E SE GUARDANDO AL FUTURO IL RISCHIO REALE FOSSE IL CAOS?_di Pierluigi Fagan

E SE GUARDANDO AL FUTURO IL RISCHIO REALE FOSSE IL CAOS? Così termina un breve articolo di A. Giustozzi, Visiting Professor e ricercatore del King’s College che sembra esser uno dei pochi che sa qualcosa di concreto sull’Afghanistan. In questi giorni molti sono stati sollecitati a farsi un’idea dell’A., ma poche sono le fonti davvero utili, pochissimi gli esperti, scarsa la disponibilità mentale ad approcciare cose complesse. In più, da una parte molti arrivano a tentar di conoscere il fenomeno con schemi preconcetti validi nella loro immagine di mondo generale, dall’altra c’è il solito bombardamento emozionale del media che strappano lacrime, indignazioni, paure, che non aiutano il pensiero, ma richiedono con urgenza solo il giudizio. E’ bene ciò che sta succedendo o è male? E bene o male per chi, quando, perché? Quello che sta succedendo oggi eccitando la nostra attenzione da pesci rossi o quello che succederà dopo? Dopo quando?
Il Giustozzi, ci rende -in parte- edotti della complessa situazione sul campo. Attenzione, ammonisce il ricercatore, perché se i talebani sono espressione dell’etnia pashtun (circa 42% del totale), uzbechi, tagiki ed hazara (nel totale 45% del totale) potrebbero non esser propensi a sottostare al loro dominio. Ma non è vero neanche il contrario ovvero che poiché di altra etnia di per sé questo implicherà l’esser contro. Nei fatti, molti “gangster” (il termine è del Giustozzi) ovvero capi clanici armati, hanno partecipato al movimento di ripresa del potere. Si tratterà quindi di vedere quanto equilibrio ci sarà nelle spartizioni del potere; chi sarà felice rimarrà lealista, chi si sentirà frustrato nelle aspettative raggiungerà la resistenza anti-talebana. Resistenza che potrà contare anche su altre etnie, varie tribù o vari clan, oltre all’ISIS-K branca locale del network wahhabita. Poi comunque il “potere” dovrà far i conti con la situazione economica e sociale, è lì il vero tribunale dei fatti che promette di esser giudice severo, date le premesse.
Si tenga conto come alcuni avranno letto, che l’A. nel 1980 quindi quaranta anni fa, era di 15 milioni, oggi è di 38 milioni (ONU), nel 2050 è aspettato con questi indici di riproduzione, ad arrivare a 82 milioni, un bel problemino. Molti affiliati al movimento di ripresa del potere di oggi che poco o nulla hanno a che fare con i talebani del 2000, sono appunto giovani disoccupati delle campagne (e non solo), delusi dal governo corrotto che ha dominato negli ultimi due decenni. Cosa faranno se non avranno le soluzioni di vita promesse dal movimento talebano?
Quanto all’etnia pashtun, quella da cui proveniva l’originario movimento degli studenti coranici detti appunto “talebani”, va ricordato che solo un suo quarto si trova in Afghanistan, gli altri tre quarti si trovano in Pakistan. L’organizzazione terroristica Tehrik-e-Taliban Pakistan (TPP) è la principale spina nel fianco del governo di Islamabad, avendo questi come loro obiettivo specifico il rovesciamento del governo pakistano da sostituire con uno stato islamico basato sulla sharia. Hanno fatto circa 35.000 morti in vari attentati dal 2007, procurando danni per stimati 67 mld US$ (IMF-WB). Da notare, come la zona pashtun pakistana sia contigua al passaggio della Belt and Road Initiative cinese, cinesi ritenuti nemici mortali al pari degli americani e del governo pakistano dagli islamisti pashtun.
Intorno all’A. sappiamo esservi coacervo di interessi. Turchia e Qatar, i vari “stan” coi russi in backside, cinesi, pakistani divisi tra il supporto alla causa talebana fino a che era rivolta all’Afghanistan ma ora che i talebani pashtun hanno uno “Stato” da vedere nel riflessi di quali saranno i rapporti tra Kabul e TPP, iraniani, beluci (che stanno in Iran-Afghanistan-Pakistan e sono terreno di cultura per l’ISIS), sauditi una volta molto amici dei pakistani ora molto meno (ma da quelle parti è tutto molto ambiguo e cangiante secondo convenienza), financo indiani.
Tutto ciò, secondo voi, era ignoto alla potente macchina geopolitica americana? Non è pensabile. E vien quasi da supporre che i due-tre anni di trattative USA-Taliban svoltesi nei colloqui di Doha, gli USA abbiamo fatto sapere ai talebani cosa accetteranno e cosa no da parte del nuovo governo, rispetto a questo intricato quadro geopolitico d’area. Ovviamente i talebani, arrapati dalla promessa di poter prender pacificamente l’agognato potere, avranno promesso mari e monti stante che i mari non ce li hanno. Ma chissà se controllano anche tutti i monti e non solo quelli a ridosso della famigerata line Durand. Il governo di Kabul, date le premesse, sarà molto debole e dis-equilibrabile in pochi secondi muovendo qualche pedina sul complicato terreno. Mossa da Washington o da qualche suo alleato del Golfo Persico che da quelle parti ha più dimestichezza o anche lasciando fare alle complesse dinamiche dell’area.
Non è un caso che da Obama a Trump, fino a Biden, i vari presidenti abbiano intuito subito che agli americani, in Afghanistan, conveniva più non esserci che esserci. L’Afghanistan era e promette di essere l’ennesimo stato fallito, un caotico buco nero che ben gestito “from behind”, può regalare molte soddisfazioni alle mire di destabilizzazione della regione. Tra l’altro, leggo che l’A. è leader mondiale tra i produttori di rifugiati da 32 anni, quindi può far ancora molto per la causa dell’Impero, in molti modi.
Quanto a Biden, notava un mio contatto e giustamente, quanta eccitazione critica agiti le redazioni del WP e NYT al traino degli interessi del famigerato complesso militare-industriale-ONG che vive di guerra attiva e conflitto sul campo. Emerge ora quanto fossero proprio i generali, per semplificare un’area di interessi molto vasta e composita, a render impraticabile il ritiro immaginato dai vari presidenti. Cosa per altro nota già a chi ha seguito gli anni scorsi la faccenda siriana. O a sabotare e render scandaloso quello in corso. E’ sempre una lurida questione di soldi, dati al complesso “facciamo guerre ed alimentiamo conflitti che chiamino le nostre forze sul campo” o presi dei Presidenti per politiche economiche interne che rendano la gente meno insoddisfatta che poi son coloro che li votano.
E’ agosto e tra qualche mese nessuno parlerà più di Afghanistan, comunque c’è quasi un 80% di favorevoli in USA al ritiro, gli americani non votano sulla politica estera, manca un anno e mezzo alle elezioni di rinnovo Congresso (coi DEM messi male nei sondaggi), mancano tre anni e passa alla rielezione presidenziale, la situazione Covid in USA è sotto alta tensione (con molti ospedali sempre pericolosamente sull’orlo del collasso) e la “ripresa” autunno-inverno è -nelle previsioni anche di IMF-WB- frenata da questi impiccio virale che nessuno sembra aver ancora capito davvero come gestire e dove prospera l’altro complesso farmaceutico-industriale-sanità privata.
Ci sono due tipi di film da proiettare sullo schermo afgano. Quello “ah ma l’oppio?” o le “Terre rare” o l’immaginifico “corridoio BRI Cina-Kabul” o “Davide alla fine batte Golia perché ha la “fede”” ed altre sceneggiature da b-movie scritte dai tanti opinionisti improvvisati e geopolitici di giornata. Poi c’è il tipo “niente di nuovo sotto il sole” -meno divertente mi rendo conto- ovvero “meglio un buco nero gratis che inghiotte nel caos tutto quanto passa nei paraggi che “l’Impero colpisce ancora” che costa un sacco di soldi e tanto non vince mai perché le guerre non sono più quelle di una volta”. In fondo, era la stessa verità intuita dal rozzo palazzinaro fallito: il mondo è troppo complesso per esser gestito, lasciamolo sviluppare nel suo caos naturale, quando saranno stanchi di casino e disordine ci imploreranno di tornare a fare i poliziotti del mondo.
E’ un calcolo ben fatto? Io non lo so. Chissà, è questa una vera e propria sfida alle capacità di auto-organizzazione di un vero mondo multipolare. Aspetterei gli eventi, la verità -come diceva Deng Xiaoping- va cercata nei fatti. Ora è il momento delle interpretazioni, ma i fatti poi accadono e vincono, sempre.

DURATE ED EMERGENZE, di Pierluigi Fagan

DURATE ED EMERGENZE. Anni fa, nelle mie ricerche sul passaggio dal Paleolitico al Mesolitico, mi imbattei in due ipotesi sul cambiamento climatico ed ecologico, una in Cina, l’altra in India. Quella relativa alla Cina, sosteneva che nel tempo antico, diciamo 10.000 anni fa circa, in Cina arrivavano i monsoni e quindi il clima era tropicale. C’era un aspetto di riflesso culturale interessante. Come alcuni di voi avrà notato, nell’immaginario cinese che sopravvive nel folklore, ci sono draghi e tartarughe. Ebbene, data la permanenza sostanziale della civiltà cinese in un ben preciso areale, questa sarebbe una permanenza di immaginario proprio dei tempi in cui in effetti c’era abbondanza di varani e testuggini quali si trovano proprio in regioni tropicali. Qualcosa, ad un certo punto, cambiò il regime periodico di venti umidi che chiamiamo “monsoni” e con ciò cambiò profondamente le ecologie locali, ma il bestiario dei tempi antichi, rimase nell’immaginario tramandato.
La seconda storia riguarda il fiume Indo che oggi attraversa il Pakistan. Se prendete una cartina fisica della regione, noterete l’arzigogolato corso dell’Indo a partire dalla sua fonte tibetana. Nei tempi antichi, pare ci fosse anche un altro fiume parallelo che troviamo molto citato nel più antico libro dei Veda, il Rg. Il complesso Indo-Sarasvati con una serie di altri corsi d’acqua che intrecciavano la regione, sarebbe stato la culla dell’antica civiltà vallinda. La misteriosa scomparsa di quella civiltà che ad un certo punto sembra aver abbandonato più o meno di colpo i propri imponenti centri abitati, erroneamente attribuita in un primo tempo alle ipotetiche invasioni ariane indoeuropee (che ci furono in tutta evidenza ma non nei tempi e nei modi descritti da queste vecchie ipotesi), pare fosse dovuta ad una serie di terremoti dovuti allo scontro tettonico che spinge il triangolo indiano contro l’Asia (da cui il Tibet). Tali terremoti avvenuti in alta montagna proprio lì dove originavano gli antichi corsi d’acqua, ne cambiò il tracciato a monte e quindi a valle i corsi cambiarono direzione e portata, cambiando radicalmente le ecologie. I vallindi, si suppone, migrarono verso est, dalle parti del Gange, qui espulsero i locali che migrarono verso sud. L’attuale divisione netta di areali linguistici tra ceppo sanscrito (Nord) e dravidico (Sud), che poi ebbe riflessi anche nella composizione e definizione castale tra chiari (ex vallindi misti ad ariani) e scuri (ex popolazioni indigene gangetiche di lontane origini africane), rifletterebbe tale storia.
Tutto ciò ha ancora tratti speculativi, ma tutto ciò era ignoto fin quando non abbiamo allargato le durate delle nostre indagini. Eventi di poche migliaia di anni fa, ci mostrano un possibile fatto prima ignoto: le ecologie possono cambiare in archi anche solo di pochi millenni e con esse, la vita umana che vi dipende. Quest’ultima però, nei casi in questione, non aveva storia e scrittura per cui dei tormenti delle genti dei tempi non abbiamo ricordo, in più, dato che il pianeta era decisamente sottopopolato, c’era pur sempre la possibilità di far quello che gli umani hanno fatto da sempre: spostarsi. Sono decine e decine i casi di storia antica che o abbiamo del tutto ignorato o abbiamo cercato di interpretare cercando ragioni all’interno delle dinamiche sociali dei gruppi umani, quando invece erano mossi dal semplice variare climatico ed ambientale.
Chi mai fosse interessato a questa storia mossa dal clima troverà soddisfazione nei bei libri del mio omonimo Brian Fagan. Avverto che quel Fagan indaga e scrive su questo argomento da quaranta anni, non è un cialtrone che specula sul “cambiamento climatico” per sfornare best seller un tanto al chilo. Ma pur non essendo l’unico a condurre questi progetti di ricerca da così lungo tempo, poiché la nostra immagine di mondo era ai tempi affaccendata in tutt’altro, l’argomento a molti sembrerà ignoto, recente, quindi collegato al Grande Reset o ad altri presentismi. Gli ignoranti si svegliano sempre tardi e piuttosto che domandarsi perché avevano ignorato argomenti macroscopici del genere e per così lungo tempo, prendono un articolino su Internet e ci fanno sopra la loro teoria mondo dando cause sbagliate ad eventi complessi. Poi vengono pure col sorrisino di chi la sa lunga a spiegare a te che di queste cose ti occupi da decenni, che sei un ingenuo a credere a queste “narrazioni” catastrofiche, spacciate per verità dal solito gruppetto di élite banco-finanziarie pluripotenti capitanate da un oscuro massone capo di Spectre. Potenza dell’immaginario di Ian Fleming di cui sono figli, nutriti con la saga di 007.
Venendo a noi, ricercatori del CNR ci avvertono che, da tempo, il fatidico anticiclone delle Azzorre, sta perdendo potenza e regolarità, forse anche locazione. Altri ci avvertono da tempo, che l’ Atlantic meridional overturning circulation – AMOC, sta perdendo portanza, regolarità ed intensità, fatto che preluderebbe all’ennesima catastrofe climatica poiché questa corrente oceanica atlantica è la principale responsabile della stabilità climatica degli ultimi millenni, quantomeno per le zone settentrionali che si affacciano sull’Atlantico, ma forse non solo.
Quanto alle Azzorre, il ritiro di questa area di circolazione, favorirebbe l’espandersi delle celle anticicloniche africane (ad esempio celle di Hadley) che però hanno caratteristiche climatiche e di umidità del tutto differenti. Questo spiegherebbe il “Mediterraneo in fiamme” dalla Turchia, alla Grecia in cui mi trovo, alla Sicilia, alla Sardegna. Qui dove mi trovo, nell’Egeo, siamo a 36-38 gradi stabili. Poiché le economie locali vivono di turismo, in estate arriva un sacco di gente. Gente che usa i condizionatori a palla, il che mette sotto pressione la rete elettrica che talvolta salta. Saltando, non solo toglie corrente ai condizionatori, ma anche ai de-salinizzatore locale per cui a volte manca l’acqua, oltre Internet e tutto il resto. Ad Atene nord, c’è chi vive vicino ad incendi di lunga durata per cui deve rintanarsi a casa con le finestre chiuse, senza condizionatore e senza elettricità, l’inferno in terra praticamente.
Lunedì esce parte del nuovo rapporto IPCC che si annuncia più pessimista dei precedenti. Il tema è il riscaldamento climatico e la CO2. Ma c’è un altro argomento in questa faccenda che è la disclocazione dei climi, lo spostamento delle celle climatiche che poi determinano celle ecologiche a cui siamo adattati per millenni e che ora cambiano regime, come cambiarono al tempo della Cina mesolitica o dell’India Neolitica. Può darsi cambino per colpe antropiche più generali, ma può anche darsi cambino perché sono sempre cambiate se si inquadrano durate storiche meno anguste della mezzoretta che chiamiamo “civiltà”. Quindi, a prescindere le cause, gli effetti sono certi, tangibili ed immediati nel qui ed ora. Nell’attesa si svolga il grande dibattito sull’Antropocene avversato da negazionisti manipolati dalle lobbies carbonifere e dai centri anarco-capitalisti americani, mentre altri pensano sia tutta una invenzione di quelli di Davos per manipolarci dopo averci imposto la dittatura sanitaria, sarebbe forse il caso di domandarci cosa fare in senso adattivo?
Altrimenti, come ci fa notare l’opportuno Cacciari (le cui ragioni di filosofia politica-giuridica hanno fondamenti ben diversi da quelli di c.d. “bio”-politica à la Agamben che però non ha di biologia competenze pari a quelle che Cacciari ha di giurisprudenza costituzionale), andremo di stato d’eccezione in stato d’eccezione non solo subìto, ma invocato per ragioni apparentemente evidenti.
Dedicato ai molti che pensano di esser svegli mentre dormono (Eraclito), ricordo che il sociologo U. Beck (e non solo lui per altro) scrisse trentaquattro anni fa il saggio “La società del rischio”. Rischi pandemici, alimentari, sanitari, geopolitici, ambientali, tecnologici, migratori, demografici, economici, finanziari et varia. Del resto, se ti aumenta la popolazione planetaria di tre volte in settanta anni, una “durata” molto breve per un evento molto intenso, non ci voleva un genio per capire che qualcosa di nuovo sarebbe successo.
Tutte cose note da tempo quindi, tempo trascorso invano. Ignoranza di massa, madre di tutte le catastrofi, dovrebbe esser “il” nemico comune per tutti coloro che non si rassegnano a subire le conseguenze di questa epoca problematica. Ma l’ignoranza rende ciechi anche sul problema della sua importanza negativa, questo è il problema primo, quello da cui discende ogni altro. Sopportare e supportare l’ignoranza di massa fa sì che ad eventi eccezionali, l’unica risposta che sembra potersi dare è quella dei vari stati d’eccezione e degli interventi emergenziali promossi da politici ignoranti eletti da persone altrettanto ignoranti.

SFERA DEL MONDO E DELL’IMMAGINE DI MONDO, di Pierluigi Fagan

SFERA DEL MONDO E DELL’IMMAGINE DI MONDO. Partiamo da una ipotesi sulla realtà. Come si vede nel grafico, all’11 luglio, il Governo italiano si trova al vertice basso delle richieste di vaccinazione da parte della popolazione. Il dato è riferito a “prima dose” poiché se hai fatto la prima va da sé che -più o meno- farai la seconda. E’ già da qualche giorno che ti trovi lungo questa linea discendente, è da metà Giugno che quella linea scende. Questa situazione, come dinamica, è simile -più o meno- presso tutti i paesi occidentali. Si può inferire che liberatasi la possibilità vaccinazione in primavera, una marea di “early adopter” (coloro che adottano un atteggiamento per primi) ha subito usato la possibilità. Ma questa massa relativa non è la totalità e quindi ad un certo punto declina e si esaurisce. Più o meno ti trovi con un 50-55% di persone con prima o già seconda dose. Ma il tuo obiettivo, poiché questa è la strategia scelta nei paesi occidentali, è arrivare ad una massa vaccinati da 70% o meglio sarebbe perché così dice la strategia, all’80%. Lì la strategia dice che per ragioni statistiche, anche se non tutto l’universo (la totalità delle persone) è vaccinato, in pratica la vita può riprendere normalmente dove per normalmente s’intende il ripristino delle forme e dinamiche di vita associata precedenti l’inizio della pandemia. Con un brutto nome, la chiamano “immunità di gregge”.
Tu sei in estate e si sa che la vita normale in estate ha dinamiche tutte sue. Il tuo obiettivo è arrivare all’immunità di gregge, sperabilmente all’80% a fine settembre come da precoce annuncio del General Figliuolo, dato -mi sembra- addirittura a marzo. Questo perché la vita normale riprende per convenzione, pienamente, ai primi di ottobre. E questo, anche perché il tuo mandato è ristrutturare il sistema Italia (da cui la riforma della giustizia che dovrebbe ripristinare la certezza del diritto -durata dei processi-, fondamentale per ambienti in cui si vogliono attrarre “investimenti”), stante che preventivamente devi portarlo fuori dall’impiccio Covid. Anche perché ti stanno dando, più o meno sulla fiducia, un pacchetto di miliardi dall’Europa, la cui corretta spendibilità (che dovrà convincere i tuoi arcigni critici tedeschi, olandesi, finlandesi et varia) verrà valutata con metro economico, ovvero in base a quanta crescita produrrà. Se non si ripristina la “normalità” scordati la crescita, ovvio.
Non pertinente qui discutere se la tua strategia, che abbiamo visto è concordata a livello di G7, è giusta o sbagliata. Siamo qui, solo, a cercar di capire come va il mondo e in parallelo come va la sua immagine riflessa in vari tipi di mentalità. E del resto è proprio dalla comune immagine di mondo economicista da G7 il pensare che per ogni problema complesso esiste sempre una soluzione semplice. Che è sbagliata. Quindi, com’è nella logica economicista “one-size-fit-all”, tempeste epidemiche di virus mutanti da una parte? Vaccini mutanti (come le annate dei vini) dall’altra, in una sorta di Achille e la tartaruga che non arrivano mai ad appaiarsi. Del resto a capo del G7 c’è un tizio che presiede il paese che ha il monopolio della produzione occidentale di vaccini (assieme al fido scudiero britannico), quindi si fa così, allineati e coperti ed anzi pur con ritocchino del prezzo, un bel +25% circa, la salute costa. Il tempo è poco le chiacchiere stanno a zero, mica stai sui social, tu.
Ti trovi quindi con due mesi davanti per arrivare a 80 e stai a 55 circa, che fai? In quei giorni, il presidente del paese vicino che ha un suo rilievo in ambito europeo e che ti ha anche un po’ aiutato ad avere quegli agognati miliardi che molti non volevano darti, la mette giù dura. Il tipo pensa di prender il passaporto vaccinale sdoganato in Europa per facilitare i transiti interni (arriva l’estate e capisci che Spagna, Italia, Grecia ma anche molti altri, se il turismo ha una seconda botta, muore e con esso posti di lavoro, Pil e quant’altro) ed usarlo internamente. Pensiero forse derivato da una teoria economica che valse addirittura il Nobel nel 2017 (dalle parti degli economisti si dà il Nobel per ragioni spesso surreali, ma del resto non è un vero Nobel ma un premio istituita dalla Banca di Svezia) al suo autore, un certo Tahler. Si chiama “nudge” ovvero “spintarella”. Che male può fare una “spintarella” spesso definita anche spintarella “gentile”?
Ma quello che per un economista è una “spintarella gentile”, per uno psicologo o un sociologo o un giurista o un politologo, non è gentile per niente. In effetti, non lo è neanche per parte della tua popolazione che infatti, in Francia, scende in piazza indignata. Come ti permetti di creare diseguaglianza oltre quelle che ci sono già in abbondanza? Tu sei un banchiere centrale, neanche un economista, infatti ti sei circondato di una pletora di economisti e gli economisti, si sa, di psicologia, sociologia, politica, giurisprudenza ed affini, nulla sanno. Non sanno ma non sanno neanche di non sapere. Proprio perché non sanno, pongono assurde dogmatiche a capo di catene inferenziali, poi con abuso di linguaggio matematico, dimostrano che il dogma era giusto. Sarebbe ragionamento circolare, ma non sapendo di non sapere, non sanno neanche quanto nuoce la misconoscenza della logica di base. Per loro la matematica è tutta la logica da conoscere, quindi non c’è problema. Per cui, decidi di fare come Macron, ma con più gentilezza ulteriore. Limitiamo l’utilizzo ad incentivo negativo del Green pass ad alcune situazioni limitate, poi vediamo. Infatti, da quando annunci di voler fare il decreto sul Green pass, al quando lo fai, la curva di richieste di vaccinazione riprende! Magia del “nudge”!
Funziona, un po’, ma ha affetti collaterali. Una parte della popolazione non la prende bene. Difficile dire chi sono, ognuno di loro pensa che tutti gli altri sono lì ad indignarsi in piazza per il suo stesso motivo, con la sua stessa ragione. Ma non è così. Ci sono No-Vax radicali, addirittura negazionisti della prima ora, antiscientisti ed antiscienza, naturopati, ex trumpiani, libertari anti-liberisti, esperti di diritto, filosofi politici, truppe salviniane e meloniane in astinenza da “azione politica” ora che l’uno è al governo e l’altra fa finta di fargli opposizione, ma “gentile” anche quella. Ma anche anticapitalisti smarriti, erotomani del conflitto sociale non importa su cosa, democratici di principio giustamente preoccupati per l’abuso di “stato eccezionale”, allarmati preventivi ipersensibili al concetto di “capitalismo della sorveglianza”. Non hanno davvero letto la Zuboff, se avessero letto la Zuboff da mo’ che sarebbero scesi in piazza per la ben più legittima indignazione e paura verso il vero “capitalismo della sorveglianza” digitale. Ma la gente va a titoli, slogan, non legge, anche per loro ogni problema complesso ha una soluzione semplice e sbagliata. Così si organizzano per la rivolta contro il temuto (e temibile) “capitalismo della sorveglianza”, utilizzando i social ed Internet ovvero i dispositivi del capitalismo della sorveglianza. Non però quello vero, quello versione “dittatura sanitaria”, variante Delta del Panopticon nata su Internet. La descrizione sintetica data non copre tutto l’universo che per altro è per lo più fatto di semplici “indecisi” che tra il trambusto social e il perdurante delirio degli esperti televisivi, con aggiunta di “un mio amico medico mi ha detto” et varia, passano facile dall’indecisione allo smarrimento.
Peccato che quelli bravi, i veri capitalisti della sorveglianza che gli psicologi, i sociologi, gli esperti di diritto, gli statistici e financo i filosofi o quantomeno i teorici avveduti, li usano e da tempo, non si sono minimante sognati di fare una cosa così stupida come imporre il certificato di vaccinazione a popolazioni incerte ed indecise. Hanno usato il “nudge”, versione incentivo positivo, il sale della strategia di ogni marketing, il “push and pull” lo spingerti ma attraendoti. Ecco allora che scopriamo che mentre Draghi e Macron sono gli architetti della dittatura sanitaria con baffetti hitleriani di rigore, negli USA regalano canne di marjuana ai riottosi o i pigri della vaccinazione, target giovani s’intende. Birre e cibo per i bovari dell’entroterra americano. Biglietti per eventi sportivi o per lotterie fantastiche la cui vincita di cambierà la vita. Fino addirittura a pagarti: 100 euro per puntura! “Sorvegliare e punire” per gli italiani diventa “incentivare e premiare” per gli americani, strano no? Seguono uova gratis per i cinesi, polli per gli indiani (o sconti fiscali? ognuno ha il suo incentivo, si chiama “segmentazione”), giorni di vacanza retribuita ad Hong Kong, app di dating o Uber o Deliveroo in UK, pizza e birra in Israele, sconti ristorante nei EAU. Insomma, gli unici a cadere nella trappola dell’incentivo negativo e repressivo, digiuni di ogni minima norma di buonsenso per altro da sociologia liberale, sembrano esser stati francesi ed italiani. Gli uni con un tizio selezionato da banchieri, gli altri direttamente con a capo un banchiere. Un po’ poco per gridare alla dittatura sanitaria, visto poi che gli occhiuti dittatori si fanno pure rubare le banche dati da gruppetti di hacker della domenica rivelando tutta la loro sterminata incompetenza.
Insomma, ad 80% manca ancora poco meno di un 20%. La partita si gioca al centro (come sempre), tra gli indecisi. Nei prossimi due mesi, cederanno e si vaccineranno riportando l’Italia nella “normalità” o saranno catturati dal nucleo irriducibile degli scettici-contrari mossa da plurali istanze di cui molte confuse? Cosa sperare? Il ritorno alla normalità del consumo senza pensieri o l’irrigidirsi delle posizioni con scontro sociale che potrebbe realizzare l’incubo della “dittatura” (si fa per dire …) per cause di forza maggiore (con i prestiti EU non si scherza) a cui Sorgi ha dato voce paradossale, ma poi neanche tanto?
Secondo me il problema è un altro ed è più grave. Il mondo dei fatti va da una parte, il mondo delle immagini di mondo da un altro. Questo non è mai un bene ed ognun dovrebbe interrogarsi sul contributo che porta a questa dissociazione foriera di una certezza: il fallimento adattivo. Vale oggi per la pandemia, domani per la lunga sequenza di accidenti tutti giù ampiamente previsti, come del resto lo era la stessa pandemia.

ESONOMIA, di Pierluigi Fagan

ESONOMIA. [Post rilevante] Incontro il termine-concetto in un libricino di Pierre Clastres, etno-antropologo di propensione politica, allievo prediletto di C. Levy-Strauss, anarchico, prematuramente scomparso per incidente a poco più di quaranta anni. Se digitate il termine su Google, almeno a me (saprete che gli algoritmi personalizzano i risultati di ricerca, Google è un dispositivo relativistico ovvero relativo alla tua immagine di mondo) viene fuori, come avessi commesso un errore di digitazione: “economia”. Poi Google si sforza di trovare qualcosa e mi propone “isonomia” dal vocabolario Treccani. Cerchi sul vocabolario Treccani e viene fuori nulla. Ah! Un concetto nuovo, penso. Poiché però avevo capito al volo cosa intendeva il Clastres, mi sorprendo che il concetto venga ritenuto inesistente, cioè nuovo. Perché ciò avviene e perché merita un post? Ora provo a spiegarlo.
Di per sé il termine si compone di “eso” che vuol dire esterno e “nomia” da nomos che significa legge, quindi “legge che proviene dall’esterno”. Il suo opposto sarebbe endonomia, da “endo” ovvero interno, ma siccome il termine-concetto non esiste, non esiste neanche il suo contrario.
Relativamente alle questioni sociali (ma il discorso vale anche per gli individui), politiche e culturali, la nostra cultura prevede per principio solo approcci endonomici. Il “motore della storia” sarà interno alle forme sociali, le forme politiche dipendono chi pensa dai modi economici, chi altro pensa da preferenze ideologiche, così le culture, poi come “unità metodologica” c’è chi pone solo gli individui, chi invece i gruppi magari chiamandoli comunità o classi o società etc. etc. Ovvero, data un società x, cercheremo le ragioni del perché è così e non cosà, analizzando il suo interno nello statico o nel dinamico del tempo storico. Comunque, partendo dall’assunto dato, ma non giustificato, che tutte le cause dei vari modi in cui la società è e si struttura, dipendono da forze interne, condizioni che impongono la legge “nomia” partendo da fatti interni “endo”.
Esonomia, invece, dice il contrario, pone ciò l’attenzione all’esterno della società, ciò in cui è posta la società. Può esser l’esterno ambientale, quello geo-storico, il tempo caratteristico della civiltà di appartenenza, la complessa rete sistemica in cui ogni società è iscritta di natura e cultura. Esonomia segnala quando la legge, intesa qui come pressione adattiva, proviene non dall’interno ma dall’esterno. Il che ci porta al concetto di adattamento. Infatti, se ti devi adattare, vorrà dire che c’è un esterno a te con il quale devi andare d’accordo.
Il concetto di adattamento, diversamente da esonomia, esiste nella nostra immagine di mondo ma non è molto sviluppato. Darwin, a suo tempo, ha proposto una teoria dell’adattamento, ma gli interpreti della sua opera del 1859, hanno preferito apporgli concetto di “evoluzione”, termine che non esiste nella prima edizione dell’Origine delle specie. Quindi Darwin scrive l’opera fondativa della teoria dell’evoluzione, ma senza mai usare il termine, così come Marx scrive le opere fondative il concetto di capitalismo usando il termine, pare, solo due volte nella corrispondenza privata. Fu un sociologo, Sombart, a chiamare capital-“ismo” il sistema a lungo analizzato da Marx e fu un altro sociologo Spencer a chiamare evoluzione la teoria di Darwin, potenza degli interpreti!
Glielo appose Spencer che, in quanto anche filosofo, era legittimato poiché artigiano nella “fabbrica dei concetti” (questa è la funzione della filosofia o almeno “una delle funzioni”) e poiché era anche il produttore principale del concetto di “progresso” (siamo nella seconda metà del XIX secolo in quel della Gran Bretagna), gli veniva bene appaiare il concetto di progresso con quello di evoluzione.
Ma l’opera di Darwin non è del tutto sull’evoluzione, è più sull’adattamento. Però, la cultura occidentale, poiché ha coartato per secoli natura ed altri popoli per favorirsi l’adattamento, non ha ritenuto utile problematizzare il fatto adattivo, lo ha fatto e basta, passando poi il resto del tempo della sua auto-riflessione a domandarsi quali forze interne (endonomiche) hanno fatto sì essa abbia sviluppato i suoi modi che siano la società di classe, il capitalismo, la democrazia liberale, la tecnoscienza e molto altro della nostra storia culturale di famiglia. Colpa o merito di individui o classi sociali o specifiche ideologie o teorie, tutte però nate come Atena dal nulla, gratuitamente, per genio (o perversione) umano endogeno o forse per caso. Nessuno pare si sia mai domandato quali fossero le pressioni esterne che hanno mosso individui o classi o teorie ed ideologie a fare quel che hanno fatto o pensato.
Tant’è che oggi, che il modo sta cambiando radicalmente, pare che nessuno capisca bene il perché visto che cercando all’interno non si trovano poi questi complessi forti di cause agenti. Il fatto che sia il mondo fuori di noi ad esser cambiato, quello umano (altri popoli e civiltà) o naturale (ecologia e clima), pare interessi dal nulla al poco. Non si comprende ciò la carica esonomica che ci imporrebbe di cambiare molte cose per il semplice fatto che dovremmo adattarci ad un mondo nuovo. A noi piace il concetto di Nuovo Mondo ovvero la scoperta dell’America, ma abbiamo difficoltà insormontabili con il Mondo Nuovo, perché non siamo abituati a domandarci del “fuori di noi”. In particolare quelli del Nuovo Mondo hanno difficoltà col Mondo Nuovo, poverini, si capisce …
Ne verrebbe fuori a seguire un lungo e bellissimo discorso anche sulla nascita delle gerarchie, anche perché il Clastres usa il concetto proprio nella sua ricerca sulla nascita dello Stato e la rottura dei regimi egalitari sociali dei selvaggi che si potrebbero, con giudizio, retroproiettare al passaggio tra Mesolitico e Neolitico ovvero nascita delle società complesse e delle gerarchie sociali ab origine. Ma qui non c’è spazio e tempo, quindi andiamo a chiudere.
Volevo solo segnalarvi che, in prima istanza, le perturbazioni profonde, continuate ed incrementali che vanno ad affliggere i nostri ordini sociali, provengono proprio da questo “fuori di noi” che fatichiamo a considerare nel suo continuo proporci nuovi dilemmi adattivi. La nostra, oltreché complessa, è una era potentemente esonomica. Forse pari per intensità solo al passaggio tra Mesolitico e Neolitico. Specifico che il “noi” qui usato non si riferisce come solitamente intendiamo senza curarci della nostra ipertrofia egotica occidentale, nel senso di “umanità”. Noi non siamo l’umanità siamo solo una parte, pure piccola (intorno un sesto, circa). Alla nostra civiltà o civilizzazione si voglia intendere, l’era propone potenti ed inediti, specifici dilemmi adattivi, per questo la diciamo esonomica. Familiarizzare col concetto è un buon primo passo per sviluppare nuove strategie adattative, necessarie ed urgenti. Su questa riformulazione strutturale della nostra immagine di mondo siamo molto in ritardo e ciò non va bene.
Per involontaria saggezza implicita la logica delle immagini di mondo, sia il concetto di “economia”, che quello di “isonomia” che era il nome originario di quella che poi si chiamerà “democrazia”, hanno in realtà molto a che vedere con l’esonomia. L’equazione adattiva del nostro futuro ha infatti questi tre poli: data una certa esonomia, come si mette a quadro funzionale ed adattivo l’economia con la democrazia nelle società della civiltà occidentale?

 

L’AFFIORAMENTO DEL RIMOSSO, di Pierluigi Fagan

L’AFFIORAMENTO DEL RIMOSSO. In psicologia, la rimozione è il confinamento nelle segrete della psiche di qualcosa che disturba. Il “qualcosa” disturba probabilmente la coerenza della nostra immagine di mondo dello stato cosciente dove per “immagine di mondo” intendiamo l’insieme delle logiche e dei pensieri (convinzioni, giudizi, verità etc.) che animano la nostra mente, quindi noi, almeno nello stato di veglia ossia di coscienza. Ma laggiù nelle segrete della psiche, i guardiani non sono poi molto efficienti, i chiavistelli non sono ben fissati.
Così, sebbene il rimosso sia confinato e spinto nel fondo buio, a volte si ripropone, come avviene con ciò che non si digerisce ovvero ciò che disintegriamo per esser assorbito e così cessare di esistere. Il “rimosso”, non potendo esser digerito, rimane vivo anche se ostracizzato e quindi può sempre tornare a disturbare. Questo è detto “affioramento”, ritorno in superficie di ciò che si tentava di affondare per sempre. Il rimosso di cui vorrei occuparmi è il concetto di “culture”.
Le “culture” sono modi di pensare e di fare comuni ai gruppi umani che condividono una medesima immagine di mondo. A grana grossa, questi “gruppi umani” sono popoli, umani che vivono da tempo assieme in un certo territorio. Prima che esistessero le città stato e poi i regni e gli imperi alla nascita delle società complesse cinquemila anni fa, esistevano proprio le “culture”. Lo sappiamo perché scavando, in archeologia, abbiamo trovato segni di comune cultura materiale non potendo avere reperti di quella immateriale. Le “culture”, in antichità profonda, emergono in certi territori dove l’interrelazione umana, a livello di individui e gruppi, era maggiore (più intensa, più frequente) di quanto individui e gruppi avessero con l’area esterna. Dovendo avere a che fare gli uni con gli altri, sistematicamente, si venne a condensare una cultura condivisa poiché per avere a che fare gli uni con gli altri, ci vuole appunto una condivisione di alcuni elementi di quadro generale, una comune immagine di mondo.
Le “culture”, nell’era moderna che qui definiamo storicamente quindi quale quella europea successiva al medioevo, all’incirca da dopo il XVI secolo (ma essendo una lunga transizione c’è chi ne segna l’esistenza prima o dopo), sono state a lungo un problema. O meglio. Da settanta anni pensiamo siano un problema avendo diagnosticato che il conflitto endemico intra-europeo che per secoli operò incessantemente culminando nel suicidio in due puntate del doppio conflitto mondiale, era mosso appunto dal fatto che i popoli tali definiti per relativa diversità culturale, erano mossi alla reciproca aggressione e tentativo di preminenza, proprio dal fatto che avevano diversa cultura, diversa immagine di mondo. Abbiamo quindi tentato di rimuovere l’esistenza delle “culture”, sperando che in loro assenza manifesta, ci si potesse divincolare dalla coazione a ripetere del conflitto. Ma l’operazione è insensata.
Le “culture” sono epifenomeno dell’esistenza dei popoli, occorrerebbe quindi eliminare i popoli (ovvero le loro distinzioni relative), non è che i popoli spariscono perché si tacitano le loro espressioni culturali. Oppure, si sarebbe dovuto prender il toro per le corna e cercar meglio di capire come i popoli, pur diversi tra loro, possano convivere senza far delle loro obiettiva differenza, motivo di conflitto. Certo non si risolve il problema rimuovendo la loro espressione culturale. Infatti, puntualmente, ecco che le diversità culturali affiorano dalle segrete in cui le si erano confinate pensando che lontane dagli occhi, lontane dal cuore (e dalla mente).
Ciò che rompe i tentativi di contenimento del rimosso è una forte emozione. La rimozione è logico-razionale sebbene spinta da ragioni -in fondo- emotive e le catene logico-razionali sono assai fragili quando sono investite da forti onde emotive. Infatti, coi recenti campionati europei di calcio, ecco riproporsi le forti onde emotive, la rottura dei confinamenti logico-razionali che tentavano di cancellare l’esistenza delle culture, l’affioramento del rimosso, con scandalo. Scandalo per l’eterno ritorno del tribalismo nazionale che pare prerogativa della mentalità maschile. Infatti, tra i vari tentativi di rimozione, c’è anche il fatto che evolutivamente erano gli uomini i guardiani del bordo esterno, molto più propensi a ragionare per codici del “noi” vs “voi”.
Diffusa ignoranza pensa che queste faccende “culturali” siano immateriali quindi facilmente cancellabili per gesto di volontà, quando invece il “culturale” emerge dal “neuronale” ovvero da precise strutture fisiche (bio-chimiche). Cambiare comportamento, smettere di fumare, dimagrire, emanciparsi dalle tossicodipendenze, cambiare idea o peggio “sistemi di idee” per non parlare di “sistemi di pensiero” che presiedono l’azione, è così difficile proprio perché le strutture fisiche (mentali e corporali) non si spostano o cancellano facilmente. Più o meno il tempo che hanno impiegato per formarsi è il tempo che sarà necessario per s-formarle o ri-formarle anche se in questo secondo caso c’è sempre il pericolo dell’affioramento del rimosso.
Così, gli Antichi Greci avevano scoperto utile sospendere il loro eterno conflitto tra città-Stato indicendo periodicamente le Olimpiadi, la guerra sublimata nell’agone sportivo con grandi risparmi di sangue umano e distruzione materiale. Ogni atleta diventava il “nostro miglior cittadino”, noi stessi ma nella versione potenziata, tant’è che gli si erigevano statue in caso di vittoria, tributandogli anche molti altri onori materiali per tutta la durata della loro vita. Così oggi ci sentiamo tutti un po’ Berrettini ed un po’ Chiellini o Bonucci, anche se chi come me è interista, su questa ultima coppia ha processi di identificazione contrastati. Siamo certo della stessa cultura italiana, ma di due tribù fondamentalmente rivali. Ma buonsenso vuole che il senso di tribù maggiore (italiani) subordini quello minore (questa o quella squadra) e così sia, almeno per una settimana.
Divertente quindi notare come il Regno Unito, come tutti i Paesi che ostentano questa “unità” nel nome (Stati Uniti, Unione Sovietica, Emirati Arabi Uniti, a suo tempo Province Unite etc.), non lo siano affatto. Una gioiosa “schadenfreude” (piacere procurato dalle sfortune altrui) ha prima animato scozzesi ed irlandesi del Nord, poi anche gallesi che pure dovrebbero ritenersi assimilati almeno dal Cinquecento in quanto i primi sono popoli indigeni dell’isola addirittura pre-indoeuropei, mentre i secondi e terzi sono di derivazione celtica. Gli angli ed i sassoni invece, sono gli uni di origine danese, gli altri di origine germanica, migrati a forza in quel della Britannia lasciata a sé stessa dal ritiro dei Romani. Popoli barbari ed assai pugnaci, non civili, che divennero le élite dei successivi inglesi, quindi l’aristocrazia, i famosi “baroni” di cui si occupa un buon terzo del Levitano di Hobbes.
Tutte le aristocrazie europee sono per lo più derivate dai barbari invasori. Ancora oggi, la Gran Bretagna, ha una camera “alta” “House of Lords”, derivata dai conflitti tra baroni e monarca del 1215 (Magna Charta), con 680 pari a vita nominati dalla Corona, 84 addirittura con diritto ereditario e 26 vescovi. Dalla riforma del 1999 discutono come eliminare questa anomalia che confligge con il senso moderno, ma invano. Non legiferano ma hanno molti modi per influire sui destini politici britannici (tra cui la Brexit dal punto di vista della riottenuta autonomia a fini di nuovo globalismo ex Commonwealth), quella Gran Bretagna che è per alcuni patria di quello che molti chiamano “capitalismo” e che altri pensano addirittura esser patria della moderna “democrazia” avendo, in entrambi in casi, una certa confusione definitoria dei due concetti.
In una sperimentale psicologia dei popoli, si potrebbe diagnosticare per gli anglo-sassoni un ineliminabile senso di inferiorità a cui fanno diga con un manifesto senso di superiorità che li rende, obiettivamente, poco simpatici. Si ricordi che furono spesso inglesi le prime teorie “scientifiche” della razza (gli anglo-sassoni si sentono “ariani”, la famiglia reale è di origine tedesca sebbene abbia cambiato nome d’origine solo durante la Prima guerra mondiale adottando il nome di Windsor rimuovendo quello vero che recitava Sachsen-Coburg und Gotha e del resto, il principe William è un esemplare dolicocefalo), così come l’idea che fosse naturale il predominio di classe (darwinismo sociale). Infatti, è assai probabile che la citata “schadenfreude” più che comprensibile per le vittime dirette dell’obbligata convivenza nelle due isole dei vecchi britanni, si sia l’altra sera estesa a larghe parti del mondo come ammette un articolo scritto da un keniano su Al Jazeera ripreso da Internazionale.
L’inferiorità è data dal loro lungo dover subire, a loro volta, il senso di superiorità dei civilizzati che li hanno a lungo considerati barbari, quali erano in effetti. In un esercizio di storia controfattuale, chissà quanti tra colo che ne hanno subito le angherie hanno immaginato cosa sarebbe successo se i Romani non si fossero ritirati lasciandogli spazio libero da riempire.
Be’, l’altra sera, nel grande romanzo popolare della storia delle culture, i discendenti dei Romani li hanno sconfitti in quel di Londinium, privando loro di una gioia, regalata invece ai molti che ne hanno vastamente e lungamente subito l’indubitabile egoistica ed arrogante potenza.
Anche questa è “cultura”, certo “popolare”, ma molti amanti a parole del popolo farebbero meglio a coltivare di più le connessioni sentimentali con quel “popolo” che vorrebbero emancipare senza diventare quindi una nuova aristocrazia. Sebbene solo intellettuale, sempre della convinzione di essere i migliori (àristoi), si tratta.
> L’articolo di Internazionale citato: https://www.internazionale.it/…/inghilterra-italia-europei

LOGICA DEL MULTIPOLARE, Pierluigi Fagan

LOGICA DEL MULTIPOLARE. [Post-articolo di geopolitica teorico-pratica] Il sistema multipolare ovvero una compresenza di più potenze in uno stesso contesto, dovrebbe ritenersi la norma delle relazioni internazionali quando lo stato del contesto è normale ovvero pacifico e non speciale cioè bellico. Poiché però proveniamo da una storia in cui il mondo era meno globale, più gerarchico, meno denso e più bellico, il formato ci sembrerà nuovo ed inedito e quindi poco conosciuto. Cerchiamo quindi di conoscerlo meglio.
Abbiamo quattro novità di contesto oggi. Il mondo ha triplicato la sua popolazione ed il numero degli stati negli ultimi settanta anni, il mondo è quindi più denso, molto più denso ed affollato che in precedenza, il che porta una maggior complessità nel problema della convivenza.
La seconda novità è che il mondo è e sarà sempre più globale. Col termine “globale” s’intende il venirsi a formare di un meta-sistema-mondo. Un contesto “mondo” c’è stato, almeno per noi occidentali, dal Cinquecento, ma nel corso del tempo su fino alla grande estensione dell’Impero britannico, poi le due prime (forse ultime?) guerre “mondiali” ed infine col processo di infrastrutturazione interna a base di scambi economici e non solo ed in ragione della maggior densità interna, il “mondo” è oggi “il” contesto generale madre per ogni altro sotto-contesto particolare.
Le gerarchie-mondo hanno visto gli europei dominare fino al XX secolo con colonie ed imperi, poi il sistema europeo è collassato con due conflitti cataclismatici ed il sistema dominante europeo ha lasciato il posto ad una galassia occidentale che ruotava intorno agli Stati Uniti d’America. Sia per compattare la galassia usando l’identità negativa (noi siamo … in quanto contro …), sia per oggettiva concorrenza tra modelli ambiziosi (la società-mercato vs la società-politica, liberale la prima, comunista la seconda) dove per “ambiziosi” s’intende con sguardo espansivo con ambizioni egemoniche, s’è venuto a formare un contesto detto “bipolare”. Non lo era in effetti, già dagli anni ’50 si viene a formare una terza galassia, quella dei paesi non allineati ad uno dei due poli, ma né questa galassia poteva dirsi un polo, né era competitiva con gli altri due mostrando una sua omogeneità interna (era anch’essa una identità negativa), né il nostro sguardo si interessava più di tanto del mondo in quanto tale, “mondo” era per noi la porzione che ci riguardava. Ma era pur sempre una eccedenza della semplificazione bipolare. Negli anni ’90, implode il polo sovietico ed inizia una nuova fase di globalizzazione infrastrutturale (Internet), commerciale (WTO) e finanziaria. Nel frattempo, si anima l’Asia (“l’eccedenza bipolare”) con la crescita del sub-sistema multipolare del Sud-Est asiatico, la potente crescita cinese seguita ad una certa distanza da quella indiana. Oggi e sempre più in futuro, la distanza di potenza tra vertice e base del sistema-mondo tenderà ad accorciarsi in un processo sistemico naturale di auto-omogeneizzazione relativa (dalla Grande divergenza alla Grande convergenza). Questo intendiamo per “meno gerarchico” ovviamente in senso relativo. E’ proprio la dinamica di questo terzo punto, sommata alle alte due, a determinare l’ineluttabilità della forma multipolare.
Infine, dato un mondo ormai pienamente ed irreversibilmente multipolare, l’intonazione delle relazioni interne sarà ovviamente conflittuale dato che parliamo di sistemi umani e non di atomi o molecole o branchi, stormi, banchi di animali non pienamente intenzionali, ma con un invisibile limite all’uso della forza diretta, almeno tra poli. Conflittuale e cooperativo sarebbe più preciso dire, a seconda di temi, tempi, contesti particolari. Il limite all’utilizzo della forza almeno tra poli è dato sia dal limite involontariamente posto dalle armi nucleari (M.A.D.), sia dalla non convenienza a disordinare pesantemente lo stesso contesto mondo da cui ormai dipendiamo tutti, volenti o nolenti. Quest’ultima condizione, negli “occidentali”, è più cogente per gli europei che abitano un promontorio dell’Eurasia, che per gli anglosassoni che da tradizione abitano isole (britanniche, australi, continentali nel caso nord-americano). Da cui una obiettiva divergenza di interessi tra i due occidenti.
Ecco quindi il contesto multipolare per la prima volta davvero a dimensione mondo, un mondo molto denso, in cui è meno facile ordinare con una asciutta gerarchia semplificata, la cui regola interna è competere e cooperare con un sempre più improbabile (per quanto sempre possibile poiché l’umano è sì intenzionale ma non per questo si è emancipato del tutto dalla stupidità intrinseca) possibile ricorso allo strumento usato sempre ed ovunque in cinquemila anni di storia società complesse: la guerra diretta tra concorrenti. Quattro belle novità, sul piano storico che dovrebbero esser assunte su quello teorico.
Non sempre, agli umani, capitano periodi storici con salti di novità così importanti e radicali, stante che per capire il mondo non possiamo, almeno inizialmente, far altro che volgerci indietro per capire dall’esperienza passata come si svolgerà il futuro. Se questo ricorso all’indietro per prevedere il davanti è tipico della nostra tradizione mentale, il meccanismo fallisce quando si è la fortuna o sfortuna di capitare in periodi di così pronunciata discontinuità. Vedi il “tacchino induttivista” di B. Russell. Infatti, da ciò che si legge in ambito “esperto” o in ambito “dilettante” quanto a geopolitica, sembra che molti abbiamo una grossa difficoltà a comprendere la natura del mondo multipolare. Il discorso pubblico vede ancora riproposti concetti inadatti come “dominio o egemonia sul mondo”, “guerra fredda”, “terza guerra mondiale” (per fortuna ora un po’ meno, sino a qualche anno fa era un tema che andava molto soprattutto tra i tendenti alla paranoia esistenziale), legge ferree delle talassocrazie o il fatidico centro egemonico del capitalismo, tutti concetti pescati nell’indietro e quindi poco adatti a comprendere il davanti.
Tutto ciò ci serviva anche come premessa per commentare l’esito del primo giorno del summit europeo a 27 che si tiene a Bruxelles. A notte inoltrata e dopo essersi piacevolmente unitamente intrattenuti sull’omofobia di Orban, i 27 si sono spaccati sull’ipotesi di un vertice UE-Russia avanzata con grande intenzione da Francia-Germania (e per quel che conta cioè poco, l’Italia). Contrarissimi sia i paesi dell’Est, sia quelli del Nord propriamente detto (Olanda e Svezia), questi ultimi preoccupati anche dal fatto che tema sul tavolo dell’eventuale nuovo dialogo con Mosca ci sarebbe l’Artico, ma anche per via del fatto che da sempre hanno “special relation” con l’UK. UK che ovviamente è contrarissima a questa ipotesi di nuove aperture verso Mosca ed infatti giusto l’altro giorno hanno mandato una barchetta in acque russo-ucraine sperando di poter provocare qualche incidente che invalidasse ogni velleità europea di dialogo euro-russo. La disciplina stessa “geopolitica” inizia in pieno dominio dell’impero britannico con un geografo inglese preoccupato del fatto che si potesse venire a creare nell’Heartland un sistema egemone, lì dove gli “isolani” diverrebbero fatalmente “isolati” ovvero periferici.
Si può immaginare che questa apertura franco-tedesca sia stata moneta di scambio tra USA ed il bipolo egemone nel sistema UE, come compensazione per i nuovi divieti di relazione diretta con la Cina. Moneta data o pretesa o implicitamente dovuta secondo i due europei. Concessa o tollerata dagli USA sia per dar seguito dal vertice Biden-Putin (con Biden che dall’iniziale “di senno sfuggito”: criminale! è stato consigliato a passare a più miti consigli), sia perché poi manovrando appunto i paesi dell’est o i nordici molta sabbia può esser messa negli ingranaggi delle relazioni internazionali del quadrante, se dovessero prendere una piega non conforme ai desideri dell’egemone del sistema occidentale.
Di per sé non è ancora successo niente, ma c’è molto movimento. Sembra si avveri il desiderio o profezia di Kissinger verso un grande ritorno della diplomazia e del resto Kissinger pare uno dei pochi che capisce la natura dell’argomento. Il summit si è concluso con l’aperta bocciatura della proposta franco-tedesca, c’è da giurare che i due non molleranno ed in vario modo porteranno comunque avanti l’intenzione, c’è da dar per scontato che UK-vari paesi europei con dietro gli USA troveranno altri mille modi per sabotare tale intenzione. Non è ancora fattivamente successo nulla nelle relazioni con la Cina che, al netto della semplificata rappresentazione del problema cinese che si dà qui da noi, è di fatto un sistema massivo inscritto in un continente che non può esimersi dall’averlo come centro gravitazionale ineliminabile, lì dove tra l’altro risiede il 60% dell’umanità ovvero l’Asia. La Russia sta a guardare solida delle sue nuove relazioni asiatiche pur sapendo tutti noi molto bene quanto, storicamente e culturalmente, la Russia stessa si ritenga parte orientale dell’Europa e non parte occidentale dell’Asia.
Quindi al di là delle chiacchiere e dei proclami, tutti sanno che questo è il nuovo gioco di tutti i giochi. Biden che segue il buonsenso geopolitico di provare a spacchettare o quantomeno allentare l’asse Russia-Cina, Merkel-Macron che potrebbero rallentare i rapporti coi cinesi se gli si dà sfogo in Russia, Putin che da tutto ciò quanto a terza forza è colui che, potenzialmente, potrebbe trarre il maggior vantaggio dal nuovo mondo multipolare bilanciandosi un po’ di qua ed in po’ di là secondo convenienza. Stante che se il mondo nuovo si dice “multipolare” non è solo perché il primo girone di potenza passa da due a tre-quattro, ma anche perché ci saranno India, Giappone, Corea, Indonesia, Pakistan, Turchia, petro-monarchie, Egitto, Brasile e molti altri che parteciperanno al nuovo gioco sebbene in più limitate aree locali. Ma il mondo nuovo sarà così, multistrato e più complesso.
Quando scrissi il mio libro sul mondo multipolare, scoprii che nel reparto relazioni internazionali dello staff elettorale di Trump c’erano cinque consulenti. Nell staff di Biden in campagna elettorale e poi oggi nel governo pare ce ne siano cinquemila, se ho ben letto. Questa differenza di grana con cui si osservano i fatti del mondo per poi influenzarli, dice quanto inedito e complesso è il mondo multipolare. Una complessità necessaria che molti farebbero meglio a studiare di più e meglio piuttosto che far finta di capire cos’è il nuovo gioco geopolitico pensando che ciò che è stato, sarà di nuovo e per sempre. Lascerei quindi agli archivi Tucidide, che pure amiamo tutti molto, e cercherei di sintonizzarci sul mondo del XXI secolo che con il Peloponneso del V secolo a.C. ha poche analogie strutturali.
E se siete intellettualmente interessati dalla geopolitica, consiglierei anche di controllare le vostre preferenze emotivo-ideologiche che vi fanno ora amici appassionati ora nemici irriducibili dei cinesi, dei russi, degli americani, dei franco-tedeschi etc. . L’avalutatività weberiana è un miraggio, convengo, ma insomma, c’è modo e modo di farsi condizionare dalle nostre preferenze ideologiche. Anche se capisco che giocare a capire la geopolitica è più divertente che cercare di capirla davvero.
NB_tratto da facebook

E DOPO CHE SI FA?_ di Pierluigi Fagan

E DOPO CHE SI FA? [Post lungo e denso] In Globotica, Baldwin osserva tre forze, più una, pressorie sull’istituzione sociale moderna del lavoro.
Della globalizzazione sappiamo: concorrenza da posizioni asimmetriche, delocalizzazioni, deregolazioni. Si sarebbe forse dovuto aggiungere la finanziarizzazione poiché la continua richiesta di profitto in tempi nei quali la vivacità produttiva ristagna in occidente ormai da parecchio, ha portato e porta ad una pressione sui costi d’impresa che fatalmente diventano costo del lavoro e costi di ricerca. Il paradosso perverso è che attaccando il capitale umano e quello cognitivo (io normalmente non userei l’espressione “capitale umano” che trovo assai volgare, ma nel discorso pubblico tocca a volte accettare gli standard in corso per intendersi), si rinforzano le ragioni che limitano l’ulteriore sviluppo aziendale che è alimentato dagli investimenti. Se gli investimenti vanno a profitto …
A ciò si aggiunge la conversione di lavoro umano con lavoro macchina (hard e soft). Tale conversione è spinta dalla stessa global-finanziarizzazione, nel senso che per competere ad armi semi-pari con concorrenti dal costo del lavoro (diretto ed indiretto) complessivamente più basso ed a (quasi) parità di qualità tecnica di performance, non rimane che agire proprio sul costo del lavoro. Ed è indubbio che il costo macchina sia di molto inferiore al costo dell’umano. Ad un certo punto Baldwin cita in modo sottilmente sprezzante l’ex segretario al Tesoro Steve Mnuchin che ancora nel 2017, a domanda su quanto l’IA erode ed avrebbe eroso lavoro umano, rispondeva che l’eventualità si sarebbe semmai presentata nell’arco di cinquanta, forse cento anni. Questo negazionismo protettivo delle nuove forze di mercato agisce da tempo sostenendo l’insostenibile e ricorrendo a ragionamenti fideistici che solo la diffusa confusione mentale permette di non notare.
Ma Baldwin pone sopra queste due pressioni note una terza. Se la prima “Grande trasformazione” svuotò le campagne e riempì le industrie e se la seconda iniziata negli ultimi decenni del secolo scorso, svuotò -qui in Occidente- le industrie e riempì i servizi, sono proprio i servizi oggi sotto attacco. Attacco dalla diffusione e progresso dell’IA (si pensi all’autoapprendimento) che tende a pareggiare la performance umana in molti casi ed un nuovo attacco su cui si sofferma in modo particolare. Si tratta di una particolare, nuova performance, dell’IA nel superare le barriere linguistiche per via della diffusione di traduttori istantanei, di scrittura ma anche di voce.
Si segnalano infatti almeno una dozzina di portali che offrono collaborazioni free-lance localizzate in tutto il mondo. Il free-lance on line costa pochissimo poiché localizzato in India, Pakistan, Bangladesh o altrove in Asia, è flessibilissimo, è estremamente competente poiché in genere si è formato in Occidente, è a contratto limitato ad una singola performance, lavora anche in anti-orario (quando qui si dorme). Questa figura, che va dal call-center all’ingegnere progettista, è stata sino ad oggi limitata dalla conoscenza dell’inglese, circa un miliardo di potenziali. Ma i nuovi sistemi anti-Babele, ora allargano il fenomeno ad un una platea di più miliardi di potenziali.
Si pensava quindi che i servizi fatti da esseri umani per esseri umani fossero protetti poiché i primi processi di recente globalizzazione riguardavano mani, non menti. Invece non lo sono, e per via dei progressi diretti di IA che pareggiano le prestazioni umane con vantaggio di costo, e per via di alcuni specifici progressi della stessa categoria che però mettono in contatto offerta locale con domanda a basso costo, entrambe umane, potenzialmente globale. Da cui il termine “globotica”.
Queste le tre pressioni. La “più una” è data dal discorso che qui abbiamo molte volte citato, preso dallo storico dell’economia R.J.Gordon a proposito della fine dello “special century” (1870-1970). Secondo il Gordon, le cui tesi sono sostanzialmente alla base delle fosche previsioni di “stagnazione secolare” di Summers-Krugman, abbiamo alle spalle un eccezionale ed irripetibile parentesi poietico-creativa a base tecno-scientifica. Meccanica, meccanica a vapore, elettricità, chimica, telecomunicazioni, intrattenimento, nello “special century” queste sono state innovazioni catastrofiche (che rivoltano la forma) che hanno dato luogo a sviluppi successivi di cascate e cascate di innovazioni di processo e di prodotto. Dopo gli anni ’70, negli ultimi cinquanta anni quindi mezzo secolo, c’è solo il digitale-informatico. Il quale, tra l’altro, va in genere più in sostituzione che in innovazione profonda. Fra un po’ avremo accesso all’intera libreria di ogni musica mai prodotta con chip sottocutaneo ed auricolari miniaturizzati impiantati direttamente nei padiglioni auricolari, ma insomma, si tratta pure sempre della radicale innovazione iniziale della “musica riprodotta in assenza dell’emittente” che risale ai primi grammofoni. O come nel caso delle automobili, l’innovazione radicale sarebbe il teletrasporto non l’auto elettrica che si guida da sola.
La tesi di Gordon è interessante perché storicizza un fenomeno che qui chiamiamo economia moderna (scienza-tecnica-capitale) in luogo del più usato “capitalismo”. Lo colloca cioè nel tempo ricordando che, come ogni altro fenomeno storico, si va incontro all’inesorabile regola dei rendimenti decrescenti, il “meglio” è andato.
Infine e relativamente a tutte e tre più una delle pressioni sul lavoro, necessario cardine del contratto sociale moderno, il tutto mostra due caratteristiche: 1) l’enorme dilatazione degli spazi per la quale ormai ed irreversibilmente il mercato è il mondo (anche quello del lavoro in forme dirette ed indirette); 2) l’incredibile velocità temporale delle trasformazioni che ormai non viaggiano più al ritmo del secolo o dei decenni, ma degli anni. Adattare istituzioni sociali umane e mentalità a questa velocità e dimensione del cambiamento è un grosso problema. Ed è “il” problema politico e sociale principale della nostra fase storica.
Baldwin non lo fa, ma come nel caso della finanziarizzazione da accoppiare strutturalmente alla globalizzazione, vi sono altri problemi incidenti. Dai limiti di compatibilità tra fare economico umano entropico e secondo principio della termodinamica nonché difficile equilibrio con il sistema complesso naturale (clima, ambiente, ecologie, biodiversità etc.), alla riduzione vistosa di potenza tra Occidente e resto del mondo che sta producendo la nuova “Grande convergenza” (sempre un libro di Baldwin che riprende la Grande divergenza di Pomeranz).
Ci si potrebbe poi aggiungere la ormai stanca e sempre meno sostenibile perversione in termini di teoria dei bisogni tra quelli materiali, quelli relazionali e quelli posizionali per cui i primi che erano il regno della necessità sono inondati da superfluità (ci dobbiamo muovere sì, ma del monopattino elettrico possiamo francamente fare a meno senza gravi turbamenti). I secondi -invece- sono negati e pervertiti portandoli a diventare interni ai terzi. Ad esempio “hai voglia di parlare con qualcuno?” come abbiamo fatto per centinaia di migliaia, forse milioni, di anni? Arriverà Cortana o Siri Existential, il tuo amico o amica che ti conosce meglio di quanto tu conosci te stesso (coi Sette Sapienti che si agitano nelle tombe, ma anche Confucio). Questa macchina è stanca anche lei e i numeri della epidemia di depressione certificata a dati WHO, sommata a quelli della criminalità, tossicodipendenze, alcolismo, disordini mentali (ansia, ad esempio) che alimentano Big Pharma e molte professioni mediche, ne danno numero-peso-misura obiettiva. Il bisogno -condizione di possibilità- per la soddisfazione di ogni altro ovvero il tempo, è la moneta di scambio per il reddito senza il quale non vivi. Quindi non hai tempo per te, per il tuo partner, per i figli, per gli amici, per l’auto-coltivazione fisica, psichica e culturale e quindi i bisogni relazionali sono programmaticamente frustrati per alimentare l’acquisto di succedanei ovvero beni posizionali. Comprati vendendo la tua libertà di gestite il tuo tempo umano.
Il pilone delle forme moderne di vita associata, il lavoro, tende a sgretolarsi, Aggredito qui da noi da globalizzazione, finanziarizzazione, avanzamenti IA diretti ed indiretti come nel caso della nuova globotica, limiti della fisica termodinamica e della chimica, riduzione di potenza geopolitica quindi geoeconomica, rendimenti decrescenti dell’innovazione, contrazione demografica (con invecchiamento medio), stanchezza della macchina perverti-bisogni.
Piena occupazione? Orario di lavoro? Salario di cittadinanza? Mi sa che anche a livello di elaborazione teorica, anche critica, c’è da farci sopra una riflessione più complessa. Si tratta di immaginare un nuovo tipo di contratto sociale, lottare per questo in senso strategico e non limitarsi alla difesa giapponese delle ultime trincee di un mondo che sta semplicemente svanendo nel flusso sempre cangiante del corso storico. Dovremmo tornare a nuotare nella storia, ma molti abituati alle dinamiche di terra moderna, sembra abbiamo perso la facoltà natatoria. Iscriversi in piscina o rimettersi a studiare?
Planck diceva cha la scienza progredisce ad ogni funerale, nel senso che poiché ciò che pensiamo è il senso della nostra identità che non cambiamo facilmente, debbono scomparire purtroppo i fisici portatori di una certa mentalità affinché si crei lo spazio per farne emergere di nuove, adeguate ai tempi, perché i tempi cambiano, sempre. Quest’ultima, è l’unica legge della storia e noi, in fondo, siamo solo precarie concrezioni storiche che fanno finta non esista il tempo perché il tempo allude alla morte.
(Del libro di Baldwin sono solo a metà, ma mi stimolava il ragionamento)

LA GIOVIN POTENZA, di Pierluigi Fagan

LA GIOVIN POTENZA. Leggevo l’articolo di Rampini sul tour Biden. Rampini dice che i G7 erano il 70% del Pil mondiale quaranta anni fa, oggi il 40%, ma l’outlook è prossima, decennale, contrazione.
Biden ha lanciato la Via della Seta delle Lega delle Democrazie, ma senza soldi. Voglio poi vedere coordinare 12 soggetti che debbono decidere chi fa cosa, come e dove (coi soldi di chi). O più se consideriamo l’UE che non riesce a decidere neanche come ripartirsi 10.000 migranti.
Biden ha deciso di sparare 1 miliardo di siringhe sul mondo per guarirlo dal Covid, ma ne servono 11 miliardi per arrivare alla supposta immunità di gregge o insomma per dare una bella botta alle reti di contagio. La variante indiana, intanto, sta bloccando alcuni porti cinesi con un danno di logistica globale che sta pareggiando per entità la nave di traverso di Suez.
Hanno poi deciso di legalizzare una tassa al 15% per le compagnie speciali, ma dicono che è meglio di prima che pagavano zero. Sì, senz’altro, ma così legalizzi un vantaggio fiscale che tra l’altro a pura logica di mercato (Smith, Hayek) è cosa vietatissima. Sono pazzi. Poi l’accordo va ancora ratificato da tutti, inclusa l’Irlanda e l’Olanda.
Sul clima, chiacchiere ma verdi.
Io capisco che fare una strategia per i prossimi trenta anni per gli Stati Uniti d’America sia un gran bel problema strategico. Ma mi sembra che la giovin potenza vada errando. In Europa, a far la guerra fredda ai cinesi, non va a nessuno. Ho letto la ricerca dell’European Council for Foreign Relations che linko, per gli “europei” generalmente ed a maggioranza intesi, l’Europa dovrebbe diventare geopoliticamente più autonoma sebbene in alleanza con gli atlantici e soprattutto attrarre come un “faro”, cooperando un po’ con tutti, ma ogni tanto anche esprimendo valori e critiche. Una visione che l’estensore del commento definisce alla fine di solo “soft power”. Un continente di anziani, che hanno una lunga storia, coi francesi ed i tedeschi che coi cinesi fanno filarini niente male.
La ricerca dice tra l’altro anche che il sentiment medio degli europei verso l’UE è sempre meno positivo ed altre cose interessanti.
Ciò non vuol dire che la Cina non sia un problema negli equilibri multipolari, un gigante del genere, in qualsiasi sistema, tende per sola massa a condizionare il sistema del mondo. Non oggi, non per qualche decennio forse, ma in prospettiva senz’altro.
Sul problema Cina ne riparleremo, ma sugli americani io penserei a sviluppare di più un discorso critico sulle due culture, quella europea e quella anglosassone. Gli americani debbono darsi una calmata e ridistribuire meglio la loro enorme ricchezza al loro interno. Hanno ancora qualcosa come il 24% del Pil mondiale con appena il 4,2% della popolazione mondiale. I britannici seppero viversi, primo popolo che io ricordi, la contrazione di potenza senza dar di matto. La giovin potenza va accompagnata a darsi una calmata. I diritti d’autore su “democrazia” ed ogni altro valore di Occidente sono europei, e quella loro non nacque tale e tale non è mai stata, è un governo rappresentativo ed anche molto poco rappresentativo secondo molti studiosi politici anche americani. Sarebbe ora che gli europei ricominciassero a pensar con la testa propria e questo sembra non solo una idea di buonsenso ma anche sostanzialmente ben condivisa dai concontinentali, il che conforta.
Intanto i cinesi sfottono, questo meme intitolato “The Last G7” è diventato “viral” come una fiammata su Sina Weibo. Gli USA stampano dollari dalla carta igienica dicendo “Attraverso questo possiamo ancora governare il mondo”. La Germania prima a sinistra osserva poco convinta, l’australiano cerca di prender i dollari, la volpe giapponese serve acqua radioattiva di Fukushima a tutti, l’italiano si astiene. Poi c’è l’inglese ed il canadese, il francese che prende appunti e l’elefantino indiano. La rana è Taiwan. Dietro si vedono bombole ad ossigeno e una sacca da flebo. L’artista si chiama Bantonglaoatang. Cortesie multipolari 🙂.

Storielle che fanno la Storia, di Pierluigi Fagan

Un po’ troppo semplice, ma efficace_Giuseppe Germinario
RACCONTANDO STORIE … duemilacinquecento anni fa, un manipolo di sacerdoti in esilio, butta giù un testo scritto che raccoglie una serie di leggende a cui altre vengono aggiunte pescando nel milieu narrativo babilonese. Raccontano che esiste un popolo, un popolo di pastori seminomadi che finalmente avevano fatto un piccolo regno stanziale, poi fallito, e che quel popolo è il prescelto da un tizio che in una settimana ha creato il mondo, anzi sei giorni più uno di riposo. Questi pastori mediamente ignoranti ci credono e nella misura in cui tutti loro credono alla stessa storia, ecco che davvero si forma un popolo. Un popolo che, unico caso nella storia umana, non ha una terra e pure persiste nella sua auto-convinzione di identità, forse superiorità, razziale, per duemilacinquecento anni. Solo perché tutti credono alla stessa, per quanto incredibile, storia.
Raccontando storie, altri sacerdoti che pescano in un canone dall’incerta formazione, convincono i poveri di mezzo Mediterraneo, che “popolo” va inteso in senso largo, non razziale o etnico. Basta credere tutti di essere popolo di Dio e siamo tutti popolo di Dio! La cosa frutta una certa mal precisata forma di vita eterna, promessona, voliamo alto, altro che. La cosa funziona, ci credono in molti, tanto che ad un certo punto le élite romane del tempo, debbono a loro volta far finta di credere alla storia perché avranno anche armi e soldi quindi potere, ma se ciò che è nella testa del popolo è diverso da quello che dicono loro, non potranno a lungo rimanere la loro élite, armi e soldi poco fanno col potere della credenza condivisa.
Più tardi, un mercante forse affetto da crisi epilettiche, nota di appartenere ad un gruppo etnico che non si pensa come popolo, proprio com’erano gli ebrei dell’origine. Va spesso a Damasco, nota che ci sono i cristiani su fino all’Anatolia, ci sono i Persiani ai tempi sasanidi. Gli uni e gli altri spadroneggiano su quelli del suo gruppo che però non si pensa ancora come gruppo, e non si pensa come gruppo perché non ha una storia condivisa nelle molte menti. Così gliela dà ed inventa gli arabi e poi i sottomessi a Dio (muslim). Oggi sono 1.600.000.000 quelli che credono a quella storia e crescono incessantemente. Funziona alla grande.
A parte i primi, gli altri due passeranno molto tempo a litigare al loro interno su chi è più conforme alle definizioni fondative e chi meno, ma passeranno anche più tempo a convincere altri che è bello appartenere al loro stesso modo di pensare, più siamo meglio è per tutti! Sebbene predichino la fratellanza universale, uccidono, massacrano, violentano, muovono possenti eserciti, incoronano re e califfi, supportano vari tipi di poteri gerarchici locali, mille ed un modo per sottomettere i Molti ai Pochi di cui loro curano la narrazione. Nella misura in cui molti credono a quelle storie, nella misura in cui condividono quello che hanno in testa, agiscono come un sol uomo, ordinati, corali, coordinati, asserviti anzi auto-asserviti.
I primi, invece, se la passarono così, così. Non tanto con gli islamici la cui storia è molto copia-incolla con quella vetero-testamentaria e con cui il mercante ha convissuto molti anni a Medina prima di fargli guerra rompendo la fratellanza (cuginanza, forse) originaria, quanto con i cristiani che pensano di seguire una versione di Dio detta Cristo mentre gli altri due inorridiscono a questo cripto-politeismo fatto di ipostasi, santi, trinità e pasticci narrativi figli di commistioni neo-platonizzanti di ambienta caucasico-siriano-caldeo forse pure con spruzzi di ermetismo egizio. Da quella parti la storia è un racconto incredibilmente complicato e pure bellissimo. Ostracizzati in mezza Europa si rifugiano dagli arabi, alcuni però resistono fino a quando tornano in auge perché gli inglesi del Seicento vengono colti dall’illuminazione e cominciano a raccontarsi tra loro la storia che sono proprio loro, gli inglesi, il nuovo popolo eletto. Poiché gli altri erano anche banchieri e la cosa interessa molto il popolo dei mercanti inglesi, li invitano a migrare da loro. Successivamente, anche gli inglesi oltreoceano, cominciano ad un certo punto a sentirsi “popolo eletto” e ricevano con piacere questo antico popolo che nel frattempo, oltre che nella gestione dei denari, s’è sempre più specializzato nel raccontare storie. Un popolo figlio di un racconto che dice del tizio che in pieno delirio creativo creava tutto ed il suo contrario solo nominandolo per cui “In principio era il Verbo”, va da sé che si convince dell’importanza della parola, della frase, del racconto, della storia narrata più che di quella vissuta davvero. Diventano allora professori, giornalisti, scrittori, molti sceneggiatori, psicoanalisti, prendono una specie di monopolio del narrativo.
Raccontando storie una intera civiltà s’è convinta di esser il vertice del progresso umano, anche se ancora settanta anni fa s’è ammazzata in mille ed un modo al suo interno facendo un centinaio di milioni di morti ammazzati. Gente che, come per altro è successo per secoli e secoli, s’è convinta del principio anti-biologista per cui è bene morire per qualcosa, esser un eroe, salvare la Patria, difendere la credenza condivisa, uccidere chiunque sia Altro solo perché Altro. Con i sacerdoti che benedivano le armi, i morti, giustificavano i massacri anche solo col silenzio poiché in contesti in cui vigono le storie, anche i silenzi raccontano e dicono.
Dentro questa “civiltà”, alcuni si sono innamorati della storia che la società tutta funziona meglio perché il lattaio ed il macellaio sono egoisti e perseguendo il loro avido egoismo ci portano carne e latte tutte le mattine sotto casa evitandoci la mucca in cucina che a parte casa Bersani, è un po’ un ingombro.
Altri si son dati un gran da fare a convincere tutti gli altri che vivono in società dalla convenzione politica di tipo “democratico” e via Pericle, Partenone, Platone (pensa te che confusione, uno dei massimi e più sofisticati teorici antidemocratici), non ci possiamo certo lamentare perché è auto-evidente che viviamo nel migliore dei mondi possibili ed anzi, dovremo darci da fare a liberare il mondo intero, uccidendo, torturando e violentando per portare a tutti la democrazia. Mica siamo egoisti no? Noi siamo “universali”. Chiamano democrazia una evidente oligarchia ma chi se ne frega, mica è venuto fuori un manipolo di filosofi politici a dirgli “oh ragazzi, ferma un attimo, qui parola va da una parte e cosa dall’altra, fate casino così”. No, i filosofi politici erano appresso ad altre storie, come tutte le élite si interessano poco di come evitare che nelle società si formino élite. A parte uno svizzero, ma si sa gli svizzeri sono una cosa a parte. C’è conflitto di interessi anche nei filosofi, peccato dovevano esser i guardiani della riflessione ma si vede che non hanno ben chiaro il concetto. Capita.
Uno di loro ha l’intuizione di dire che tutte queste storie sono storie, sono false, riflettono solo interessi di potere, il che è per lo più vero anche se la faccenda non è del tutto così semplice. A sua volta racconta una storia, ma il pregiudizio verso le storie in generale (il tizio era di origine ebraica tra l’altro e non c’è nulla di peggio di ebrei che odiamo l’ebreitudine) gli fa azzeccare alcune cose ed altre molto meno. I suoi seguaci continueranno a svalutare ogni tipo di storia perché il mondo non va avanti per ciò che la gente ha in testa, no. Infatti tutti i potenti del mondo e della storia stessa sono un branco di imbecilli poiché per secoli e secoli, la loro prima preoccupazione è stata controllare le storie. Dalla biblioteca di Alessandria, allo sterminio dei dotti confuciani con rogo di ogni copia dei Lun Yu, le storie che non si potevano controllare andavano fisicamente distrutte. I linguaggi esoterici, il possesso esclusivo della scrittura, il possesso degli archivi, il diritto a pensare, a narrare, a salire sul pulpito o alla radio o alla televisione, oggi Internet, forgiare interpretazioni, far scomparire fatti solo perché non li si nominano e quindi non esistono, dare i nomi, stabilire i concetti, dettare le agende, forgiare i modi pensare, le logiche, le conoscenze. Chissà perché?
Non importa se dal Chiapas o dalle comunità andine, alle donne del Kerala che con un indice di istruzione del 99% sono l’unico posto in cui gli indiani hanno messo sotto controllo l’eccessiva esuberanza riproduttiva, dalle teorizzazioni sull’istruzione popolare di base di Condorcet all’”Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza” di Gramsci, ogni volta emancipazione fa rima con istruzione. No, non importa, le storie non sono cose serie, la pressa con l’olio che gronda e l’altoforno sono cose serie.
Le società sono fatte di individui, gli individui agiscono mediando intenzioni e reazioni con ciò che hanno in testa. Lì c’è il giusto e lo sbagliato, il vero ed il falso, il ciò che si può pensare e dire e ciò che non va pensato e detto. Ed è in base al funzionamento di questo labirinto di sensi unici e vietati che si giunge all’azione. Controlli il labirinto, ci metti dentro il Minotauro, è fatta, controlli il mondo.
Abbiamo bisogno di nuove storie. Segnalo questo libricino solo per chiudere il post di oggi, ha le sue ingenuità e superficialità, non lo segnalo perché folgorante. Però ha il merito di porsi questo problema, il problema delle storie che ci raccontano ed a cui crediamo anche quando sono pazzescamente false, più di quanto possiate immaginare. Ed anche il problema di quali storie invece ci converrebbe darci per sfuggire al dominio coatto di quelli che infilandosi tra le tue sinapsi, dominano il tuo stesso essere nel mondo insegnandoti pure a dire che è giusto così perché così è sempre stato e sempre così sarà.
Giorno di liberazione, mi sembra tema appropriato. Auguri.

SOVRANO E’ CHI DECIDE E DECIDE CHI HA IL POTERE DI DECIDERE, di Pierluigi Fagan

SOVRANO E’ CHI DECIDE E DECIDE CHI HA IL POTERE DI DECIDERE. Il 20 gennaio, Joe Biden prende ufficialmente possesso della Casa Bianca, sei giorni dopo cade il Governo Conte, tre settimane dopo, entra in carica il Governo Draghi. Tre settimane dopo si dimette da segretario PD Zingaretti e pochi giorni dopo torna dalla legione straniera francese lo sbiadito Letta. Molinari a nomina Exor quindi casa Agnelli, è già direttore di Repubblica da un anno. I primi di Aprile, il nuovo ed indaffarato Presidente del Consiglio italiano trova il tempo per far la sua prima visita estera in Libia dove si sta tentando una via di stabilizzazione ancora incerta basata su un governo di origine affaristico-tripolitana, ovvero la parte salvata dalla capitolazione contro le armate di Haftar (Egitto, Russia, Emirati Arabi, Francia), dalla Turchia. Ma qualche giorno dopo, il cauto e diplomatico Draghi dà del dittatore a Erdogan nel mentre il capo del governo libico e con lui mezzo governo si reca in Turchia a portare omaggi e prender ordini. Nel mentre, un ragazzo campano già quasi leader di un movimento politico dai contorni imprecisi, già Ministro degli Esteri di un governo che guardava con amicizia alla Russia e viepiù alla Cina, diventa il primo straniero ricevuto ufficialmente a Washington dal piccolo ma coriaceo Blinken. Il crash course atlantista di Di Maio è spettacolare: German Marshall Fund, Brooking Institute, Atlantic Council, tra quelli che si possono citare, ma -in questi casi- è norma vi siano anche incontri più riservati, brevi, chiari e precisi. NYT, infine, incorona pubblicamente Draghi come nuovo perno di una Europa rinascente ora che Merkel tramonta, la Germania diventerà oggetto di instabilità dilaniata da crisi di leadership, mentalità inadeguata ai tempi (sotto il profilo economico e monetario), capitolo Nord Stream, ambiguità filo-russe e filo-cinesi. Draghi serve anche a contenere, ma con persuasione, Macron e la strana coppia (che in verità non si ama affatto sul piano personale), oltreatlantico è già brandizzata “Dracon”. Macron viene per secondo come si vede, per esigenze di sonorità del neologismo forse, perché a sua volta indebolito dalla perdita dell’asse con Merkel e dalla prossima resa dei conti elettorali tra un anno verso la quale Le Pen sta assumendo un peso sempre più solido e potenzialmente convincente.
Se Mattarella è, per via di ordinamento giuridico, il perno condizionante ogni evoluzione di quadro politico italiano commissariato dagli Stati Uniti negli ultimi settanta a passa anni e se Draghi è il nuovo statista italiano quale l’Italia non ha più dai tempi del centro-sinistra (Andreotti, Moro, Craxi), ma con più prestigio internazionale non certo politico ma economico-bancario che conta anche di più, vorrei dire due cose su Letta, ma appena accennate.
Saprete che Letta dopo esser stato uno dei tanti vuoti a perdere delle eterne baruffe chiozzotte italiche in cui governi senza potere si alternano come in una eterna commedia dell’arte che l’Autore non sa più come terminare dilatando finti colpi di scena che ormai non hanno alcun senso, da decenni e decenni, deve aver ricevuto il saggio consiglio di andar a fare l’Erasmus della Grande Politica in Francia, diventando addirittura direttore della più prestigiosa scuola di affari politici internazionali Sciences-Po (1872). Sebbene, l’ultima versione ufficiale on line dei membri della Commissione Trilaterale, non lo riporti, fino ad un mese fa risultava attivo membro del think tank atlantista fondato nel 1973 da Rockefeller, Kissinger e Brzezinsky. Nel Comitato esecutivo, siedono Mario Monti e Paolo Magri dell’ISPI. Altri italiani sono: Dassù (vice-Ministro affari esteri governi Monti e Letta, Aspenia, Aspen Institute, Fondazione Italia USA, LUISS), Vittorio Grilli ora JP Morgan ma ai tempi di Ciampi braccio operativo di Draghi al Tesoro, l’ex ignota giornalista RAI Monica Maggioni che dopo una lunga visita negli Stati Uniti divenne uno dei pochi giornalisti autorizzati a seguire dal di dentro (embedded) l’invasione Bush dell’Iraq fino a diventare magicamente presidente della RAI sotto il governo Renzi. Abbiamo poi manager, banchieri e Tronchetti Provera e fino a poco tempo fa c’era anche Maurizio Molinari.
A due anni dalla fondazione, nel pieno della crisi degli anni ’70, la Trilateral che do per nota ai lettori nella sua essenza, ispirazione e ruolo, dà mandato a tre studiosi di fare una analisi strategica sul momento occidentale. Ne esce il famoso rapporto “La crisi della democrazia” di Cozier, Watanuki e l’ineffabile Huntington (quello dello “Scontro delle Civiltà” Garzanti, 1996), edito in Italia con prefazione di Gianni Agnelli. In sostanza, il rapporto avvertiva i committenti che per il sistema occidentale le cose andavano a mettersi in sempre più complicata prospettiva e se non si poneva rimedio alle vampate democratiche generate dai processi politici degli anni ’60 e ’70 ritenuti eccessivamente politicizzati, cioè “democratici”, gli ordini di sistema sarebbero inevitabilmente collassati. Tradotto, non era la democrazia ed esser in crisi era la crisi ad esser generata dalla democrazia o meglio se non generata, peggiorata sino alle più estreme conseguenze. Inizia così un movimento di pensiero poco noto agli studiosi che si sveglieranno solo ad anni Novanta inoltrati quando si cominciò a parlare di “post-democrazia”. Per via delle magiche sincronie tra immagini di mondo – think tank – mondo dei saperi e delle conoscenze ufficiali, l’anno dopo il rapporto Trilateral, a Stoccolma riscoprono un dimenticato economista austriaco tale Friedrich von Hayek e gli danno addirittura un Nobel (1974). Ma per esser più chiari, due anni dopo lo danno anche a Milton Friedman. Così inizia la temperie neoliberista, da analisi, strategie, narrazioni, simboli, che fertilizzano menti e consessi da cui nascono processi poi concretizzati da Thatcher prima e Reagan poi, fino al Washington Consensus (1989) e poi al WTO (1994). Analizzati dagli economisti, questi quadri teorici sono in realtà di natura politica e geopolitica.
Sul piano della teoria, possiamo farla semplice: da metà anni ’70 inizia un teorizzato processo di costante diminuzione della democrazia occidentale poiché la società politica va in conflitto con la società di mercato e la società di mercato è l’ordinatore degli Stati Uniti d’America che è l’ordinante del sistema occidentale. In Italia c’è un partito che si chiama Partito Democratico che ha oggi un segretario che va in giro a parlare di giovani, donne, diritti umani, erasmi e nuovi mondi sostenibili, il quale è membro storico di un think tank che da decenni pilota la de-democratizzazione occidentale.
Ma chi se ne frega. Tutti presi dalla critica neoliberale, anticapitalista, dai sovranismi, dai populismi, dalla critica culturale del politicamente corretto, dalla settimana di “poltrone e sofà” o da quella omofoba, dalla moneta sovrana o come fosse Antani con la scappellamento a destra (lo scappellamento è sempre “a destra”), dai palpitamenti per Putin con brividini euro-asiatici, o il fiero Johnson o il divino Trump, a nessuno viene in mente di fare una serie riflessione politica sulla democrazia. A volte si avverte un vasto a diffuso disagio sul termine, parlo di gente normale, tra noi stessi.
La democrazia è una entità concettuale sconosciuta in teoria politica. Non c’è nel pensiero liberale se non come democrazia delle élite così come nacque più di tre secoli fa in Inghilterra, non c’è nella teoria marxista (neo-post, cinquanta sfumature di Marx), è appena trainata in secondo piano da quella socialista, è aborrita da tutti gli elitisti, odiata dai conservatori, dai fascisti, dai nazionalisti, dai vari mélange di rossobrunisti, financo dai progressisti, dai né di destra-né di sinistra, seppellita dalle ambigue nebbiosità mentali dei post moderni e dei biopolitici fino ai chierici dei tre monoteismi ed i sacerdoti scientisti e gli intelligenti artificiali. Se ne occupano attivamente solo gli americani ed il loro giro largo di affiliati e se ne occupano per svuotarla sistematicamente di senso reale per usarne il brillante simulacro che è un “sotto il vestito niente”, un caso paradigmatico di conflitto schizoide tra parola e cosa.
Sovrano è chi decide in auto-nomia, cioè di chi è in grado di darsi la legge (nomos) da sé (auto) altro che Schmitt. E se ne non sei in grado, arruolati in una delle tante offerte di vociante servitù volontaria, anche quella critica, l’importante è parlar d’altro, lascia fare, lascia passare, lascia pensare, non ti preoccupare, puoi anche lamentarti tanto se non hai una teoria forte a riguardo, non capirai neanche di cosa si sta parlando.
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