FOCHERELLO, di Pierluigi Fagan

FOCHERELLO. È indetta per oggi una manifestazione nazionale degli studenti liceali. Presto per dire se sarà o meno un vero e proprio “movimento” a cui i giornali hanno dato già dato nome: la Lupa. I temi non mancano.
La scintilla è stato il ragazzo morto durante uno stage aziendale previsto dalle politiche di alternanza studio-lavoro inaugurato nel 2015 e proprio l’assetto studio-lavoro è finito sotto accusa come se destinazione strategica di fondo dell’istruzione fosse formare alla società di mercato e non alla società nel suo ben più ampio complesso. Viepiù oggi visto che la società che già di sua natura è un sistema complesso, si trova e sempre più si troverà a doversi adattare ad un inedito mondo complesso.
Producendo tra l’altro una precoce divisione classista tra licei professionali della periferia o dei piccoli centri ed i programmi più di cultura generale per i giovani dei quartieri del centro delle città medio-grandi. Ma l’argomento si amplia allo stato fatiscente di molti edifici scolastici, le politiche del trasporto, i bassi salari dei professori, il sovraffollamento, il modo di organizzare valutazioni ed esami, programmi sempre più orientati in favore di un certo modo di esser nel mondo, la destinazione dei fondi PNRR. Su tutte queste pregresse situazioni, si è abbattuta la pandemia e soprattutto i modi con i quali è stata gestita, tra DAD improvvisata e gestione confusa dei tracciamenti, esclusioni, quarantene e quant’altro. Su tutta questa somma dei fatti si sono infine abbattute le recenti manganellate della polizia.
Al consueto disagio ed incertezza giovanile della fase pre-adulta ed alla condizione sempre meno curata della scuola pubblica, negli ultimi anni si è abbattuta anche la consapevolezza che ormai non si sa più bene a cosa serva tutto ciò. Nel senso che, ne abbiano o meno fondata consapevolezza, i giovani avvertono che lo sbocco della vita non è pensato e debitamente organizzato. La disoccupazione giovanile in Italia, intorno al 30%, è il doppio della media europea sia versione euro, sia versione UE. Dovrebbe essere uno scandalo visto che sono i nostri figli, ma tale non è assunto nel dibattito pubblico.
Per altro, quelli che nelle statistiche compaiono tra gli occupati, hanno a che fare con precarietà endemica, salari letteralmente indecenti, rapporti e condizioni di lavoro obiettivamente insopportabili. E tali condizioni sono ormai endemiche, non si presentano solo di recente e per qualche anno iniziale del percorso di vita professionale, si protraggono a lungo ed in molti casi a lunghissimo. Con parimenti impossibilità di intraprendere percorsi adulti di vita autonoma, data l’endemica mancanza di alloggi a prezzi e condizioni praticabili. Ed è così da vari anni e pare vada sempre peggio mentre il mondo adulto parla di Next Generation, quasi che fare un titolo, magari in inglese, dia l’impressione di una cura ed attenzione che non c’è nel modo più assoluto.
Su tutto ciò, già grave di suo, va registrato il trauma pandemico, un trauma i cui risvolti psicologici e sociali sono ancora da indagare a fondo. Va ricordato a noi adulti, quali dovrebbero essere le condizioni di espressione della vita a quell’età. Espressioni che formano la socialità, la conoscenza, l’affettività, la personalità, il giudizio, la progettualità e la stessa energia vitale, l’identità e relativa intenzionalità.
L’altro giorno ho tenuto un intervento on line nell’ambito dei programmi di orientamento allo studio per classi dell’ultimo anno di liceo per un paio di cittadine delle Marche. La professoressa che organizzava gli incontri con le varie offerte formative universitarie mi dava un quadro piuttosto cupo della salute psichica dei ragazzi. Alcuni (e pare non pochi) vanno addirittura dallo psicologo come se ci fosse una “tecnica” per meglio adattarsi a questo contradditorio e desolante sfacelo, come se ci fosse una mancanza personale a sopportare queste pressioni che in primis uccidono il principio speranza. Gioventù senza speranza dovrebbe ritenersi un ossimoro in una cultura pubblica civile.
Altre generazioni hanno sofferto condizioni difficili, ma a differenza di queste che noi più anziani possiamo far risalire a racconti dei genitori sulla guerra o dopoguerra, quella dei giovani di oggi è una condizione silenziosa, non c’è rappresentazione pubblica, non c’è “mal comune mezzo gaudio”, come molte altre cose del nostro sbilenco modo di vivere anche il disagio è privatizzato. Sembra riguardi solo loro o meglio una parte di loro, coloro che non hanno famiglie ammanicate e capitalizzate e di tutto ciò non c’è visibilità e condivisione sociale. È un dramma silenzioso, una mancanza di speranza senza neanche il lamento. Non c’è neanche la minima attenzione politica e culturale visto che anche le scarse forze di opposizione sembrano magnetizzate da vaccini e permessi, distopie biopolitiche e le solite lagne sul neoliberismo ed il Grande Reset. Come se fossimo bravissimi a fare macro analisi di quadro e contesto sempre più mortificanti e paralizzanti ma si sia persa l’elementare scintilla alla ribellione, alla lotta, al darsi voce per pretendere attenzione e rimedio, a rendere il disagio pubblico e non privato.
Così volevo condividere la piccola luce di questo ancora incerto focherello, dargli almeno un po’ del mio fiato, sperando che altri venti a favore possano magari farlo diventare un piccolo punto di luce e calore in questo opprimente e grigio inverno del nostro scontento.
NB_Tratto da facebook

PROBLEMI DI SOCIOLOGIA POLITICA, di Pierluigi Fagan

PROBLEMI DI SOCIOLOGIA POLITICA. [Post di studio relativo a questioni di fotografia sociale per basi di teorie politiche. Non perdete tempo se non vi interessa, saltatelo] Qui riprendiamo i ragionamenti portati avanti nel post del 14.12 del nostro “ragionar con Gramsci”. Si faceva accenno al fatto che rispetto al panorama ideologico del suo tempo, a noi oggi mancano tre presupposti: 1) una chiara e conosciuta fotografia delle partizioni sociali, ma forse dovremmo dire le forme stesse della partizione sociale; 2) una ben confusa situazione nei concetti di partito e democrazia; 3) la mancanza di una teoria generale politica, una teoria mondo quale quella che al suo tempo rappresentava l’alternativa allo stato di cose ovvero il pensiero di Marx/marxismo. Vorrei riprendere ed approfondire un po’ il primo punto.
Sebbene centrale in quell’impianto di pensiero, il concetto di “classe sociale” e sue partizioni, non sono mai chiaramente espresse da Marx. Di base, l’intende come una classificazione in base alle condizioni economiche. Altresì, queste sezioni della piramide sociale, produrrebbero una loro precipua ideologia che ne riflette condizione ed aspettative. Gramsci aggiungerà che questo “riflettere” è però condizionato da egemonie per le quali non sempre vi è allineamento tra condizione sociale e condizione ideologica. Tant’è che, in effetti, sia Marx che Engels, che Lenin, non erano proletari, né avevano origini in tal senso. Quali sono dunque i rapporti tra condizione sociale ed ideologia?
Dieci anni fa, uno spontaneo movimento di opposizione sociale, negli Stati Uniti d’America, comincia l’occupazione del distretto finanziario di Wall Street, rivendicando il conflitto tra un presunto 99% della società ed un 1% che condenserebbe in sé una scandalosa concentrazione di ricchezza, quindi potere. Tale teoria non si sa bene dove nasca di preciso, chi indica la redazione del giornale di critica pubblicitaria canadese Adbusters, chi l’antropologo David Graeber, chi l’economista Joseph Stiglitz, chi un anonimo articolista sul web. Il concetto che, come tutti i concetti, presuppone una teoria di cui è sintesi, punta alla critica del risultato sociale della svolta finanziaria che inizia tra anni ’80 e ’90 ed ha un sapore più comunicativo (slogan) che analitico (analisi). Dato questo presupposto semplificante ed indignante, ha molto successo e diventa una sorta di nuovo consenso socio-politico, ci si convince davvero che si tratta di una questione tra una percentuale infinitesima ed una massa enorme. È possibile le cose stiano così?
Decisamente no, non è assolutamente credibile in termini di “fisica dei sistemi sociali” che qualcosa di così piccolo, domini del tutto un così grande, è una semplificazione. Del resto, tra pubblicitari (Adbusters) ed americani (Graeber-Stiglitz), che la semplificazione sia privilegiata rispetto alla complessità del reale, è fatto noto e proprio di quei tipi di immagini di mondo. Di contro, che ci sia un 1% che effettivamente condensa in sé una porzione scandalosamente asimmetrica di ricchezza e quindi potere, è un fatto. Fatto riverificato da decine di statistiche quantificanti e pure peggiorato in questi dieci anni.
Questa versione semplificatoria dell’indagine sociale (mai basarsi su principi di analisi sociale americani espressi dopo gli anni ’60, quindi da dopo C. W. Mills) però ha successo e la ritroviamo in background in una sorta di rinnovata “teoria delle élite”, teoria tra l’altro di origine italiana dei primi Novecento. Le nostre società quindi si sono semplificate quanto a partizioni sociali? Davvero è tutto così semplice per cui l’1% conduce il restante 99% dove vuole lui? Pare di no, ci sono almeno due problemi oltre la logica della fisica sociale, che complicano parecchio la faccenda.
Il primo problema deriva dal fatto che quel 1% beneficiato dall’imporsi del paradigma finanziario, non è solo. Né lui come composizione sociale, né in quanto paradigma. Come paradigma è assieme ad una costruzione paradigmatica fatta altresì di globalizzazione e informatizzazione dentro un più ampio paradigma di teoria economica detto “neo-liberista”. A sua volta questo costrutto non è di origine occidentale ma prettamente americana. Il tutto corrisponde ad una più ampia partizione sociale rispetto alla numerica dell’1%. Ha più a che fare con il concetto di “classe agiata” di T. Veblen, categoria sociologica del primo Novecento. La “classe agiata” è fatta da coloro che hanno tornaconti e benefici, primariamente dal fatto che le nostre società sono ordinate dai fatti economici e non politici, quindi dal mercato e non dalla democrazia, dall’assetto atlantista che struttura l’occidentalismo e dalla teoria neo-liberista che per quanto ritenuta di origine economica è in realtà di origine socio-economica, quindi politica ed infine più ampiamente “culturale”. La loro agiatezza è data dall’appartenere al cluster che beneficia direttamente della finanziarizzazione e/o della globalizzazione e/o dell’informatizzazione e se di origine europea, della funzionale connessione col centro motore del sistema che è in US o UK. Direttamente o indirettamente.
Per fare un esempio stupido dell’indirettamente, anche un ristorantino fast-lunch nei pressi di un distretto finanziario beneficia di quel flusso di ricchezza, anche il suo cameriere, piuttosto che il portuale di uno snodo di traffico merci, la segretaria di una azienda che produce container, il programmatore di algoritmo, se assunti e retribuiti di conseguenza. Certo, direttamente il beneficio è più intenso che indirettamente, ma è pur sempre una rete di cointeressenze formata da nodi (hub) di innovazione, logistica, scambio internazionale, favore del mercato quanto più libero ed incondizionato, lavoro sul denaro altrui. In più, non è che sparisca una classe agiata tale sorretta da redditi da attività più “tradizionali”, anche qui direttamente o indirettamente. Quanto si può quantificare questa classe che sta bene dentro lo stato di cose, lo sorregge, lo difende, lo amplia, lo promuove positivamente nel giudizio condiviso?
Prendendo la quantificazione a grana grossa, quindi senza formalizzarsi sulla sua precisione esatta, sociologi stimano in circa un 40% questa che non è “una” classe, ma una alleanza di classi o di tipi sociali, che ruotano intorno agli interessi di un certo funzionamento economico che poi si riflette nel politico e nel culturale sebbene divisi tra trainanti e trainati, classi attive o di servizio a queste. A me pare un po’ alta, forse. Con i benefici del potere economico, politico, sociale e soprattutto culturale, appare però più credibile questa fotografia in cui una minoranza coarta una maggioranza, piuttosto che quella semplificata dell’1% maligno e totalitario. Certo, questo ipotetico 40% ha gradi diversi di beneficio e quindi convinzione, nonché di potere, però ad “alone”, conta e pesa almeno per un terzo sociale. Se pure fosse un più prudente 30% la cosa cambierebbe non di molto e comunque è proprio queste sotto-analisi a grana meno grossa che andrebbero fatte. Questi beneficiati, li possiamo definire gli “integrati” ricorrendo ad una partizione data da Eco in una sua analisi culturale anni ’60. Essi sono sia oggetto che soggetti attivi di promozione dell’egemonia di una immagine di mondo, tanto quanto i più tradizionali soggetti attivi come i fatidici “media mainstream”.
Sin qui, quanto a definizioni di classe diciamo “tradizionale” ovvero reddito + ricchezza + prospettive su aspettative = stato sociale. Ma davvero l’ideologia individuale e di gruppo corrisponde sempre allo stato sociale? Decisamente direi di no. Non v’è un intellettuale che si esprima in libri, articoli, pamphlet o quant’altro anti-capitalistici o anti-neoliberalistici o anti-atlantisti o anti-economicisti che non sia in fondo e per lo più (quindi salvo eccezioni che ci sono sempre) socio-economicamente parte di quel 40% o lì vicino nei fatti, mentre guarda al 60% nel campo dei sistemi di idee politiche. E viceversa, una grande parte di quel 60% non si sogna minimamente di rifiutare l’attrazione verso il mondo degli integrati, vorrebbe solo esserne invitato o poter coltivare la speranza di poterlo essere. E non si tratta solo di mancanza di coscienza di classe, sono proprio tipi sociali le cui radici di immagine di mondo è del tutto integrata in quel sistema di valori e modi, convintamente.
Ci sono dunque defezioni di allineamento tra classe sociale ed ideologia, da una parte e dall’altra, che consiglierebbero indagini ed analisi più complesse per capire meglio, a grandi linee, la composizione del fatidico “blocco storico” che potrebbe sfidare lo stato di cose. Noto che gli schemi semplificati sono talmente egemonici che ad esempio, il problema politico Italia oggi è condensato in Draghi. Non sulle forze politiche che lo sorreggono. Ma soprattutto non su tutti coloro che quelle forze politiche le votano. Quindi ci si convince che il 65% di gradimento a Draghi censito da un sondaggio ancora a novembre è ovviamente falso, quando forse non lo è o non lo è del tutto. Capita quando la fotografia sociale è fatta “sentendo” le opinioni di qualche centinaio al massimo di contatti sui social media. Fa scandalo quando qualcuno ci ricorda che il 50% degli italiani ha dalla licenza media in giù, forse perché si pensa che questi siano tutti contro lo stato di cose quando forse, invece, è proprio l’esatto contrario, è proprio la mancanza di struttura mentale che ha socio-politicamente sorretto decenni e decenni di Democrazia Cristiana in Italia.
Infine, sfidare lo stato di cose può avere molte motivazioni. Si possono sommare in fase critica e di sfida, ma raggiunto eventualmente l’obiettivo di aprire ad un nuovo stato di cose, si dovranno dividere per tante quali sono le loro variate origini e ragioni. Un nazionalista non è un europeista per quanto critico verso l’attuale forma presa da questa istanza ed entrambi non sono degli euro-asiatisti. Un keynesiano non è un decrescista. Un tradizionalista non è un progressista. Un marxista non è un socio-destrista. Un perplesso verso la politica sanitaria in atto non è un no vax, che non è un no pass, che non è un no-covid-è-tutta-una-montatura-del-grande-reset, per quanto, scendendo assieme in piazza finiscono con l’esserlo. Se una alleanza tattica va pensata per ripristinare il valore dei pesi percentuali effettivi del sociale totale, occorre chiarirsi su cosa e questa cosa non potrà essere una forma di mondo che è obiettivamente pensata in modi assai diversi, ma forse solo sul modo con cui i pesi dei vari tipi sociali si riflettono nei processi decisionali politici. Qui, “tipi sociali” che sommano condizione sociale e condizione ideologica, sostituiscono il concetto di “classe”.
In fondo, il panorama sociale in cui pensava Marx, era effettivamente molto simile alla stilizzazione dell’1% degli Occupy Wall Street, ma oggi le cose, ahinoi, sono più complesse e se vogliamo politicamente chiarirci realisticamente le idee, con questa complessità tocca farci i conti. Se non miglioriamo la risoluzione delle nostre fotografie sociali, non sapremo mai in cosa dovremmo metter le mani.

Roberto Buffagni

Ottimo lavoro Pierluigi, grazie. Aggiungerei che non solo manca una teoria sociale dello stesso ordine di perspicuità del marxismo, manca una teoria filosofica dello stesso ordine di perspicuità dell’illuminismo (anche perché la critica anche sociale si deve rivolgere contro la forma attuale che ha preso l’illuminismo). Dovendo buttar lì qualche briciolina di pane, direi questo: come l’illuminismo storico ha revisionato e rieditato per via di astrazione e secolarizzazione i concetti socialmente più rilevanti del cristianesimo, così dovrebbe fare la teoria critica attuale per la forma odierna di questi concetti illuministi, revisionandoli e rieditandoli e “sostanziandoli”, ossia facendo il percorso inverso a quello di astrazione illuminista.

LA MODIFICA DEL PANORAMA IDEOLOGICO DI UN’EPOCA, di Pierluigi Fagan

LA MODIFICA DEL PANORAMA IDEOLOGICO DI UN’EPOCA. [Post di teoria politica, quindi di interesse per pochi] In questo post ragioneremo con Gramsci, useremo cioè una struttura del suo pensato per pensare a nostra volta.
Questa fruttifera relazione tra strutture del pensiero venne resa immagine immortale da Giovanni di Salisbury (XII secolo), il quale però la riferiva come detto del suo maestro ovvero Bernardo di Chartres: “siamo come nani montati sulle spalle di giganti”.
L’immagine ha un implicito di “vedere più lontano” o “vedere da più in alto”. Ma al di là della formulazione che ne diede Bernardo, cattura una dinamica delle relazioni tra strutture del pensiero, una dinamica che, sempre in analogia, assomiglia a quella che in chimica si chiama “funzione catalitica”. La funzione catalica opera nelle trasformazioni chimiche (crea del nuovo dal vecchio) ed è svolta da una sostanza o complesso di sostanze che partecipano al processo, con ruolo necessario, senza però venire incluse nell’esito finale. Così, strutture di pensiero che aspirano al nuovo, usano quelle consolidate e più strutturate del vecchio, vi si appoggiano, le usano, per sottrazione o addizione o riformulazione. Il processo serve a produrre tentativi di nuovo pensato sotto due aspetti: quello della struttura del pensiero (riformulazione), quello della modifica della ricetta (addizione di nuovi elementi o sottrazione di vecchi elementi). Per addizione e/o sottrazione e/o riformulazione, si usa in modo catalitico la struttura di un pensiero consolidata, per produrne di nuove o comunque portare il processo cognitivo su altre strade da successivamente sviluppare. Chiaritaci la relazione di pensiero sottesa alla frase “ragioneremo con Gramsci”, accenniamo al suo contenuto.
Ci troviamo in quella area di pensiero dei Quaderni che somma diverse riflessioni sugli intellettuali, l’egemonia, la funzione del partito, l’ideologia, la filosofia della prassi, rapporti tra filosofia e senso comune che pare influenzò anche il Wittgenstein via Sraffa.
Far entrare questi argomenti in un post ha del temerario, ma forse ci serve come appunto del pensiero.
In forma scandalosamente ridotta, Gramsci pensa che alcune forme del pensiero di Marx vadano riformulate (al modo del nano che sale sulle spalle del gigante diventando a sua volta gigante che attrae nuovi nani scalatori), il tutto in un processo sociale dialettico ma anche gnoseologico tra “intellettuali e semplici”, seguendo partizioni di classe sociale, dentro una formazione sistemica che è il partito, al fine di promuovere l’affermazione di un nuovo panorama ideologico, che faccia da premessa ad una nuova affermazione politica.
Abbiamo qui alcuni assunti da precisare: 1) per quanto da modificare, Gramsci ha una “concezione del mondo” (IdM) di profondo riferimento, quella di Marx (non del marxismo, G. anticipa la distinzione “marxiano-marxista” usata variamente da dopo gli anni ’90 qui in Occidente); 2) G. non rinuncia alla partizione sociale di classe stante che quando pensava e scriveva, l’Italia degli anni ’20-’30 del secolo scorso, le classi erano nitide e consistenti (contadini, operai, classe media, classe alta, religiosi, industriali etc.); 3) presuppone come finalità perseguibile, il gioco politico delle democrazie occidentali, attraverso un sistema ritenuto potente quale il “partito”. L’intera storia del PCI ne discende. Dentro questi assunti perimetrali, organizza un pensiero davvero importante e dalle molteplici ricadute, relativamente ai fini che si dava con la sua filosofia della prassi, sostanzialmente la XI Tesi su Feuerbach (mai pubblicate fintanto Marx in vita).
Va notata la stranezza per la quale il G è attivamente studiato nell’accademia anglosassone (soprattutto gli USA), l’intero concetto di “soft power” vi deriva, mentre qui da noi è dimenticato nei polverosi archivi del pensato. Del resto, qui da noi, da almeno trenta anni, non si frequentano più gli archivi del pensato in quanto non si pensa, almeno a quel livello.
Prima di procedere oltre, una breve nota di commento su questo ultimo punto. Nel Q.XI il G. analizza i processi di formazione ed affermazione delle “concezioni del mondo” ovvero quelle che noi chiamiamo qui “immagini di mondo” (tutte riformulazioni del concetto di Weltanschauung che Dilthey trae in implicito dal Kant della KdRV). Come conclusioni brevi della sua analisi segna due punti. Il primo è “non stancarsi mai di ripetere i propri argomenti perché la ripetizione è il mezzo didattico più efficace” consiglio assunto da Goebbels ai pubblicitari fino alla politica da televisione recente e più in generale dalle forme egemoniche liberali-anglosassoni dominanti negli ultimi trenta anni. Il secondo era “lavorare incessantemente per elevare intellettualmente sempre più vasti strati popolari …”. In Italia, negli ultimi trenta anni, l’egemonia più importante l’ha esercitata un personaggio-fenomeno (ovvero un fenomeno che ha avuto vaste ragioni incarnato da un personaggio catalizzatore) che ha operato in osservanza del primo punto e nel ribaltamento simmetrico del secondo: “lavorare incessantemente per degradare intellettualmente sempre più vasti strati popolari, etc.”. Sicuramente, questa idea è stata formalizzata da quell’oscuro consigliere del Principe, palermitano, oggi in carcere e le cui vicende giudiziarie hanno oscurato la sua levatura intellettuale comunque presente e sottovalutata. Questo non spiega tutto della deprimente condizione del pensiero italiano, ma ne è comunque parte consistente.
Tornando al corso principale del nostro pensare con Gramsci, rileviamo alcuni punti critici, non critici del Gramsci ma dell’usabilità della sua ricetta. Il primo punto è il problema delle classi. Al di là del liquidismo baumaniano, abbiamo oggi una teoria sociologica chiara sullo stato delle partizioni e dinamiche sociali nelle nostre società contemporanee? No. Non avendola ci troviamo in un primo pasticcio, non riusciamo ad avere una idea chiara dell’oggetto sul quale vorremmo intervenire. Impossibile modificare il “panorama ideologico” di un’epoca se non si ha conoscenza chiara dell’oggetto sociale (e quindi sul soggetto e/o soggetti promotori di un nuovo programma ideologico).
Il secondo problema è che non abbiamo possibile ricorso all’idea del partito perché l’intero sistema che chiamiamo “democrazia occidentale” si basa su un disguido concettuale: noi continuiamo a chiamare “democrazia” un sistema che non vi corrisponde. Attenzione, chi scrive, non dice che “non vi corrisponde più” come dicono alcuni “risvegliati” recenti, non vi ha mai corrisposto, è un chiaro, longevo e doloroso caso di schizofrenia tra parola e cosa. Pochi o nessuno ha posto attenzione a questo “doloroso caso” per tempo perché il “panorama ideologico” delle teorie politiche era ingombrato da una tesi che usa apposta questa falsa nominazione per confondere ed una antitesi che invece che contestargli l’abuso, farfugliava di elementi misti confusi nell’espressione “dittatura del proletariato”, accluse romanticherie rivoluzionarie, che aveva statuto teorico inconsistente, almeno qui in Occidente.
Il terzo problema chiude e riassume anche gli altri due. Al di là dei mille-ed-uno problemi inerenti la “modifica del panorama ideologico di un’epoca” (sempre Q XI) da analizzare a parte oltre quelli appena accennati, abbiamo noi una “teoria mondo” di riferimento, quale Gramsci l’aveva rispetto a Marx? No. Noi abbiamo molte tesi contro ma nessuna tesi alternativa, quantomeno non in forma di “teoria mondo”. Possiamo avere vaghe immagini di mondo critiche ma nessuna tesi sul mondo che dia alternativa egemonica a quella dominante.
Il post non conclude, è “appunto per il pensiero”. Personalmente, ho la convinzione che i tre punti siano collegati e che risolvendo il secondo (una teoria politica forte della democrazia), applicato al primo (il paesaggio sociale delle società europee occidentali al XXI secolo, a partire dalla nostra), si avrebbe soluzione del terzo. Ma è solo un’ipotesi, un appunto per i “compiti del pensiero” che però volevo condividere con chi è interessato, per provare a “pensare assieme”.

DEL DISCORSO LUNGO E DI QUELLO CORTO, di Pierluigi Fagan

DEL DISCORSO LUNGO E DI QUELLO CORTO. Ho finito ieri di leggere “Il capitalismo della sorveglianza” di S. Zuboff, eletto fondamento della tradizione critica degli ultimi decenni assieme a Primavera silenziosa, No Logo, Impero, Il Capitale del XXI secolo etc (questo ultima lista la riferisco come di altri, non è mia). La tesi del libro è condensata -in parte- nel titolo e declinata secondo quanto riportato dalle principali recensioni che troverete facilmente sui motori di ricerca.
Ma del libro mi interessa rilevare un altro aspetto. Il libro sviluppa 539 pagine nette, al netto cioè delle note. Non è né noioso, né difficile da seguire, anzi, merito dell’autrice è quello di dipanare la matassa con accorta lentezza ritornando più volte sui punti precedenti di modo da costruire nel tempo, la struttura di ciò che intendeva comunicare. Sono quindi 539 pagine “necessarie”. Necessarie all’autrice per dirci ciò che aveva da dirci, necessarie al lettore per assorbire informazioni, tesi, concetti e struttura del discorso. Discorso riferito a fatti, molti fatti, interpretati e giudicati con parziale giustificazione del sistema mentale dell’autrice quanto ad interpretazione e giudizio. L’autrice è docente di psicologia sociale ad Harvard, ma si è immersa a fondo nell’argomento riportandoci non solo analisi ma fatti con analisi. La parte della sua immagine di mondo dedicata a questo lavoro di analisi, dichiara esplicitamente il debito di conoscenza con Marx, Durkheim, Weber, Arendt, Polanyi forse più di ogni altro.
Il punto è che, in auto-analisi, debbo rilevare una differenza di conoscenza tra quello che sapevo prima di leggerlo e dopo. La tesi mi era nota, mi era nota a grandi linee la tesi specifica della Zuboff ma mi era nota la faccenda più in generale avendone letto in più di una dozzina di testi oltre la marea di articoli che turbinano nell’argomento, già da parecchio tempo. Tuttavia, solo la lettura delle 539 pagine mi ha dato tutti i livelli del discorso fatto dalla Zuboff. È un po’ come coi concetti.
Se provenite da una vasta e profonda conoscenza di un argomento, il concetto vi permette di zippare tutta la conoscenza che risiede nella vostra mente, in un sintetico. Quel sintetico agile e limitato, lo potrete usare con altri sintetici per costruire nuovi pensieri. Nella vostra mente ci sarà l’argomento vasto ed approfondito da una parte e per certi usi, la sua condensazione nel concetto che userete per costruire altri argomenti dall’altra. Tutto ciò ha base però nella conoscenza del discorso lungo.
Dopodiché potrete scrivere una recensione per chi non ha letto il libro o addirittura citarne il concetto dentro altri discorsi. L’informazione di massa, nei media moderni o in quello ultra-moderno di Internet (social, blog etc.), veicola solo i concetti. Spesso neanche quelli, si va direttamente al giudizio. Ma cosa capisce la gente dei concetti se non è stata esposta al processo di condensazione del discorso lungo in quello breve che è appunto il concetto? O peggio cosa capisce di un giudizio se non ha neanche il concetto per non dire del discorso lungo che questo vorrebbe zippare?
Prendiamo l’ultimo Rapporto Censis. Viaggiano articoli di commento e tabelline postate sui social con commenti vari. Chi usa il testo per sostenere A, chi per sostenere B, chi per invalidare quello che sostiene B e viceversa, chi per invalidare alla radice la credibilità del Censis e dei suoi dati statistici sintetici. Stamane sono andato su loro sito ed ho letto una sintesi meno sintetica di una tabellina sul tema dell’irrazionalità, che allego. Be’ la sintesi che pure è sintetica rispetto al testo del Rapporto è molto diversa nel senso e significato rispetto ai commenti che girano nell’informazione e nella suburra social.
Di nuovo, il discorso lungo io non l’ho neanche letto visto che non ho letto il Rapporto (per anni, quando lavoravo, andavo a comprare e poi leggere il Rapporto Censis perché era la fonte principale di una vasta analisi sociale, un tipo di analisi che cinquanta anni fa facevano in molti ed in molti modi ed era parte della cultura medio-alta diffusa con fonti plurali. Negli ultimi decenni s’è fatta sempre meno, comunicata ancora meno e da ultimo, per niente, senza che nessuno se ne lamentasse). Potrei dire di conoscere abbastanza l’argomento per varie ragioni di studio e di interesse, ma ciò che mi sembrava emergere esponendomi al flusso delle informazioni, non corrisponde neanche un po’ alla pur limitata sintesi dell’articolo pubblicato dallo stesso Censis che ho letto stamane. Di nuovo, quali sono i rapporti tra i nostri discorsi brevi e quelli lunghi nel dibattito pubblico?
Oggi abbiamo folle che credono alla scienza ed altri che non ci credono a priori. Cinquanta anni fa era consenso diffuso almeno nelle vaste platee critiche (che erano più vaste delle attuali) il concetto di “non neutralità della scienza e degli scienziati”. Il che però non significava pensare a priori che qualsiasi informazione scientifica fosse una bufala ideologica. Di nuovo, il discorso lungo predispone ad assorbire informazioni, schemi interpretativi, riferimenti su cui applicare la lente critica per filtrare il tutto e discernere il grano dal loglio, facendosi una opinione. Il discorso breve invece dà l’illusione di avere un concetto, quindi una conoscenza, ma in realtà dà solo un geroglifico il cui senso e significato non si ha. Tale geroglifico inserito nel giudizio dato dalla fonte a cui prestiamo credibilità a priori, determina la nostra illusione di conoscenza.
Farò un altro esempio. Tempo fa mi sono concesso qui nel mattatoio dell’intelligenza che è facebook, un cinque minuti di polemica con una signora che sosteneva l’evidenza della bufala del problematico problema climatico, rilanciando il concetto che la CO2 era la “molecola della vita”. Come poteva la molecola della vita insidiare la vita? La signora non sapeva che non è la qualità intrinseca della CO2 ma la sua quantità il problema. La signora spedita sulla superfice di Venere dove l’eccesso di CO2 crea un effetto serra tale che al suolo ci sono 400°, si sarebbe letteralmente squagliata in pochi secondi anche se prima, per sua fortuna, sarebbe morta di collasso per colpa della sua “molecola della vita”.
Quello climatico è un discorso lungo, come quello economico, ambientale, geopolitico, politico e sociale, tecno-scientifico, filosofico o qualsivoglia altro. Questi discorsi lunghi richiedono tempo, tempo per conoscere, digerire, elaborare, sintetizzare, costruire sintesi di sintesi, dibattere con altre menti. Tempo che mediamente nessuno ha poiché nel nostro ordinamento il tempo è denaro ed il denaro è la fiche del gioco, gioco sociale che non possiamo non giocare sebbene il casinò non l’abbiamo scelto noi, ci siamo stati “gettati”.
Noi viviamo in una società che si dice dell’informazione, ma il sottostante è una società dell’ignoranza. La società dell’informazione è una società dei discorsi brevi, dei concetti (se ti va bene, più spesso delle sole “asserzioni”), dell’illusione di sapere ciò su cui esprimiamo giudizi. Questa grande illusione della società dell’informazione, che scambia la conoscenza con l’informazione, il discorso lungo con quello breve, copre una società profondamente ignorante, siamo nella palese diseguaglianza della conoscenza da cui ogni altra sopravviene.
La società è profondamente ignorante per il semplice fatto che i discorsi lunghi presuppongono il tempo ed il tempo è una risorsa scarsa passibile di usi alternativi, ma non scelti in libertà perché il contratto sociale (oggi derogato sistematicamente da élite strette tra ignoranza ed irrisolvibile conflitto di interessi) impone che più della metà del tempo di veglia sia dedicato a procurarsi le fiche del gioco, che poi è la nostra stessa esistenza; quindi, un gioco “che non si può non giocare”.
Il rischio adattivo che corriamo perché siamo capitati in un mondo sempre più complesso ovvero fatto di questioni molteplici la cui conoscenza presupporrebbe molto tempo, è che questo mondo va da una parte e dall’altra va la nostra illusione di partecipare al discorso pubblico, alimentata da asserzioni senza concetto o concetti senza conoscenza nel turbinio informativo a cui ci dedichiamo quando non abbiamo altro da fare, oltretutto convincendoci che l’informazione del discorso breve possa surrogare la conoscenza del discorso lungo.
Il che ci porterebbe ad una istanza politica prioritaria: rivendicare il tempo. Le teorie politiche critiche, ma direi “alternative allo stato di cose” perché sono svariati decenni che avremmo dovuto capire che la critica è un passivo mentre il mondo è un attivo e l’attivo non viene all’essere dal passivo (dal non essere), dovrebbero avere in cima al proprio elaborato il punto: senza il tempo non c’è conoscenza, senza conoscenza non c’è democrazia, senza democrazia falliremo l’adattamento e ne patiremo lungamente e dolorosamente le conseguenze.
Con una società dell’ignoranza dentro un’era in cui aumenta vistosamente la complessità, la predizione è facile, ma non confortante. Scusate la lunghezza.
[A chi mai interessasse, il paper del Censis: https://www.censis.it/rapport…/la-societ%C3%A0-irrazionale. Una breve aggiunta sul tema del giorno: l’irrazionale. Il concetto è ingannevole, il ragionamento irrazionale non rinuncia affatto alla razionalità, solo, la applica ad una insufficiente conoscenza. Non c’è una epidemia di illogica, c’è una epidemia di ignoranza. ]

POLARIZZAZIONI, di Pierluigi Fagan

POLARIZZAZIONI. Il teorico di economia comportamentale Cass Sunstein, co-autore con R. Thaler di “Nudge” (2009) che in buona parte fu ragione del Nobel per l’economia a Thaler nel 2017, nel suo “Come avviene il cambiamento” (Einaudi, 2021), illustra il meccanismo sociale osservato ed indagato sperimentalmente della “polarizzazione”. Ve ne riferisco a titolo d’ipotesi su cui confrontarsi.
In breve, si tratterebbe di un meccanismo di precisazione delle opinioni nei gruppi per il quale chi è orientato verso un corno di un problema sociale, nel tempo, tende a precisare e polarizzare la propria iniziale tendenza, assumendo posizioni sempre più nitide, conformi a quelle del suo gruppo d’opinione, opposte radicalmente a quelle del polo avversario, per altro oggetto di pari dinamica.
Motivi della dinamica secondo il Sunstein, sarebbero: 1) ogni gruppo che si forma intorno una opinione, tende -nel tempo- a selezionare per lo più informazioni conformi alla propria opinione che, rinforzandosi, si polarizza; 2) il discorso svolto in una di queste enclave d’opinione diventa sempre più stilizzato e perentorio, centrato su verità ritenute acquisite, spostandosi su toni sempre più estremi (anche se questa estremizzazione è dovuta anche da pari progressiva estremizzazione dell’antitesi avversaria); 3) il tutto ha un dente d’arresto di irreversibilità in quanto l’opinione spesa ripetutamente e condivisa dal gruppo di riferimento diventa parte dell’identità e mostrare identità deboli depone in sfavore della reputazione sociale.
Si potrebbero aggiungere altri elementi sfuggiti al Sunstein, come il conformismo (che vale anche per il presunto anti-conformismo), l’allineamento a sovra-ideologie imperanti nel livello più fondamentale delle immagini di mondo, le strutture sociali che permettono e non permettono il confronto tra diversamente pensanti, la voglia di odiare un nemico costruito di tutto punto per meritarsi il nostro odio dovuto per lo più ad altre questioni sociali non proprie dell’argomento scelto per la polarizzazione.
Ma forse, il meccanismo più insidioso che spesso opera al di sotto della dinamica è il progressivo allontanamento dalla realtà, specie quando questa è, come spesso è, contradditoria. In verità sarebbero contradditori i sistemi di opinione, ma la volontà di pensare preciso, lucido, veritiero e condiviso, porta a sostituire la realtà con il sistema d’opinione in una forma di nevrosi che può sfociare nella psicosi. Quest’ultimo meccanismo diventa in realtà la convenzione del gioco sociale delle due polarizzazioni, unite nel progressivo allontanarsi dalla realtà, divise nel percorso scelto della direzione ideale cui tendere per rappresentarsi una realtà-verità nitida e non contraddittoria. Condividere nevrosi sociali, anche se poi si gioca ai guelfi e ghibellini, è pur sempre uno stare assieme. Non è che non siamo esistiti nei secoli i senesi, nonostante l’alta conflittualità rionale.
Ci sono poi altre dinamiche di contorno interessanti da indagare tra cui i polarizzatori professionali di cui sono ricchi i social e gli imprenditori della polarizzazione che tramite i media hanno infine scopi sempre politici o economico-politici, se non geopolitici. Vale per i poteri in atto come per quelli sfidanti.
Il tutto tende a diventare norma in tempi come questi in cui società sfibrate da almeno quaranta anni di deriva adattiva manifestatasi con globalizzazione, finanziarizzazione, crisi ripetute, terrorismi, migrazioni, discesa dei poteri d’acquisto, rottura dell’ascensore sociale, processi iniziati quarantacinque anni fa di esplicita “democrazia diminuita”, la poco analizzata profonda crisi di capacità che in questi decenni ha colpito le classi dirigenti generando una sfiducia ormai irrecuperabile, progressiva ed inquietante informatizzazione, de-socializzazione ed altro, si trovano sempre più spesso di fronte a vere e proprie sequenze di problemi inediti e minacciosi senza aver modo e tempo di almeno comprenderli.
La complessità intrinseca certi problemi come quello ambientale e climatico o quello pandemico o le contrazioni del sistema economico moderno occidentale in rapporto ai processi intenzionali di democrazia diminuita e lo stesso rapporto tra West vs the Rest, accresce l’ansia di ridurre questioni ricche di varietà ed interrelazioni, effetti e controeffetti non lineari, a quadri nitidi, tersi, confortevolmente polari. Si forma una sorta di condivisione dell’ignoranza in cui la convenzione è avere idee tanto più chiare quanta meno conoscenza ed informazione si ha di un fenomeno.
La certezza del poter aver un nemico da combattere, su un tema che assurge a “contraddizione principale” (come se un mondo contradditorio tale fosse perché c’è una contraddizione fondamentale quando in un sistema non c’è “un” fondamentale poiché l’intera sua struttura e funzionalità è fondamentale) è pur sempre meglio che l’incertezza totale, è un semplice fatto esistenziale.
A mio avviso tutto ciò non è socialmente un bene, depotenzia la coesione sociale che può esser anche basata su diversità ritenute necessarie ma ricordandosi che la vita biologica ha da 3,5 miliardi anni inventato come sua strategia adattiva il veicolo sociale o più banalmente “l’unione fa la forza” e forza per resistere alle intemperie adattive ce ne vuole sempre parecchia. Vero è che i senesi sono sopravvissuti e secoli di conflitto rionale, ma solo perché l’hanno sublimato in una innocua corsa di cavalli. Le polarizzazioni avvengono per lo più intorno interessi individuali o di gruppo, quasi mai rispetto al più importante interesse generale, l’interesse che tutti dovremmo avere verso il sistema di cui facciamo parte. Non si tratta di opporre una indesiderabile unipolarizzazione di gruppo alla bipolarizzazione di questo meccanismo. Si tratta di constatare che tra polo ed equatore, la vita si è maggiormente diffusa nelle fasce intermedie dove c’è del caldo ma anche del freddo.
In caso di polarizzazione assumere conoscenze ed informazioni in dosi massicce rafforza il sistema immunitario alle prese con questa sindrome tipica dei periodi storici di torsione adattiva profonda, quindi di crisi profonda. Lì dove tendiamo tutti a non fare più i conti con la realtà regalandoci momenti di confortevole certezza antagonista, viepiù se l’argomento su cui ci dividiamo è innocuo dal punto di vista del conflitto sociale basato sui più concreti rapporti di potere sociale.
[Nella foto, frame di “La parola ai giurati” del grande Sidney Lumet (1957), un film basato su un processo di inversione di polarizzazione che ben ne illustrava le dinamiche, sessanta anni prima di Sunstein]

QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CREDERE NELLA CULTURA?_di Pierluigi Fagan

QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CREDERE NELLA CULTURA? (Post per chi ha più di sessanta anni in quanto fa riferimento a situazioni sociali che vissute, hanno un sapore diverso da quello dei fatti che si apprendono intellettualmente). Berlusconi accusava i “comunisti” o la “sinistra” (ma lui usava “comunisti” sapendo che provocava più ribrezzo) di aver monopolizzato alcune istituzioni sociali tra cui la “cultura”. Era vero.
La mia generazione è nata in un ambiente in cui la massa gravitazionale della cultura era di sinistra, comunista (in varie versioni e tonalità), socialista, progressista, democratica. Qualcuno era anche anarchico. Dati di fatto dicono che tale massa critica monopolizzava il cinema, la radio, la musica, l’arte, i giornali, le case editrici, la scuola e parte dell’università. Ma poi si estendeva anche alla magistratura, in parte alla polizia, forse qualcuno anche nell’esercito e molto nell’amministrazione burocratica dello Stato. La massa era data a livello di individui ma anche partiti e soprattutto sindacati. Addirittura, alcuni artisti o intellettuali sono diventati di destra solo perché quella era l’unica altra opzione disponibile per chi non era di “sinistra” ed hanno coltivato un certo rancore anche perché erano pur sempre lavoratori, lavoratori ostracizzati in base al non allineamento di pensiero.
Come tutti i fenomeni di gravitazione sociale, la massa attirava a prescindere per cui sulle vere convinzioni intellettuali e poi politiche di molti iscritti al fronte egemonico, si potevano nutrire dubbi e questo spiega anche perché il tasso di intelligenza reale di questo fronte fosse ben minore della sua massa. E spiega anche la velocità allegra del rompete e fila quando il fronte si disintegrò ai primi anni ’80.
Il fenomeno era alla base di quella anomalia prettamente italiana e solo un po’ francese, per la quale in piena guerra fredda, un Paese poi del tutto allineato all’atlantismo anglo-americano, aveva un partito che si dichiarava comunista. Al canto del cigno di questa dinamica, nel 1976, il PCI sfiorò il 35%, con DP ed un PSI ancora abbastanza “socialista”, pesavano il 45% del Paese. E si tenga conto che la DC del tempo, aveva segretario Zaccagnini, comunque della sinistra DC. La forte tradizione culturalista che esercitava una sua egemonia che favoriva questa eccezionale pesatura del fronte di sinistra che sfiorò la maggioranza, derivava da una specifica tradizione del comunismo italiano data dal pensiero di Antonio Gramsci. Gramsci si colloca in posizione atipica nella tradizione comunista occidentale. Mai teorizzato nitidamente ma, nei fatti, il pensiero di Gramsci dava a gli aspetti sovrastrutturali, un peso inverso a quello che la tradizione economicista del comunismo occidentale dava delle priorità politiche. La situazione democratica e quindi non rivoluzionaria del dopoguerra, portava l’azione politica su i doppi binari della democrazia politica e quindi dell’importanza della cultura democraticamente distribuita. Erano infatti anche i tempi in cui si teneva in grande considerazione lo studio, l’apprendimento, la lettura, la capacità argomentativa come precondizioni di massa per l’esercizio democratico. Con precisi sforzi di culturalizzazione degli strati sociali più bassi della popolazione.
Tutto ciò poi implose dopo il raggiungimento del suo culmine nel 1976. Vennero gli anni di piombo, le cose generali non andavano bene, sopravenne la stanchezza intellettiva, ci furono moti di fastidio per la pesantezza e gravità di questa egemonia che sfociava spesso in dittatura del pensiero e del pensiero sull’azione concreta, sul limite oltre il quale il valore culturale non si trasformava in valore della qualità di vita via qualità politica. Si partecipò allora festanti al grande rimbalzo del rompete le righe e dal dibattito a seguito della proiezione della Corazzata Potemkin in lingua originale e sottotitoli, si passò ad imitare John Travolta sulle arie dei Bee Gees. Nel 1977, mentre il pensiero arruffato dei Negri e Scalzone portava ignari adolescenti con la P38 a sparare in piazza ed a spaccare le vetrine di via del Corso per rubare oggetti del desiderio consumistico ritenuti “diritto proletario”, usciva Saturday Night Fever. L’anno prima in quel di Milano, nasceva Fininvest. Dopo il decennio ottanta alla fine del quale cadeva il Muro, seguiva il crollo del’URSS e nel 1993 mr Fininvest diventava un politico. L’egemonia gramsciana ma anti-culturalista di Berlusconi, desertificò l’attitudine culturale, ormai stigma sociale di persona triste, grave, rancorosa, antipatica, pessimista, invidiosa ed acidula, presuntuosa, dedita alla monotonia critica, fuori dal mondo del piacere, del successo, della vita (dei soldi e del sesso) e quindi del “diritto alla felicità”.
Ecco, il riepilogo serviva a capire quando e perché abbiamo smesso di credere nella cultura. La disillusione è nata dal fallimento di un sistema che aveva dato della cultura una interpretazione sbagliata che ha generato il suo contro-movimento. Abbiamo smesso di credere nella cultura perché ne avevamo sbagliato l’interpretazione. Di una cosa che è del regno della vita umana avevamo fatto una cosa morta, ne avevamo intuito il valore di forma ma ne abbiamo sbagliato l’interpretazione di sostanza, di una cosa aperta ne abbiamo fatto un conformismo, di una dinamica ne abbiamo fatto una collezione di dogmi statici, di una forma tendente all’egalitarismo ne abbiamo fatto l’ennesima aristocrazia, di un codice essoterico ne abbiamo fatto un ennesimo esoterico, di una caratteristica dell’umano ne abbiamo fatto un dualismo con le menti staccate dai corpi. Per primo, il Paese occidentale più nominalmente “comunista” è rimbalzato violentemente al suo opposto. Un valore è diventato un dis-valore.
Siamo in una condizione di devastazione intellettiva da quaranta anni. Forse varrebbe la pena tornare su i misfatti compiuti per capire cosa si è sbagliato. Non basta la forza del nemico, la congiuntura occidentale, le colpe del sovietismo e la Luna Nera a dar conto del fallimento. Ogni forza si afferma su una debolezza e quella che credevamo una forza si è rivelata una grande debolezza.
Forse ci farebbe bene cominciare a scrivere dei quaderni sulla nostra attuale condizione nel carcere dell’ignoranza edificato su i nostri fallimenti intellettivi. Magari aiuta ad evadere, se non a noi, a quelli dopo.
tratto da facebook

IDEE CON LE RADICI_di Pierluigi Fagan

IDEE CON LE RADICI. Era il 2013 quando feci uscire sul mio blog, un articolo a ripresa e promozione di una vecchia idea strategica formulata a suo tempo da Alexandre Kojève, russo trapiantato in Francia, in favore di quello che lui chiamava “Impero latino”. Un articolo di Giorgio Agamben di qualche mese prima, lo aveva riportato all’attenzione. Da allora promuovo questa idea, più o meno in solitaria. Ma giovedì prossimo, qualcosa che accenna a questa idea diventerà fatto, dal momento che Macron verrà a Roma a firmare quello che pare si chiamerà “Trattato del Quirinale”, un trattato come quello di Aquisgrana firmato con la Merkel nel 2019, di “collaborazione rinforzata” tra Francia e Germania. Ma questa volta tra Italia e Francia. Vediamo meglio la faccenda.
Il primo punto è: di quale disegno fa parte questa strategia? Kojève oltre ad esser stato il più influente interprete di Hegel in quel di Francia, con famosi seminari a cui pare si formarono Raymond Queneau, Georges Bataille, Raymond Aron, Roger Caillois, Michel Leiris, Henry Corbin, Maurice Merleau-Ponty, Jean Hyppolite , Éric Weil e Jacques Lacan (ma vi passarono a volte anche André Breton e Hannah Arendt), era anche alto funzionario del Ministero di Economia e Finanza, nonché poi sospettato di esser un agente sovietico. In tale veste di alto funzionario produce nel 1945 il documento originario cui abbiamo fatto cenno, indirizzato a De Gaulle. La tesi del franco-russo era che la Francia, doveva porsi la domanda su quale sarebbe stato il suo posto nel mondo da lì in poi. Questa domanda poteva avere diverse risposte, ma prima di vedere quali, bisognava pesare la sua potenza poiché qualsivoglia gioco in ambito internazionale o geopolitico, presuppone la forza per poterle metterle in atto. La forza della Francia era costituzionalmente inadeguata quindi doveva esser rinforzata, ma come?
L’idea di Kojève che per questo motivo Agamben segnalava al tempo, era di osservare quelle che Platone chiamava: le nervature dell’essere. Platone diceva che il macellaio, nel tagliare la carne, seguiva sua segreta conoscenza delle muscolature e nervature perché non puoi tagliere ciò che tiene assieme o metter assieme ciò che non ha trama connettiva. Kojève quindi ne deduceva che le nervature dell’essere di Europa, indicavano una area culturale di relativa omogeneità all’intero della sfera latina. Era una constatazione linguistica, quindi culturale, quindi geo-storica. In un comune ambito tale definito dalla geografia che non segna ma indica, non a caso si è sviluppata una storia comune e quindi molteplici interrelazioni che hanno sedimentato una cultura comune, a partire dall’origine romana antica.
L’idea piaceva ad Agamben e debbo dire anche a me, perché consistente ovvero dotata di radici concrete e non solo volontà astratta. E la cosa aveva grande attualità perché nel 2013 così come negli anni ’90 che portarono a Maastricht, ancora fino ad oggi, le nervature dell’essere che si osservano nel pensare ai processi di formazione di potenza allargata ai confini degli storici Stati-nazione in Europa, seguivano e seguono altre nervature. Per lo più di interesse economico o come nel caso dell’asimmetrica diarchia Francia-Germania, logiche di problematico vicinato competitivo. Kojève invece, stratega geopolitico che a lungo sviluppò relazioni di pensiero con Leo Strauss e Carl Schmitt, anche quando nel dopoguerra quest’ultimo era ostracizzato dato il suo passato mischiato al nazismo, non seguiva parametri contingenti pur importanti, ma le nervature dell’essere e queste erano cultura depositata nella geostoria. Va ricordato che nel ’45, per i francesi, si trattava di capire da che parte volgersi dato che era noto si stesse formando l’alleanza di ferro anglo-americana che poi portò al Patto Atlantico. In quella alleanza, la Francia non avrebbe avuto alcun ruolo, oltre a non avere alcuna nervatura dell’essere in comune. Men che meno con la Germania.
L’idea di Kojève, quindi, era di natura prettamente geopolitica, non politica contingente o tantomeno economica, era strategica non tattica. Ed il sottostate di geopolitica è nella geostoria. Si possono far sistemi di ordine superiore con coloro con i quali c’è del pregresso “in comune”, altrimenti anche la più brillante delle strategie di convenienza, naufraga per eccesso di eterogeneità. Le ragioni che portano a far matrimonio longevo e resistente non sono della natura con cui scegliamo amici ed amiche o partner sessuali. Notoriamente, molte unioni tra soci, essendo basate sulla convenienza contingente, naufragano perché fatte per unirsi nella buona sorte, non reggono alla cattiva sorte. Pe reggere alle ingiurie della cattiva sorte, ci vogliono nervature dell’essere. Queste non garantiscono, ma la loro assenza garantisce altresì il fallimento di qualsiasi unione, come quella europea che di nervature dell’essere ne ha tante e non certo in favore di un affare a 27 stati a meno che di “affare” non si vogli dare il significato mercantile.
Se quindi l’idea apparteneva alla categoria geopolitica ovvero la politica estera da svolgere partendo dalle costituzioni geostoriche, a cosa era finalizzata nel concreto? A quale domanda doveva cercar risposta? La domanda era data dalla constatazione che la Francia era una ex-potenza, retrocessa a media potenza, la potenza dominante in Occidente era il nuovo asse anglo-americano, la Germania era a pezzi ma con i tedeschi non si sa mai, poi cerano i sovietici e sullo sfondo lontano c’erano le preoccupazioni di scenario già note ai primi del Novecento, il Giappone, l’Asia e sia mai la Cina se si fosse risvegliata come ebbe a notare Napoleone a suo tempo. Ai primi del Novecento, verso la fine della Seconda guerra mondiale, viepiù nei successivi settanta anni e così ancora oggi e in prospettiva da qui al 2050 e solo perché al 2050 le variabili esplodono e non si possono fare previsioni sensate, il quadro geopolitico è mondiale. Con grandi potenze che sviluppano grandi vantaggi competitivi e quindi forza per giocare il gioco di equilibrio in un mondo sempre più complesso. La domanda era quindi: come acquisire maggior forza da trasformare in potenza per rimanere in gioco in una ambiente sì competitivo secondo logica a cui appartiene l’argomento ovvero la geopolitica che si basa sulla geostoria?
Che si voglia pensarlo come “Impero” o Stato federale o Unione confederale o semplice poligono di relazioni privilegiate, non v’è dubbio che l’ambito latino ha consistenza geostorica, quindi potenzialmente geopolitica. Semplice.
Come si vede il ragionamento è semplice e se fosse vero che Kojève era davvero un sovietico infiltrato, risultava consistente, logica e conveniente anche per i russi poiché che la logica multipolare fosse più promettente di quella bipolare o dei deliri unipolari quali poi vedremo a fine anni ’90 con le balzane idee sul “Nuovo Secolo Americano”, era nelle cose. Un ambito latino oggi, con 200 milioni di persone, varrebbe un soggetto di buon peso, la terza economia al mondo, un seggio all’ONU con armamento atomico, molti punti di forza e senz’altro altrettanti di debolezza su cui lavorare. Ma poiché poggiato su nervature dell’essere, ci si potrebbe lavorare e potrebbe funzionare.
In questi anni, questa idea mi è toccato discuterla con schiere di avversanti. Ma il problema era che non erano avversari di idee ma di categorie. Ad esempio, coloro che ignorano la geostoria e parlano di queste cose perché si sono risvegliati da poco con qualche eccitata attenzione alla geopolitica che a loro ricorda tanto Risiko un gioco senz’altro divertente, ma che dà una falsa idea della logica geopolitica reale. Coloro che si sono svegliati di recente scoprendo il concetto di sovranità, ma non hanno strumenti culturali per declinarlo non nell’astratto ma nel concreto dei suoi vari assi. Coloro che ignorano, come molti ancora oggi continuano ad ignorare, tanto in campo “europeista” che “sovranista”, il doppio problema dell’impossibilità che l’UE diventi un soggetto geopolitico ed il problema del nanismo dello Stato-nazione europeo nato nei contesti del XVI secolo quando il mondo era tutto in Europa ed eravamo 80 milioni e non 500, il mondo era di 450 milioni e non 7,8 miliardi andanti a 9,7 nel 2050. Coloro che si sono fatti una dimensione intellettual-politica partendo dall’Unione europea che non è un costrutto di logica geopolitica, ma geoeconomica. O peggio coloro che trattano il mondo complesso partendo da un solo paio di lenti molate negli studi monetari, seguiti da quelli altri che leggono solo fatti attinenti al neo-liberismo. Poi ho incrociato mentalità per lo più tattiche che leggono qualche articolo su Internet e così pensano di poter aver voce su argomenti di strategia quando al massimo l’avranno di tattica. O quella simpatica schiera di gente che non è in grado di pensare costruttivamente e specializzati in critica trovano loro godimento nel notare solo le cose che non vanno in una strategia perché inabili a pensarne un’altra. Ad esempio “Ah ma la Francia ci vuol dominare” oppure “Ah ma il nostro Nord ha interessi strutturali con la Germania” oppure “Ah ma gli US non ce lo faranno mai fare” o anche “Ma perché dar retta a questi inciuci tra Macron e Draghi che odiamo cordialmente?” fino a quei pazzerelli che dicono “Ah no, buona idea ma va allargata a tutto il Mediterraneo”. Tutti costoro non hanno idee diverse dalle mie e da quella in oggetto, sono in categoria diverse, economiche, ideologiche, finanziarie, sottodotate culturalmente, contingenti, idealistiche, possiamo discuterne per anni ma mai ci intenderemo perché parliamo di cose diverse, che partono da presupposti diversi, in ambiti diversi, con logiche diverse.
Firmare un patto su quindici cartelle che diranno tante belle cose ma nessuna concreta, a vaghi fini di “amicizia privilegiata” può sembrar poco. Ma a chi scrive, invece, dicono che le idee hanno radici o meno e se hanno radici hanno potenzialità di germogliare e poi fiorire. In tempi di desertificazione del pensiero e dell’azione politica, non è poco.
[Il mio primo articolo sul tema, altri ne seguirono: https://pierluigifagan.wordpress.com/…/leuro-nostrum/…]

COPERNICANESIMI, di Pierluigi Fagan

COPERNICANESIMI. La cultura delle immagini di mondo ha una sua credenza fondativa. La credenza è quella che, data una struttura di pensiero gerarchica che da uno o più assunti di vertice produce discorso complesso a cascata secondo l’operatore logico “se … allora”, “se” si mette in discussione il punto iniziale, “allora” cambia l’intera struttura di pensiero. Classicamente, si è presa l’ipotesi di Copernico del porre la Terra in periferia ed il Sole al centro, al contrario di quanto faceva l’ideologia dominante cristiana di derivazione tolemaica, per chiamare questo processo “rivoluzione copernicana”.
Kant dichiara di esser stato soggetto ad una rivoluzione copernicana quando venne svegliato dal “sonno dogmatico” grazie alla lettura di Hume. Marx sarà ancor più copernicano nel voler rimettere la dialettica a testa in su dopo che Hegel l’aveva messa a testa in giù. Darwin fece altrettanto con l’idea che le specie nascevano, cambiavano e sparivano in un ciclo di esistenza adattiva e quindi non erano fisse, immobili, create perfette ex ante dal Perfetto Assoluto. Freud fece qualcosa di simile con la pretesa razionalista, in parte anche Nietzsche, come riconobbe Paul Ricoeur nel confezionare la definizione di “scuola del sospetto” (Marx-Freud-Nietzsche). Einstein infine fece qualcosa di simile con Newton o meglio con la pretesa epistemologica che la gravità newtoniana fosse l’unica dimensione valida per comprendere il funzionamento macro dell’Universo. Per non parlare della distruzione paradigmatica della meccanica quantistica rispetto alle nostre pretese di uniformare il mondo macro al micro.
Insomma, da dopo Copernico, si nota quello che solo negli anni ’60 per merito di un epistemologo americano (Thomas Khun) verrà razionalizzato come un sistema di pensiero che discende da un paradigma, messo in dubbio la pretesa ordinativa del paradigma, si muove tutto il sistema di pensiero fino a trovare un nuovo paradigma che sembra più adatto al cumulo delle conoscenze sviluppate.
Si noti il fattore tempo. Un paradigma è sempre figlio di un’epoca storica. Passando il tempo si accumulano evidenze a favore ma anche molte non a favore di quel paradigma, da cui l’idea di metterlo in discussione per cercarne un altro che faccia i conti con tutto ciò che si sapeva al tempo in cui è stato formulato, ma anche con tutto ciò che s’è scoperto dopo.
Sottoponiamo allora a verifica il paradigma del materialismo storico. Classicamente il paradigma, che era a sua volta un copernicanesimo anti-hegeliano, invertiva i rapporti tra struttura materiale produttiva e sociale con la sovrastruttura ideologica sovrastante. Così funzionava l’ordine delle cose e quindi così doveva funzionare l’anti-ordine delle cose. Fare “politica” per trasformare lo stato delle cose in atto, ordinava di cambiare le strutture. In effetti poiché lo ordinava in base ad una analisi e prognosi, cioè a seguito di una costruzione di pensiero, aveva in sé una contraddizione in quanto esso stesso negava il suo presupposto. C’era una idea prima dell’azione. In effetti, già prima nella sequenza storica del suo pensiero, Marx non aveva affatto escluso il ruolo delle idee, aveva solo raccomandato di tenerle in contatto col mondo reale delle cose, di pensare mentre si agisce, creando quello che noi oggi possiamo chiamare un “circolo ricorsivo” tra pensiero-azione-nuovo pensiero-nuova azione etc.
Dopo un secolo e mezzo di progresso conoscitivo operato da molte discipline, oggi si è per lo più convinti che, coscienti e non sempre del tutto coscienti, gli esseri umani agiscono in base a ciò che pensano. L’uomo è l’animale con il più sfolgorante successo adattativo della storia recente del vivente, proprio perché pur non dotato di alcuna specialità fenotipica, pensa prima di agire. Financo pensa che è meglio non agire, talvolta, cosa che lo ha -in parte- emancipato da certi meccanismi istintuali non sempre adatti a tutte le circostanze. Il complesso sistema che sovraintende alla funzionalità mentale, noi qui lo chiamiamo “immagine di mondo”, logiche, memorie, informazioni, teorie, conoscenze, giudizi, attraverso i quali pensiamo prima di agire. Ci teniamo talmente tanto (in effetti lo potremmo dire la nostra “identità”) che spesso che ce freghiamo se i risultati delle nostre azioni sono in contraddizione con il sistema di verità dell’attività pensante, facciamo prima a dar la colpa al mondo, piuttosto che alla nostra immagine.
A questo punto potremmo fare una contro-storia culturale del dominio dell’uomo sull’uomo, evidenziando quanto problematica sia l’idea che tale dominio si sia creato nelle condizioni materiali e solo dopo sia stato “giustificato” da quelle ideali. Fino a giungere all’Origine di questa asimmetria che secondo alcuni (tra cui chi scrive) data all’inizio delle società complesse, cinquemila anni fa. Origine che alla sua origine, si è affermata al contrario, prima distruggendo l’immagine di mondo condivisa naturalmente nei piccoli gruppi umani, per poi sviluppare un doppio processo ideale e materiale che ha portato progressivamente alla forma gerarchica della società. Ma non abbiamo spazio e tempo per poter esser più precisi a riguardo.
Saltiamo allora direttamente ad oggi. Come forse saprete, c’è una “discorso delle idee” che si dipana con grande coerenza ed intensità dalla fine della Seconda guerra mondiale, soprattutto in ambito statunitense. E’ un discorso complesso fatto di psicologia diretta allo sviluppo prima del comportamentismo e poi del cognitivismo, che poi si interseca con la rivoluzione informatica, lo sviluppo dei mass-media, che poi arriva ad Internet che nasce da una rete militare, che poi si sviluppa progressivamente nella cultura digitale, nel più ampio movimento della informazione, della cultura e dell’intrattenimento in direzione di certi precisi canoni conformi all’ordinatore economico mediato dal marketing. Fino ad arrivare ai primi del nuovo millennio, ad una nuova strategia lanciata dal governo americano detta NBIC, appunto la convergenza e sinergia tra le ricerche su nanotecnologie-biotecnologie-informazione-sviluppi della “cognitive science” che porterà al Internet of Things, al Metaverso, alla Realtà aumentata e molto altro per altro da tempo anticipato dalla letteratura fantascientifica distopica.
Ci si domanda quindi: quanto della battaglia politica condotta dalle élite oggi si basa su strutture piuttosto che sovrastrutture? Quanto materiale e sociale condizionamento sono esercitati, quanto controllo biopolitico, ma a questo punto quanto controllo psicopolitico come intuito da Byung-chul Han? Siamo sicuri che il dominio dell’uomo sull’uomo è operato dal piano materiale e solo dopo si confezionano ideologie? E come spieghiamo allora la vasta e storica servitù volontaria dei Molti se non con l’introiezione che è giusto sia così e non altrimenti possibile ancorché desiderabile? Se l’uomo è l’animale che pensa prima di agire, il controllo dell’uomo sull’uomo non parte dal controllo di questa facoltà di pensiero per poi raccogliere i frutti nel dominio materiale? Cosa hanno fatto le religioni per milioni di anni?
Sino a giungere alla nostra domanda finale: non è che convinti ancora che la battaglia politica debba partire dalle forme materiali, ci siamo persi l’opportunità di agire invece sul piano mentale? Perché invece di fondare partiti materiali, non proviamo a fondare un partito mentale? Che faccia conflitto organizzato mentale? Avremo dei vantaggi a fare un nostro copernicanesimo che riconosca la necessità di agire in forme organizzate il conflitto sociale e politico sul piano mentale? Non è che ci serve un partito culturale, un movimento culturale organizzato prima di quello sociale e politico?
O crediamo che basti la nostra confusa e scoordinata, vociante ed inconcludente “guerriglia critica” per combattere le potenti forze messe in campo dall’ ordinatore dominante e relativa élite con codazzo funzionariale sempre più dedita a capire e controllare come riannodare i fili dei nostri dendriti disciplinando i flussi elettrici e chimici che da neurone vanno a neurone?
E’ forse questa la risposta che non troviamo per la versione attuale dell’eterna domanda politica: che fare?
NB_Tratto da facebook

AH L’ITALIA …, di Pierluigi Fagan

AH L’ITALIA … Una volta, quando lavoravo nell’advertising e tra i miei clienti avevo la compagnia di bandiera, un collega copywriter (quelli che maneggiano le parole) propose una idea che iniziava con questo sospiro rimembrante, quello che fanno molti stranieri quando si accingono a parlare del nostro Paese attingendo a bei ricordi delle loro emozioni turistiche. L’idea era quella di annettere tutto il valore d’immagine del Paese alla compagnia, come del resto hanno lungamente fatto altre compagnie di bandiera, un classico.
Ma un Paese non è fatto solo di belle emozioni e percezioni, è fatto anche di problemi e contraddizioni. Così, il sospirante “ah … l’Italia” starebbe bene anche su una faccia più problematica. Alitalia ha per molti versi davvero rappresentato un riflesso in piccolo di alcuni pregi e difetti nazionali. Alla fine, hanno prevalso i difetti ed è morta, solo la compagnia di bandiera intendo, almeno al momento.
Non voglio dar l’impressione di esser une esperto profondo dell’argomento, ma visto che molti ne parlano senza saperne niente (si capisce da cosa dicono e da come lo dicono), anche il mio poco mi autorizza a dire un paio di cose anche perché in termini paradigmatici, la storia ha un suo senso più ampio.
Alitalia era, tra le altre cose, assieme forse alla RAI, l’oggetto più “sexy” posseduto dallo stato italiano. C’erano e ci sono ovviamente ottime e fondate ragioni per avere una compagnia di bandiera, le interconnessioni estere dovrebbero seguire l’interesse nazionale e non sempre questo può esser coniugato con le logiche di mercato. Puoi dover tenere una tratta apposta solo per garantirne l’uso a pochi, anche se è anti-economica. Ma è bene dire anche che sia la scelta del management, sia l’abitudine a rimpinzare la compagnia di amici e spesso amiche dei potenti o meno potenti politici, hanno sistematicamente sabotato anche la più buona volontà di tenere i conti, non dico a posto, ma insomma almeno un po’ meno fuori i parametri che poi chiamavano soldi pubblici di ripiano. Abbiamo indirettamente mantenuto generazioni e generazioni di imbecilli azzimati e signorine attraenti solo per il piacere dei decisori politici, questo va detto. Ovviamente ci riferiamo solo ad una parte, forse anche una parte limitata, ma poiché la natura di quel business non prevede comunque grandi margini, anche quel relativamente poco, era troppo e troppo a lungo.
Inoltre, cambiare management ad ogni cambio di governo, ed i governi in passato cadevano con medie fuori da ogni statistica occidentale, ha precluso il varo di ogni possibile strategia e compagnie senza strategie (come del resto i Paesi), diventano ingestibili.
Una volta entrati nel regolamento europeo, si sarebbe dovuto per forza risolvere il problema. Non dico fosse giusto, potevamo tenercela anche così costosa ed inefficiente se ad uno piace il “pubblico” a prescindere o gli piace mantenere gli amici dei parlamentari e non solo, ma una volta entrati in un diverso sistema di regolamento che vieta il ripianamento pubblico, ne dovresti prender atto. Oppure uscire da quel nuovo regolamento.
In effetti qualcuno ne prese atto. Per prima venne proposta la soluzione forse tecnicamente migliore ovvero la fusione in una holding (non ricordo bene, penso paritaria) con un altro network complementare: KLM. La soluzione KLM era ottimale sotto tutti i punti di vista. Poi però cambiò ancora il governo e poi cambiò ancora, così si giunse ad una seconda ipotesi meno ottimale visto che KLM s’era sviluppata una coerente e diversa strategia per conto suo, con Air France. Ripeto, non sono un espertone del campo ma da quel poco (non pochissimo) che so la soluzione precedente era ben migliore, ma ormai le possibilità erano ristrette.
Si tenga anche conto che dal puro punto di vista del business, in Italia non avendo multinazionali nostre, originiamo poco traffico internazionale e poca business class che sono le due variabili che portano un po’ di profitto per pagare i servizi interni non sempre profittevoli visto che ovviamente si deve garantire almeno una buona interconnessione interna per far funzionare il Paese, Paese stretto e lungo lo ricordo per i digiuni di geografia (il che dà le durate di volo quindi i costi).
Ci sono poi una altra mezza tonnellata di particolari tecnici legati a quel business a livello internazionale, un mercato molto cambiato negli ultimi anni, ma a chi interessano i particolari? Molti hanno “idee chiare e distinte” anche senza i particolari. Diremo “al volo” se la cosa non suonasse ironica.
Così tra un populismo e l’altro del tipo “Alitalia agli italiani!”, seguendo i sovranismi aeronautici che facevano finta di scordare che, ahinoi, stavamo nel sistema UE-euro, nella totale ignoranza del caso interno e della natura di quel business le cui regole non dettiamo noi, andando così avanti senza ragione alcuna, di disastro in disastro fino al disastro ultimo, previsto, conosciuto, ignorato in piena nevrosi da negazione fino all’ultimo. Così si è arrivati a ieri, al triste annuncio della povera hostess che saluta gli ultimi passeggeri imbarcati a Cagliari, settantacinque anni ed un mese dalla fondazione di una azienda molto elegante ma come certi ex-nobili decaduti, molto fuori dal mondo. Visto che ormai si ragiona così, un “valore” di marchio costruito per decenni, buttato nel cesso.
Così il sospirato “Ah l’Italia …” sta bene sotto il romantico ricordo di tutte le nostre qualità, ma altrettanto bene come sconsolata constatazione di quanto irresponsabili siamo, noi e i politici che noi stessi deleghiamo a governare l’interesse generale. Non aver voluto cambiarla per tempo, decidendo noi cosa perdere e cosa tenere, ha reso Alitalia inadatta perdendo tutto. Così il Paese che è un sistema, un sistema fatto di parti ognuna delle quali ha ottime ragioni per non cambiare, salvo poi che così non cambia il sistema, il sistema è disadattato e crepa, con noi dentro.
Il che non preclude a molti il piacere tutto social di dire la loro partendo da idee a priori che poco e nulla c’entrano con la meno divertente complessità delle cose su cui esprimiamo pareri un tanto al chilo.
Nella foto, un omaggio ad una delle più belle livree dell’aeronautica civile, giudizio riconosciuto a livello mondiale che io ricordi.

LO YIN E LO YANG DELL’ORDINAMENTO MODERNO, di Pierluigi Fagan

Un altro mo(n)do per interpretare la dialettica. Testo interessante che apre a quesiti fondativi. Partirei però da un punto di vista diverso. Il politico, non il personaggio politico, è un ambito che agisce nei vari spazi dell’agire umano collettivo, tra i quali l’economico; spazi, questi sì circoscrivibili. Mi pare improprio contrapporre quindi l’economico al politico e di conseguenza lo stallo economicista del mondo occidentale alla visione più olistica dei mondi emergenti, in particolare cinese. Si tratta al contrario di approcci politici diversi che in realtà tendono sempre più a contaminarsi oltre che a confliggere, tanto è vero che proprio la potenza confuciana, la più olistica, sembra puntare di riffa o di raffa ancora prevalentemente sull’economico per affermare la propria influenza almeno sino a quando riuscirà ad acquisire mezzi di costrizione sufficienti a sostenere il confronto aperto. E’ appunto la molla che può costringere il campo avverso a riconsiderare le chiavi interpretative e a superare la propria crisi. Su una cosa si concorda: le modalità di reazione, classicamente e rudemente “politiche”, del mondo occidentale lasciano presagire tempi foschi. Su questo i cinesi sembrano aver compreso molto poco il senso e le opportunità offerte dalla presidenza di Trump anche se sono stati abili ad occupare gli spazi aperti dal conflitto politico negli USA. Buona lettura, Giuseppe Germinario
LO YIN E LO YANG DELL’ORDINAMENTO MODERNO. [Temi: economia, politica, futuro] La coppia yin e yang rappresenta il modo cinese di pensare la dualità. Per “dualità” d’intende quella che sembra una propensione naturale della mente umana a partire il pensiero in due a cominciare dalla partizione pensante – pensiero, o soggetto – oggetto, ma anche soggetto e mondo o oggetto come risultato di due forze o due elementi e così via secondo varie declinazioni classiche quali caldo – freddo, notte – giorno, maschile – femminile o altre più storiche o antropo-culturali come mente – corpo, razionale – emotivo etc..
Dicevamo “propensione” naturale della mente umana, quindi queste dualità non possiamo dire siano parti obiettive che esistono fuori della nostra mente, purtroppo non possiamo pensare a nulla fuori della nostra mente senza usare la nostra mente. Di contro, la nostra mente è fatta apposta per darci l’impressione di essere un soggetto che pensa un oggetto (pensare è sempre pensare a qualcosa direbbe Brentano) e così, quando poi ci si astrae da questo stato e si mette ad oggetto questa stessa relazione, ecco sorgere la dualità. Si potrebbe dire esser un portato della condizione auto-cosciente, coscienza dell’esser coscienti o pensare al come di pensa (o “pensiero che pensa se stesso” – Aristotele).
In Occidente, la dualità ha preso varie forme all’interno di una vasta famiglia che inizia con le riflessioni di Eraclito e che da Platone ad Hegel, in logica, prende nome di “dialettica” o in altro ambito (gnoseologico) “dualismo”.
La versione cinese di questo impianto, formalizzata nel V-III secolo a.C. ma risalente nel modulo duale a molto prima, è appunto la partizione “yin e yang”, graficamente simbolizzato nel -taijitu-, quel cerchio con due virgoloni con un punto in mezzo che si abbracciano nella forma circolare per quanto la dividano. I virgoloni stanno a dire che i due principi si muovono con predominanza alternata, il punto di diverso colore al centro sta a dire che anche quando uno dei due principi è alla piena espressione dominante, il suo contrario-complementare permane, pronto ad attivare un nuovo ciclo in cui alternerà la dominanza. Così via in una sequenza di mutamenti infiniti. Taiji o nella versione W-G -T’ai Chi-, significa “trave maestra”, la base della logica.
Premessa questa visione logica, applichiamola ad un caso concreto.
Si tratta della forma dell’ordinamento delle società occidentali moderne, un -taijitu- fatto di economia e politica. Per lungo tempo, secoli fa, fu la politica a dominare come ultima intenzione l’economia, poi iniziò il moto contrario. Oggi siamo al punto di massimo dominio dell’economico sul politico. Non a caso registriamo da una parte la massima vigenza di una ideologia economica fondamentalista quale ciò che molti chiamano “neo-liberismo” mentre sono almeno trenta anni che gli scienziati politici avvertono, sempre più sconfortati, il totale declino della forma politica moderna occidentale detta -impropriamente- “democrazia”. Ma al di là del fatto che sia o non sia una democrazia (secondo chi scrive non lo è e sarebbe già tanto rendercene conto ovvero operare quella “rettificazione dei nomi” suggerita da Confucio senza la quale “chi parla male, pensa male”), essendo questa forma ibrida comunque l’incarnazione del politico nel moderno occidentale, è proprio il politico ad esser ai minimi termini, un piccolo puntino bianco nel dominio del virgolone nero.
Segnalo allora due articoli di oggi sull’ineffabile Repubblica, nome di una famosa opera, la più famosa e più complessa per quanto ad esito prettamente politico, di Platone. Ma anche nome della forma politica della società come cosa (res), pubblica. Ma la proprietà di questo giornale è invero in mano ad una famiglia imprenditoriale, quindi operatori economici, operatori economici (invero sempre meno economici e sempre più finanziari) che reputano necessario possedere un figlio politico, lo schema appunto classico dei -taijitu- moderno occidentale, negli ultimi decenni.
Il primo articolo segnala un libro in prossima uscita per i tipi di Laterza, con vari contributi da Canfora a Ferraris, passando per i Friday for Future (potevano anche chiamare i telettubies già che c’erano) su un tema oggi molto pubblicato: il futuro? Mai come di questi tempi, il futuro s’accompagna col punto interrogativo. Molte cose non funzionano più come prima, ma pare che non si abbia la più pallida idea di come altrimenti farle funzionare.
L’articolo, estrae un pezzo colto dal contributo dell’ex Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco. Visco riesuma il famoso articolo anni ’30 di J. M. Keynes “Prospettive economiche per i nostri nipoti” in cui il Sir inglese profetava necessaria (necessaria, non “auspicabile”), per i tempi dei suoi nipoti quindi più o meno i nostri, una società con tre ore di lavoro al giorno, tre solo perché l’uomo si sarebbe troppo smarrito a lavorarne solo quella che realmente serviva come necessità, cioè una sola.
Il secondo articolo ne traduce uno del NYT dal titolo “Per fermare il cambiamento climatico (dobbiamo) contrarre l’economia?. Si tratta di un altro -taijitu- con un virgolone rappresentato dal concetto di “decrescita” ed un altro rappresentato dal “New Green Deal”. Quest’ultimo pensa di prendere il problema che il sistema dominante continua a ridurre al cambiamento climatico (il “problema” è ben più complesso comportando questioni ambientali-ecologiche e non solo climatiche, geopolitiche, migratorie-demografiche, economiche e finanziarie, tecnologiche e scientifiche, ma se il sistema in atto fosse in grado di pensare in maniera adeguata non saremo nella condizione del -futuro interrogativo in stato ansioso-), e farlo diventare motivo su cui attivare il classico ciclo di distruzione creatrice che anima il modo economico moderno.
La prima posizione dubita fortemente che il problema si possa così risolvere e va più radicalmente affermativamente incontro al titolo dell’articolo: sì, bisogna contrarre l’economia (che tanto si contrae di suo per noi occidentali, da decenni e per decenni a venire per ragioni che pare nessuno abbia interesse ad indagare), e quindi accompagnare una decrescita pilotata. Di questa contrazione strutturale fa parte anche la riduzione dell’orario di lavoro.
La faccenda della decrescita meriterebbe una lunga trattazione con punti appena accennati dall’articolo nel riportare la posizione di Jason Hickel che invito a leggere e riguardano aspetti demografici, culturali, geopolitici, sociali. La decrescita pilotata (stante che è comunque in corso la versione non pilotata) verso una “società dell’abbastanza” (moderatamente prospera direbbe Xi) riguarderebbe in primis i Paesi ricchi (noi) e gli strati di società iper-ricca (le élite). Ma chi dovrebbe pilotarla?
E torniamo così al nostro -taijitu-. Dovrebbe pilotarla la politica. Il virgolone politico che ordina in condominio le nostre società con l’economico e che negli ultimi decenni è stato ridotto ai minimi termini. Quindi, questa non è una discussione da economisti che poverini hanno i loro limiti disciplinari, sarebbe una discussione politica, ma anche la politica ha i suoi limiti (tra cui capire in genere poco o niente di ecologia, geopolitica, società, cultura, storia ma ahimè anche economia). Una “politica” che oltre ai suoi limiti gnoseologici di lunga tradizione (la tradizione moderna che separa tra loro le discipline quindi gli oggetti di cui è fatto l’intero oggetto del politico), si trova oggi ai suoi minimi termini di sviluppo poiché negli ultimi decenni è servita solo come strumento per le élite economiche per prorogare la vigenza della funzione economica, di suo, sempre meno efficiente per restringimento obiettivo delle sue condizioni di possibilità.
Quindi, le nostre società occidentali sono in crisi adattiva ad un mondo che non è più quello dell’era moderna, è così in crisi il virgolone economico che di recente è giunto al suo massimo potere di vigenza squilibrando le società stesse, ma il puntino politico che dovrebbe crescere per ripristinare l’equilibrio delle funzioni subentrando all’economico per pilotarlo verso società diversamente configurate è depresso ed ai suoi minimi storici. Per “politico” qui non intendiamo la “politica” in atto, intendiamo il pensiero politico poiché nelle cose umane che dovrebbero esser auto-coscienti, il pensiero dovrebbe precedere ed informare l’azione. E’ proprio nel pensiero che siamo ai minimi termini.
Si dice che fare una diagnosi sia già incamminarsi vero la soluzione di un problema. Speriamo, il “principio speranza” è un principio del politico e speriamo che il (pensiero)-politico oltre a sperare, criticare e riesumare sue forme del profondo passato che è passato, si dia una mossa. Il virgolone politico ha bisogno di energia per crescere mentre decresce il virgolone economico.

NB_Tratto da facebook

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