano 1983, p. 143.

[17] v. C. Schmitt Der Nomos der Erde, trad it. Milano 1991, pp. 335 ss. (sul mutamento di significato della guerra tra le due guerre mondiali).

[18] Wirtschaft und Gesellshaft, vol. I, trad. it. Milano 1980, p. 51.

[19]De tout temps on a essayé de menacer l’existence politique d’une collectivité par d’autres moyens que la guerre: affamer la population, soudoyer un parti politique et favoriser sa prise du pouvoir afin d’opérer ensuite, avec son accord, le rattachement de ce pays à une autre collectivité… mettre l’embargo sur des produits de première nécessité, faire un blocus, etc. Que sont les moyens dits pacifiques comme l’encerclement diplomatique ou les sanctions que l’on prend contre un pays récalcitrant, sinon des mesures d’hostilité destinées à menacer l’existence de ce dernier ? Bref, il existe toutes sortes d’agressions. A côté de la conquête militaire, il y a les moyens psychologiques de la propagande, de la mise en condition, de la subversion, les aggressions économiques, sociales et thecniques ou encore les armes biologiques. Les ressources de l’inimitié sont donc extrêmement variables”, v. Freund L’essence du politique, Paris 1965, p. 507.

[20] Al riguardo è opportuno ricordare in questo caso il rapporto che Hauriou vedeva tra teologia e diritto: l’una il nocciolo, l’altro l’involucro. O il giudizio di Freund che l’obbligazione giuridica è eteronoma: suppone una volontà diversa da quella del giurista.

[21] Op. cit. p. 507.

[22] “… qui a empêché la plupart des auteurs ayant écrit sur la politique de voir dans la relation ami-ennemi un présupposé du politique, en quoi ils se sont trompés et sur la nature de la politique et sur celle de la guerre” Freund Op. loc. cit.

[23] Per i giuristi più attenti al pensiero realista, la guerra è un fatto: dichiararla è un obbligo giuridico. Farla senza dichiarazione non è un merito: è semplicemente la violazione di una regola di diritto internazionale.

[24] De charitate, disp. 13 De Bello, sectio IV. E’ chiaro che, senza la limitazione dell’interesse proprio (anche quindi nel rinunciare all’attuazione d’interessi propri) le cause di guerra si moltiplicherebbero geometricamente.

[25] Ad esempio l’embargo su prodotti alimentari. Se ciò provoca carestie (ed epidemie) è soprattutto a carico della popolazione civile, e della fazione più debole della stessa. Così si viola la limitazione a non coinvolgere nella guerra gli innocentes: se si può credere che il progresso tecnologico abbia prodotto delle bombe “intelligenti” tali da ridurre al minimo i c.d. “danni collaterali”, non ci risulta che esistano delle carestie “intelligenti”. Sull’embargo dell’IRAQ è interessante leggere l’appello consegnato da 54 vescovi cattolici al Presidente Clinton nel gennaio del 1998; i quali giudicavano “Questa campagna di bombardamenti, assieme all’embargo totale in vigore dall’agosto 1990, era, ed è, un attacco contro la popolazione civile dell’Iraq. Una tale guerra contro la popolazione è stata condannata in maniera inequivocabile dal corpus magisteriale più autoritativo della Chiesa cattolica, il Concilio Vaticano II (1962-1965). Agenzie indipendenti continuano a documentare il devastante impatto delle sanzioni sulla popolazione civile … qualunque sia l’intento di queste sanzioni, siamo costretti da questa valutazione a giudicarle una violazione dell’insegnamento morale, segnatamente come è formulato nella tradizione cattolica”.

[26] in “Schriften der Akademie für Deutsches RechtGruppe Völkerrecht, n. 7, Berlin, 1939, trad. it. in Lo Stato X (1939), pp. 541-548.

[27] e prosegue “l’espressione usata dalla relazione Lytton sull’avanzata dei giapponesi «war disguised» non presenterebbe in sé alcunché di nuovo. Il nuovo era lo stato intermedio fra pace e guerra, elaborato giuridicamente e reso istituzione dalla Lega delle Nazioni e dal patto Kellogg”. D’altra parte quando Schmitt, sottolineando l’incongruenza dei concetti di guerra e pace applicati dalla Lega delle nazioni (determinati a contrario per cui non era guerra l’aggressione giapponese alla Cina ma lo era quella italiana all’Abissinia) rispetto a quello di vera pace ricorda da vicino la concezione della pace come “tranquillità dell’ordine” di S. Agostino.

[28] L’art. 9 della Costituzione giapponese prescrive “Aspirando sinceramente ad una pace internazionale fondata sulla giustizia e sull’ordine, il popolo giapponese rinunzia per sempre alla guerra, quale diritto sovrano della Nazione, ed alla minaccia o all’uso della forza. quale mezzo per risolvere le controversie internazionali.

Per conseguire l’obiettivo proclamato nel comma precedente, non saranno mantenute forze di terra, del mare e dell’aria, e nemmeno altri mezzi bellici. Il diritto di belligeranza dello Stato non sarà riconosciuto”; l’art. 11 di quella italiana dispone che “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Le due espressioni normative non vanno prese troppo alla lettera: né la rinuncia della guerra ha impedito al Giappone di riarmarsi, né il ripudio italiano della stessa era totale (perché era ammessa quella di difesa) né del tutto efficace, perché non ha impedito di mandare corpi di spedizione all’estero per “pacificare” sotto comando straniero popolazioni riluttanti.

[29] In effetti il concetto di guerra di Gentile è anch’esso più esteso di quello usuale di guerra come atto di forza “Tra i modi di superare l’opposizione è la guerra: della quale il filosofo non può ignorare che ci sono mille forme, e si vengono moltiplicando col moltiplicarsi dei modi in cui si esplica l’espressione del pensiero umano e la volontà si sforza di farsi valere. C’è la guerra a punte di spillo, e c’è la guerra a colpi di cannone. Le punte di spillo sono parole: parole però che tendono a scopi sostanzialmente affini a quelli perseguiti dal cannone: l’annientamento dell’avversario. Ma la guerra propriamente detta è quella che gli Stati combattono con tutte le armi più micidiali per aver ragione l’uno dell’altro, quando l’uno sia d’impedimento all’altro nel raggiungimento di fini essenziali alla sua esistenza”  (i corsivi sono nostri) Genesi e struttura della Società, rist. Firenze 1983, p. 104.

[30] Come per Socrate nel “Critone”, nel noto passo della prosopopea delle Leggi (le quali però non sono le “norme” dei neo-positivisti).

[31] Cosa che è assai chiara nella concezione dei giuristi istituzionisti. Per Maurice Hauriou l’istituzione – per la modernità lo Stato – ha la funzione principale di “Protéger la société individualiste par son gouvernement, lui assurer la paix et l’ordre au dedans et au dehors par sa force armée, par sa diplomatie, par sa police, par sa législation, par ses tribunaux”, Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, p. 49. La funzione di protezione è l’obbligo principale dell’istituzione nei confronti della comunità (e così dei governanti verso i governati). Per Santi Romano la necessità è fonte di diritto superiore alla legge. Se la necessità (il cui concetto nel giurista siciliano non è molto distante dal Ausnahmezustand di Carl Schmitt) impone di violare la legge, la “violazione” della norma è legittima, in quanto salvaguarda l’ordinamento. Sia in Hauriou che in Romano e Carl Schmitt è evidente la lezione di Hobbes, per cui il protego ergo obligo è la sostanza dell’obbligazione politica (v. Leviathan, Esame critico e conclusione, rist. Bari 1974, in particolare p. 661). Pretendere di obbligare senza proteggere, o viceversa di essere protetti senza essere obbligati è un inganno e un’assurdità.

[32] Sul punto v. Gianfranco Miglio, Lezioni di scienza della politica, Bologna 2011, pp. 320 ss.

INTRODUZIONE ALLA “POLITICA COME DESTINO”_2A PARTE, di Teodoro Klitsche de la Grange

http://italiaeilmondo.com/2018/07/02/introduzione-alla-politica-come-destino_1a-parte-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/

Qui sotto la seconda parte del saggio di TKdlG. Continuiamo per tanto con la pubblicazione di testi alquanto interessanti riguardanti l’approccio al “politico” del pensiero liberale “forte” in contrapposizione e critica al pensiero liberale “debole” ancora nettamente predominante, se pure in crisi nella sua capacità persuasiva. Il discrimine tra le due varianti riguarda appunto l’atteggiamento verso e l’analisi della funzione del politico, inteso nella sua essenza e nella sua relazione con i diversi ambiti dell’agire umano. Il peso ancora minoritario della componente realista di questa corrente di pensiero è evidenziato dal misconoscimento dell’importanza, in particolare in Italia, di pensatori come Julien Freund e dalla demonizzazione e travisamento di altri come Carl Schmitt. Essa, la sua componente “realista” appunto, al contrario rientra a pieno titolo nell’alveo del dibattito sul conflitto strategico tra centri decisionali ripreso ed elaborato ultimamente in Italia da Gianfranco La  Grassa. E’ il nuovo punto di incontro e di confronto decisivo di varie correnti del pensiero politico cresciuto ed affermatosi nel ‘800 e nel ‘900 e ormai giunto ad una drammatica crisi delle proprie chiavi di interpretazione. Teodoro Klitsche de la Grange continua ad offrire da par suo il proprio contributo e ad alimentare il dibattito intrapreso pure da questa redazione, in particolare da Massimo Morigi e Luigi Longo. Buona lettura_Germinario Giuseppe

Sotto un altro profilo la concezione di Schmitt, corroborata dalle regolamentazioni normative che cita[1], è in linea con il “fattuale”. La regolamentazione/previsione dei poteri eccezionali è aderente alla realtà e alla necessità: se le costituzioni possono scegliere, disporre e regolare o meno i poteri eccezionali (cioè abolirli o non istituirli) non possono abolire le situazioni eccezionali. Solo l’Onnipotente può evitare guerre, calamità naturali, crisi economiche. Così un liberalismo realistico non può non prescrivere la normativa necessaria in siffatte emergenze; ed in effetti in quasi tutte le costituzioni lo dispone. Dove non è prescritta vale la regola di Jhering, e più ancora di Santi Romano: che “la necessità fa legge” ossia che è sicuro che nella situazione d’emergenza la costituzione sarà violata. E, se non violata, probabilmente sarà distrutta l’istituzione politica. Cosa che il liberalismo “ideale” – o almeno parte di esso – non considera, contrariamente a Schmitt, la cui critica è quindi confortata dalla storia.

  1. Sempre il liberalismo esangue (e post-moderno, ma non solo) ha, se non abolito, messo tra parentesi il nemico (e la guerra); senza considerare sia la possibilità concreta che l’ostilità degeneri in guerra, sia soprattutto che gli interessi contrapposti, non possano essere conciliati con procedure giuridiche (trattati, mediazioni, Tribunali internazionali). Già da prima Constant e Spencer ritenevano le società orientate ad attività economiche tendenzialmente pacifiche; e Schmitt critica Constant perché considerava le società orientata al commercio (e al benessere economico) meno guerrafondaie delle comunità tradizionali.

Il tempo si è incaricato se non di contraddire, almeno di ridimensionare questa concezione. La diffusione nel periodo dell’imperialismo (classico) e cioè nel XIX secolo (ed oltre) di guerre dettate da motivi economici, d’altra parte tutt’altro che sconosciute prima (e dopo), ne è la prova[2].

Nella successiva “fase” tardo-moderna (e post-moderna) si è creduto di trasferire dall’economico e addossare al diritto il fardello di poter eliminare e/o ridurre (e decidere) i conflitti non solo all’interno – che è più naturale – ma anche all’esterno della sintesi politica. Ma se all’interno c’è comunque il soccorso della sintesi politica “totale e decisiva” col monopolio della violenza legittima e della decisione in ultima istanza, cioè sovrana e (spesso apparentemente) “neutra”, all’esterno mancano l’uno e l’altra.

Il che ha condotto a derogare, nel corso del XX secolo al principio internazionalistico che “par in parem non habet jurisdictionem”, attivando istituzioni e Tribunali internazionali, sia per la soluzione di controversie con (e tra) Stati e tra privati e Stati, sia per giudicare, specialmente dopo le guerre, i vinti da parte dei vincitori[3]. Il tutto in nome di un “diritto” universale che, al di là delle buone intenzioni, ha perso di vista come il diritto abbia anche, necessariamente, un momento (e apparati) d’applicazione. La fase successiva è stata di promuovere guerre – non denominate tali – in nome dei “diritti umani” che per lo più, al di là delle buone intenzioni – sempre presenti – hanno dimostrato che è solo la proporzione delle forze a determinare se, in quei Tribunali si è giudicati (e prima ancora, se il “reo” è debellabile senza (o con pochi rischi); onde, successivamente, i capi dell’unità politica “pacificata”, sono giudicati dalle apposite Corti (internazionali o meno). Perché un’operazione di peacekeeping contro una potenza, anche media, ancorché notoriamente vi si pratichi la violazione dei diritti umani, non si è finora vista. Spedizioni punitive del genere (e successivi giudizi dinanzi a Corti internazionali) sono state promosse in conflitti (prevalentemente) etnici, relativamente a entità statali minori e gruppi politici non consolidati, privi di strumenti militari decisivi, ed hanno visto sfilare come imputati generali e politici balcanici o dell’Africa nera.

Nessuno dei quali aveva il potere d’opporsi realmente all’operazione benintenzionata come avrebbero potuto fare tanti altri, perciò al riparo da interventi umanitari. Il che conferma il detto di Hegel che non c’è Pretore tra gli Stati[4]; perché fondandosi ciò su volontà particolari sovrane, avrebbe carattere “accidentale”. Più che altro mentre a fondamento della giustizia statale c’è un istituzione, di per sé generale, superiore, decisiva e durevole, a base di quella internazionale vi sono soltanto uffici (chiamarli organi è forse eccessivo), la cui esistenza è frutto di accordi e trattati particolari e pertanto carente (del carattere) di “istituzionalizzazione”, politica in specie.

Anche in tal caso la critica di Schmitt coglie nel segno: non appare realistico né confermato dalla storia che possano eliminarsi o ridursi drasticamente i conflitti e quindi l’inimicizia politica che ne deriva, né per l’orientamento sociale all’attività ed al benessere economico, né per decisione dei Tribunali[5].

Come la costituzione è l’assetto e l’organizzazione della comunità politica, in base all’insopprimibile (Freund) presupposto del politico  del comando/obbedienza; così non è possibile eliminare dal mondo la lotta e il nemico, altro presupposto del politico.

A base di tali illusioni c’è la credenza che sia possibile trovare, tra esseri razionali, un punto d’incontro, malgrado diverse visioni del mondo. Max Weber assicurava che si arriva comunque a valori non negoziabili e non vi è modo di conciliarli[6]. Un acuto studioso argentino come Bandieri, ha qualificato una delle correnti riconducibili a un (vago) liberalismo esangue, e cioè il c.d. “neocostituzionalismo”, come positivismo di valori, che distingue da quello di Kelsen (ed epigoni) che è positivismo di norme.

Nei casi estremi (quelli che più contano), tra comunità riconoscentesi in “tavole di valori” inconciliabili una decisione giuridificata o meglio (e soprattutto) giurisdizionalizzata, è pertanto impossibile.

Valitutti sostiene che “secondo Schmitt, l’unità politica è sempre unità decisiva, sovrana e totale. Egli scrive, e noi lo abbiamo già riferito, che è totale perché l’uomo viene afferrato tutto alle radici stesse del suo essere dalla partecipazione politica alla quale egli si da. Aggiunge incisivamente che la politica è destino… Il destino è il fatum in senso greco-latino, cioè una necessità superiore e ineluttabile. Per Schmitt il totalitarismo politico è il destino in questo significato”.

Conseguenza di ciò è che “il nostro è un tempo nel quale la distinzione schmittiana tra amicus e hostis, come distinzione totale e totalizzante, fornisce il criterio interpretativo di porzioni e manifestazioni cospicue della nostra realtà politica e sociale”[7]. Secondo il liberale italiano questo iperpoliticismo è viziato: “Il vizio, se così possiamo chiamarlo, attraverso il quale passa nella realtà effettuale il totalitarismo politico, è quello stesso attraverso il quale passa l’unilateralità dell’apoliticismo, cioè la reductio ad unum della multiforme vita spirituale dell’uomo”. L’apoliticismo è frutto non tanto del primato del Bourgeois sul citoyen ma dell’essere in corso “una grande rivoluzione utilitaristico-edonistica, che ha le sue armi nella scienza e nella tecnica e che è liberatrice di ingenti forze già compresse, ma che intanto produce uno squilibrio della vita spirituale”[8]. Nella vita spirituale del (tardo) XX secolo (ma anche oggi) è sovrana la praxis[9]. Così si crea uno squilibrio, riduttivo della comune umanità[10].

Il tutto presuppone, scrive Valitutti, la priorità della figura dell’hostis anche su quella dell’amicus[11].

  1. A considerare la critica di Valitutti a Schmitt, ancorché le censure del primo al secondo siano centrate, occorre valutarle nel contesto del pensiero di Schmitt, oggigiorno maggiormente noto al lettore italiano per la traduzione quasi integrale dell’opera del giurista di Pletteberg e per i contributi che ha suscitato.

Valitutti rimprovera a Schmitt l’ “iperpoliticismo” e, ad esso strettamente collegata, una concezione per così dire “settoriale” dell’uomo. Tuttavia l’intero pensiero di Schmitt è orientato allo stato d’eccezione. Come scrive nella Politische theologie nella situazione d’emergenza “L’esistenza dello Stato dimostra qui un’indubbia superiorità sulla validità della norma giuridica”[12]. Quindi l’eccezione, e la guerra, che dello stato d’eccezione è l’aspetto più rilevante, non nega la normalità, ma ne ridimensiona l’importanza e la stessa capacità di comprendere interamente il diritto, pubblico in particolare. Il diritto è norma ed eccezione: è ordinamento della vita della comunità e questa è fatta sia di situazioni normali che di eccezionali.

La critica al costituzionalismo liberale esangue consiste così proprio nel fatto che non considera l’unità e la completezza dell’ordinamento e che questa ricomprende sia norme che ordinamento, sia comando che obbedienza, legittimità oltre che legalità, forza e norma, principi di forma politica e principi dello Stato borghese. E dimentica che in tante occasioni, come nella seconda guerra mondiale, l’esistenza politica delle democrazie liberali è stata difesa anche con bombardamenti indiscriminati (atomici e non), non proprio da considerare mezzi umanitari. Alla fine le teorie da Schmitt criticate sono più che errate, parziali: coperte strette che non coprono e non spiegano l’intero e tantomeno come, proprio nello stato d’eccezione, la parte “politica” prevalga su quella “normativa”. Così avviene anche per gli altri aspetti.

Come l’antropologia di Schmitt: se è vero, come scrive Valitutti, che Schmitt non considera l’uomo “tutto intero” ma enfatizzandone l’aspetto politico, è pure vero che, nel caso di guerra il cittadino (il componente della comunità) ha il dovere di difendere la comunità e così il rischio di morire. Cosa che generalmente non succede nel discutere una teoria scientifica o filosofica.

Quindi è nell’emergenza (e in vista di quella) che lo “squilibrio”  notato da Valitutti, si realizza a causa del montare di quello che Clausewitz chiamava il “sentimento politico”, elemento fondamentale – ancorché non esclusivo – del triedro della guerra[13].

Anche in questo caso il prevalere della politica è ridimensionato proprio dallo (e in vista) dello stato d’eccezione, d’altronde, come scrive Agamben, istituto tipico degli ordinamenti costituzionali moderni.

Piuttosto quanto sostiene Valitutti è spiegabile con il periodo in cui è scritto: in pieno sessantottismo e post-sessantottismo dove  si consumavano le ultime battute del comunismo (prossimo all’implosione), con slogans che ne enfatizzavano il potenziale liberatorio e di conformazione di una nuova società umana, per realizzare la quale nessuno sforzo (e mezzo) doveva essere risparmiato (terrorismo compreso). In quel contesto il personale (era) politico: espressione che coniuga iperpoliticismo con un sotteso edonismo (cioè con la maior pars dell’a-politicismo).

Valitutti fa carico a Schmitt di sottovalutare l’attività spirituale e teorica dell’uomo. Anche qui pare piuttosto che Schmitt segua quanto scrive de Maistre “L’uomo, per il fatto di essere contemporaneamente morale e corrotto, giusto nell’intelligenza e perverso nella volontà, deve necessariamente essere governato”[14]. E, in connessione con la sua antropologia, la perversità della volontà umana, è indipendente dalla (razionalità) e giustizia della sua intelligenza (e, spesso su quest’ultima prevalente).

Va da se che in tale contesto realistico è una nobile quanto illusoria aspirazione pensare che una decisione si possa raggiungere attraverso l’accordo tra uomini razionali, ispirati da imperativi categorici[15].

Quando poi Valitutti stigmatizza come “fantoccio polemico” il liberalismo criticato da Schmitt, la censura è largamente condivisibile. A un liberale italiano, peraltro di formazione  idealistica come Valitutti, non possono che apparire (almeno) parziali e riduttivi gli appunti, pur spesso centrati, di Schmitt al “liberalismo”. Per un liberale italiano il liberalismo è soprattutto “religione della libertà” e, scriveva Croce, come tutte le religioni, crea guerre di religione. Così furono in Italia le guerre civili del 1799 e del 1860 (senza aggiungere quella del 1806) in particolare nel Mezzogiorno. Lo Stato nazionale non fu costruito da congressi, accordi, trattati, sentenze ma da tre guerre interstatali e da una guerra civile (il c.d. brigantaggio). Altro che agreements tra esseri razionali. E di ciò è consapevole ogni liberale che abbia senso storico-politico. Diceva V.E. Orlando che “nulla per noi è più intollerabile della contrapposizione; Libertà e Patria”.

Lo Stato nazionale fu costituito – diversamente che in altri paesi europei – non dalle monarchie assolute, ma dalla collaborazione tra monarchia sabauda e movimento nazionale, di cui i liberali erano  la maior pars e cui era evidente che lo Stato era “nel fatto sorto da un procedimento rivoluzionario”[16].

Il principio politico (la monarchia mista con elementi di democrazia) era coniugato ai principi del Bürgerliche Rechtstaat in uno Stato “rappresentativo”. Il che vaccinava (per lo più) i liberali italiani da certe concezioni riduttive del liberalismo, come quelle criticate dal giurista renano. Lo stesso termine con cui giuristi e scienziati politici del periodo liberale dello Stato nazionale lo qualificavano prevalentemente come rappresentativo[17] è indice sia della consapevolezza del processo di costruzione nazionale (e radicamento) che dell’unione dei principi di forma politica con quelli dello Stato borghese.

C’è un altro aspetto, meno “esclusivo”, ma comunque importante, nel pensiero liberale italiano[18]: è la concezione realistica dell’uomo, l’antropologia (moderatamente) negativa. Questa, tuttavia, è comune a ogni pensiero liberale “forte”.

Già gli autori del Federalista fondavano su quella sia la necessità dello Stato sia quella del costituzionalismo (liberale)[19]. La stessa antropologia realistica è presupposta nelle concezioni di Croce, di Fortunato, Einaudi, Puviani e tanti altri. Soprattutto nel pensiero di Mosca e Pareto l’uomo non è considerato  (solo) essere razionale e soprattutto capace di seguire una condotta  razionale, ma anche dotato di volontà, istinti, pregiudizi in grado di determinare le azioni assai più della razionalità.

Proprio Pareto con la sua teoria dei  residui  (non razionali, corrispondenti ad interessi e istinti  ) e delle derivazioni (apparentemente razionali) ne ha fatto una trattazione analitica “preceduta” dall’ancora più rilevante tra azioni logiche  e azione non logiche: le une e le altre soprattutto in relazione allo                      iato tra scopo perseguito e risultato conseguito.

Anche Mosca giudicava che la grande maggioranza degli esseri umani non agisce in base a convinzioni razionali (scientifiche) ma a illusioni diffuse[20].

Ciò non era carattere “proprio” ed esclusivo del pensiero italiano: ma è, in questo, almeno nel periodo suddetto, particolarmente sviluppato (ed autorevole).

  1. In particolare il fantoccio polemico, che Valitutti critica in Schmitt è ciò che il giurista tedesco vede nei pensatori dallo stesso criticati, ma che non è né il liberalismo storico “classico” – in particolare italiano – né quello che emerge da un’analisi fattuale ma anche giuridico-normativa, sia dei comportamenti che degli ordinamenti dello Stato borghese. È piuttosto quel che risulta da condivisibili aspirazioni che hanno il limite di non considerare o di sottovalutare le costanti ossia, le regolarità della politica (Miglio), con la conseguenza di non spiegare la conformazione dello stesso Stato democratico (o borghese a seguire Schmitt).

In questo senso l’analisi di Valitutti fatta all’inizio della “rinascita” in Italia dell’interesse per il pensiero del giurista renano[21] e in tempi in cui era demonizzato (e misconosciuto) molto più di oggi, è espressione di un coraggio intellettuale e di una pregevole indipendenza e chiarezza di giudizio.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] V. Verfassungslehere, trad. it. cit. p. 154 ss, v. anche pp. 46,56, 236.

[2] D’altra parte Schmitt ha avanzato anche la spiegazione, assai interessante, che ciò dipendeva dalla centralità nello spirito europeo del XIX secolo dell’economia e del conseguente criterio del raggruppamento (principale) di amicus/hostis. Per cui il raggruppamento decisivo è quello borghese/proletario, come evidente in particolare nei bolscevichi e nel concetto di guerra civile mondiale. V. ne Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 167 ss.

[3] Anche se la normativa internazionale più recente ha evitato (almeno) che nel ruolo dei giudici vi fossero i vincitori e in quella dei giudicati, i vinti, precostituendo dei giudici non coinvolti.

[4] Hegel spiegava che la rappresentazione kantiana di una pace perpetua, presuppone la concordia tra gli Stati. Considera che questa si baserebbe su fondamentali morali, religiosi ed altri; ma avrebbe “pur sempre per base delle volontà sovrane particolari”, e perciò rimarrebbe affetta da accidentalità. Grundlinien des Philosophie des Recht, trad. it. di V. Cicero, Milano 1995, §333 p. 555

[5] Anzi è l’esistenza e lo svilupparsi del conflitto che rende necessario (per arrivare ad una soluzione dello stesso) ad “internazionalizzare” il diritto derogando a quello normale “interno”, come scriveva Santi Romano, nel caso delle guerre civili (amnistie, scambi di prigionieri, accordi), v. Corso di diritto internazionale, Padova, p. 73. Il processo di cui scrive il giurista è proprio l’inverso di quello criticato e la cui ratio è di applicare per risolverlo istituti di diritto interno. Infatti come nota Santi Romano “Così, in caso d’insurrezione o di guerra civile, le norme di diritto internazionale, specialmente attinenti alla guerra e alla neutralità, vengono spesso riferite agli insorti … Ciò può accadere per diverse ragioni, che però si riducono ad una sola: l’impotenza dello Stato nel quale scoppia l’insurrezione a dominare col suo ordinamento gli autori di essa, per cui lo stesso Stato sente il bisogno, per mitigare la lotta, di condurla secondo le norme internazionali, purchè anche gli insorti adottino uguale comportamento” (il corsivo è mio).

[6] “Tra i valori, cioè, si tratta in ultima analisi, ovunque e sempre, non già di semplici alternative, ma di una lotta mortale senza possibilità di conciliazione, come tra «dio» e il «demonio». Tra di loro non è possibile nessuna relativizzazione e nessun compromesso. V. ora trad. it.. di P. Rossi ne Il metodo delle scienze storico-sociali, Milano 1980, p. 332. Tuttavia prosegue: “Beninteso, non è possibile secondo il loro senso. Poiché, come ognuno ha provato nella vita, ve ne sono sempre di fatto, e quindi secondo l’apparenza esterna, ad ogni passo”. Il che significa che il compromesso è spesso praticabile ma non sempre e non in tutti i casi.

[7] Ed aggiunge “Oggi si sta moltiplicando il purus politicus, l’uomo per cui non esiste che la politica. Poiché la politica è lotta, il purus politicus è un uomo lottante … non poche antitesi si trasformano e si esasperano in antitesi politiche nel senso chiarito da Schmitt, cioè in antitesi tra amici e hostes.

[8] E prosegue “perciò si arrugginiscono, quando non si atrofizzano, quelle altre attitudini che permettono all’uomo di abbracciare tutta la realtà e di nutrirsene, e in particolare le attitudini conoscitive”

[9] “La scienza e la tecnica sono baconianamente ricercate e utilizzate per il cangiamento e il miglioramento delle condizioni di vita. La praxis è sovrana e assorbente e distoglie dalla teoria. È l’impeto della vitalità che ostruisce ad un tempo quelle che il filosofo ha chiamato le fonti della cratività morale e le vie della ricerca della verità”.

[10] Scrive Valitutti che ciò comincia da Marx e dalla celebre 11ª postilla a Feuerbach, per cui compete ai filosofi (futuri) cambiare il mondo più che interpretarlo “Oggi si tende a possedere la realtà solo praticamente e perciò solo utilitaristicamente”. La ragione è “neutralizzata; perde il rapporto con il contenuto oggettivo perché è usato per soli fini utilitari, e non per conoscere la verità”. Da un lato c’è l’apoliticismo la cui conseguenza è che “scarseggiano i fattori unificanti e aumentano quelli dirompenti. Gli uomini si accomunano e concentrano nel godimento del benessere che è intrinsecamente isolante”. E l’altra faccia di questo Giano è il “raggrupparsi politico, in cui il cemento è l’ostilità contro l’hostis, cioè contro il raggruppamento nemico. Tra apoliticismo e panpoliticismo c’è passaggio pur se il secondo si manifesta talvolta con il volto tragico del vendicatore che vuole colpire la tirannia dell’edonismo”

[11] “Concezione che ritiene erronea e “cattiva”; ma cattive teorie possono originare cattive coscienze: “come la cattiva coscienza si insinua nella cattiva teoria e le fornisce impulsi e stimoli, così la cattiva teoria fornisce un sostegno alla cattiva coscienza”.

[12] V. trad. it. di P. Schiera ne “Le categorie del politico” Bologna 1972 p. 39, e aggiunge “Il caso d’eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale. Qui la decisione si distingue nella norma giuridica e (per formulare un paradosso) l’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto. Per la dottrina dello Stato di diritto di Locke e per il razionalistico XVIII secolo, lo stato d’eccezione era qualcosa di incommensurabile. La diffusa consapevolezza del significato del caso d’eccezione che domina il diritto naturale del XVII secolo, va presto perduta nel corso del secolo seguente, allorché viene instaurato un ordine relativamente durevole … Solo una filosofia della vita concreta non può ritrarsi davanti  all’eccezione e al caso estremo, anzi deve interessarsi ad esso al più alto grado. Per essa l’eccezione può essere più importante della regola, e non in base ad una ironia romantica per il paradosso, ma con tutta la serietà di un punto di vista che va più a fondo delle palesi generalizzazioni di ciò che comunemente si ripete. L’eccezione è più interessante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto; non solo essa conferma la regola: la regola stessa vive solo dell’eccezione. Nell’eccezione, la forza della vita reale rompe la crosta di una meccanica irrigidita nella ripetizione” e conclude il passo “Abitualmente non ci si accorge della difficoltà poiché si pensa al generale non con passione ma con tranquilla superficialità. L’eccezione al contrario pensa il generale con energica passionalità”

[13] Si noti che il generale prussiano il quale distingue, tra l’altro, guerra assoluta e guerra “normale”, anche nella concezione generale del fenomeno bellico ritiene che “la guerra si presenta inoltre nel suo aspetto generale, sotto il rapporto delle tendenze che regnano in essa, come uno strano triedro composto:

  1. della violenza originale del suo elemento, l’odio e l’inimicizia, da considerarsi come un cieco istinto;
  2. il giuoco delle probabilità e del caso, che le imprimono il carattere di una libera attività dell’anima;
  3. della sua natura subordinata di strumento politico, ciò che la riconduce alla pura e semplice ragione.

La prima di queste tre facce corrisponde più specialmente al popolo, la seconda al condottiero ed al suo esercito, la terza al governo” Vom Kriege trad. it. Milano 1970, vol. I, p. 40. Quindi anche nella guerra sono presenti elementi razionali, che contribuiscono a ridimensionarla ed umanizzarla.

[14] V. Du Pape, trad. it. Milano 1995, p. 155.

[15] Che è poi uno dei presupposti di un liberalismo esangue, ispirato al pensiero di Kant (ma sottovalutando il “legno storto”). Ma che tale condivisibile aspirazione possa costituire una base – sempre e ovunque valida – non è credibile, per cui si trasforma in una sicura illusione, che seleziona della natura umana il connotato più gestibile: la ragione. E, al tempo, sminuisce quello che lo è meno, la volontà (istinti, interessi, pregiudizi e così via).

[16] V. V.E. Orlando Principii di diritto costituzionale p. 51.

[17] Ricordiamo tra gli altri: G. Mosca, Appunti di diritto costituzionale, Milano 1912 (il quale scrive anche di governo rappresentativo, di regime rappresentativo).

[18] D’altra parte condiviso anche con gran parte dai pensatori liberali non italiani.

[19] “Ma cos’è il governo se non la poderosa analisi dell’umana natura? Se gli uomini fossero angeli non occorrerebbe alcun governo. Se fossero gli angeli a governare gli uomini, ogni controllo esterno o interno sul governo diverrebbe superfluo.

Ma nell’organizzare un governo di uomini che dovranno reggere altri uomini, qui sorge la grande difficoltà: prima si dovrà mettere il governo in grado di controllare i propri governanti, e quindi abituarsi ad autocontrollarsi”. V. Il federalista, trad. it. di Bianca M. Tedeschini Lalli, Bologna 1980, p. 396. (Il corsivo è mio).

[20] “La scienza e tutti quei brani di verità… sono sempre stati l’opera di un numero molto scarso d’individui… Le masse finora non hanno mai vissuto della scienza e per la scienza, ma di grandi illusioni collettive, che trovano la loro base non nel raziocinio, ma nel sentimento umano” v. Partiti e sindacati nella crisi del regime parlamentare, Bari 1949, p. 85 (il corsivo è mio).. D’altra parte considerazioni simili si trovano in altre opere di Mosca.

[21] Che ha preceduto la “rinascita” dell’interesse in altri paesi. Günther Maschke, in un  saggio dedicato all’impatto del pensiero di Schmitt (scritto poco dopo la morte del giurista) giudicava che l’Italia di quella rinascita costituiva la parte più cospicua, v. trad. francese (col titolo Carl Schmitt «Fossoyeur de la République» «Kronjurist» ou «Dernier classique»? in Nouvelle École n. 44, 1987, p. 53 ss.

SCHEDA DEL LIBRO OGGETTO DI CRITICA

SCHEDA de “LA POLITICA COME DESTINO”

Originariamente pubblicato nella rivista “Nuovi studi politici” nel 1976 e quindi in un volume contenente anche uno scritto di Karl Lowith nel 1978, La politica come destino di Salvatore Valitutti torna oggi nuovamente nelle librerie italiane per i tipi della Liberilibri.

Valitutti, pur da liberale e con atteggiamento critico, accanto alle ragioni di dissenso riuscì ad intuire l’incisività e la validità di alcune intuizioni di Carl Schmitt.

Pubblichiamo pertanto per la gentile concessione della Società Liberilibri e dell’autore, il saggio introduttivo di Teodoro Klitsche de la Grange al libro di Salvatore Valitutti.

INTRODUZIONE ALLA “POLITICA COME  DESTINO”_1A PARTE, di Teodoro Klitsche de la Grange

Continuiamo con la pubblicazione di testi alquanto interessanti riguardanti l’approccio al “politico” del pensiero liberale “forte” in contrapposizione e critica al pensiero liberale “debole” ancora nettamente predominante, se pure in crisi nella sua capacità persuasiva. Il discrimine tra le due varianti riguarda appunto l’atteggiamento verso e l’analisi della funzione del politico, inteso nella sua essenza e nella sua relazione con i diversi ambiti dell’agire umano. Il peso ancora minoritario della componente realista di questa corrente di pensiero è evidenziato dal misconoscimento dell’importanza, in particolare in Italia, di pensatori come Julien Freund e dalla demonizzazione e travisamento di altri come Carl Schmitt. Essa, la sua componente “realista” appunto, al contrario rientra a pieno titolo nell’alveo del dibattito sul conflitto strategico tra centri decisionali ripreso ed elaborato ultimamente in Italia da Gianfranco La  Grassa. E’ il nuovo punto di incontro e di confronto decisivo di varie correnti del pensiero politico cresciuto ed affermatosi nel ‘800 e nel ‘900 e ormai giunto ad una drammatica crisi delle proprie chiavi di interpretazione. Teodoro Klitsche de la Grange continua ad offrire da par suo il proprio contributo e ad alimentare il dibattito intrapreso pure da questa redazione, in particolare da Massimo Morigi e Luigi Longo. Buona lettura_Germinario Giuseppe

INTRODUZIONE ALLA “POLITICA COME  DESTINO”

  1. Quando un liberale italiano come Salvatore Valitutti si confronta con il pensiero di Carl Schmitt è inevitabile che accanto a ragioni di dissenso ve ne siano di apprezzamento, spesso critico, e non demonizzazione aprioristica.

E’ quanto capita in questo saggio, pubblicato prima su “Nuovi studi politici” nel 1976 e poi in libro insieme a un saggio di Karl Lövith su Schmitt (del 1935).

I punti principali della critica di Valitutti a Carl Schmitt, da un punto di vista liberale, sono tre.

Il primo è che la distinzione propria del “politico”, ovvero quella tra Amicus ed Hostis, la quale è come quelle di “buono e cattivo nel settore morale, di bello e brutto nell’estetico e di utile e dannoso nell’economico”, indipendente dalle altre e ad esse irriducibile. Cioè, come avrebbe sostenuto Freund, la politica è un’ “essenza”  (come l’etica, l’economia, l’estetica).

“La distinzione tra amicus ed hostis, di amico e nemico, (è) la estrema intensità di un legame o di una separazione…Amicus  è un gruppo di individui tenuto stretto e compatto dalla reciproca solidarietà determinata dal bisogno di difendersi, per sopravvivere, dall’Hostis. L’hostis  è hostis in quanto si contrappone al gruppo che gli è ostile, ma in se stesso è amicus.  La politica è perciò ostilità che divide e contrappone due gruppi ciascuno dei quali è amicus in se stesso, e cioè reso compatto contrapponendosi all’altro”, scrive Valitutti. I due gruppi hanno un senso dato dall’ostilità, che implica la possibilità di lotta armata. Da qui il rapporto necessario tra politica e guerra per cui se “Clausevitz scrisse che la guerra non è altro che una continuazione delle relazioni politiche con l’intervento di altri mezzi. Schmitt rovesciando la formula avrebbe potuto dire che la pace è la continuazione della guerra con l’intervento di altri mezzi”.

Schmitt, continua Valitutti, sente il bisogno di difendersi dell’accusa di una visione “guerrafondaia”. Lo fa realisticamente, spiegando che ciò consegue dall’ostilità (naturale in un pluriverso) “perché questa è la negazione essenziale di un altro essere”, affermazione che ricorda da vicino quella di Hegel sul nemico come differenza etica (in Schmitt esistenziale)[1]. Centrale, nel pensiero di Schmitt è, secondo Valitutti, il concetto di unità politica “soggetto della politica è il gruppo ma solo alla condizione che il gruppo realizzi una perfetta unità politica. L’essenza dell’unità politica consiste nell’esclusione del contrasto politico all’interno dell’unità stessa”. Ne consegue che “la teoria politica di Schmitt è una teoria monistica perché si basa sulla compattezza dell’unità politica”: una teoria pluralista diviene facilmente strumento di dissoluzione. Tuttavia se all’interno la concezione di Schmitt è monistica, all’esterno è pluralista[2].

Il secondo punto è il pessimismo antropologico.

Si fonda sulla concezione pessimistica dell’uomo, che è la medesima su cui si fonda la scriminante etica (buono, cattivo) e la possibilità di scegliere, cioè la libertà. Ma, scrive Valitutti “Schmitt nell’individuare nella malvagità dell’uomo la molla che fa scattare la politica come distinzione fra amico e nemico, non si avvede che giunge a mettere in crisi proprio   quella autonomia della politica, intesa come indipendenza dalle altre distinzioni esistenti, operanti nella vita umana…giungendo, come giunge, al presupposto  della malvagità umana   come condizione da cui scaturirebbe la necessità della politica, intesa come distinzione fra amico e nemico , egli riconduce la politica stessa proprio ad uno dei termini della coppia degli opposti che è la coppia della vita morale”.

Da ciò consegue la centralità dell’unità politica per comprenderne l’anti-liberalismo di Schmitt[3]. Questo è la “bestia nera” di Schmitt, secondo il quale ha dominato il secolo XIX. Il liberalismo combattuto da Schmitt è tuttavia un fantoccio polemico: “In questo fantoccio figurano lineamenti che appartengono al liberalismo storico ma che sono scissi da altri lineamenti essenziali dello stesso corpus di dottrine e di esperienze e che perciò appaiono deformati”[4]. Schmitt riconosce tuttavia che il liberalismo, come realtà storica, non è sfuggito né all’identificazione/designazione del nemico, né all’abolizione della guerra (perché impossibile)[5]. E Valitutti rileva che “Nella sua polemica contro il liberalismo Schmitt, credendo di incolparlo in realtà gli rende omaggio e comunque è nel vero anche quando sottolinea il rispetto del valore dell’autonomia delle varie forme dell’attività umana come un carattere distintivo del liberalismo” (il corsivo è mio)[6]. Peraltro Schmitt, partendo dal postulato dell’unità politica ha come obiettivo della di esso critica soprattutto il liberalismo sociale e associativo, che garantisce la società come “pluralità di legami sociali”. Ma così configura uno Stato che realizza continuamente “la sua unità come sintesi dialettica di differenti e congiunti centri di iniziativa. L’unità politica, secondo Schmitt, la quale ha la sua più perfetta espressione nello Stato, è viceversa un’unità monistica, immediata e immota”[7].

La distinzione amicus/hostis relativizza tutte le altre in quanto giunge a definire la distinzione politica come quella totale e totalizzante; “per cui Schmitt praticamente vanifica tutte le altre distinzioni. È l’unità politica che decide quello che è buono, bello e utile, e, in contrapposizione, quello che è cattivo, brutto e dannoso”. Il vizio di tale concezione è evidente: nel momento in cui la distinzione politica prevale sulle altre questa è non solo indipendente da quelle, ma superiore[8].

Nota poi Valitutti che tra le tante opposizioni il giurista di Plettemberg non ricorda mai quella di vero/falso[9]

Ovviamente, scrive Valitutti, in questa concezione la “volontà politica è regina assoluta”; onde è legittimo chiedersi “se egli si sia installato con tanta sicurezza e facilità nella sua teoria proprio in quanto è partito dalla preliminare negazione della realtà e del valore del pensiero teoretico”.

Valitutti prende in esame il saggio di Löwith su Schmitt pubblicato insieme al suo nel libro (da cui è tratto il saggio di Valitutti), scrivendo che Löwith attribuisce a Schmitt di credere “solo al valore della decisione per la decisione, cioè alla decisione come fine a se stessa”. Secondo Valitutti è più importante collocare storicamente la teoria di Schmitt tra “quegli atteggiamenti volontaristici e attivistici posti in essere nell’età post-hegeliana in contrapposizione alla tradizione del primato del pensiero teoretico, alcuni dei quali hanno rasentato o investito la stessa ragione deteriorandola o distruggendola”.

  1. Il saggio di Valitutti appare condizionato (v. la nota bibliografica pubblicata nello stesso volume e redatta dall’autore) dal riferirsi, praticamente nella totalità delle opere di Schmitt che cita, a quelle tradotte in italiano fin verso la metà degli anni ’70 del secolo scorso, ed ai saggi su Schmitt pubblicati in Italia nello stesso periodo. Questo fa si che le note critiche dell’autore a Schmitt non tengono conto né delle opere tradotte successivamente (la stragrande maggioranza di quanto scritto dal giurista di Plettemberg) né dei successivi interventi intorno al pensiero del medesimo. Il che non significa che Valitutti abbia travisato la teoria del pensatore renano; ma che la conoscenza di queste ne avrebbe permesso di “centrare meglio” contenuto, obiettivi e senso.

In primo luogo: è vero che il liberalismo considerato da Schmitt è un “fantoccio polemico”; ma lo è per due ragioni.

La prima, ancora diffusa, nelle sue declinazioni “post-moderne”, nell’Italia degli anni a cavallo dei due secoli, e anche attualmente (che è quella prevalente, anche nell’ambiente politico e culturale non italiano) secondo la quale, sintetizzandola al massimo, il liberalismo è quell’ideologia che: a) tutela i diritti fondamentali b) prescrive la distinzione dei poteri (alla Montesquieu) c) discute ogni proposta e soluzione nelle assemblee rappresentative e (soprattutto) nell’opinione pubblica d) tutela i diritti (prevalentemente) attraverso il potere giudiziario e) ritiene la decisione dei conflitti più opportuna se disposta da organi giudiziari.

Non tutti questi aspetti godono di un consenso unanime da parte dei (spesso sedicenti) liberali, ma buona parte si.

Ciò che rende particolarmente ficcante la critica di Schmitt a tale/i concezione/i è che da un lato vi manca un qualcosa che costituisca l’unità politica; dall’altro che il liberalismo è, a intenderlo in senso ideale, non un modo di costituire il potere, ma quello di limitarlo. Onde aspettarsi di costituire una sintesi politica senza un principio politico costitutivo è vano. Come scrive Schmitt citando Mazzini “sulla libertà non si costituisce nulla”.

Ne consegue, come scrive Schmitt nella Verfassungslehre[10], che “I principi della libertà borghese possono ben modificare e temperare uno Stato, ma da soli non fondano una forma politica… Da ciò segue che in ogni costituzione con l’elemento dello Stato di diritto è connesso e misto un secondo elemento di principi politico-formali[11].

Il liberalismo può modificare qualsiasi forma di Stato, facendolo diventare una monarchia o una democrazia liberale, ma non può eliminare il principio di forma politica su cui necessariamente lo Stato si basa. La costituzione dello Stato liberale è così necessariamente mista “nel senso che l’elemento in se autonomo e concluso dello Stato di diritto si unisce con elementi politico-formali”.

L’errore di credere che possa esistere una costituzione liberale “pura” senza politica, né soprattutto elementi di forma politica era già espresso nell’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: “Toute société dans laquelle la garantie des droits n’est pas assurée, ni la séparation des pouvoirs déterminée, n’a point de constitution”. Fu stigmatizzato già da de Bonald, che lo riprendeva dalle (entusiastiche) parole di adesione di M.me De Staël.

Scriveva de Bonald che chiedersi se uno Stato esistente ed esistente da secoli come la Francia, non avesse una Costituzione, è come domandare ad un arzillo ottuagenario se è costituito per vivere. Ciò perché, come avrebbero affermato circa un secolo dopo altri eminenti giuristi come Santi Romano, uno Stato esistente non ha, ma è una costituzione[12]. E lo stesso faceva Schmitt nel distinguere il concetto assoluto di costituzione come “concreto modo di esistere che è dato spontaneamente con ogni unità politica esistente[13] e la cui forma “indica qualcosa di conforme all’essere uno status e non qualcosa di conforme ad un principio giuridico o di normativamente dovuto”[14]. Tuttavia “per motivi politici è spesso indicata come «vera» o «pura» costituzione solo ciò che corrisponde ad un determinato ideale di costituzione”[15]. Ma ritiene il giurista di Plettemberg “Una costituzione che non contenesse altro che queste garanzie dello Stato borghese di diritto, sarebbe impensabile; giacché lo Stato stesso, l’unità politica, ossia ciò che è da controllare, deve pur esistere ovvero al tempo stesso essere organizzato”[16].

I due elementi, quello politico e quello dei principi dello Stato di diritto, sono sempre congiunti e presenti[17].

Dove si constata la “prevalenza” dell’elemento politico su quello dello Stato borghese di diritto è nella disciplina dello Stato di eccezione con la sospensione, deroga, rottura della normativa costituzionale[18] … “In questi casi si mostra assai chiaramente che il moderno Stato costituzionale nella sua struttura è composto di due diversi elementi: di una serie di intralci al potere statale propri dello Stato borghese di diritto e di un sistema – sia esso monarchico o democratico – di attività politica”[19].

Nelle emergenze l’elemento politico (il potere costituito) sospende la normativa del bürgerliche rechtstaat, così come Jhering sosteneva che, nelle crisi gravi la forza “sacrificherà il diritto per salvare la vita”[20].

Ciò che distingue la disciplina dello “stato d’eccezione” dello Stato borghese da quello di altre sintesi politiche è l’accurata distinzione tra situazione normale  ed eccezionale, che in altri regimi è assente o sfumata. Laddove la sovranità è attribuita al vertice politico (al principe) vale il principio ulpianeo quod principi placuit legis habet vigorem applicabile ad ogni situazione contingente (quindi anche dell’emergenza); nello Stato liberal-democratico (o borghese secondo la terminologia preferita da Schmitt) i presupposti, (in parte) la normativa relativa all’eccezione, e le sanzioni per l’inosservanza sono regolate dalla Costituzione. Una norma, regolarmente votata dal Parlamento in uno Stato liberale democratico a forma di governo parlamentare che violasse la Costituzione, sarebbe annullata dal Giudice costituzionale (generalmente) istituito in tali forme di Stato. In una monarchia assoluta o in una dittatura sovrana, no. Come sostenuto da Agamben al riguardo “In ogni caso è importante non dimenticare che lo stato di eccezione moderno è una creazione della tradizione democratico-rivoluzionaria e non di quella assolutista”[21].

[1] Per una esposizione più articolata e diffusa v. Hegel Sistem der sittlichkeit ora in “ Il dominio della politica” trad. it. di  N.Merker, Roma 1980 p. 174 ss.

[2] “Il monismo all’interno presuppone il pluralismo all’esterno. Il mondo politico – afferma Schmitt – è un pluriversum, non un universum, L’unità politica presuppone la reale possibilità  del nemico, e quindi almeno un’altra unità politica coesistente. Il mondo politico è perciò il coesistere e il competere di differenti e contrapposte unità politiche”.

Sviluppando poi il primo aspetto, Valitutti rileva “Il carattere mistico dell’unità politica nel pensiero di Schmitt è comprovato dall’assoluta negazione del suo carattere associativo”; non c’è alcuna società, ma solo comunità politica. Anche quando alla nascita un’unità politica ha carattere associativo (come nella federazione), diviene subito esclusiva e totalizzante.

 

[3] “La prima e più consistente ragione del tenace e veemente antiliberalismo di Schmitt è da ricercare e da ravvisare nel posto che occupa nel suo pensiero il concetto di unità politica. Quanto meno è in questo concetto che si annodano e si saldano tutti i motivi del suo antiliberalismo”

[4] Sostiene Valitutti che i suoi padri (secondo Schmitt) sono soprattutto Spencer e Constant “Per Schmitt il liberalismo è puro individualismo, in quanto avrebbe solo e sempre presente come principio e fine del suo processo logico l’individuo”. Il fatto che, secondo il giurista di Plettenberg il liberalismo si muove tra le polarità dell’etica e dell’economia “non gli fa sorgere il dubbio che un pensiero politico che affonda sia pure in parte le sue radici nel concetto del primato dell’etica non possa rimanere relegato nel mero individualismo”

[5] Il problema consiste che, nella sua dimensione/aspirazione ideale “il liberalismo concepisce la realtà come gara e lotta, gara che sul piano spirituale si svolge come discussione, cioè come lotta tra idee, e sul piano economico come concorrenza, lotta e concorrenza eterne che non debbano mai diventare sanguinose, cioè degenerare in ostilità”.

[6] Aggiunge che Schmitt “individua esattamente quello che è il maggiore sforzo logico in cui si travaglia quella concezione della realtà a cui si ricollega il liberalismo politico nel secolo XIX, cioè lo sforzo inteso a distinguere le varie forme dell’attività spirituale e della vita umana per fondarne e salvaguardarne l’autonomia e insieme la connessione

[7] Per cui Schmitt concepisce l’unità politica come “decisiva, sovrana e totale”.

Questa unità, che storicamente, nella modernità si costituisce in Stato, considera tutto, potenzialmente, come politico “il decidere se una faccenda o un genere di cose sia apolitico è una decisione specificatamente politica, Perciò non c’è nulla che per virtù propria sia distinto dalla politica. Anche il non politico è una qualificazione attribuibile dalla decisione politica”.

[8] Tuttavia a leggere Der hüter der Verfassung, trad it. di A. Caracciolo Il Custode della costituzione, Milano 1981 p. 115 ss, si ridimensiona tale giudizio di Valitutti. Scrive Schmitt quanto alla situazione costituzionale del XIX secolo e la diversa nella Repubblica di Weimar che in quella la sua struttura “fondamentale è stata riassunta dalla grande  dottrina tedesca dello Stato di questo periodo in una formula chiara ed utile: la distinzione fra Stato e società” onde “ Esso era abbastanza forte per confrontarsi autonomamente con le restanti forme sociali e quindi per determinare da sé il raggruppamento, cosicchè tutte le numerose differenze all’interno della società … erano relativizzate e non impedivano la comune considerazione in seno alla «società». Ma per altro verso esso si manteneva in una posizione di ampia neutralità e di non-intervento nei confronti della religione e dell’economia e “ripettava in notevole misura l’autonomia di questi ambiti di vita e di interessi; cioè, esso non era assoluto e non così forte nel senso che avrebbe reso privo di importanza tutto il non-statuale” mentre con Weimar “adesso lo Stato diventa l’ «auto-organizzazione della società». Perciò cade, come menzionato, la distinzione finora sempre presupposta di Stato e società” e così “la società che si organizza da sé in Stato passa dallo Stato neutrale del liberale secolo XIX ad uno Stato potenzialmente totale. La potente svolta può essere interpretata come parte di uno sviluppo dialettico, che si svolge in tre stadi: dallo Stato assoluto del XVII e XVIII secolo attraverso lo Stato neutrale del liberale secolo XIX allo Stato totale dell’identità di Stato e società”.

[9] “Se Schmitt avesse salvaguardata la coppia di vero e falso avrebbe dovuto ammettere la distinzione tra la teoria e pratica e proprio questa distinzione gli avrebbe creato non superabili difficoltà nella teorizzazione della totalità politica. Egli è potuto giungere al suo mostruoso concetto della totalità politica sul presupposto della negazione dell’attività teoretica come attività distinta e autonoma dello spirito umano”.

[10] V. trad. it. dr. A. Caracciolo La dottrina della Costituzione, Giuffrè Editore, Milano 1984.

[11] Op. ult. cit., p. 265 (il corsivo è mio).

[12] Nel criticare l’opinione che Stati costituzionali siano solo quelli rappresentativi (cioè a “regime libero”) scrive “Ogni Stato è per definizione, come si vedrà meglio in seguito, un ordinamento giuridico, e non si può immaginare, quindi, in nessuna sua forma fuori del diritto… Uno Stato «non costituito» in un modo o in un altro, bene o male, non può avere neppure un principio di esistenza, come non esiste un individuo senza almeno le parti principali del suo corpo” Principi di diritto costituzionale generale, Milano 1947, p. 3.

[13] Op. ult. cit., p. 16.

[14] Op. ult. cit., p. 17 e prosegue “Anche qui sarebbe più esatto dire che lo Stato è una costituzione; è una monarchia, un’aristocrazia, una democrazia, una repubblica dei Soviet, e non ha soltanto una costituzione monarchica, ecc. La costituzione è qui la «forma delle forme», forma formarum”.

[15] Op. ult. cit., p. 58 e poche pagine dopo scrive “Nello sviluppo storico della costituzione moderna si è affermato un particolare concetto ideale con tale successo che dal XVIII sec. Sono indicate come costituzioni solo quelle costituzioni che corrispondono alle richieste della libertà borghese e contengono determinate garanzie di questa libertà” p. 60, per cui la Costituzione è un “sistema di garanzia della libertà borghese” onde come “costituzioni liberali, che meritino il nome di «costituzione», sono considerate solo quelle costituzioni che contengono alcune garanzie della libertà borghese” (p. 61).

[16] Op. ult. cit., p. 64 e aggiunge “Le costituzioni degli attuali Stati borghesi sono perciò composte sempre di due elementi: da un lato i principi dello Stato di diritto posti a difesa della libertà borghese contro lo Stato, dall’altro l’elemento politico, dal quale si deve dedurre la vera forma di Stato (monarchia, aristocrazia, democrazia o «status mixtus»). Nel collegamento di questi due elementi si trova la caratteristica delle odierne costituzioni dello Stato borghese di diritto”.

[17] È da considerare nei rapporti tra democrazia e liberalismo il giudizio di M. Alessio che “Schmitt insomma distingue troppo rigidamente democrazia e liberalismo, senza pensare che quest’ultimo può attecchire solo su di un terreno già preparato politicamente. Il liberalismo contemporaneo è una derivazione della democrazia moderna, ed è dunque su di essa che bisognerebbe puntare dapprima l’attenzione”. Democrazia e liberalismo (lo status mixtus) sono uniti nella modernità in concreto da un ethos comune, v. Carl Schmitt Democrazia e liberalismo, Milano 2001, p. 8 (introduzione di M. Alessio).

[18] La costituzione in senso proprio, scrive Schmitt “cioè le decisioni politiche fondamentali sulla forma di esistenza di un popolo, ovviamente non può essere temporaneamente abrogata, ma – proprio nell’interesse del mantenimento di queste decisioni… possono esserlo la normative legislative costituzionali generali emanate per la sua attuazione. In particolare, ci sono le normative tipiche dello Stato di diritto poste a protezione della libertà borghese, che sono soggette ad una sospensione temporanea…Nei turbamenti della sicurezza e dell’ordine pubblico, in tempi di pericolo come una guerra e durante una rivolta, sono sospese le limitazioni legislative costituzionali. Op. cit., p. 154.

[19] Op. loc. cit..

[20] R. Von Jhering Der Zweck im Recht trad it. Di M. G. Losano, Torino 1972 p. 184 ss.. È interessante ricordare per sommi capi, la concezione di Jhering “Il diritto non è quanto di più elevato vi sia al mondo, non è fine a se stesso, ma è soltanto un mezzo diretto ad un fine, ed il suo fine ultimo è l’esistenza della società. Se si riscontra che, nella situazione giuridica attuale, la società non è in grado di esistere, se il diritto non è in grado di venirle in aiuto, interviene la forza a compiere ciò che è necessario: nella vita dei popoli e degli stati prende così forma lo stato di emergenza. Nello stato di emergenza, il diritto vien meno tanto nella vita dell’individuo quanto anche nella vita dei popoli e degli stati” e poiché “al di sopra del diritto è la vita; e se ls asituazione concreta è quella da noi ipotizzata – cioè una situazione di emergenza politica riducibile all’alternativa; o il diritto o la vita – non vi possono essere dubbi sulla decisione da prendere: la forza sacrificherà il diritto per salvare la vita” e prosegue “ Abbiamo così individuato il punto in cui il diritto sfocia nella politica e nella storia: qui il giudizio del politico, dell’uomo di stato e dello storico deve sostituirsi a quello del giurista, che giudica soltanto alla stregua del diritto positivo” … “Se non ci si fanno scrupoli nell’usare il termie “diritto” in questo senso, potremmo qui parlare di un diritto eccezionale della storia, che in linea di principio rende praticamente possibile l’esistenza del diritto e, sporadicamente, il raffiorare della forza della sua missione e funzione storica originaria, cioè come fondatrice dell’ordinamento e creatrice del diritto” op. cit. p. 185 ss.

[21] G. Agamben, Stato d’eccezione Torino 2003, p. 14; e l’affermazione è ripetuta “Lo stato di eccezione si presenta anzi in questa prospettiva come una soglia di indeterminazione fra democrazia e assolutismo” idem p. 11.

SCHEDA DEL LIBRO OGGETTO DI CRITICA

SCHEDA de “LA POLITICA COME DESTINO”

Originariamente pubblicato nella rivista “Nuovi studi politici” nel 1976 e quindi in un volume contenente anche uno scritto di Karl Lowith nel 1978, La politica come destino di Salvatore Valitutti torna oggi nuovamente nelle librerie italiane per i tipi della Liberilibri.

Valitutti, pur da liberale e con atteggiamento critico, accanto alle ragioni di dissenso riuscì ad intuire l’incisività e la validità di alcune intuizioni di Carl Schmitt.

Pubblichiamo pertanto per la gentile concessione della Società Liberilibri e dell’autore, il saggio introduttivo di Teodoro Klitsche de la Grange al libro di Salvatore Valitutti.

MACHIAVELLI, di Teodoro Klitsche de la Grange

MACHIAVELLI

Non è stata dedicata soverchia attenzione alla ricorrenza del 500° anniversario del “Principe”. A dispetto del fatto che – a quanto sembra – sia l’opera italiana più tradotta al mondo e che da quando fu scritta, nessuno, che si sia occupato di politica (filosofia, scienza della politica, storia), abbia potuto fare a meno di confrontarvisi, si assiste a un anniversario celebrato con poca pompa e qualche nascosto imbarazzo.

Scrive Di Lello che “non si tratta di un dettaglio, ma di un sintomo (certo uno dei tantissimi, pur sempre un sintomo) di caduta culturale ed ideale”[1].

Che il pensiero di Machiavelli dia fastidio, e lo dia all’establishement culturale e politico italiano, in particolare  di sinistra, è evidente. Tutta la melassa delle buone intenzioni e dei buoni sentimenti, sintetizzata nel “buonismo” è proprio l’antitesi delle concezioni di Machiavelli. A servirsi di quelle di un suo epigono moderno, come Pareto, l’unica cosa che certe zuccherose e commoventi prediche attestano è lo stato di decadenza delle élites che le tengono e del popolo che le sta ad ascoltare. Il Segretario fiorentino ha, nei confronti di quelle, la funzione attribuitagli da Foscolo, in sintesi: mostrare che il re è nudo. Dietro buoni propositi e discorsi edificanti c’è la ricerca e soprattutto la conservazione di un potere, ormai senescente e anche (e soprattutto) perciò buonista. Realismo politico significa demistificare il nucleo essenziale dell’apparato egemonico costruito dal secondo dopoguerra in poi e specialmente negli ultimi vent’anni. Il pensiero di Machiavelli è infatti quanto di più politicamente scorretto si possa immaginare. A cominciare dal nucleo: “perché ogni uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene ruini intra tanti che non sono buoni”; da qui, dalla concezione “problematica” della natura umana, l’esigenza del realismo in politica e la ricerca della “verità effettuale della cosa” (cioè dell’approccio concreto). Le conseguenze del quale non si riflettono solo sulla politica (prassi e teoria) ma anche sul pensiero giuridico-istituzionale. Come esiste una condotta ispirata al Segretario fiorentino, c’è una concezione dello Stato e della costituzione fondata sui medesimi presupposti: pessimismo  antropologico (almeno relativo), realismo politico, ricerca della “verità effettuale delle cose”[2]. E del pari, Machiavelli si occupa più volte  – anche se spesso implicitamente – del rapporto tra politico e diritto.

2.0 Contrariamente a quanto ritenuto da molti nostri contemporanei, nel segretario  fiorentino la politica è decisiva e il diritto segue; il rapporto è acutamente inquadrato da Machiavelli nel primato della politica (e del politico).

Nel XVIII capitolo del principe scrive “sono dua generazione di combattere: l’uno con le leggi, l’altro, con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie”. Tale espressione è stata in genere connessa allo specifico argomento lì trattato (quomodo fides a principibus sit servanda), in particolare sul rapporto tra astuzia (golpe) e forza (lione). Tuttavia l’espressione può essere interpretata anche in un altro senso; che è quello chiarito da Machiavelli subito dopo: che il Principe, soprattutto il Principe  nuovo è “spesso necessitato, per mantenere lo Stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alle comunità, contro alla religione”. Enumera cose che per un uomo del suo, e anche del nostro tempo, sono più care e sacre del diritto, onde si può immaginare se il Principe non possa anzi debba operare contro questo. Anche se nel pensiero nostro contemporaneo è il diritto a non poter essere mai violato (con le conseguenze più bizzarre e, peggio ancora, dannose). Perché, prosegue Machiavelli “nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio da reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi saranno sempre iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati”. In diverse parole qui come in altri passi del Principe e dei Discorsi , Machiavelli (fonda e) rivendica l’autonomia del politico, che non deriva da altra “essenza”, come scrive Freund. Non c’è giudice del principe, e l’unico criterio di giudizio è se ha attinto il fine di conservare lo Stato: il che significa non solo il (di esso) potere, ma anche l’esistenza (e la “buona” esistenza) dei sudditi[3].

Il rapporto tra politico e diritto  (legge, ordine, organizzazione istituzionale) è confermato dal XXXIV capitolo del I° libro dei Discorsi, dove Machiavelli tesse l’elogio della dittatura romana: nei frangenti eccezionali, il dittatore conserva lo Stato infrangendo il diritto e gli ordini (cioè l’ordinamento costituzionale – o, meglio, parte di esso) “perché senza uno simile ordine le cittadi con difficultà  usciranno degli accidenti istraordinari. Perché gli ordini consueti nelle repubbliche hanno il moto tardo non potendo alcuno consiglio né alcuno magistrato per se stesso operare ogni cosa, ma avendo in molte cose bisogno l’uno dell’altro … E perciò le repubbliche debbano intra loro ordini avere uno simile modo” e subito dopo “Perché quando in una repubblica manca uno simile modo, è necessario o servando gli ordini rovinare, o per non rovinare rompergli” E’ l’ordinamento stesso che deve prevedere organi straordinari, dotati anche della facoltà di sospendere, derogare, modificare il diritto vigente: “Talchè mai fia perfetta una repubblica se con le leggi sue non ha provisto a tutto, e ad ogni accidente posto il rimedio e dato il modo a governarlo”.

La Costituzione italiana è bellissima (come dice un noto attore) e quel che è peggio, è considerata così perfetta da non poter essere cambiata, onde è chiaro che il pensiero di Machiavelli è in contrasto con tali affermazioni, perché la stessa non prevede né competenza né misure per lo stato d’eccezione ed è quindi, date le affermazioni del Segretario fiorentino, imperfetta, e da cambiare (di corsa).

Più in generale nella concezione di un certo costituzionalismo contemporaneo (e più in generale di teoria generale del diritto) s’inverte il rapporto tra diritto e politica. In Machiavelli la politica è autonoma, mentre il diritto è eteronomo, perché al di esso fondamento v’è la decisione politica. E’ il sovrano che decide se conservare, modificare, sospendere il diritto. E’ il pouvoir , a servirsi dei concetti (e dei termini) di Hauriou, a garantire l’ordre (anche) attraverso il droit. L’altro “punto” di eteronomia del diritto, ovvero rispetto alla morale, è talvolta anch’esso completamente omesso, talvolta travisato (o depotenziato).

Tanto per farne un esempio (tra tanti) particolarmente rilevante della lontananza tra il pensiero di Machiavelli e quello di taluni nostri contemporanei: anche chi ammette un certo “tasso” di morale nel diritto v’include quasi esclusivamente ciò che rileva per lo stato sociale contemporaneo, ovvero in particolare, la distribuzione del reddito a favore delle classi e dei cittadini più disagiati.

Non capita invece di leggere della connessione esistente tra diritti e doveri nelle costituzioni e negli Stati, anche contemporanei, né tra alcuni specifici doveri. Per essere chiari: il diritto di esercitare funzioni pubbliche (art. 51 Cost. italiana vigente) cioè di partecipare a decidere il destino della comunità è strettamente correlato e quello di pagare le imposte (art. 53), ma ancor più a quello di difendere la Patria (art. 52). Anche per un lettore distratto di Machiavelli, è chiara l’importanza che questi da all’ “arme proprie” (v. per il solo Principe, i capp. XII-XIV)[4]. Ammoniva che “chi dice impero, regno, principato, repubblica, chi dice uomini che comandano, cominciandosi dal primo grado e discendendo infine al padrone d’un brigantino, dice giustizia e armi”[5]; senza queste è impossibile preservare la libertà, e ovviamente, l’esistenza politica. Per cui il rapporto tra morale (meglio sittlichkeit nel senso di Hegel) e diritto è essenzialmente (anche se non esclusivamente) quello segnato dall’adempimento dei doveri legati alle funzioni pubbliche esercitate o rivestite. Anche la concezione machiavelliana  della virtù si muove nello stesso solco: al Principe è necessaria virtù per sapere fronteggiare gli eventi, come per poterne approfittare.

Quindi di “morale” si può parlare prendendo atto che si tratta di una morale che ha poco a che fare con quella che per ciò s’intende; il contributo di quest’ultima al diritto c’è, ma accanto a quello dell’ “altra” morale (quella, per così dire, “pubblica” e non “privata”).

3.0 Scrive Machiavelli nel Proemio dei Discorsi che, contrariamente a quanto accade per il diritto (le “leggi civili”), per la medicina, per le arti “nell’ordinare le republiche, nel mantenere li stati, nel governare e’ regni, nello ordinare la milizia ed amministrare la guerra,  nel iudicare e’ sudditi, nello accrescere l’imperio, non si trova principe nè republica  che agli esempi degli antiqui ricorra”; e continua scrivendo che, a suo giudizio ciò dipende dalla mancanza di comprensione (“non avere vera cognizione delle storie per non trarne leggendole quel senso … che le hanno in se”). E si meraviglia perché “infiniti che le leggono, pigliono piacere di udire quella varietà degli accidenti che in esse si contengono, senza pensare altrimenti di imitarle, iudicando la imitazione non solo difficile ma impossibile; come se il cielo, il sole, li elementi, li uomini, fussino variati di moto, di ordine e di potenza da quello che gli erano antiquamente”. In altri termini Machiavelli sostiene che, essendo la natura umana sempre la stessa, e di conseguenza, si direbbe oggi, le regolarità del politico, i problemi da risolvere sono sempre i medesimi e quindi assai simili i rimedi. “Come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile, e come ne è piena di esempi ogni istoria, è necessario a chi dispone una repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la malignità dello animo loro qualunque volta ne abbiano libera occasione”.[6] Per cui, chi ordinasse uno Stato presupponendo i cittadini tutti virtuosi, i popoli (e i governi) vicini tutti benevoli, realizzerebbe un pessimo prodotto (peraltro di durata breve).

Ma cos’è oggi quella “immaginazione della cosa” che il Segretario fiorentino addita come la via maestra per ordinare male gli Stati?

L’immaginazione è feconda d’illusioni, e delle più varie; proviamo a ricordarne alcune, le principali.

La prima è quella, direttamente opposta alla concezione delle “regolarità” sopra ricordate (e che Aron chiamava “principio di perennità”) e cioè che si può trovare la formula per cambiare la natura umana o quanto meno correggerla ed eliminare o ridurre l’incidenza di alcune “regolarità”. Ne abbiamo avuto un esempio nel secolo scorso col comunismo, il cui nucleo consisteva nel credere che mutando i rapporti di produzione sarebbe mutata anche la natura umana. Un tipo di sostituzione del politico con l’economico. Abbiamo visto com’è finito. Ma l’aspirazione a sostituire la politica (e il politico) con altro, che s’intravede già in un noto passo biblico del deutero – Isaia, continua – anche se meno rumorosamente, in altre forme, provando con altri tipi di attività umane. Soprattutto col diritto: sono già manifeste aspirazioni di ciò nel testo (ma soprattutto nelle carenze del testo) costituzionale (ad esempio la mancata previsione e disciplina dello stato d’eccezione); ma che comunque sono poca cosa rispetto a quanto circola a livello di opinione pubblica, e in non poche concezioni degli “addetti ai lavori”. Ad esempio tra gli idola tribus il più frequentato è quello che fare politica equivale a legiferare; e che i problemi si risolvono con le leggi. Dimenticando che buona parte dell’attività dello Stato è politica “pura” non riconducibile a norme (e ancor più a un contenuto normativo applicabile). E’ una legge (in senso formale) una dichiarazione di guerra? o l’approvazione di un trattato? O l’applicazione del diritto, che è distinta dalla legiferazione, ma che incide in modo decisivo sul diritto effettivamente osservato?

Una tale aspirazione ha portato, inversamente, a promulgare delle leggi essenzialmente per il loro carattere (e il relativo benefico ritorno) propagandistico; ben sapendo che sarebbero state poco o punto applicate. Anche la dottrina costituzionalista ha risentito di tale illusione che Freund chiama dell’ “imperialismo giuridico”: discute quasi sempre di “norme” e di “principi” (con variazioni sui valori) e assai poco di “organizzazione”, di “poteri” e di “principi (di forma politica)”; sembra peraltro si sia dimenticato che, nella costituzione la cosa più importante è chi la possa abolire, abrogare, sospendere. Cioè il potere costituente. Poco frequentata è anche la sovranità da quando (nella Germania di Weimar) ha cominciato a diffondersi l’idea della costituzione senza Sovrano (che a Machiavelli sarebbe sembrata una boutade).

L’altra fallacia ricorrente e quella della Costituzione per sempre, come le tavole mosaiche (scriveva Miglio con ironia). Nel duplice senso della perennità e dell’immodificabilità. Che è proprio l’inverso della storicità degli ordinamenti (e delle costituzioni) e della necessità di conformarsi alle situazioni concrete. E che oltre che col pensiero di Machiavelli è proprio all’opposto del dato storico. Machiavelli lo ripete spesso, non solo nel passo (sopra citato) dei Discorsi sulla dittatura romana; ed è poi conseguenza logica del principio di corruzione – e dei “cicli politici” – di ogni regime[7]. La corruzione fa si che “se un ordinatore di repubblica ordina in una città uno di quelli tre stati, ve lo ordina per poco tempo, perché nessuno rimedio può farvi a fare che non sdruccioli nel suo contrario”. Per cui dalla monarchia si passa all’aristocrazia e poi alla democrazia: ogni passaggio è preceduto dalla conversione dello Stato nella forma degenere (da monarchia a tirannide e così via)[8]. “E questo è il cerchio nel quale girando tutte le repubbliche si sono governate e si governano: ma rade volte ritornano ne’ governi medesimi, perché quasi nessuna republica può essere di tanta vita che possa passare molte volte per queste mutazioni e rimanere in piede”: perché per lo più viene assoggettata.

Tutte tali forme di governo sono di breve durata: “sarebbe atta una republica a rigirarsi infinito tempo in questi governi. Dico adunque che tutti i detti modi sono pestiferi, per la brevità della vita che è ne’ tre buoni e per la malignità che è ne’ tre rei”. A Roma il tutto fu risolto “sendo in una medesima città il Principato, gli Ottimati e il governo Popolare”. D’altra parte, scrive Machiavelli, “sendo tutte le cose degli uomini in moto, e non potendo stare salde, conviene che le salghino o che le scendino, e a molte cose che la ragione non t’induce, t’induce la necessità; talmente che avendo ordinata una republica atta a mantenersi non ampliando, e la necessità la conducesse ad ampliare, si verrebbe a tor via i fondamenti suoi ed a farla rovinare più tosto”. È la (necessità dell’) esistenza politica (cioè le situazioni concrete) a determinare l’ordinamento costituzionale e non viceversa.

Quindi l’aspirazione – pretesa a costruire un “ordine” valido per sempre è contraria alla concezione di Machiavelli. Il segretario fiorentino, contrariamente a quanto spesso oggi opinato, dava della Costituzione un giudizio storico-oggettivo, mentre oggigiorno prevale uno ideologico-soggettivo. Ossia, secondo il pensatore fiorentino, una costituzione è valida quando consente la durevole conservazione e l’accrescimento dello Stato, e non se è conforme a impostazioni ideologiche e conseguenti norme e/o principi (ancor più se è “bella” o, più spesso, “buona”). La costituzione romana, il “compromesso” costituzionale dei tre principi (monarchico, aristocratico e democratico) è ammirato dal fiorentino perché ha consentito a Roma di espandersi e dominare il mondo mediterraneo per diversi secoli, e ancor più se si considera la successiva costituzione imperiale. Valori, principi, norme-manifesto, disposizioni programmatiche e altro sono estranei al pensiero di Machiavelli (o secondari); d’altra parte non si capisce a che titolo un ordinamento costituzionale costruito con tante buone intenzioni ma durato qualche decennio e magari finito in catastrofe, possa essere apprezzato perché “bello”.

Altro carattere decisivo della costituzione (dell’ordinamento) secondo Machiavelli è che occorre ordinare la comunità, di guisa da coinvolgere e così “integrare”, in particolare nelle repubbliche, quanti più cittadini possibile. Parimenti l’elogio che fa dei tribuni della plebe è perché gli stessi costituiscono una magistratura di mediazione (e quindi d’integrazione) tra patriziato e plebe[9].

Nel “Discorso sopra il riformare lo Stato di Firenze a instanza di Papa Leone” delinea una nuova costituzione per Firenze, che assicuri il potere al Papa Medici. Riteneva che “La cagione perché Firenze ha sempre variato spesso nei suoi governi è stata perché in quella non è stato mai né republica né principato che abbi avute le debite qualità sue; perché non si può chiamar quel principato stabile, dove le cose si fanno secondo che  vuole uno e si deliberano con il consenso di molti: né si può credere quella republica esser per durare, dove non si satisfà a quelli umori a’ quali non si satisfacendo le republiche rovinano” e delinea un nuovo assetto costituzionale che, conservando l’essenza del potere a casa Medici, distribuisse poteri, cariche e competenze dando un ruolo nel governo della città “a tre diverse qualità di uomini che sono in tutte le città; cioè i primi, i mezzani e gli ultimi”; ordinandoli in tre collegi, con differenti poteri e competenze perché “senza satisfare all’universale, non si fece mai alcuna republica stabile”, il tutto mantenendo ai Medici “tanta autorità… quanto ha tutto il popolo di Firenze”.

Distribuendo potere e competenze, il Segretario fiorentino delinea un modello costituzionale fondato sull’integrazione di forze reali, rendendone partecipi gli uomini più in vista delle relative “classi” sociali. Machiavelli integra col (e nel) potere e non (o preferibilmente che) con le norme.

Il che fa del Segretario fiorentino anche uno dei “precursori” del concetto di costituzione materiale[10]; ma è parimenti vero che Machiavelli comprenda lo Stato come realtà vitale e la costituzione “come un ordine vitale, che cerca di realizzare un’immagine determinata di una realtà e di una totalità di vita politiche”[11]. A servirsi della terminologia e dei concetti di Smend la concezione di Machiavelli è, come quella del giurista tedesco, basata sullo Stato come unione di volontà e questa si realizza attraverso l’integrazione “Lo Stato esiste solo perché e in quanto si integra continuamente, si costruisce nei e a partire dai singoli – e in questo processo continuo consiste la sua essenza di realtà sociale spirituale”[12] e come scrive Smend “L’effetto di integrazione esercitato dagli organi può derivare dalla loro esistenza, dal loro processo di formazione e dal loro funzionamento” e prosegue “L’effetto di integrazione degli organi deriva dalla loro esistenza – cioè in prima istanza dall’esistenza di organi politici in senso stretto”[13].

Peraltro diversamente da molti costituzionalisti contemporanei i quali pensano che la costituzione sia il testo scritto e solo quello, il pensiero di Machiavelli presuppone quello che sarà secoli dopo enunciato apertis verbis da De Maistre, che nella costituzione “ciò che è più fondamentale ed essenzialmente costituzionale non potrebbe (ne saurait) esserci scritto”[14]. In particolare il precetto fondamentale salus rei publicae suprema lex (con la conseguente necessità e legittimazione delle “rotture” della legalità anche costituzionale) non è scritto in nessuna delle costituzioni: ciò non toglie che, almeno finché una sintesi politica voglia esistere, lo si debba osservare. Santi Romano perciò riteneva la necessità fonte di diritto, superiore alla legge[15]: anche in questo si manifesta la “discendenza” da Machiavelli, che proprio dalla necessità, legittima “rotture” e deroghe al diritto, alla costituzione, alla religione. A proposito della quale, è noto, oltre alla concezione di questa come strumento della politica, ma soprattutto come la consideri il fondamento della città ben ordinata: “dove manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini o che sia sostenuto dal timore d’uno principe che sopperisca ai di ferri della religione nel disinteresse rispetto al rapporto tra religione (teologia) e politica, è emerso anche qualche curioso tentativo che vorrebbe fondarne un surrogato prescindendo da “sacro” e da “Dio”, e sostituendoli con un misto di morale privata e imperativi categorici. Una concezione strabica verso il privato e, proprio perciò inadatta a fondare (e mantenere) una società pubblica[16].

  1. Quanto sopra ricordato è solo parte di ciò che di costituzionalistico si può ricavare dagli scritti di Machiavelli.

Le idee generali che li caratterizzano sono quelle del realismo (giuridico) il quale individua nella realtà – e nelle leggi, anche sociali – un dato non modificabile dell’uomo; e nell’esistenza della comunità e dell’istituzione  lo scopo (finale), che relativizza norme, principi, valori, interessi particolari. Secondariamente della coerenza e congruità (anche interna) dell’istituzione: non si può costituire una forma politica durevole che non abbia coerenza e congruità sia nella forma che rispetto alla “materia” cioè alla situazione concreta, sociologica e geopolitica in primo luogo (senza qui considerare altro).

Il che è connesso al carattere “tecnico” del pensiero di Machiavelli. Carl Schmitt scrive al riguardo che il “nocciolo vero” del pensiero di Machiavelli è di essere “dominato da un interesse prevalentemente tecnico”; tale aspetto non è limitato ad attività e risultati più strettamente politici (guerre, alleanze, trattati), ma anche all’ordinamento del potere[17]. Questa “tecnicità” fa si che passino in secondo piano sia “principi” che valori e norme[18]. È la situazione concreta a determinare quale sia la forma di governo più adatta[19] a una sintesi politica in un determinato momento storico. D’altra parte il criterio di validità di una forma politica è dato – come sopra scritto – della durata e dai risultati e non dalla corrispondenza a  norme, valori e principi. Anche questa concezione condivisa nei secoli successivi da tanti[20].

D’altra parte la razionalità del pensiero del Segretario fiorentino, e l’illusorietà di quello di taluni contemporanei è provato da una constatazione: che una costituzione “bellissima” colma di enunciazioni accattivanti di principi e valori condivisi ma inadatta all’azione e all’esistenza politica non serve neppure a conservare quei principi e quei valori che vi sono proclamati (e spesso branditi contro gli avversari politici). Più prima che poi guerre, rivoluzioni, o quelle forme di ostilità “parabelliche” (come gli attacchi della finanza internazionale) costringeranno a eliminarla o riformarla (o a perdere la sintesi politica). Ma se la costituzione è congrua, anche la protezione di quelli è (meglio) assicurata. Bonald sosteneva che la costituzione è il modo di esistenza di un popolo, a conservare il quale (e con esso i relativi rapporti, valori, leggi fondamentali) serve.

L’esistente prevale sul normativo (senza il primo viene meno il secondo: ma non è vero l’inverso): è questa la lezione che Machiavelli (e il realismo) ci da ancora oggi. A non capirlo o a volerlo non capire, anche nell’organizzare le istituzioni si trova “più presto la  ruina che la perservazione sua”.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Area, maggio 2013

[2] A chiarimento del carattere “problematico” e  “pessimistico relativo” della natura umana, l’uso di queste espressioni è finalizzato a distinguere le concezioni pessimistiche spesso identificate in due pensatori come S. Agostino e S. Tommaso. Più pessimista il primo, meno il secondo, come noto (e dibattuto). L’ascrizione di Machiavelli al pessimismo antropologico “relativo” (o moderato o “tomista”) è, a mio avviso, determinata sia dal richiamo costante (e pieno) al libero arbitrio, (alla virtù che contiene la fortuna) e alla necessaria prudenza che ne consegue che alla non adesione all’autoritarismo conseguente logicamente dal pessimismo agostiniano; così ben testimoniato da Lutero e da Calvino (ma anche da Bossuet) con la dottrina cioè del “diritto divino soprannaturale”, per cui al cristiano non è consentito opporsi (resistere) all’autorità costituita.

[3] Si può desumere anche un altro senso di quella frase, che considera legge, forza e modi di combattere: che ambedue sono finalizzati a creare l’ordine, a creare, mantenere, aumentare il potere (comando/obbedienza) ma il tutto esula dai limiti di questo scritto.

[4] Ma ne tratta anche nel Principe in altri capitoli, nonché in tante opere anche “occasionali”, come i discorsi per l’ordinamento della milizia  fiorentina.

[5] V. Discorso dell’ordinare lo Stato di Firenze alle armi.

[6] Discorsi I, III (i corsivi sono nostri).

[7] v. R. Aron, trad. it. in Machiavellie le tirannie moderne, Roma 1998, p. 104.

[8] v. Discorsi, 1, II.

[9] v. Discorsi 1, III.

[10] Il quale, come noto si deve – nell’epoca moderna – a Lassalle “Gli effettivi rapporti di potere che sussistono in ogni società sono quella forza effettivamente in vigore che determina tutte le leggi e le istituzioni giuridiche di questa società, cosicché queste ultime essenzialmente non possono essere diverse da come sono” v. trad. it. di C. Forte in Behemoth n. 20 p. 6 (da qui l’esigenza di coordinare, organizzare detti rapporti) e a Costantino Mortati che ne coniò il termine “Rimanendo nell’ordine di idee per ultimo esposte di una raffigurazione della costituzione che colleghi strettamente in sé la società e lo stato, è da ribadire quanto si è detto sull’esigenza che la prima sia intesa come entità già in sé dotata di una propria struttura, in quanto ordinata secondo un particolare assetto in cui confluiscano, accanto ad un sistema di rapporti economici, fattori vari di rafforzamento, di indole culturale, religioso ecc., che trova espressione in una particolare visione politica, cioè in un certo modo d’intendere e di avvertire il bene comune e risulti sostenuta da un insieme di forze collettive che siano portatrici della visione stessa e riescano a farla prevalere dando vita a rapporti di sopra e sotto-ordinazione, cioè ad un vero assetto fondamentale” v. Istituzioni di diritto pubblico, Padova 1975 Vol. I° p. 30.

[11] v. Rudolf Smend ora in Costituzione e diritto costituzionale (raccolta di scritti) trad. it. Milano 1988, p. 287.

[12] Op. cit., p. 76.

[13] Op. cit., p. 162.

[14] Des Constitutions politiques, I.

[15] V. “ Talvolta le leggi scritte accordano, in casi di necessità, al potere esecutivo la facoltà di emanare decreti o ordinanze … Ma anche quando tali leggi scritte mancano, o sono inadeguate alla situazione che si è formata, e persino quando espressamente vietano che si faccia uso di poteri eccezionali e straordinari questi potranno essere assunti ed esercitati in forza della necessità. Come la consuetudine, anzi a maggior ragione, data la sua maggiore energia la necessità è fonte autonoma del diritto, superiore alla legge. Essa può implicare la materiale e assoluta impossibilità di applicare, in certe condizioni, le leggi vigenti e, in questo senso, può dirsi che «necessitas non hablet legem». Può anche implicare l’imprescindibile esigenza di agire secondo nuove norme da essa determinate e, in questo senso, come dice un altro comune aforisma, la necessità fa legge. In ogni caso, «salus rei publicae suprema lex» v. Diritto costituzionale generale, Milano 1947 p. 92 (il corsivo non virgolettato è nostro).

[16] Discorsi I, 11.

[17]L’organizzazione politica del potere e la tecnica per conservarlo ed estenderlo differiscono a seconda delle forme statuali, rimangono però sempre qualcosa che può essere prodotto con tecniche pratiche, così come l’artista produce, secondo la concezione razionalistica, l’opera d’arte. Con il variare delle condizioni concrete – posizione geografica, carattere del popolo, concezioni religiose, struttura dei gruppi sociali dominanti, tradizioni – varia anche il metodo e si costruiscono strutture diverse” in “Die Diktatur” trad. it. di A. Caracciolo, Roma 2006, p. 29 (il corsivo è nostro).

[18] “Il Principe dal canto suo non pretende fornire giustificazioni morali o giuridiche, ma semplicemente suggerire la tecnica razionale dell’assolutismo politico” op. cit., p. 30.

[19] “Supponiamo per esempio di avere degli uomini dotati della virtù, che è il principio indispensabile per la costruzione di un ordinamento sociale repubblicano: in questo caso la monarchia non sarebbe neppure tollerata. Il tipo di energia politica che si esterna nella virtù è incompatibile con forme di governo assolutistiche, ma ammette unicamente un regime repubblicano. Il materiale umano con il quale ha da fare i conti il procedimento tecnico dev’essere dunque  diverso a seconda che ci si prefigga di stabilire un principato assoluto o una repubblica; diversamente non si conseguirebbe il risultato voluto” op. cit. p. 30.

[20] Tra cui citiamo Louis de Bonald il quale scrisse, in polemica con un libro di M.me de Staël che “La costituzione di un popolo è il modo della sua esistenza; e chiedersi se un popolo con quattordici secoli di storia, un popolo che esiste, ha una costituzione, è come interrogarsi, quando esiste, se ha il necessario per esistere; è come chiedere ad un arzillo ottuagenario se è costituito per vivere… La nazione era costituita, e così ben costituita, che essa non ha mai chiesto a nessuna nazione vicina la protezione della sua costituzione… proprio perché la Francia aveva una costituzione ed una costituzione solida, si è ingrandita un re dopo l’altro, anche quando questi erano dei deboli, sempre invidiata mai scalfita; spesso turbata mai piegata; uscendo vittoriosa dai rovesci più imprevedibili con i mezzi più insospettati, e non potendo perdersi che per una mancanza di fiducia nella propria fortuna” ed aggiunge “Una costituzione completa e ben congegnata non è quella che si arresta davanti ad ogni difficoltà, che le passioni umane e la varietà degli eventi possono far nascere, ma quella che prevede il mezzo di risolverli quando questi si presentano: come il fisico robusto non è quello che impedisce e previene le malattie, ma quello che da la forza di resistervi, e di ripararne prontamente i danni” v. Louis de Bonald Observation ur l’ouvrage de M.me la Baronne de Stael, trad. it. di Teodoro Katte Klitsche de la Grange, La Costituzione come esistenza, Roma 1985, pp. 35-36.

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