IL FASTIDIO PER IL PENSIERO RIFLESSIVO, di Pierluigi Fagan

IL FASTIDIO PER IL PENSIERO RIFLESSIVO. Il termine “ideologia” nasce in Francia nella prima parte dell’Ottocento ad opera di alcuni filosofi materialisti che intendevano sviluppare una conoscenza (logos) su come nasce, si compone e funziona il sistema di pensiero (idee). Cercavano cioè di pensare al come pensiamo. Non a cosa pensiamo, il “cosa” viene dopo, prima c’è il come.
Vennero chiamati “ideologues” e su loro si abbatté l’ira di Napoleone: “È alla ideologia, a questa tenebrosa metafisica che ricercando con sottigliezza le cause originarie, vuole su tali basi fondare la legislazione dei popoli in luogo di adattare le leggi alla conoscenza del cuore dell’uomo e alle lezioni della storia, che vanno attribuiti tutti i mali che ha provato la nostra bella Francia” (1812). Insomma, a Napoleone questa ricerca su come pensiamo e quindi poi agiamo non piaceva, bisognava agire e basta, naturalmente come piaceva a lui.
Da Vilfredo Pareto a Francis Fukuyama via Popper, il pensiero liberale ha da sempre mostrato vivo fastidio per le ideologie e ne ha celebrato la fine eccitandosi per il crollo dell’ideologia marxista al passaggio tra anni ’80 e ’90. Finalmente, non c’erano più ideologie, era rimasta solo la loro. In effetti, già Destutt de Tracy, l’animatore degli “ideologues” francesi, aveva segnalato come la morale utilitaristica e la conseguente politica liberalistica non avessero nulla di oggettivo e naturale e fosse appunto una “ideologia”. Ma i liberali sono così, irriflessivi, se c’è più di un sistema di pensiero oltre al loro danno condanne di “ideologia!” a qualsiasi altra forma del pensare, quando rimane solo il loro sono felici, le ideologie sono morte, la natura oggettiva delle cose ha trionfato.
Arriviamo così ad un articolo de Il Foglio che è un giornale di ideologia liberale. Qui, un giornalista con le idee chiare e distinte titola contro il “dogma” della complessità. Poi declina l’occhiello con “La complessità è diventata ideologia, rifugio d’intelligenze vanitose, benintenzionati smarriti e professori cialtroni”. Sta recensendo il saggio di una giovane filosofa francese, Sophie Chassat, “contro questo mito culturale odierno”, il mito della complessità. Wow!
Dopo aver segnalato che il saggio della francese è “favoloso”, continua con abuso di aggettivi squalificativi. Quello della “complessità” è “un mito” che porta ad esser “inebetiti dal caos”, “in bilico tra solennità e supercazzola”, “un rifugio dell’ignoranza”. Chiude alla grande con: “Il suo è un invito a ritrovare il senso del “cruciale”. Il mondo è complesso? A maggior ragione è necessario scegliere: modelli -di vita, di valori, di produzione-. Sapendo che decidere è inevitabilmente semplificare. […] L’alternativa, è vivere complessati.”. Bella la chiusura, maschia, decisa, pragmatica.
Viene così curiosità di andarsi a leggere questa intemerata della francese contro la complessità. Ma poiché di questi confusi tempi capire chi emette il discorso è la prima cosa da fare per capire come pensa chi poi ci dice cosa pensa, scopriamo che il suo piccolo saggio contro il pensiero della complessità è ospitato dal sito di un think tank “liberale, progressista, europeista” che ovviamente sono verità di natura, non ideologie.
Wikipedia, di questi signori, riferisce che: “Per quanto riguarda l’economia, la Fondazione auspica, […] una riduzione della tassazione, un rilancio delle privatizzazioni, una riduzione della spesa sanitaria e la non sostituzione un funzionario su due. Secondo la Fondazione, [… ] “lo Stato non ha lo scopo di ridurre le disuguaglianze” e dovrebbe “rinunciare ad alcune aree di competenza” a vantaggio del settore privato”.
Agatha Christie, grande Maestra della logica abduttiva, diceva che due indizi sono una coincidenza per cui che il giornale liberale si esalti per un articolo sul sito di un think tank ultraliberale è, appunto, solo una coincidenza, al momento. Andiamo allora alle tesi.
Le tesi della francese sono varie e non riassumibili in un articolo breve. In parte sono quelle del virgolettato riportato da Il Foglio, impresa privata liberale che prende circa 1 milione di euro l’anno (2021) di sovvenzioni statali altrimenti sparirebbe dal mondo del visibile. Qualcuno l’ha chiamato, “il reddito di giornalanza”, utilissimo per tenere in piedi i megafoni contro il reddito di cittadinanza la cui negatività è lampante, non è certo un giudizio ideologico.
In pratica, la filosofa imputa al pensiero della complessità, il farla sempre più difficile del necessario, tanto da portare ad un tedioso smarrimento inattivo, irresponsabile, troppo intellettualizzato, paralizzante. Essendo filosofa conosce i trucchi del mestiere (Retorica, Aristotele) ad esempio la cattiva categorizzazione, quella della “complessità” per lei è una “ideologia” e sappiamo che ideologia è male, la Verità è il Bene, quale poi sia la Verità non conviene domandarselo.
Segnalo solo che nel riferire dell’archeologia dei concetti, su “ideologia” passa da Destutt de Tracy a Marx, dimenticandosi di Napoleone che diceva del pensiero del filosofo “ideologue” le stesse cose che lei imputa oggi al pensiero complesso. Ce l’ha anche con l’approccio complesso al problema climatico e guarda un po’, anche con l’IPCC e la COP27, ma non perché è negazionista sul fatto che c’è un problema, ma perché si perde troppo tempo a non fare le poche, chiare cose che andrebbero fatte, le cose “oggettive”. La Signora poi ha fatto di necessità virtù e visto che di sola filosofia non si campa, ha messo su una società di consulenza su “filosofia e branding”, marketing, comunicazione. Tra i suoi clienti Total. Immagino che lavorando con Total abbia appreso le giuste cose da fare sul problema climatico, cose semplici vivaddio!
Leggetevelo l’articolo, è davvero fantastico, sarebbe puro piacere rintuzzare argomento per argomento notando gli slittamenti logici e di inferenza, cioè in sostanza la voluminosa confusione che l’adepta delle idee “chiare e distinte” fa a proposito della cultura della complessità. Ma qui non abbiamo lo spazio sufficiente. Le conclusioni sono chiare, siamo in una epoca speciale: “Le crisi che stiamo affrontando oggi ci impongono quindi di stabilire delle priorità, di scegliere le giuste battaglie, di porci obiettivi chiari e, per farlo, di porci le giuste domande. Cosa è in definitiva essenziale? Cosa conta davvero? Quali sono i nostri bisogni primari? In quale direzione vogliamo andare?” Ecco le giuste domande! Sicura?
Vado per grandi sintesi, semplifico. Nel lungo Paleolitico, ci svegliavamo la mattina e ci domandavamo “oggi che si mangia?”, ci davamo da fare e più o meno davamo la risposta concreta agendo. Nel tardo Neolitico, quando arrivammo a vivere in 40.000 ad Uruk, non potevano farlo più perché non avremmo trovato da mangiare per così tanti coi vecchi metodi. Cominciammo così a prevedere i bisogni, coltivando ed allevando fonti di cibo. Ne nacque la civiltà e le società che i sociologi di ogni ordine, grado ed ideologia chiamano “società complesse”. Società complesse in un mondo ancora sostanzialmente abbastanza semplice in cui potevi sfruttare la natura a piacimento e massacrare i vicini fastidiosi che magari avevano fatto un colpo di stato locale e non ti volevano vendere più l’uranio per le tue centrali nucleari che, quelle sì, risolvono bene il problema climatico. Oggi non solo le società sono sempre più complesse, lo è diventato anche il mondo! Siamo 8 miliardi con 200 Stati e la natura non ci dà cinque Terre per vivere tutti come gli americani e gli europei e gli americani e gli europei non vogliono certo abbassare il loro tenore di vita per diventare compatibili. Anche perché la colpa di questo disequilibrio non è certo loro ma di quegli umani di seconda fascia che sono gli asiatici, gli africani ed i sudamericani che vogliono stare meglio facendo saltare il banco. Da cui numerosi problemi sul piano economico, finanziario, logistico, migratorio, culturale, sociale, politico ed in definitiva geopolitico.
Insomma, prima agivamo, poi prevedevamo ed agivamo di conseguenza, oggi dovremmo agire prevedendo non solo i nostri voleri e soddisfazione di questi bisogni ma i controeffetti di questo agire rispetto al mondo naturale abitato da 8, prossimi 10 miliardi di gente come noi, ora anche con le bombe atomiche e la tecnologia prima nostra esclusiva. Ciò porta a domandarci quali dovrebbero adattivamente essere le forme del nostro pensare stante che certo alla fine dobbiamo agire. Questa è la domanda giusta che la filosofa-consulente aziendale non ha fatto e non vuole che si faccia, lei come il think tank che ne ospita la requisitoria, pubblicizzata qui dal giornale ultra-liberale. Farsi questa domanda è ideologia!
Il pensiero moderno da Galileo e Descartes ad oggi ha avuto quattro secoli di sviluppo. Il pensiero della complessità è giovane, ha solo settanta anni (anche meno) è ancora in formazione, ampliamento, delucidazione. Il pensiero della complessità, tecnicamente parlando, è una onto-gnoseologia ma non vi impressionate sul termine oscuro, si tratta di pensare a come pensiamo per poi agire, il fine del pensiero umano è sempre agire, è definito tale da tre milioni di anni di evoluzione dell’umano, nessuno contesta questo. Noi non siamo l’Homo faber come continua a ripetere la signora e non pochi altri attardati al XIX secolo, secolo di potenti ideologie (liberali-marxiste etc.), siamo l’Homo cognitivus, che pensa prima di fare. Oggi è adattivamente l’epoca in cui dobbiamo pensare bene prima di agire e questo pensar bene non è pensare questo o quello, questo o quello verranno pensati e promossi dai loro portatori, come sempre è accaduto e sempre accadrà.
Pensare bene è pensare prevedendo nei limiti del possibile, gli effetti del nostro agire scelto dopo aver ben analizzato i fatti, i bisogni, le forme della vita associata ed il contesto. Per far questo, secondo il pensiero della complessità, aiuta l’inquadrare le cose, oggetti, fenomeni, come sistemi. Non perché ci piace, ma perché letteralmente “tutto” è descrivibile come tale, non ci sono eccezioni se non per entità metafisiche come le singolarità o Dio. Ogni oggetto del nostro pensare è scomponibile in parti che hanno interrelazioni tra loro, a volte non lineari, ogni sistema ha interrelazioni con altri sistemi e tutti stanno in un contesto su cui hanno influenza e da cui sono influiti e tutto ha una durata, sta nel tempo, in un certo tempo che è storia. Così per la cascata di portati gnoseologici che vanno dai feedback alle emergenze, dalla multi-inter-trans-disciplinarietà alla logica abduttiva e parecchio altro ancora da sistematizzare, almeno un po’ meglio di quanto non sia ad oggi possibile.
Per questo Morin ha chiamato il suo magnum opus Il Metodo (cito Morin ma non è detto aderisca sempre ed in toto al suo pensiero, come per altro non mi capita di far con qualsiasi altro pensatore da Aristotele a Kant a Marx, ho ambizioni di pensatore in proprio), per indicare che il luogo nativo del pensiero complesso non è l’ideologia ma il come le costruiamo, le giustifichiamo, le rendiamo utili a dirigere l’azione che rimane il fine di ogni pensiero umano che non sia dedicato -appunto- a pensare a come pensiamo che ne è la propedeutica.
Nel primo commento una piccola bio della simpatica filosofa, un piccolo quadretto de “Il mondo di Sofia”, dal quale si evince l’allineamento ideologico tra Il Foglio, il think tank, la signora in questione. Agatha Christie avrebbe abduttivamente detto che sì due indizi fanno una coincidenza, ma tre fanno una prova. La prova che tra questi scadenti ideologi liberali ed il pensiero della complessità c’è conflitto sul come pensiamo o forse solo, raccogliendo l’invito a semplificare, sul “se” pensiamo prima di agire. Domande che non vanno fatte.
Complessità. Critica di un’ideologia contemporanea

Il paradigma della complessità ha ormai invaso tutti i nostri discorsi e le nostre rappresentazioni della realtà. Nessuna situazione può sfuggire a questo presupposto: “è complessa”. Ma non c’è nulla di neutro in questo filtro applicato al mondo. Altera la nostra capacità di comprendere, prendere decisioni e agire, così come erode il nostro senso di responsabilità.

Questo articolo esplora le ramificazioni semantiche, i presupposti teorici e le conseguenze pratiche del modello del “pensiero complesso”, promosso in particolare dal sociologo Edgar Morin, come ideologia contemporanea.

Per uscire dall’impasse in cui questo nuovo pensiero unico ci sta intrappolando, vengono esplorate altre strade, tra cui quella che prevede la riscoperta del senso del “cruciale”.

Sophie Chassat,

filosofa, socia fondatrice di Wemean, dirigente d’azienda, membro del consiglio di sorveglianza della Fondation pour l’innovation politique.

Introduzione

https://www.fondapol.org/etude/complexite-critique-dune-ideologie-contemporaine/?fbclid=IwAR1V-cVzcxCmRYFnW5LH3vXsrb2ApQrzRF5y_YFbS2nf0HYq_9U6zNLvTdI#chap-1

Note
1. Edgar Morin, La Complexité humaine, Flammarion, 1994.
2. Il libro di Edgar Morin Introduction à la pensée complexe, pubblicato nel 1990 e riedito da Seuil nel 2005, espone i principi fondamentali del pensiero complesso.
3. Si veda “La ‘post-vérité’, nouvelle grille de lecture du politique”, Letemps.ch, 18 novembre 2016.+.
4. “Nel 1972, il meteorologo Edward Lorenz tenne una conferenza all’American Association for the Advancement of Science intitolata “Predictability: Does the Flap of a Butterfly’s Wings in Brazil Set off a Tornado in Texas?”. “Prevedibilità: il battito d’ali di una farfalla in Brasile può scatenare un tornado in Texas?
5. Edgar Morin, La Méthode, Éditions du Seuil; i sei volumi de La Méthode sono stati pubblicati tra il 1977 e il 2006.
“Come tutti gli esseri viventi, le idee hanno sempre bisogno di essere rigenerate, ri-generate, per conservare la loro interezza e la loro vitalità1”. Edgar Morin ha ragione. Per mezzo secolo ha esortato le nostre società occidentali ad aprire gli occhi sulla complessità del mondo e ha visto questa idea diffondersi così efficacemente che il suo paradigma del “pensiero complesso “2 ha ormai preso il sopravvento su tutto.

La semantica che usiamo ogni giorno lo testimonia: nulla è diventato “sistemico”, “ibrido”, “globale”, “liquido” o addirittura “gassoso”, sia nel campo della politica che in quello dell’economia, della scienza o dei media, che tengono lo specchio dell’opinione pubblica. Ovunque si guardi, il mondo della volatilità, dell’incertezza, della complessità e dell’ambiguità (VUCA) è diventato il nostro orizzonte ultimo e definitivo.

Da idea fertile che ha permesso alle società umane di progredire nella comprensione di se stesse e del mondo circostante, la complessità si è gradualmente trasformata in ideologia. Ormai indiscutibile e indiscusso, il dogma della complessità è diventato il presupposto di tutti i nostri pensieri e azioni.

Se è stato utile per riflettere sul XX secolo – e in particolare per contrastare ideologie riduttive e distruttive – non è più lo strumento concettuale di cui abbiamo bisogno per agire nel XXI secolo. Questo perché, applicato a qualsiasi situazione, il dogma della complessità riduce la nostra comprensione, il nostro potenziale di azione e il nostro senso di responsabilità.

Innanzitutto, riduce la nostra comprensione, e quindi la nostra capacità decisionale, perché impone una rappresentazione barocca del mondo in cui tutto è ingarbugliato, incerto e intrinsecamente contraddittorio. Relegando la ricerca della verità a un approccio mutilante alla realtà, incoraggia il relativismo e accentua le carenze dell’era della post-verità3.

C’è poi la perdita dell’azione, perché quando tutto è complesso, come evitare il panico e la paralisi? Da dove cominciamo se, appena muoviamo un dito, possiamo scatenare una catastrofe all’altro capo del mondo, per “effetto farfalla “4? Il nostro disordine climatico è in parte dovuto a questa rappresentazione del problema.

“È complesso” diventa rapidamente una scusa per l’inazione. Se da un lato lo stato attuale del mondo ci chiede di impegnarci più che mai, dall’altro stiamo assistendo a un fenomeno di grande disimpegno, percepibile sia in ambito civile che aziendale. Il dogma della complessità, che si riferisce agli effetti sistemici, sta togliendo responsabilità agli individui: il mondo è così complesso, tutto è così sistemico, che “che senso ha” agire?

Tutti questi effetti perversi e deleteri sono in contrasto con lo spirito umanista del “metodo” originale di Edgar Morin 5. Oggi la complessità non è più un concetto liberatorio. È diventato un concetto inibitorio che deve essere superato.

Dobbiamo quindi mostrare i limiti del pensiero complesso e ricordarci le virtù della semplicità, persino della semplificazione. Ma il ritorno alla semplicità non può essere l’ultima parola nel nostro rapporto con il mondo contemporaneo. Stiamo entrando nell’era del “cruciale”, perché siamo a un “bivio”: abbiamo sfide da affrontare, battaglie da combattere, decisioni da prendere. È arrivato il momento di decidere.

I
Parte
Complessità: un’ideologia senza nome

https://www.fondapol.org/etude/complexite-critique-dune-ideologie-contemporaine/?fbclid=IwAR1V-cVzcxCmRYFnW5LH3vXsrb2ApQrzRF5y_YFbS2nf0HYq_9U6zNLvTdI#chap-1
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Preso in prestito dal latino complexus (che significa ciò che è tessuto insieme), participio passato del verbo complectere (assemblare, abbracciare), il termine “complesso” caratterizza un tessuto fatto di elementi diversi e interconnessi.

Ma il tessuto ha finito per diventare una ragnatela, catturando tutti i nostri discorsi e le nostre pratiche – i nostri complessi, per usare la parola che è diventata un sostantivo in psicologia – fino a diventare l’unico orizzonte. La complessità, infatti, è ormai un luogo comune, il presupposto della maggior parte delle nostre rappresentazioni del mondo, o peggio: un dogma, un principio indiscusso e indiscutibile. Sostenuta da tutta una serie di nozioni che fanno sistema e si alimentano da sole per sostenere una visione del mondo proliferante, come un pensiero unico (l’ultima goccia per una dottrina della complessità), l’idea è diventata un’ideologia che non dice il suo nome.

1
L’inflazione semantica della complessità

Note
6. Alain Pérez, “Bienvenue dans un monde complexe”, Les Echos, 28 novembre 2002.
7. Éric Bertin, Olivier Gandrillon, Guillaume Beslon, Sebastian Grauwin, Pablo Jensen, Nicolas Schabanel, “Les complexités: point de vue d’un institut des systèmes complexes”, in Hermès, La Revue, 2011/2 (n° 60). La teorizzazione della complessità deve molto all’ambito militare, un’origine tutt’altro che neutrale. Rappresentare il mondo come un campo di battaglia è una rappresentazione possibile, ma – diciamolo – non insignificante.
8. Daniel Durand, La systémique, Que sais-je? 1979-2021.
9. Ferdinand de Saussure, 1931 (citato da Durand), ibid.
10. Pauline Verge, “Une étudiante obtient 18 à son mémoire sur ” la méta-complexité chez Emmanuel Macron ” “, Le Figaro Étudiant, 16 gennaio 2019.+.
11. Muriel Jasor, “Toujours plus de rencontres pour phosphorer entre leaders sur des sujets complexes”, Les Échos, 24 novembre 2022 +.
12. Mickaël Réault, “Devenir une entreprise vivante pour faire face à la complexité et l’incertitude”, Forbes.fr, 8 gennaio 2021.
13. IBM Global CEO Study, “Leveraging complexity”, 2010. Questo studio è la quarta pubblicazione della serie biennale “IBM Global CEO Study” condotta dall’IBM Institute for Business Value e da IBM Strategy & Change.+.
14. “Ad esempio, maggiore è la volatilità, più velocemente un sistema cambia e più complesso e imprevedibile può diventare rapidamente, e quindi… ambiguo. E viceversa, o il contrario”. (Benjamin Chaminade, “VUCA, Management de la Complexité”, benjaminchaminade.com, 1 febbraio 2021).
15. Nassim Taleb, Il cigno nero: The Power of the Unpredictable, Les Belles Lettres, 2012.
16. Si veda ad esempio Julia Posca, William Mansour, “Qu’est-ce que le racisme systémique?”, IRIS, 4 giugno 2020; Ariane Nicolas, “Racisme systémique : mais de quel ” système ” parle-t-on?”, Philosophie Magazine, 16 aprile 2021; Fabrice Dhume, “Du racisme institutionnel à la discrimination systémique. Reformuler l’approche critique”, Migrations Société, 2016/1 (n. 163), p. 33-46.+
17. Si veda ad esempio Camille Zimmermann, “Petit précis de culture du viol (et autres évidences troubles)”, Nouvel Obs, 22 dicembre 2017; Véronique Nahoum-Grappe, “Culture contemporaine du viol”, Communications, 2019/1 (n. 104); cfr. Jérôme Blanchet-Gravel, “L’invention de la culture du viol”, Causeur, 18 gennaio 2018.+
18. “Risque systémique”, La Finance pour tous, 27 novembre 2019.
19. Vedi sotto, Parte III, 3: “Le complexe à la source du désarroi climatique?”.
20. Dal “sostegno multiforme” per affrontare la “crisi multiforme” del mondo, della democrazia, dell’ospedale, del Sahel, ecc. alla “governance multiattoriale” nella sfera pubblica e privata, passando per le “valutazioni multi-fonte” e il riconoscimento delle “multi-potenzialità” nel mondo professionale.
21. Gabrielle Halpern, Tous centaures! Éloge de l’hybridation, Le Pommier, 2020.
22. Robert Maggiori, “Zygmunt Bauman, il avait vu la ‘société liquide’”, Libération, 11 gennaio 2017.+
23. Solenn de Royer, “Emmanuel Macron, président “liquide” au cœur d’une campagne fantôme”, Le Monde, 8 marzo 2022.+ 24.
“Benvenuti in un mondo complesso “6

La causa è chiara. Con la globalizzazione del mondo, la moltiplicazione esponenziale dei flussi di persone, merci e informazioni sotto l’effetto combinato della globalizzazione degli scambi economici e dell’accelerazione tecnologica, l’internazionalizzazione dello spazio politico, la responsabilizzazione dell’individuo rispetto alla collettività e la consapevolezza ambientale, le nostre società contemporanee sono entrate nell’era della “complessità”.

Promosso a partire dagli anni ’70 con l’affermarsi delle scienze della complessità negli Stati Uniti e poi in Europa, questo concetto deve molto alla teoria dei sistemi che si stava sviluppando da due decenni. Con l’avvento dei computer, oltreoceano nacquero discipline come la ricerca operativa, la teoria dei giochi e la cibernetica (la scienza della macchina sviluppata da Norbert Wiener), frutto di una nuova collaborazione tra fisici, matematici e ingegneri che, utilizzando la modellazione al computer, cercavano di ottimizzare l’efficacia delle operazioni militari7. La loro ricerca ha prodotto un nuovo strumento concettuale, in grado di aiutare a risolvere problemi complessi in una grande varietà di campi: dalla creazione di strumenti di guida per il fuoco aereo alla comprensione del funzionamento del cervello umano, dalla gestione di grandi organizzazioni industriali – i famosi “complessi industriali” – alla produzione dei primi computer su larga scala8. La nozione strutturalista di “sistema”, aggiornata dal biologo Ludwig von Bertalanffy, è arrivata a designare “un insieme organizzato, costituito da elementi interdipendenti che possono essere definiti in relazione gli uni agli altri solo in funzione della loro collocazione in questo insieme “9 e che, nelle parole di Edgar Morin, sono “reciprocamente interrelati”. Con Edgar Morin, la sociologia utilizza questo strumento per comprendere la società come un intreccio di sistemi multipli (sociali, culturali, economici, politici, ecc.).

Interazione, globalità, organizzazione e complessità diventano così i quattro concetti fondamentali di una nozione tentacolare che dalla visione meccanicistica dell’ingegneria e della fisica si sta gradualmente estendendo al mondo biologico e sociale.

Dallo sciame di storni agli alti e bassi della quotazione in borsa, dalle dipendenze umane alla vita di una cellula, dall’insorgere di un terremoto alla formazione di un ingorgo stradale, l’obiettivo è ora quello di studiare, all’interno del tessuto del mondo fenomenico, questi insiemi organizzati che sono “più della somma delle loro parti” e in cui le informazioni vengono costantemente scambiate, favorendo l’emergere di effetti che non erano prevedibili a priori. Gli organismi viventi, le società umane, le organizzazioni politiche ed economiche sono tutti “sistemi complessi” che sono diventati il fulcro della scienza contemporanea.

Inevitabilmente, più si moltiplicano gli elementi costitutivi e le interazioni di questi sistemi, più complessa appare la realtà di cui fanno parte. Da questo punto di vista, il nostro mondo non poteva che diventare più complesso man mano che diventava più connesso e, soprattutto, man mano che progredivamo nella sua comprensione, avendo più parametri da prendere in considerazione – e più informazioni a cui accedere – per capirlo sempre meglio. Il pregiudizio è inevitabile: più conosciamo il mondo, più sembra difficile da abbracciare. La complessità è il nostro orizzonte, ma si allontana sempre di più quando ci avviciniamo ad essa.

Il vocabolario del complesso ha quindi invaso la nostra retorica quotidiana per esprimere il nostro rapporto con questa realtà aumentata, per non dire satura di informazioni e connessioni. Questa inflazione semantica ha finito per svuotare il concetto del suo significato originario.

Il campo della politica è particolarmente colpito, situato all’incrocio tra geografia e cultura, economia e demografia, collettivo e individuale, universale e particolare, globale e locale, in un momento in cui le società diventano sempre più plurali e la struttura dello Stato-nazione è minacciata. Non c’è discorso politico che non deplori la complessità delle relazioni tra i livelli comunale, intercomunale, dipartimentale, regionale, nazionale, europeo e internazionale, la crescente complessità dell’azione diplomatica, le missioni dei nostri eserciti in tempi di guerra ibrida, la lotta al cambiamento climatico, le sfide di una politica sanitaria pubblica, la riforma delle pensioni, la gestione delle conseguenze di “#metoo”, per non parlare della complessità dell’amministrazione francese. Applicato a tutti i temi, il discorso di Emmanuel Macron ai prefetti del 15 settembre 2022 è caratteristico di questa invasione della complessità nel discorso politico contemporaneo: dal “tema delle politiche pubbliche per l’infanzia, che è così complesso perché spesso è stato diviso […] …] tra le autorità giudiziarie, i dipartimenti, le amministrazioni”, il Presidente francese passa a “queste grandi transizioni digitali, demografiche e climatiche” che “sono così complesse e così intrecciate che ci impongono di riunire attorno a un tavolo attori che finora hanno parlato separatamente”, Ha poi parlato di “un modello che accumula una serie di complessità e protezioni che pongono la Francia molto indietro rispetto ai suoi vicini”, prima di affrontare “la complessità” dei casi nelle mani dei tribunali, “la complessità amministrativa che abbiamo”, e infine il sistema sanitario “che è diventato troppo ingombrante e complesso per elaborare risposte standardizzate a livello nazionale”. Non sorprende che nel 2019 una studentessa dell’Università Paris Descartes abbia dedicato la sua tesi di laurea in semiologia e comunicazione a “La méta-complexité chez Emmanuel Macron: une forme de vie partagée entre la complexité, la dualité et la neutralité “10 (La metacomplessità in Emmanuel Macron: una forma di vita divisa tra complessità, dualità e neutralità).

Si pensi anche all’appetito con cui il mondo imprenditoriale ha moltiplicato negli ultimi anni “gli incontri per i leader per un brainstorming su questioni complesse”, rispondendo a “un bisogno crescente, in un mondo turbolento e imprevedibile come il nostro, di cogliere l’opportunità di riflettere insieme sui temi di attualità più spinosi “11 . Oppure l’interesse mostrato dalle aziende per la “gestione della complessità”, che è l’unico modo per sopravvivere e svilupparsi nel bel mezzo di un XXI secolo “ricco di sfide e segnato da una crescente incertezza”, un mondo “impegnato in un movimento complesso e in perenne accelerazione “12 .

Nel mondo degli affari, la complessità è diventata l’assioma di tutti i discorsi, che si tratti di innovazione, risorse umane, metodi organizzativi o dell’azienda stessa. Uno studio dell’IBM Institute for Business Value e dell’IBM Strategy & Change13 , che afferma di basarsi su interviste a più di 1.500 manager in tutto il mondo, riflette chiaramente questa vampirizzazione del mondo economico da parte del pensiero complesso. È ormai assodato che ci stiamo evolvendo in “un sistema globale di sistemi” (Samuel J. Palmisano, Presidente e CEO di IBM Corporation), che i leader devono ora affrontare “un mondo [non] lineare” (Julian Segal, Presidente e CEO di Caltex Australia Limited) e che la complessità è “un catalizzatore e un acceleratore dell’innovazione” (Juan Ramon Alaix, Presidente di Pfizer Animal Health).

Infine, la complessità è diventata mainstream, il termine è ormai utilizzato da tutti per riferirsi potenzialmente a qualsiasi argomento. Il discorso dei media ne è un chiaro riflesso. Così, quando alcuni minacciano, durante uno sciopero nel settore energetico, che “se i datori di lavoro non daranno soddisfazione, l’inverno sarà molto complesso”, altri evocano il “complesso smistamento dei bagagli” all’aeroporto di Roissy, altri ancora “un complesso dibattito” alla corte d’assise “sul movente di una donna accusata di omicidio coniugale”, un incendio “fuori dall’ordinario per la sua velocità, scala e complessità”, quando non si tratta della “complessità della formazione del PSG”. Le grandi notizie non vengono tralasciate: dopo la pandemia di Covid-19, l’invasione russa dell’Ucraina ha fornito ai media abbastanza “elementi di complessità” da alimentare le notizie senza sosta: Tra questi, la “complessità di ciò che accade nella testa di Vladimir Putin”, la “complessa costruzione dell’identità ucraina”, i negoziati “più complessi che mai” sotto la minaccia di una terza guerra mondiale nucleare, la “complessità del fenomeno della disinformazione” e una crisi energetica che sta provocando uno “shock di portata e complessità senza precedenti”. Non si tratta di negare le difficoltà che dobbiamo affrontare in queste situazioni, ma di mettere in discussione l’uso costante del vocabolario della complessità per descriverle. Insistendo sulla complessità di un evento, dimentichiamo la brutale semplicità dei rapporti di forza e il posto di questi eventi nella lunga storia dell’umanità: le invasioni del passato erano meno complesse di quelle di oggi?

Le parole della complessità in rete

In un mondo in cui la complessità è diventata non solo un luogo comune, ma l’unico modo di rappresentare i fenomeni, tutta una serie di parole si riferiscono ad essa, chiamandosi per nome e diventando alla fine intercambiabili – il che può anche essere visto come un sintomo della nostra crescente pigrizia intellettuale, che ci porta a esprimerci sempre più in parole chiave e nuvole di parole.

Il solo acronimo VUCA è un sistema. Introdotto dalle forze armate statunitensi negli anni ’90 per descrivere il mondo post-sovietico, dove il multilateralismo aveva sostituito la binarietà della Guerra Fredda, VUCA è diventato, a partire dagli anni 2000, un termine pronto per le organizzazioni che cercavano di descrivere il “nuovo ambiente” in cui dovevano operare. Un ambiente descritto dalla “volatilità” dei mercati, dei dati e dei comportamenti dei clienti, sotto l’effetto combinato della globalizzazione dell’economia, della sofisticazione tecnologica e dei rischi geopolitici o climatici; dall'”incertezza” legata a questa volatilità multiforme e all’asimmetria di informazioni che si sta sviluppando tra gli attori in un contesto di forte concorrenza; dalla “complessità” dei mercati, dei dati e dei comportamenti dei clienti, sotto l’effetto combinato della globalizzazione dell’economia, della sofisticazione tecnologica e dei rischi geopolitici o climatici; dall'”incertezza” legata a questa volatilità multiforme e all’asimmetria di informazioni che si sta sviluppando tra gli attori in un contesto di forte concorrenza; dalla “complessità”, derivante dalla proliferazione di leggi e norme, fonti di informazione e stakeholder che devono essere presi in considerazione; e infine dall'”ambiguità”, dovuta all’accumulo di informazioni contraddittorie e alla confusione di ruoli e responsabilità in organizzazioni sempre più interfunzionali. La rete semantica del VUCA ha invaso soprattutto le aziende.

Nel nuovo mondo VUCA, i concetti sono interconnessi e interdipendenti: “se cambia un elemento, cambiano anche tutti gli altri “14 . Dopo la crisi finanziaria del 2008, lo shock della Brexit nel 2016 e prima dell’invasione dell’Ucraina, la pandemia Covid-19 ha rafforzato i fan di questo acronimo che è diventato una bussola (ma che bussola è quando non c’è più un polo stabile?) in un mondo circondato dall’imprevedibile. Dal VUCA è facile passare alla metafora del “cigno nero”, coniata dal saggista Nassim Taleb15 per indicare un evento catastrofico quasi statisticamente impossibile, ma che si verifica lo stesso. Un “cigno nero” ha tre caratteristiche: non era previsto, le sue conseguenze sono importanti ed è possibile spiegare perché si è verificato dopo l’evento. L’ascesa di Internet, gli attentati dell’11 settembre 2001 e la crisi economica del 2008 sono stati i grandi “cigni neri” dell’era moderna, prima che arrivasse Covid-19 a spodestarli.

Poco lontano, l’aggettivo “sistemico” viene usato per descrivere una realtà che non può essere compresa senza inserirla in un sistema globale: tutto è collegato, nulla può essere pensato in modo isolato. Dire “è sistemico” per trasmettere l’idea che non possiamo semplicemente afferrare qualcosa perché tutto è collegato ben oltre quello che immaginiamo, è diventato un tic linguistico. La cultura di un’organizzazione? “È sistemica”. Il cambiamento climatico? “È sistemico”. Discriminazione e razzismo? “È sistemico “16. Cultura dello stupro? “È sistemica “17. Il conflitto russo-ucraino? “È sistemico”. Il termine “rischio sistemico” viene utilizzato anche per indicare il “rischio che un particolare evento provochi una reazione a catena” con notevoli effetti negativi sul sistema nel suo complesso, portando potenzialmente a una crisi generale del suo funzionamento18. Questo rischio, che è insito nel sistema bancario e finanziario “a causa delle interrelazioni” che esistono tra le varie istituzioni e i mercati di questo settore, viene prontamente evocato anche di fronte alla “minaccia cibernetica” e al “pericolo climatico”, e ora all’inflazione, che “alimenta il rischio di una crisi sistemica dell’economia”. Alcuni prevedono addirittura che questa “nuova fase della crisi del capitalismo” sarà “totale e multidimensionale”, portando a una “crisi di civiltà”. Senza parlare della Cina, ufficialmente indicata dagli Stati Uniti e dall’Europa come “rivale sistemico”. In realtà, il prestito dalla “teoria generale dei sistemi” di von Bertalanffy è molto più ampio: l'”approccio sistemico” (e i suoi satelliti semantici come la “causalità circolare”, il “loop di amplificazione” e la “riflessione sistemica”) è diventato un totem in molti campi, dalla psicologia, che sta incorporando sempre più spesso i “terapeuti dei sistemi”, alle politiche pubbliche, che trovano in questo approccio un aiuto per “comprendere la complessità della loro valutazione”.

“Sistemico” chiama “olistico” (dal greco holos, che significa il tutto): molto popolare nelle scienze umane e in alcuni consulenti, l'”approccio olistico”, che consiste nel prendere in considerazione “tutto”, è favorito anche per affrontare le questioni ambientali19.

Un altro concetto centrale del pensiero complesso è la “rete”, con la sua serie di nodi interconnessi da percorsi di comunicazione e la sua capacità di interconnettersi con altre reti o di contenere sottoreti, e tutte le potenziali interazioni che ne derivano. I composti del prefisso “multi-” non sono mai lontani20 , così come quelli del prefisso “co-” (dal latino cum: “con”, “insieme”), che è emerso come un faro di speranza in questo mondo di complessità dove l’individuo può cavarsela solo attraverso la collaborazione, la cooperazione, la co-creazione, il codesign, le coalizioni e l’intelligenza collettiva.

“Trasversale” è un’altra parola per indicare la complessità, che tocca la sua dimensione “interdisciplinare”, con l’insegnamento trasversale e i team interdisciplinari nelle aziende. Dopo la crisi sanitaria, tuttavia, “trasversale” è stato detronizzato da “ibrido” – ciò che è misto, contraddittorio, eterogeneo – che è diventato il concetto centrale del “mondo prossimo”: un mondo in cui siamo tutti “centauri “21 , e in cui la flessibilità è diventata la virtù essenziale. Poiché abbiamo deciso che l’ultima parola della realtà è la complessità, possiamo minare le fondamenta su cui sono state costruite le nostre pratiche, culture e organizzazioni. Insensibilmente, ci immergiamo nella “società liquida” teorizzata negli anni Novanta da Zygmunt Bauman per caratterizzare la modernità, dove “le situazioni in cui le persone si trovano e agiscono cambiano prima ancora che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in procedure e abitudini “22 . Dopo l’era solida dei produttori, l’era liquida dei consumatori ha reso la vita stessa più fluida, trasformandola in una vita frenetica, incerta, “mutevole e caleidoscopica”. Dopo la “società ibrida”, era naturale che la società diventasse “liquida”, prima che il mondo politico e mediatico si impadronisse del concetto nel 2022 per deplorare la spoliticizzazione del dibattito in Francia attraverso “Emmanuel Macron, il presidente ‘liquido’ al centro di una campagna elettorale fantasma “23 . Jean-Luc Mélenchon non ha esitato a compiere questo passo, definendo il suo movimento come La France Insoumise (LFI). Secondo il leader di LFI, il suo partito è un movimento “né verticale né orizzontale” ma “gassoso”, con punti che “si collegano trasversalmente” e la sperimentazione di “nuove forme organizzative”.

Infine, “gassoso” è inseparabile dal pensiero complesso reinterpretato dai teorici del management, che nell’arte della pianificazione distinguono, ad esempio, tra attività “solide” (ripetitive e non sorprendenti), attività “liquide” (note e integrabili in una pianificazione flessibile) e attività “gassose” (imprevedibili e quindi non pianificabili). Ciò non sorprende, dato che la parola “gas”, che si riferisce allo stato fisico della materia in cui le molecole sono poco legate e animate da movimenti disordinati, è un termine coniato dalla parola greca e poi latina per caos.

2
Dal metodo all’ideologia

Note
24. Edgar Morin, La Méthode, op. cit.
25. Ibidem, vol. 6, Etica.
26. Si veda la definizione del CNRTL; si veda anche Louis Althusser, Pour Marx, 1965: “Un’ideologia è un sistema (con una sua logica e un suo rigore) di rappresentazioni (immagini, miti, idee o concetti, a seconda dei casi) dotato di un’esistenza e di un ruolo storico all’interno di una determinata società”.
27. Si veda l’articolo di Wikipedia “Ideologia”; si veda anche la lettera di Friedrich Engels a F. Mehring, del 14 luglio 1893: “L’ideologia è un processo che il cosiddetto pensatore compie senza dubbio consapevolmente, ma con una falsa coscienza. Le vere forze motrici che lo mettono in moto gli restano sconosciute, altrimenti non sarebbe un processo ideologico “+.
28. Louis Althusser, op. cit. L’ideologia come sistema di rappresentazioni si distingue dalla scienza per il fatto che la sua funzione pratico-sociale prevale sulla sua funzione teorica (o di conoscenza) “+.
29. Il “nuovo paradigma” della complessità si basa quindi su una regola fondamentale: “Distinguere senza disgiungere e associare senza identificare o ridurre” (Edgar Morin, Introduzione…, op. cit.).+.
30. Carl Mennicke, assistente sociale tedesco, citato nel Philosophisches Wörterbuch di Heinrich Schmidt e Justus Streller, 1951.
31. Si veda più avanti, Parte II, 2, lo sviluppo sulla complessificazione delle norme.
32. Definizione del termine “ideologia” da parte del CNRTL.
33. Edgar Morin, La Complexité humaine, Flammarion, 1994.
34. Espressione del filosofo Étienne Balibar: un “significante pratico” designa un involucro verbale privo di contenuto (senza significato corrispondente) che è molto pratico utilizzare quando si parla per non dire nulla.
35. Réda Benkirane, La complexité, vertiges et promesses, Le Pommier, 2002.
Le deviazioni del “metodo Morin

Quando negli anni ’70 Edgar Morin iniziò a promuovere il “pensiero complesso” in Francia, fu soprattutto per la frammentazione delle conoscenze scientifiche e per la necessità di collegare diversi livelli di analisi e discipline per affrontare in modo più efficace i problemi umani contemporanei. Per il filosofo e sociologo, la nozione di complessità aveva una funzione strategica: doveva “scuotere” una certa “pigrizia mentale”.

Si trattava innanzitutto di una questione di “metodo” (titolo dato da Morin all’opera in più volumi che dedicò all’argomento24 ): l’obiettivo era quello di sostituire l’approccio mirato, analitico, quantitativo e assoluto della scienza moderna con una comprensione globale, olistica, qualitativa ed evolutiva, facendo tesoro degli insegnamenti dell’approccio quantistico, tenendo conto del posto dell’osservatore nell’osservazione e integrando l’incertezza, l’irrazionale e la contraddizione. In questo modo, Morin ha cercato di riabilitare una cultura scientifica umanista, aperta a un approccio interdisciplinare, contro un certo dogmatismo scientista che aveva chiuso gli occhi sulla “multidimensionalità” e sull’irriducibilità degli esseri e delle cose alla pura razionalità.

Ma l’approccio complesso che egli ha contribuito a diffondere ha finito per confondere il mezzo con il fine: a forza di brandire questo pensiero demistificante come un modo per decompartimentare e arricchire la conoscenza del mondo, il pensiero complesso è diventato l’unica porta d’accesso ad esso. Non si tratta di negare l’esistenza dei sistemi complessi, ma di mettere in discussione la tendenza a farne il filtro sistematico di interpretazione della realtà, l’alfa e l’omega del nostro rapporto con il mondo. Ma è proprio questo che è successo: la complessità è diventata l’unica lente attraverso cui guardare tutto ciò che ci circonda.

Il problema è che la complessità, da strumento critico e idea fertile, è diventata un’ideologia, un sistema di credenze condivise che non viene più messo in discussione, che ha le caratteristiche di una falsa scienza e che funge da autorità legittimante per un certo tipo di potere.

Un sistema di pensiero con le tre caratteristiche dell’ideologia

Secondo le parole di Edgar Morin, ogni pensiero deve essere capace di autocritica25. Ma se dobbiamo offrire una critica al “pensiero complesso”, il concetto che ci viene in mente per primo è quello di “ideologia”.

L’ideologia è infatti un sistema di rappresentazioni “specifico di un’epoca, di una società “26 . Si tratta quindi di un insieme di credenze storicamente situato, che diventa dominante nel momento in cui è diffuso e onnipresente, “ma generalmente invisibile alla persona che lo condivide, per il fatto stesso che questa ideologia costituisce la base del modo di vedere il mondo “27 . L’inflazione semantica della complessità nella nostra retorica contemporanea e il modo in cui è diventata un presupposto – e quindi un impensato – del nostro pensiero, la collocano chiaramente in questa categoria.

Coniato da Destutt de Tracy nel 1796 per proporre una scienza delle idee, il termine ideologia perse rapidamente il suo significato originario quando Marx lo utilizzò nel XIX secolo per denunciare un sistema di credenze contrario alla scienza28. Edgar Morin può presentare il suo “paradigma della complessità” come una “scienza nuova”, ma ciò che abbiamo qui è più simile a una “pseudoscienza”, nel senso dato ad essa dall’epistemologo Karl Popper: una conoscenza derivata da un approccio speculativo piuttosto che da un approccio scientifico, che deve basarsi su teorie che possono essere confutate: questo è il criterio di “falsificabilità” della scienza. Secondo questo criterio, deve essere possibile immaginare esperimenti o dispositivi che possano mettere in discussione una teoria. Con le “pseudoscienze”, questo è impossibile perché ogni contraddizione è incorporata nel sistema. Per Popper, la psicoanalisi freudiana e il marxismo sono entrambe false scienze, poiché ogni obiezione alla prima deriva dalla “resistenza dell’inconscio” (dato che l’inconscio non può mai essere dimostrato come falso) e alla seconda dall'”interesse di classe” (poiché ogni attacco è situato e quindi parziale). Con il suo “principio dialogico”, che “permette di mantenere la dualità all’interno dell’unità” associando “due termini che sono allo stesso tempo complementari e antagonisti” (come ordine e disordine) “senza cercare di cancellare le contraddizioni “29 , il sistema complesso è inconfutabile: incorpora tutte le obiezioni che gli si possono muovere e ne esce rafforzato. Se si oppone all’idea di semplicità, può sostenere che la complessità include la semplicità perché abbraccia tutto. Il sistema di pensiero è diventato sistematico.

Infine, nella critica marxista, l’ideologia assume il significato di una mistificazione voluta dalla classe dominante per garantire la conservazione del potere, promuovendo più o meno consapevolmente false credenze: è “l’espressione intellettuale storicamente determinata di una situazione di interessi “30 . In altre parole, è uno strumento per legittimare un ordine sociale esistente. Nel caso dell’ideologia della complessità, potrebbe trattarsi di mantenere il monopolio sulla direzione dell’azione (o dell’inazione) collettiva, limitando l’autonomia individuale. Certo, nessuno lo vuole veramente, ma possiamo solo osservare che le soluzioni di “complessificazione” che rispondono all’osservazione di situazioni cosiddette “complesse” finiscono per confiscare la possibilità di qualsiasi iniziativa individuale a favore di una forma di potere tecnico ed esperto anonimo31. Mentre doveva essere una leva di movimento e di apertura, il pensiero complesso che è diventato il nostro unico orizzonte appare così come l’emanazione di un vecchio mondo che non vuole cambiare e cerca scuse per mantenere lo status quo.

Le falle del sistema

In un’accezione più comune, l’ideologia è una “teoria vaga e nebulosa, basata su idee vuote e astratte, senza alcun rapporto con i fatti reali “32 . Alcune delle falle del sistema di Edgar Morin mostrano le stesse falle del pensiero che è importante individuare per non farsi ingannare dall’illusione del dogma. A forza di accogliere la “vaghezza, l’incertezza, l’ambiguità” e la “contraddizione”, in contrapposizione alla “semplificazione del pensiero”, che doveva essere “superiore in rigore” fino a diventare “rigido e quindi inferiore “33 , il pensiero complesso si nutre in definitiva di confusione e di scorciatoie. Si può quindi sottolineare la sua pretesa di abbracciare tutti gli aspetti della realtà e della conoscenza, di farne una griglia di lettura applicabile a tutto. Ma, come dice il proverbio, chi abbraccia troppo poco abbraccia troppo. A forza di invocare tutti i punti di vista, di gettare ponti tra fenomeni di ordine molto diverso, per non dire sproporzionato, di voler essere utile tanto alla matematica, alla termodinamica, alla biologia e all’informatica quanto all’ecologia, alla sociologia, all’economia, al management e alla politica, il pensiero complesso porta alla dispersione, alla confusione e all’approssimazione di tutto.

Che cosa diciamo esattamente quando descriviamo una situazione come “complessa”? Non è forse un “significante pratico “34 che ci permette di dare un nome alla nostra incomprensione e impotenza? Michel Serres ha descritto la complessità come un “falso concetto filosofico “35 , così vasto e onnicomprensivo che i suoi contorni diventano sfocati e mal definiti.

Il fallimento delle “scienze della complessità” nell’affermarsi come nuova disciplina
“Sebbene l’influenza culturale della complessità sia innegabile, la generalizzazione di un idioma o di un insieme di metafore come “sistemi adattivi complessi”, “reti”, “margine del caos”, “punto di ribaltamento”, “emergenza”, ecc. non implica che ci troviamo di fronte a un campo scientifico in senso bourdieusiano. Ricordiamo che se “la funzione centrale dell’istituzionalizzazione della comunità disciplinare consiste nel preservare la permanenza dell’attività disciplinare attraverso la riproduzione del suo potenziale”, allora le Scienze della complessità non possono essere considerate una disciplina. Gruppi dedicati allo studio dei sistemi complessi sono molto comuni nelle facoltà di fisica e matematica di tutto il mondo – un po’ meno nelle scienze della vita e nelle scienze cognitive. Ma sono pochissimi gli istituti e i corsi di laurea, le scuole estive, i master e i dottorati che rientrano esplicitamente e principalmente in questa etichetta”.

Estratto da Fabrizio Li Vigni, Histoire et sociologie des sciences de la complexité, Éditions matériologiques, 2022.

Note
36. Jean Zin, “La complexité et son idéologie”, 1 maggio 2003: “Sebbene esistano delle analogie tra organismi e organizzazioni, le società umane non possono essere identificate con un corpo biologico”.
37. Edgar Morin, relazione presentata al Congresso internazionale “Quale università per domani? Verso un’evoluzione transdisciplinare dell’Università” (Locarno, Svizzera, 30 aprile – 2 maggio 1997); testo pubblicato in Motivation, n. 24, 1997.
Molto si potrebbe dire anche sul modo in cui i promotori della complessità hanno sistematizzato la sistemica, estendendo la visione meccanicistica della cibernetica al mondo vivente e poi al mondo sociale. Non c’è nulla di neutro in questo sviluppo. La “teoria generale dei sistemi”, formulata da von Bertalanffy, che vedeva sistemi nella maggior parte degli oggetti della fisica, dell’astronomia, della biologia e della sociologia (atomi, molecole, cellule, organismi, società, stelle, ecc. ), ha aperto la porta a numerose confusioni tra ciò che, nei sistemi cosiddetti “complessi”, rientra nella matematica (incompletezza, sequenze casuali), nella fisica e nella comprensione del caos (sensibilità alle condizioni iniziali, frattali, probabilità, salti quantici, ecc.), nella biologia e riguarda gli organismi (anelli di regolazione, reazioni condizionate, scambi di informazioni), e infine nella complessità umana (che “non deve essere ridotta al biologismo “36).

Promosso da Edgar Morin, il “principio ologrammatico” è ad esempio fuorviante, in quanto suggerisce che ogni parte contenga l’intero mondo e che vi siano corrispondenze tra tutti i piani della realtà: “[…] in un sistema, in un mondo complesso, non solo una parte si trova nel tutto (ad esempio, noi esseri umani siamo nel cosmo), ma il tutto si trova nella parte. Non solo l’individuo è all’interno di una società, ma la società è dentro di lui, poiché fin dalla nascita gli ha inculcato lingua, cultura, divieti e norme; ma ha anche dentro di sé le particelle che si sono formate all’origine del nostro universo, gli atomi di carbonio che si sono formati nei soli precedenti al nostro, le macromolecole che si sono formate prima che nascesse la vita. Abbiamo in noi i regni minerale, vegetale e animale, i vertebrati, i mammiferi, ecc.37 In realtà, tutto sarebbe come un ologramma in cui ogni punto dell’immagine comprende l’intera immagine. Tuttavia, mentre si può sostenere che ogni parte contiene tutte le informazioni nel caso delle cellule del corpo che condividono lo stesso DNA (il che rende teoricamente possibile ricostruire un corpo a partire da una qualsiasi delle sue cellule, come si cerca di fare con la clonazione), gli individui che compongono una popolazione non condividono le stesse informazioni o la stessa capacità di sfruttarle. Mettere insieme discipline diverse (biologia e sociologia, per esempio) è eticamente problematico. E questo non è l’unico effetto perverso dell’ideologia della complessità.

II
Parte
Gli effetti perversi dell’ideologia della complessità

https://www.fondapol.org/etude/complexite-critique-dune-ideologie-contemporaine/?fbclid=IwAR1V-cVzcxCmRYFnW5LH3vXsrb2ApQrzRF5y_YFbS2nf0HYq_9U6zNLvTdI#chap-2
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Pretendendo di non toglierci nulla, la complessità eretta a sistema finisce paradossalmente per sminuire tutto, a partire da noi stessi. Forse non è altro che una rappresentazione del mondo, ma precludendo il nostro rapporto con la realtà, ci blocca in convinzioni limitanti che influenzano le nostre decisioni, le nostre azioni e il nostro senso di responsabilità. Alla fine, la complessità ci dà così tanti complessi che la comoda formula “è complesso” diventa la giustificazione di molti dei nostri errori contemporanei.

1
La complessità, il rifugio dell’ignoranza

Note
38. Edgar Morin, Introduzione…, op. cit.
39. Ibidem.
40 Edgar Morin, La complexité humaine, op. cit.
41. Edgar Morin, Introduzione…, op. cit.
42. Ibidem: “Viviamo sotto l’impero dei principi di disgiunzione, riduzione e astrazione, che insieme costituiscono quello che io chiamo il “paradigma della semplificazione”. Cartesio ha formulato questo paradigma, maestro dell’Occidente, disgiungendo il soggetto pensante (ego cogitans) e la cosa estesa (res extensa), cioè la filosofia e la scienza, e ponendo come principio di verità le idee “chiare e distinte”, cioè il pensiero disgiuntivo stesso.
43. Edgar Morin, La Méthode, op. cit.
44. Per tutto il pensiero filosofico classico del XVII secolo, si trattava di sostituire le idee “oscure e confuse” con idee “chiare e distinte”: una duplice sfida di verità e libertà per la mente umana.
45. “Tutti gli uomini desiderano naturalmente conoscere”: è la prima frase della Metafisica di Aristotele.
46. Così David Hume, che metteva in dubbio l’esistenza oggettiva della causalità, ne fa tuttavia una tendenza innata dell’immaginazione: non possiamo non dedurre legami causali tra impressioni che si susseguono in modo congiunto e costante. Creare nessi causali è un “bisogno” naturale della mente umana.+
47. Edgar Morin, Introduzione…, op. cit.
48. Frédéric Dupin, “Descartes et la morale de la certitude”, Le Philosophoire, 2009/2 (n. 32).
49. Alain Berthoz, La Simplexité, Odile Jacob, 2009.
Un vettore di caos mentale

Il pensiero complesso che avrebbe dovuto arricchire la nostra visione del mondo sta finendo per portare a una perdita di comprensione, imponendo una rappresentazione barocca della realtà in cui tutto è interconnesso e ingarbugliato: dove non solo la parte è nel tutto come il tutto nella parte, ma “il tutto è sia più che meno della somma delle sue parti “38 , secondo il “principio ologrammatico”; dove le cause di un evento sono indeterminabili e soggette agli effetti di retroazione delle loro stesse conseguenze, secondo il “principio di causalità circolare”; dove “non esiste più un’alternativa inesorabile tra entità antinomiche” e dove si può dire qualsiasi cosa e il suo contrario senza dover prendere una decisione, secondo il “principio dialogico”; dove nulla può essere spiegato o qualificato in ultima analisi, secondo il “principio di irriducibilità “39 . In questo caos mentale, in questo “pensiero a loop” come lo descrive lo stesso Edgar Morin40 , in questo abisso nell’abisso indefinito, alla fine non si riesce a sentire granché.

Inevitabilmente, quindi, il complesso diventa complicato, con grande disappunto dei teorici e degli operatori della complessità che insistono nel distinguere i due termini sulla base di una differenza di natura e non solo di grado. La complessità sarebbe quindi la caratteristica essenziale di una realtà irriducibile alla semplificazione, mentre il complicato sarebbe dell’ordine dei nodi del cervello. Ma dissociando sistematicamente le due nozioni, dimentichiamo di interrogare il complesso. È come se fosse assolto in anticipo da ogni male. La complessità è un presupposto totemico: è impossibile da criticare. Eppure ci sembra che complichi molte cose…

La rinuncia alle “idee chiare e distinte

Come scrive lo stesso Edgar Morin, senza le operazioni di distinzione compiute dall’intelligenza, “la complessità si presenta con le caratteristiche inquietanti del disordine, dell’inestricabilità, del disordine, dell’ambiguità e dell’incertezza “41 . A forza di denunciare la naturale tendenza della comprensione umana a scomporre, analizzare, selezionare e classificare per comprendere meglio il mondo e acquisire i mezzi per influenzarlo, a forza di demonizzare “il paradigma della semplificazione “42 come un approccio “mutilante” alla realtà e persino “la specifica barbarie della nostra civiltà “43 , l’ideologia della complessità ha propagato tra i nostri contemporanei la sfiducia nel semplice, nel chiaro e nell’inequivocabile. Fino al punto di lasciarci disorientati.

Basti pensare alla violenza degli attacchi dei sostenitori del pensiero complesso contro Aristotele e la sua logica, e contro Cartesio e il suo metodo analitico, i “colpevoli” artefici della tradizione razionalista su cui è stata costruita la scienza occidentale. Edgar Morin può anche ripetere che bisogna “distinguere e collegare”, ma la chiarezza che scaccia “l’oscuro e il confuso “44 è diventata sospetta. Favorire le “idee chiare e distinte”, facendone una garanzia di verità, è diventato un crimine di lèse-réalité. Perché l’ex-plication (l’esatto contrario del pensiero complesso – explicare significa dispiegare, togliere le pieghe, rendere chiaro) è una mutilazione inflitta alla realtà, un’intollerabile operazione di riduzione. La vaghezza, l’approssimazione, la contraddizione e l’interpretazione sono preferibili al rischio di un punto fermo.

Ossessionati dalla disgiunzione di Cartesio tra mente e corpo, che descrivono come una “dicotomia schizofrenica”, i pensatori della complessità non danno più credito al metodo dell’inventore della filosofia e della scienza moderne: privilegiando la distinzione concettuale e l’elaborazione del pensiero a partire da idee chiare e distinte, il metodo di Cartesio ha probabilmente ancora molto da offrirci. Ma il pensiero complesso non la vede così. Al contrario, ha stilato un’intera lista di divieti: divieto di analisi (ridurre il complesso al semplice); divieto di verità (definita come oggettiva e assoluta); divieto di causalità lineare (attribuire una causa a un effetto); divieto di universale (e di universalismo); divieto di gerarchia di opinioni e valori (perché ora tutto è uguale).

Ad esempio, al principio esplicativo della causalità lineare (che lega una causa a un effetto), dobbiamo ora preferire sistematicamente il “principio di ricorsione” (detto anche “causalità circolare”, “retroazione” o feed-back): poiché l’effetto agisce anche sulla causa, ogni causa è anche una conseguenza, il che rende impossibile definire con precisione il ruolo di A su B o di B su A. Il risultato è l'”equifinalità”: più cause possono produrre lo stesso effetto, rendendo impossibile sapere quali effetti derivano da quali cause. È come se la causalità classica fosse diventata stravagante, dato che i sistemi complessi, con le loro causalità circolari e i fenomeni ricorsivi e ingarbugliati che li rendono ampiamente instabili, imprevedibili e quindi difficilmente controllabili, hanno preso il sopravvento sulla nostra rappresentazione del mondo come un’irruzione e un nesso di crisi permanenti. Ma a forza di sottolineare l’impossibilità pratica della minima determinazione, non stiamo forse mantenendo la pericolosa illusione di un mondo senza possibili spiegazioni? Ma comprendere45 e collegare un effetto a una causa46 sono tendenze innate della mente umana. Opporsi a queste tendenze rende il nostro pensiero fuori controllo e genera confusione.

Ma è proprio questo il risultato che il paradigma della complessità pretende di ottenere. Non si tratta più di soddisfare il nostro desiderio di capire o di assegnare. Poiché “il pensiero complesso aspira a una conoscenza multidimensionale”, sa fin dall’inizio “che una conoscenza completa è impossibile” e che l’incertezza sarà sempre la sua sorte47. Ma non è forse salutare tenere presente che “la certezza va conquistata da chi vuole capire, [che] non è ciò che abbiamo, ma ciò che desideriamo, non ciò che siamo, ma ciò che dobbiamo essere”? Esiste quindi una “morale della certezza “48 che è pericoloso dimenticare.

Il terreno di coltura e la legittimazione delle “post-verità”.

L’ideologia della complessità finisce per incoraggiare lo scetticismo, l’equivalenza delle opinioni e il relativismo epistemologico, culturale e morale – tutti i difetti dell’era della “post-verità” che ha contribuito a creare. In un mondo complesso, tutto finisce per essere uguale: certezza e incertezza, conoscenza e opinione, razionale e irrazionale. L’assiologia (l’idea che esista un discorso o una razionalità dei valori) non è più rilevante e nemmeno le gerarchie tra di essi. Di conseguenza, l’individuo contemporaneo è “come Teseo smarrito in un labirinto, senza il filo di Arianna che lo aiuti a ritrovare la strada”: “può allora tornare alle antiche credenze e cadere nell’oscurantismo49 “.

2
La complessità, un pretesto per l’inazione

Note
50. Secondo il “principio di irriducibilità”, ibidem.
51. Il concetto di “effetto farfalla” deriva dalla ricerca meteorologica, in particolare dal lavoro di Edward Lorenz, che “si rese conto che per condizioni iniziali quasi identiche, le previsioni del computer sul tempo (temperatura, ecc.) divergevano notevolmente” (John Gribbin, Chaos, Complexity and the Emergence of Life, Flammarion, 2010). Questa immagine è entrata nel discorso popolare suggerendo che il nulla può creare il tutto. Ma quale nulla? Per quale tutto? Non lo sappiamo. Quindi è meglio non muoversi affatto.+
52. Fabien de Geuser, Michel Fiol, “Le contrôle de gestion entre une dérangeante complexité et une indispensable simplification”, Normes et Mondialisation, maggio 2004.
53. “Naturalmente prenderemo una decisione quando avremo preso in considerazione tutti i 5.243 fattori”. Didascalia di una vignetta che illustra un articolo sul fenomeno della “paralisi da analisi”.
54. Si veda, ad esempio, la “Proposta di risoluzione per rendere la responsabilità sociale e ambientale un asset delle imprese” presentata dai senatori il 3 gennaio 2023, che si basa sulla constatazione di uno “shock di complessità” legato ai nuovi standard di rendicontazione della direttiva europea CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive).
55. Catherine Thibierge et alii, La Densification normative. Découverte d’un processus, Mare & Martin, 2014; si veda anche Sophie Chassat, Norme et Jugement, Institut Messine, 2014.
56. Ibid.
57. David Lisnard, Frédéric Masquelier, De la transition écologique à l’écologie administrée, une dérive politique, Fondation pour l’innovation politique, maggio 2023.
58. Si veda il rapporto informativo dell’Assemblea Nazionale su “l’applicazione pratica delle leggi” (21 luglio 2020): “In un contesto sempre più standardizzato, in cui le fonti del diritto si moltiplicano, così come i settori soggetti a regolamentazione, diversi fattori possono portare a problemi di applicazione pratica fin dalla fase di progettazione. Ad esempio, la complessità della legislazione può ostacolarne l’attuazione, favorendo applicazioni lontane dalle intenzioni del legislatore o causando problemi di incompatibilità con altre norme. Per gli enti locali più piccoli è particolarmente difficile gestire “+”.
59. Discorso del Presidente Georges Pompidou al Consiglio di Stato, citato da Gaspard Koenig e Nicolas Gardères in Simplifions-nous la vie, Éditions de l’Observatoire, 2021.
Un ostacolo all’azione

Rifugio dell’ignoranza, l’ideologia della complessità è anche un pretesto per l’inazione e il disimpegno. Perché quando tutto è complesso, come evitare la paralisi, il senso di impotenza e il rifiuto di accettare le conseguenze delle nostre azioni?

In questo mondo “liquido”, non c’è più nulla di stabile o di solido su cui poggiare. Come possiamo decidere, quando siamo invitati a “sospendere il giudizio, a non pronunciare un verdetto definitivo “50 – in breve, a non prendere una decisione, perché sarebbe un peccato disfare un “tessuto” così bello? E perché mai dovremmo voler agire se questo sfugge al nostro controllo e potrebbe finire per “ritorcersi contro di noi”? “È qui che entra in gioco la nozione di ecologia dell’azione. Non appena un individuo intraprende un’azione, qualunque essa sia, inizia a sfuggire alle sue intenzioni. Questa azione entra in un mondo di interazioni e alla fine è l’ambiente che se ne appropria in un modo che può diventare contrario all’intenzione iniziale. Spesso l’azione si ritorce contro di noi”, scrive Edgar Morin. Come possiamo quindi superare la paura di agire, quando sappiamo che in un sistema complesso un evento insignificante può portare a una grande catastrofe, come la favola del battito d’ali di una farfalla che, in Brasile, può generare un uragano dall’altra parte del mondo51? Come possiamo osare alzare un dito se, appena tiriamo un filo dal tessuto della realtà, l’intera bobina rischia di aggrovigliarsi ancora di più? Come possiamo assumerci una responsabilità se, in nome della causalità circolare e degli effetti dell’imprevedibilità, invochiamo la complessità incomprimibile della realtà? La complessità agisce come un nuovo “argomento pigro”. Si tratta di un attacco al pensiero stoico, che pone l’idea di un determinismo assoluto: se tutto è scritto in anticipo, non c’è bisogno di fare nulla. Paradossalmente, lo stesso argomento può essere fatto contro l’incertezza complessa: se tutto può accadere secondo giochi di ricorsione sconosciuti, non fare nulla o fare qualcosa è equivalente. Quindi tanto vale non fare nulla.

Più apprezziamo la complessità di una situazione, più siamo propensi a scegliere lo status quo. Sfuggendo all’obbligo di prendere una decisione rimandandola, complichiamo ulteriormente l’analisi cercando ulteriori informazioni, nuovi consigli o la ricerca di un consenso assoluto, che alla fine rende l’analisi inutilizzabile52. Nel mondo anglosassone esiste un’espressione che coglie perfettamente questa situazione: “analysis paralysis”. In altre parole, la paralisi che deriva dall’eccesso di analisi. Quando si hanno troppi dati da prendere in considerazione o troppe possibili opzioni da considerare, diventa più difficile fare delle scelte. “Certo che prenderemo una decisione, una volta considerati i 5.243 fattori “53. Immaginando una qualsiasi situazione come complessa, cioè che comporta un gran numero di parametri da prendere in considerazione e da collegare tra loro, aumentiamo le probabilità di non arrivare in fondo.

“A che serve?” diventa rapidamente il ritornello del fatalismo imperante di fronte alla presunta vanità o incoscienza di qualsiasi tentativo di azione. È complesso” si rivela la risposta ideale per evitare di rispondere alle domande (la “langue de bois”), per evitare di prendere decisioni (l’astensione elettorale), per evitare di osare (il trionfo del principio di precauzione), per evitare di proiettarsi (arrendersi al breve termine perché è impossibile prevedere), per evitare di impegnarsi (atteggiamento attendista, smobilitazione), per evitare di assumersi responsabilità (il costante ricorso a competenze esterne o la constatazione che le proprie azioni sono “equifinalità”): tutto è uguale, quindi non importa quello che faccio). E non sarà la deliziosa (ma preoccupante) ultima frase dell’Introduzione al pensiero complesso di Edgar Morin a rassicurarci: “Aiutati, il pensiero complesso ti aiuterà”. Questo aiuto provvidenziale arriverà solo come ultima risorsa.

La complessità come tentazione permanente

Di fronte a questo vuoto abissale, la tentazione di aggiungere complessità in continuazione è grande. La complessità è tanto più dannosa per l’azione perché, quando porta ad agire, spesso è per rendere la situazione ancora più complessa. I problemi complessi richiedono soluzioni complesse. Le risposte alla complessità sono spesso “shock da complessità” ancora più grandi. Le formule utilizzate dalla stampa ne sono la testimonianza: “La complessità dell’assegno energetico è individuata”; “La ritenuta alla fonte: uno shock di complessità”; “Il sistema delle quote non deve aumentare la complessità amministrativa dell’assunzione di lavoratori stranieri”; “La riforma delle pensioni apre un’era di cinquant’anni di incertezza e complessità”; “I contorni della riforma rimangono molto vaghi. L’unica cosa certa è che si preannuncia un’impresa di una complessità senza precedenti”.

Questa è la logica stessa della “densificazione normativa “55 , che risponde a una situazione complessa aumentando la complessità delle norme. Questo fenomeno di densificazione normativa è stato descritto molto bene dalla studiosa di diritto Catherine Thibierge, che ne attribuisce diversi indicatori. In primo luogo, l’aumento quantitativo del numero di norme: c’è “proliferazione”, “accumulazione”, “inflazione”, “movimento esponenziale”. In secondo luogo, la moltiplicazione delle fonti di norme, e quindi la coabitazione di norme che possono talvolta contraddirsi. Questa è “l’idea di complessificazione: la sovrapposizione, la sedimentazione di norme, il groviglio normativo, la compressione delle norme”, il “restringimento delle maglie normative”. E il campo della normatività si sta estendendo a tutti i settori e a sempre più aspetti della vita quotidiana56.

Moltiplicando norme complesse per rispondere a problemi complessi, finiamo non solo per sovraccaricare la vita di procedure e formalità che fanno perdere tempo ed energia a tutti, ma anche per privare individui e organizzazioni del loro buon senso e della loro capacità di azione. Intrappolate nella trappola della burocrazia, le aziende annegano in innumerevoli indicatori, relazioni e comitati direttivi. Di fronte alle complesse procedure per l’ottenimento dei fondi europei, i nostri sindaci sono stremati dalle incombenze amministrative57. Secondo David Lisnard, sindaco di Cannes e presidente dell’Association des maires de France (AMF), con differenze di complessità a seconda delle culture nazionali, i compiti amministrativi rappresentano il 3,7% dell’orario di lavoro in Germania e il 7% in Francia, ovvero l’equivalente di un punto del PIL. Affetti dalla “patologia della legge”, i nostri parlamentari stanno perdendo il discernimento nel loro lavoro legislativo, producendo testi sempre più incomprensibili a causa della loro stesura frettolosa in risposta all’attualità – e sempre più inapplicabili58. “Per quanto riguarda il cittadino che la legge dovrebbe proteggere e aiutare, spesso è con qualche ragione che afferma di non riuscire più a capirla o ad applicarla59″. La crescente complessità della legislazione incoraggia gli individui e le organizzazioni a rivolgersi all’iper-esperienza per ottenere una guida. È qui che si chiude il circolo vizioso: l’esperto di complessità finisce per fare delle materie un proprio appannaggio in nome della loro tecnicità, confiscando il dibattito e la titolarità democratica”. La consapevolezza della complessità, che dovrebbe impedirci di agire alla cieca, finisce per espropriarci delle nostre stesse capacità.

La “crescente complessità” degli standard di rendicontazione “extra-finanziaria” per le imprese di fronte alla “complessità” delle sfide ambientali e sociali
A livello europeo, la CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive) imporrà a un numero sempre maggiore di aziende di produrre rapporti ESG (Environment – Social – Governance) estremamente densi e dettagliati entro il 2025. Se da un lato non possiamo che lodare l’integrazione della sostenibilità nel concetto di performance aziendale, dall’altro il sistema di reporting previsto lascia perplessi: sono previsti centinaia di criteri, molti dei quali altamente tecnici. Le aziende dovranno lasciar fare agli esperti. Il corollario della complessità normativa è spesso la confisca del significato.

3
La complessità è la fonte del disordine climatico?

Note
60. Questo è il titolo dato, ad esempio, al primo capitolo, terza parte, I, del Rapporto OPECST n. 224 (2001-2002) di Marcel Deneux, presentato il 13 febbraio 2002, “La portata del cambiamento climatico, le sue cause e il suo possibile impatto sulla geografia della Francia nel 2005, 2050 e 2100 (Volume 1)”. Nella sua introduzione, l’autore commenta: “Le prime due parti di questo rapporto hanno cercato di mostrare la complessità del fenomeno del cambiamento climatico. È emerso che il clima è un fenomeno globale variabile, complesso, contrastante, scarsamente compreso e al di fuori del controllo dell’uomo “+.
61. “Cambiamenti climatici”, savoirs.ens.fr, 22 ottobre 2018.
62. “La complessità del sistema climatico”, corso online su Kartable.fr.
63. Laurent Clerc, “La consapevolezza del rischio climatico e la sua dimensione sistemica”, in Annales des Mines – Responsabilité et environnement, 2021/2 (n. 102).
64. Federico Turegano, Global Head of Natural Resources and Infrastructure, in wholesale. banking.societegenerale.com, 1 giugno 2021.
65. Discorso di Frédérique Vidal, ministro dell’Istruzione superiore, della ricerca e dell’innovazione, all’Assemblea nazionale francese il 21 settembre 2020: “La complessità della questione climatica impone di riunire tutte le discipline in un approccio olistico, e gli strumenti e i metodi delle scienze umane e sociali in particolare si rivelano indispensabili “+.
66. GoodPlanet Mag, “Le climatologue Hervé Le Treut : ” étant donné la complexité du défi de civilisation que représente la réduction des émissions de gaz à effet de serre, aucune discipline ne peut se prévaloir du monopole des solutions”, 14 settembre 2022.
67. Sophie Cayuela, “Preservare o distruggere la natura? La grande complessità della compensazione del carbone”, Natura Sciences, 12 novembre 2021.
68. EEA, “Understanding and acting on the complexity of climate change”, Europa.eu, 17 ottobre 2018.
69. Robin Rouger, Banque J. Safra Sarasin, “La complexité de l’investissement climatique”, Allnews, 19 marzo 2020.
70. Hervé Le Treut, “GIEC: des solutions plus complexes que jamais”, Les Échos, 8 aprile 2022.
71. Guillaume Simonet, “L’adaptation, un concept systémique pour mieux panser les changements
climatici”, Note de recherche Norois 6252, OpenEdition Journals, 2017.
72. Joël Cossardeaux, “Les messages de plus en plus brouillés du GIEC”, Les Échos, 14 ottobre 2015: “L’azione globale sui cambiamenti climatici è gravemente ostacolata perché i pareri dell’organo scientifico dell’IPCC, che è un punto di riferimento nel settore, sono così difficili da comprendere che è necessario almeno un dottorato di ricerca per afferrare le sue raccomandazioni”, sostiene Ralf Barkemeyer, docente-ricercatore presso KEDGE BS, che ha guidato lo studio. […] I risultati mostrano che le informazioni sintetiche dell’IPCC hanno perso leggibilità nel tempo”. Si tratta di un problema serio, dato che “questi documenti fungono da bussola per i governi, che hanno bisogno di stime scientifiche affidabili prima di prendere posizione nel dibattito globale sul clima, soprattutto sotto forma di impegni a ridurre le emissioni di gas serra”. In risposta a queste critiche, l’IPCC si è riorganizzato e ha affidato alla climatologa francese Valérie Masson-Delmotte il compito di comunicare in modo più comprensibile.+.
73. Armond Cohen, Lee Beck, “La complessità del mondo sarà in mostra alla COP27; la leadership climatica deve essere all’altezza della situazione”, Clean Air Task Force, 26 ottobre 2022.
Nebbia climatica

La retorica contemporanea ha talmente inglobato la questione climatica nel presupposto della complessità che non sappiamo più come affrontare il problema in altro modo. Nel nostro discorso, “la complessità del cambiamento climatico” è un dato di fatto60 . È addirittura la caratteristica di un problema “senza precedenti nella sua complessità e talvolta difficile da prevedere “61 , basato su quel “complesso insieme dinamico” che è il sistema climatico62. Esperti e decisori chiedono quindi di “prendere coscienza del rischio climatico e della sua dimensione sistemica “63 , e di “abbracciare la complessità ora, per il bene del clima “64 . Ma queste sono spesso pie speranze, perché riflettono un modo di pensare che gira in tondo.

Il nostro disordine climatico è in parte dovuto a questo approccio ossessivamente “sistemico” o “olistico” al problema, a questo presupposto che il problema climatico è così complesso che non sappiamo più come affrontarlo e che il minimo tentativo di risolverlo pone altri problemi ancora più gravi. La comprensione finale di un sistema complesso rimanda l’iniziativa, nella consapevolezza che questa comprensione finale non avverrà mai, poiché la minima variazione di una variabile porta a un cambiamento completo del sistema, e quindi alla necessità di ricominciare lo sforzo di comprensione da zero. Dal lato dell’azione, sapere che toccando una variabile si rischia di mandare in tilt l’intero sistema, ci spinge a procrastinare all’infinito. Come possiamo decidere e agire di fronte a questo pozzo senza fondo? Analisi della paralisi.

La sfida climatica, specchio della nostra impotenza contemporanea

Con il pretesto che la lotta al cambiamento climatico coinvolge molti sistemi complessi come l’agricoltura, l’energia, l’acqua, i trasporti, le abitazioni, l’economia e la biosfera, intreccia dimensioni scientifiche, politiche ed etiche e richiede un’azione a molti livelli (da quello aziendale a quello politico, collettivo e individuale, globale e locale, a lungo termine e a breve termine) adottando “un approccio olistico “65 , e poiché nessuno ha il monopolio della soluzione66 , tutti finiscono per passarsi il quid e pretendere che l’altro agisca per primo, o che compensi la propria mancanza di conoscenza prima di agire.

Tra la “grande complessità della compensazione delle emissioni di carbonio “67 , che sta dando origine a dibattiti che dividono governi e associazioni per la conservazione della natura, la traduzione dell'”obiettivo globale” di ridurre le emissioni in “misure concrete”, che richiede “la comprensione di un sistema complesso “68 , “la complessità degli investimenti climatici “69 e le “soluzioni più complesse che mai” proposte dall’IPCC70 , non siamo mai molto avanti nel sapere a quali azioni dare priorità. E rendere l’adattamento “un concetto sistemico per affrontare meglio i cambiamenti climatici” non ci porterà più avanti in questa direzione71. Potrebbero poi entrare in gioco tutti gli effetti perversi che derivano dall’intraprendere la minima azione o dal rispondere rendendo le cose ancora più complesse.

L’immagine del “rompicapo” ha quindi invaso la nostra retorica climatica e i nostri schemi di pensiero, bloccando sul nascere qualsiasi dibattito pubblico sull’argomento, come dimostra la sua evidente assenza dalla campagna presidenziale del 2022 in Francia. La comunicazione dell’IPCC negli ultimi trent’anni non ha certo aiutato, se dobbiamo credere ai docenti e ai ricercatori europei che si lamentano del fatto che le “sintesi per i responsabili politici” tratte dai suoi voluminosi rapporti sono “sempre più incomprensibili “72 . E nemmeno il “ritorno della storia”, come testimoniano gli osservatori della COP27, che si è svolta “nel contesto di una policrisi globale, con la complessità del mondo e una nuova serie di linee di frattura geopolitiche “73 .

Se a questo si aggiunge l’inflazione della paura e della retorica apocalittica, è facile capire come la forza di volontà finisca per essere disarmata e la rassegnazione si unisca alla rabbia distruttiva.

III
Parte
Le virtù della semplicità, la necessità del “cruciale”.

https://www.fondapol.org/etude/complexite-critique-dune-ideologie-contemporaine/?fbclid=IwAR1V-cVzcxCmRYFnW5LH3vXsrb2ApQrzRF5y_YFbS2nf0HYq_9U6zNLvTdI#chap-3
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E se, di fronte agli effetti deleteri di un pensiero complesso che si è trasformato in pensiero unico, prescrivessimo una dieta di semplicità, o addirittura qualche scossa di semplificazione? A meno che non ci serva un nuovo concetto – il “cruciale” – per pensare e agire efficacemente nel XXI secolo. In ogni caso, dobbiamo uscire dalla routine del tutto complesso.

1
Imparare a vedere il semplice

Note
74. John Gribbin, op. cit.
75. Ibidem.
76. Ibidem.
77. Ibidem.
78. Ibidem: “La scoperta di Murray che non solo le macchie del leopardo, ma anche quelle della giraffa, le strisce della zebra e persino l’assenza di marcature sul manto di un topo o sulla pelle di un elefante sono il risultato di un processo molto semplice. Si tratta infatti di stimolatori e inibitori chimici che si diffondono sulla superficie dell’embrione in un momento chiave del suo sviluppo “+.
79. Charles Sanders Peirce, La logica della scienza, 1879.
Il semplice dietro il complesso

Invece di parlare dell’inestricabilità del “tessuto” del mondo, ricordiamo che ci sono regole semplici alla base della sua composizione: il complesso non è la fine della storia.

Come sottolinea lo scienziato britannico John Gribbin nel suo illuminante libro sulle teorie scientifiche della complessità, un sistema complesso non è mai veramente “qualcosa di più di un sistema formato da diversi componenti semplici che interagiscono tra loro “74 . Quello che i fisici chiamano caos è l’emergere di fenomeni complessi da elementi semplici (una pentola di acqua bollente). E quando il sistema è costituito da elementi complessi, è perfettamente in grado di produrre comportamenti semplici (come il corpo che, per compiere il semplice gesto di alzare il braccio, attiva tutta una serie di meccanismi complessi come la rete neurale).

La “complessità” emerge perché “un sistema è sensibile alle sue condizioni iniziali e ha un effetto retroattivo “75 . Stabiliti questi principi, dobbiamo continuare a tornare all’idea che “il caos e la complessità sono governati da leggi semplici – fondamentalmente, quelle che Isaac Newton ha scoperto più di 300 anni fa”. “Lungi dal mettere in discussione quattro secoli di scienza, come alcuni vorrebbero far credere, i recenti progressi dimostrano al contrario che le semplici leggi del nostro patrimonio scientifico permettono di far luce (ma non di prevedere) il comportamento a priori inspiegabile del tempo, dei mercati azionari, dei terremoti o persino delle popolazioni”, insiste John Gribbin76. Il verificarsi del caos è quindi tanto più “organizzato e deterministico: ogni fase segue la precedente in una catena ininterrotta governata dal principio di causa ed effetto, e quindi, in linea di principio, sempre prevedibile “77 . La causalità circolare, quindi, non esclude affatto le logiche esplicative che si basano sulla causalità lineare. Allo stesso modo, è la combinazione di casualità e di una regola semplice che dà origine, per semplice iterazione, a strutture negli esseri viventi complesse come le felci o le macchie di leopardo, come ha dimostrato James Murray sulla base del lavoro di Turing78.

Complessità”: il nome dato al semplice che non (ri)conosciamo

La “complessità” non è forse, il più delle volte, il nome che diamo a fenomeni di cui non riusciamo a identificare le semplici leggi di organizzazione? Henri Bergson ha mosso una critica simile all’idea di “disordine”: il disordine è un ordine che non ci aspettiamo, un ordine che non vediamo perché non lo stiamo cercando o stiamo cercando un altro ordine. Se il mondo ci sembra così complesso, non è forse soprattutto per la nostra incapacità di individuare la semplicità che lo organizza, o per la nostra tendenza a imporgli un modello di semplicità che non è quello giusto? Il trionfo del paradigma della complessità si spiega quindi con il periodo di mutazione, di interregno, che è il nostro: lasciandoci alle spalle un certo ordine del mondo, non abbiamo ancora individuato il nuovo ordine che sta alla base della nostra epoca. Chiamiamo questa confusione “complessità”. Questo non dice nulla del mondo, ma piuttosto del nostro caos mentale.

Il filosofo americano Charles S. Peirce ha sottolineato che la complessità “percepita” è spesso solo complessità “proiettata”: “Un errore di questo tipo, che si verifica frequentemente, consiste nel considerare l’effetto stesso dell’oscurità del nostro pensiero come una proprietà dell’oggetto a cui stiamo pensando. Invece di rendersi conto che questa oscurità è soggettiva, si immagina di considerare una qualità essenzialmente misteriosa dell’oggetto. [Finché questo equivoco persiste, è un ostacolo insormontabile alla chiarezza del pensiero”.79

2
Elogio della semplificazione

Note
80. Edgar Morin, La complexité humaine, op. cit. Il pensiero semplificatore confonde il semplificato con il semplice. Il semplificato è il prodotto della disgiunzione, della riduzione e dell’estrazione. Ma non è il semplice. La semplificazione produce il semplificato e crede di aver trovato il semplice “+.
Le virtù del semplificato

Ma andiamo oltre. A differenza di Edgar Morin, che attacca il “pensiero semplificatore” e distingue tra semplice e semplificato80 , assumiamo che anche quest’ultimo abbia un valore. Così come abbiamo suggerito che il complesso e il complicato non sono diversi in natura, assumiamo che la semplicità porti alla semplificazione e che anche la semplificazione abbia le sue virtù.

La semplificazione è essenziale nella scienza, ad esempio. Come ricorda John Gribbin, fin dai tempi di Galileo e Newton, “la scienza ha fatto i suoi più grandi progressi scomponendo sistemi complessi in elementi semplici per studiarne il comportamento – anche se questo significa semplificare ulteriormente le cose, inizialmente”, grazie ai suoi indispensabili modelli. Questa ricerca di semplificazione ha dato all’umanità conoscenze e capacità di azione sempre più emancipanti. È questo desiderio di non lasciare che la complessità abbia l’ultima parola che ha portato gli scienziati di tutte le epoche a cercare di progredire nella comprensione e nella padronanza del mondo – e a provare gioia nel farlo.

La scienza, l’arte di scomporre i sistemi complessi in elementi semplici
Galileo inventò e Newton perfezionò il metodo scientifico, “basato sull’incontro tra la teoria (il modello) da un lato e l’esperimento e l’osservazione dall’altro” (quest’ultima permette di apportare le necessarie correzioni ai modelli matematici, che descrivono il comportamento di oggetti “ideali”, per tenere conto delle imperfezioni della realtà). “Prendiamo la fisica dell’atomo: considerare gli atomi come sistemi solari in miniatura, con elettroni che orbitano attorno a un nucleo centrale, può sembrare ridicolmente semplicistico. Sappiamo che gli atomi sono più complicati. Tuttavia, questo modello molto semplice, proposto da Niels Bohr negli anni Venti, è perfettamente in grado di prevedere l’esatta lunghezza d’onda delle righe osservate negli spettri di diversi elementi. È quindi un buon modello, anche se sappiamo che gli atomi non sono proprio così (…) Certo, per tenere conto di aspetti più complicati del comportamento degli atomi, dobbiamo aggiungere alcuni dettagli al modello di Bohr; ma questo non lo scredita affatto!

Estratto da John Gribbin, Chaos, complexity and the emergence of life, Flammarion, 2010.

Note
81. Il romanzo deve la sua ascesa nel XIX secolo proprio alla sua capacità di descrivere “esseri singolari nei loro contesti e nel loro tempo”, come sottolinea Edgar Morin (ibidem).
82. Henri Bergson, Le Rire, 1900.
83. Gaspard Koenig e Nicolas Gardères, op. cit.
84. Potremmo pensare all’espressione “l’arte del bracconaggio” coniata da Michel de Certeau in L’Invention du quotidien, per designare un uso sovversivo delle norme, un uso che non si fa ingannare e non si lascia ingannare: “Il bracconaggio, il tendere una trappola nella norma, è in effetti un modo di voltare le spalle alla norma che ci fa essere. La vita quotidiana si inventa nei diversivi che la gente comune produce quando, per realizzarli, volta necessariamente le spalle alle norme “+.
85. Brice Couturier, “L’éco-modernisme: prôner la technologie au service de l’environnement”, Radio France, 18 ottobre 2019.
La semplificazione è fondamentale anche per chi intende agire nel cuore della realtà. Henri Bergson ci ricorda che l’intelligenza pratica (quella che comanda l’azione) ha bisogno di semplificare, di categorizzare, senza la quale sarebbe impossibile garantire la nostra sopravvivenza. L’homo faber non può lasciarsi distrarre troppo dal singolare, dalla molteplicità del diverso, dall’intuizione del flusso, che sono i soggetti privilegiati di filosofi e artisti. Per quanto fertile possa essere per questi ultimi la complessità del mondo81 , essa è altrettanto deleteria nel campo dell’azione. Per vivere, dobbiamo agire e quindi semplificare costantemente. Per tagliare la realtà, per definire categorie, per nominare le cose con termini generici, per apporre etichette alle cose in modo da non doverci pensare all’infinito. “Vivere è agire. Vivere è accettare dagli oggetti solo le impressioni utili e rispondere ad esse con reazioni appropriate. […] I miei sensi e la mia coscienza mi danno quindi solo una semplificazione pratica della realtà”, dice Henri Bergson82. I dogmatici della complessità possono aborrire la “disgiunzione” e la “riduzione”, ma non possiamo vivere senza.

Alcuni shock salutari della semplificazione

Per ritrovare la gioia di capire e di agire, sarebbe utile concedersi qualche salutare “shock da semplificazione”. Se “è complesso”, a maggior ragione bisogna semplificare.

Prima di tutto, dobbiamo semplificare le norme, per porre fine alla densificazione delle norme. Il filosofo Gaspard Koenig lo ha promosso con il suo movimento “Simple”, lanciato in concomitanza con la campagna presidenziale del 2022. Già Montaigne aveva questa ambizione: “Le leggi più desiderabili sono le più rare, le più semplici e le più generali”. Ed è anche ciò che la Rivoluzione francese ha realizzato con Portalis, incaricato da Bonaparte di redigere un Codice Civile comprensibile a tutti. “Il suo obiettivo era chiaro: “semplificare tutto”. I suoi principi erano luminosi: “Le leggi sono fatte per le persone, non le persone per le leggi”. Il suo atteggiamento era moderato: “Abbiamo evitato la pericolosa ambizione di cercare di regolare e prevedere tutto”. È tempo di tornare a questo metodo, comprendendo che “meno leggi” significa “più diritti, libertà e giustizia” per i cittadini83.

Senza dubbio non riusciremo ad annullare completamente la tendenza a rendere più complesse le norme, tendenza di cui siamo tutti più o meno complici, tanto da proteggerci da rischi che non siamo più disposti a correre, individualmente e collettivamente. Ci vorrebbe un profondo cambiamento culturale per farci abbandonare questa logica di asservimento. Ma siamo ancora in tempo per denunciarle, per resistere quotidianamente84 e per continuare a pensare ad altri modelli più desiderabili: anche nel terreno più ostile, i semi possono sempre fiorire.

Questo principio di semplificazione gioverebbe anche al nostro approccio alla sfida climatica. Se la descriviamo solo in termini di “complessità”, con il pretesto dell’interconnessione generale di questioni e sistemi, perdiamo il nostro pragmatismo. Ecco perché gli “ecomodernisti”, una corrente di pensiero che si considera una terza via “realistica” tra i sostenitori della decrescita e gli scettici del clima, sostengono la necessità di “affrontare i problemi ambientali uno per uno “85 , per trovare le soluzioni più efficaci per ciascuno di essi. Si tratta del cosiddetto “disaccoppiamento”: separare i problemi per agire in modo più efficace, dimostrando che, lungi dall’essere inesorabilmente interconnesse, alcune dimensioni possono essere affrontate indipendentemente l’una dall’altra. Per affrontarle e andare avanti.

Contrariamente alla doxa attuale, che affronta il problema del clima solo da un punto di vista “olistico” e “sistemico”, l’obiettivo è quello di svelare le infinite connessioni tra i fenomeni per affrontare il problema in modo concreto e con un approccio unilaterale ma assertivo: spezzare il legame tra prosperità economica (generazione di reddito, crescita economica) e consumo di risorse e di energia (con i suoi impatti ambientali negativi e le emissioni di gas serra), puntando sull’aumento dell’efficienza delle risorse naturali attraverso l’uso delle tecnologie più produttive, piuttosto che attraverso tecniche premoderne. Questo perché le tecnologie più moderne dovrebbero consentire di risparmiare risorse massimizzandone gli effetti, preservando così vaste aree del pianeta di cui non avremmo più bisogno per la nostra sussistenza. Oltre al fatto che questo approccio non è né di crollo né di contrizione, è ancora più interessante considerare che aiuta a rimobilitarsi offrendo una chiara tabella di marcia per il futuro. Una volta sciolta la matassa, possiamo immaginare di essere finalmente in grado di tirare di nuovo i fili.

3
Riscoprire il senso del cruciale

Oggi si tratta di fare le scelte giuste. E abbiamo bisogno di prendere decisioni per andare avanti. Quindi mantenere le cose semplici potrebbe non essere più sufficiente. È arrivato il momento di concentrarsi sul “cruciale”.

Siamo a un bivio: dobbiamo fare delle scelte sui nostri modelli (di vita, di valori e di produzione) in questo momento di grandi cambiamenti. Cruciale è proprio “ciò che si trova a un bivio” (dal latino crucis, la “croce”) e, per estensione, ciò che è “importante perché decisivo”. Ed è proprio questo che caratterizza il nostro tempo: un momento critico in cui le scelte e le non scelte che faremo nel prossimo futuro avranno conseguenze decisive per il futuro dell’umanità.

Al bivio, dobbiamo scegliere la nostra strada e, in parte, restarci, per uscire dalla giungla oscura in cui ci troviamo – proprio come i viaggiatori smarriti di Cartesio si districano nella foresta “camminando il più dritto possibile verso la stessa parte”. Perché agire è sempre decidere. E decidere significa prendere una decisione, come la spada di Alessandro che taglia il nodo gordiano (una rete complessa) che nessuno era riuscito a sciogliere con le dita. Significa scegliere tra le possibilità. Significa rinunciare, inevitabilmente semplificare. Significa rifiutare di mantenere la complessità così com’è. Un certo numero di cose non può più tollerare il nostro procrastinare con la scusa che “è complesso”. Cruciale” è quel punto nello spazio e nel tempo in cui è necessario prendere una decisione.

Le crisi che stiamo affrontando oggi ci impongono di stabilire delle priorità, di scegliere le battaglie giuste, di fissare obiettivi chiari e di porci le domande giuste. Che cosa è essenziale, in fin dei conti? Cosa conta davvero? Quali sono i nostri bisogni più importanti? Dove vogliamo andare? L’importante è non perdere di vista i nostri obiettivi, per non annegare. Imparare a estrarre le informazioni rilevanti dalla marea di informazioni che arrivano continuamente. Non lasciarsi disperdere da ogni tipo di ingiunzione. Concentrarsi sull’essenziale. Sapere che la complessità è un certo modo di rappresentare il mondo, ma non la sua realtà ultima. Riscoprire il senso della concretezza. Abbiamo più che mai bisogno di panettieri che facciano il pane.

Per raggiungere questo obiettivo, potremmo aver bisogno di inventare “esperimenti cruciali” che ci aiutino a determinare, nel mezzo del bivio in cui ci troviamo, quale strada prendere piuttosto che un’altra. Nella scienza, un esperimento cruciale (instantia crucis o experimentum crucis) è un esperimento che, di fronte a diverse ipotesi in grado di spiegare lo stesso fenomeno, ne scredita una e mantiene l’altra, al contrario, come migliore. Francis Bacon definì l’instancia crucis nel suo Novum Organum (1620). L’osservazione e il calcolo della distanza tra il pianeta Marte e la Terra, così come l’esperimento del pendolo di Foucault, sono due esempi che hanno contribuito a distinguere il geocentrismo dall’eliocentrismo. Applicata alle nostre sfide contemporanee, questa nozione ci inviterebbe a immaginare modi che ci permettano di scegliere certe strade (etiche, politiche, economiche, estetiche) piuttosto che altre. In breve, a fare del tessuto del mondo un abito su misura per il nostro tempo. In ogni caso, uscire dalla favola di una realtà inestricabile. Demistificare la complessità.

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La guerra che ha sfidato le aspettative, di Phillips O’Brien

Inspecting a machine gun in Zaporizhzhia Region, Ukraine, March 2023
Inspecting a machine gun in Zaporizhzhia Region, Ukraine, March 2023
Stringer / Reuters
  • L’esercito russo era veloce. Così veloce, secondo gli analisti, che l’esercito ucraino aveva poche possibilità di resistere in una guerra convenzionale. Mosca, dopo tutto, aveva speso miliardi di dollari per aggiornare le armi e i sistemi delle forze armate, riorganizzare la loro struttura e sviluppare nuovi piani di attacco. L’esercito russo aveva poi dimostrato il suo valore vincendo battaglie in piccoli Stati, tra cui l’invasione della Georgia e la campagna aerea in Siria. Gli esperti ritenevano che se l’Ucraina fosse stata attaccata dalla Russia, quest’ultima avrebbe rapidamente sopraffatto le difese aeree dell’Ucraina e lanciato una vasta campagna di terra che avrebbe rapidamente avvolto Kyiv. Pensavano che la Russia avrebbe distrutto le linee di rifornimento dell’Ucraina e isolato la maggior parte delle forze del Paese. L’incapacità dell’Ucraina di resistere a questo assalto è apparsa così ovvia che alcuni analisti hanno suggerito che forse non vale la pena armare Kyiv per una guerra interstatale standard. Come ha dichiarato Rob Lee, senior fellow del Foreign Policy Research Institute, al Parlamento britannico all’inizio del febbraio 2022, l’Ucraina non potrebbe tenere a bada la Russia nemmeno se le venissero fornite armi occidentali “molto capaci”. “Se si scontrano con le forze armate russe in un combattimento convenzionale”, ha sostenuto Lee, “non vinceranno”.

    Diciotto mesi più tardi, è chiaro che queste aspettative erano del tutto fuori luogo. L’Ucraina ha combattuto con determinazione e intelligenza contro la Russia, fermando l’avanzata di Mosca e poi respingendo le truppe russe da circa la metà del territorio conquistato nell’ultimo anno e mezzo. Di conseguenza, l’esercito ucraino appare molto più potente e quello russo molto più debole di quanto tutti si aspettassero.

    In effetti, l’intera forma della guerra è molto diversa da quella che gli esperti avevano immaginato. Piuttosto che il conflitto in rapida evoluzione guidato da falangi di veicoli blindati, supportati dagli avanzati aerei pilotati della Russia, che la comunità analitica immaginava, l’invasione è stata caotica e lenta. Non c’è mai stato un rapido sfondamento corazzato da parte dei russi e solo uno da parte degli ucraini – l’avanzata a sorpresa dello scorso settembre nella provincia di Kharkiv. Invece, quasi tutte le conquiste della guerra sono avvenute gradualmente e a caro prezzo. Il conflitto non è stato definito da jet da combattimento e carri armati, ma da artiglieria, droni e persino da trincee in stile Prima Guerra Mondiale.

    I successi dell’Ucraina e le perdite della Russia hanno spinto gli esperti a rivalutare intensamente le capacità militari di entrambi i Paesi. Ma data la forma inaspettata del conflitto, gli analisti militari devono anche riconsiderare il modo in cui analizzano la guerra in generale. Gli esperti di difesa tendono a pensare ai conflitti in termini di armi e piani, ma l’invasione dell’Ucraina suggerisce che il potere armato dipende dalla struttura, dal morale e dalla base industriale di un esercito tanto quanto dagli armamenti e dai piani. La Russia, ad esempio, è caduta non perché non disponesse di armi sofisticate, ma perché non era in grado di far funzionare correttamente i suoi sistemi. Il Paese ha fallito perché la sua logistica militare – il processo attraverso il quale una forza armata si dota del materiale necessario per condurre gli attacchi – era scarsa e perché le sue forze avevano bassi livelli di motivazione.

    Queste lezioni sono importanti per pensare al futuro della guerra russo-ucraina. Ma sono fondamentali anche per pensare ad altri conflitti, compreso quello che potrebbe scoppiare tra Cina e Stati Uniti nell’Indo-Pacifico. Molti analisti militari hanno tentato di prevedere una guerra di questo tipo osservando le armi e le strategie messe in campo da Cina, Taiwan e Stati Uniti. Ma se l’Ucraina è una guida, una battaglia nella regione avrebbe a che fare con la logistica e le persone, oltre che con le armi e i piani. Questi fattori suggeriscono che una guerra tra Stati Uniti e Cina non sarebbe né decisiva né rapida. Più probabilmente, sarebbe una catastrofe globale ancora più grande di quella che si sta verificando in Ucraina.

    SISTEMI E SHOCK
    Uno dei motivi principali per cui gli esperti hanno creduto che l’invasione russa dell’Ucraina sarebbe stata rapida è che si sono concentrati soprattutto su ciò che sarebbe accaduto quando gli eserciti russo e ucraino si sarebbero scambiati il fuoco sul campo di battaglia. In questo modo, hanno posto un’enorme enfasi sulle armi che ciascuna parte aveva a disposizione – un’area in cui la Russia aveva un chiaro vantaggio. La potenza di fuoco di Mosca superava quella di Kiev in quantità e, prima dell’inizio del conflitto, in qualità. Le forze armate russe disponevano di capacità di guerra elettronica leader a livello mondiale, di aerei moderni e di veicoli blindati avanzati: tutte armi considerate molto più capaci di quasi tutto ciò che gli ucraini possedevano. Come hanno scritto gli analisti militari Michael Kofman e Jeffrey Edmonds su Foreign Affairs, pochi giorni prima dell’inizio dell’invasione su larga scala, la Russia avrebbe attaccato l’Ucraina con centinaia di bombardieri, masse di missili e altri sistemi che avrebbero fornito alle forze russe una “potenza di fuoco schiacciante”. La Russia, hanno detto, “sarebbe in vantaggio su ogni asse di attacco”.

    In effetti, alcuni analisti hanno indicato che le forze armate russe sono quasi pari a quelle degli Stati Uniti. Soprattutto dopo i successi della Russia in Siria e nell’est dell’Ucraina negli anni successivi all’annessione della Crimea nel 2014, le truppe russe sono state ritenute in grado di intraprendere operazioni simili a quelle condotte dalle forze americane. Lo stesso governo degli Stati Uniti ha ripetutamente descritto le forze armate russe come un quasi coetaneo e uno stretto concorrente delle sue forze armate.

    Ma le valutazioni ottimistiche presupponevano che Mosca fosse onesta sulla qualità delle sue armi e che la Russia avrebbe gestito i suoi sistemi in modo efficiente. Nessuna delle due premesse si è rivelata vera. Invece di essere in ottima forma, molti dei sistemi d’arma russi sono stati sottoposti a una scarsa manutenzione o sono stati danneggiati dalla corruzione. Secondo gli osservatori ucraini, ad esempio, la Russia potrebbe aver venduto la corazza reattiva che è vitale per proteggere molti veicoli militari, rendendo molto più facile per gli ucraini distruggere i carri armati del nemico. Inoltre, il Paese non ha fatto abbastanza per addestrare le proprie truppe alla guerra con i carri armati.

    Una guerra tra Stati Uniti e Cina non sarebbe né decisiva né rapida.
    La Russia ha commesso errori in quasi tutti i settori militari. Ma è forse nella sua incapacità di utilizzare sistemi avanzati che ha fallito di più. Per esempio, Mosca ha fatto un lavoro particolarmente pessimo nell’uso della potenza aerea. Gli aerei russi hanno prestazioni decenti come singoli pezzi di equipaggiamento e in teoria avrebbero dovuto essere in grado di stabilire la superiorità aerea e aiutare le truppe di terra russe ad avanzare. I suoi comandanti avrebbero potuto fare quello che fa l’aeronautica statunitense e iniziare la campagna colpendo i sistemi antiaerei dell’avversario. Come avrebbe fatto l’aeronautica statunitense, la Russia avrebbe poi potuto imporre il controllo dell’area di battaglia con missioni che distruggevano, interrompevano o molestavano in altro modo le unità nemiche.

    L’aviazione russa ha faticato a fare tutto questo. Non è stata in grado di far funzionare i suoi aerei come parte di un sistema complesso, utilizzando varie capacità militari per individuare rapidamente, dare priorità e attaccare i sistemi antiaerei ucraini. Di conseguenza, non ha eliminato le difese dell’Ucraina. In effetti, i russi hanno fatto un lavoro talmente pessimo nel proteggere i loro aerei o nel far funzionare sistemi di supporto reciproco che la maggior parte delle volte i loro aerei volano lontano dalla linea del fronte per stare lontani dai razzi di difesa ucraini. Di conseguenza, salvo rare eccezioni, le forze ucraine dietro le linee del fronte hanno potuto muoversi liberamente su strade aperte in pieno giorno.

    È logico che gli analisti non siano riusciti a prevedere le carenze aeree della Russia, così come molti altri fallimenti militari del Paese; è difficile dire come si comporteranno le forze finché non saranno messe in uso. Ma gli studiosi di difesa avrebbero potuto fare un lavoro migliore. Gli analisti militari amano dire che i dilettanti discutono di tattica e gli esperti di logistica, ma rispetto alla quantità di tempo dedicata alla cronaca delle quantità di potenza aerea e di blindati russi, gli esperti hanno parlato poco della capacità della Russia di rifornire, mantenere e rigenerare adeguatamente queste forze in guerra. In effetti, alcuni rapporti dettagliati che hanno esplorato come potrebbe progredire un’invasione russa dell’Ucraina hanno quasi del tutto trascurato di considerare la logistica. Invece di discutere su quanto lontano e in che misura i rifornimenti russi potessero essere trasportati e mantenuti di fronte al fuoco ucraino, gli esperti sembravano accontentarsi di studiare ciò che i sistemi russi potevano fare in battaglia.

    I talenti dell’Ucraina hanno sfidato le previsioni degli esperti.
    Gli analisti hanno anche dedicato poco tempo a considerare come ciascuna parte avrebbe rigenerato le risorse perse. La questione si è rivelata cruciale, soprattutto per quanto riguarda le munizioni. Sia la Russia che l’Ucraina hanno usato molte più munizioni di quanto previsto dai rapporti, e quindi entrambe hanno dovuto cercare di procurarsi proiettili, granate e razzi da Paesi esterni. La Russia, ad esempio, si è rivolta all’Iran e alla Corea del Nord per le forniture. L’Ucraina, nel frattempo, è diventata dipendente dai Paesi della NATO. Ad aprile 2023, i soli Stati Uniti avevano spedito all’Ucraina 1,5 milioni di proiettili da 155 millimetri, spingendo Washington ad aumentare la propria produzione militare. Anche l’Unione Europea ha ridotto le proprie scorte e il 7 luglio ha annunciato l’intenzione di investire oltre 500 milioni di dollari nella produzione di munizioni. Ma per ora, nessuna parte esterna può saziare gli appetiti di Kiev e Mosca.

    I limiti delle munizioni non sono un’esclusiva del conflitto russo-ucraino. Praticamente in ogni grande guerra interstatale, la domanda di proiettili, razzi e granate supera di gran lunga le stime prebelliche e i Paesi si esauriscono al massimo dopo pochi mesi. Durante la Prima Guerra Mondiale, ad esempio, tutti i combattenti si trovarono ad affrontare un’acuta crisi di granate alla fine del 1914, poiché i sistemi di artiglieria consumavano molte più munizioni di quanto previsto dagli analisti prebellici e i soldati faticavano a colpire gli obiettivi all’interno delle trincee. Tuttavia, nonostante questa storia, gli analisti non tennero conto delle scorte e della produzione quando fecero previsioni sull’invasione della Russia. Si pensava che Mosca avrebbe vinto così rapidamente che i livelli di munizioni non avrebbero avuto importanza.

    Gli analisti militari hanno anche trascurato di considerare la più ampia forza industriale, tecnologica ed economica delle parti in conflitto. Non hanno tenuto conto, ad esempio, del fatto che l’Ucraina è tradizionalmente uno dei maggiori produttori di armi in Europa o che, nonostante le sue dimensioni, la base economica e tecnologica della Russia non è quella di una grande potenza. (Le guerre interstatali convenzionali non sono mai state solo prove militari, ma hanno sempre coinvolto intere economie. Gli esperti, quindi, avrebbero potuto almeno riconoscere che la Russia non era economicamente potente e inserire meglio questo fatto nei loro calcoli.

    IL FATTORE UMANO
    L’invasione dell’Ucraina ha reso evidente che gli Stati hanno bisogno di una buona logistica e di economie forti se vogliono sconfiggere avversari di grandi dimensioni. Ma per vincere una guerra importante, questi due fattori non sono sufficienti. Gli Stati hanno anche bisogno che i loro eserciti siano composti da soldati altamente motivati e ben addestrati. E le truppe ucraine hanno ripetutamente dimostrato di essere molto più determinate ed esperte dei loro avversari russi.

    Come nel resto della guerra, il talento dell’Ucraina ha sfidato le previsioni degli esperti. Anche se l’Ucraina era il Paese invaso, molti analisti ritenevano che il popolo ucraino sarebbe stato diviso e che la resistenza ucraina sarebbe stata compromessa fin dall’inizio. Molti ucraini, sostenevano gli esperti, erano filo-russi, perché erano stati educati alla lingua russa, provenivano da famiglie etnicamente russe, avevano molti contatti personali in Russia o una combinazione di questi elementi. Alcuni esperti ritenevano addirittura che questi legami avrebbero reso difficile per gli ucraini organizzare un’insurrezione contro Mosca. (In un articolo del febbraio 2022 per The Week, ad esempio, Lyle Goldstein, professore al Naval War College degli Stati Uniti, sosteneva che, poiché “le culture russa e ucraina sono piuttosto simili”, qualsiasi ribellione ucraina avrebbe faticato ad avere successo. Gli osservatori sembravano particolarmente scettici sul fatto che gli ucraini dell’est del Paese avrebbero combattuto con forza, soprattutto una volta che l’esercito russo li avesse costretti alla sottomissione. Al contrario, pochi analisti hanno sostenuto che l’esercito russo non avesse il morale necessario per effettuare un’invasione su larga scala. In effetti, raramente hanno sondato la motivazione del soldato russo medio.

    È difficile dire con esattezza quanto l’abilità e l’alto morale ucraino e il disincanto russo abbiano influenzato il campo di battaglia. Ma questi fattori hanno chiaramente fatto la differenza. Gli ucraini motivati hanno imparato rapidamente a utilizzare una vasta gamma di nuovi equipaggiamenti standard della NATO e li hanno integrati nelle loro forze armate, nonostante avessero poca o nessuna esperienza precedente con tali armi. La determinazione ucraina ha anche permesso ai militari del Paese di fidarsi e spesso di potenziare le proprie forze. Mosca, al contrario, è rimasta ancorata a un metodo rigido e dittatoriale di controllo militare, che rende le sue unità molto meno flessibili. Le sue truppe tendono inoltre a non avere iniziativa e a tenere la testa bassa.

    Il morale alto non è sufficiente a far vincere la guerra all’Ucraina, e il morale basso non la farà perdere alla Russia; le armi contano. Quando a metà giugno gli ucraini hanno tentato di sfondare le difese russe, i loro carri armati e altri veicoli si sono dimostrati vulnerabili a una serie di sistemi russi, tra cui mine, sistemi di difesa aerea portatili, artiglieria e veicoli aerei senza pilota. Di conseguenza, dopo settimane di tentativi, gli ucraini hanno interrotto questi assalti diretti guidati da veicoli.

    Ma il talento e la dedizione superiori del Paese stanno permettendo di ridurre la forza di combattimento della Russia. Le forze armate ucraine, ad esempio, hanno capito come integrare droni, artiglieria e sistemi missilistici per colpire le installazioni militari russe. Per identificare un obiettivo, l’Ucraina invia droni di ricognizione o conduce un assalto di fanteria che innesca i sistemi di artiglieria russi e quindi espone le loro posizioni. Gli analisti ucraini stabiliscono quindi se vale la pena colpire l’installazione russa e, in caso affermativo, quale sistema utilizzare per attaccarla. Questo processo sarebbe difficile nelle migliori circostanze, e gli ucraini devono eseguirlo sotto il fuoco pesante. Ma nonostante la complessità e gli ostacoli, hanno distrutto innumerevoli lanciatori di artiglieria russi, depositi di munizioni e posti di comando – danni che potrebbero consentire all’Ucraina di avanzare nel corso dell’estate. È chiaro che l’addestramento, la dedizione e il talento degli ucraini sono uno dei motivi per cui Kiev mantiene il vantaggio.

    VERIFICA DELLA REALTÀ
    La guerra in Ucraina è stata un’esperienza di apprendimento per le forze armate ucraine, che hanno dovuto studiare come utilizzare nuovi sistemi d’arma in tempi rapidi. In misura minore, è stata un’esperienza di apprendimento anche per la Russia, che sta capendo come fortificare al meglio le proprie posizioni. Ma dovrebbe essere un’esperienza di apprendimento anche per gli analisti della difesa. Il conflitto dimostra che molte variabili determinano il corretto funzionamento di sistemi militari complessi e che le probabilità di fallimento sono molto alte. L’invasione, in altre parole, indica che gli Stati hanno bisogno di qualcosa di più di buone armi perché le loro operazioni abbiano una possibilità di successo. Gli esperti devono quindi pensarci due volte prima di prevedere che una guerra sarà veloce o che uno Stato avrà un vantaggio schiacciante.

    Questa lezione si applica a quasi tutti i conflitti. Ma è particolarmente importante quando gli analisti pensano a una guerra tra la Cina e gli Stati Uniti per Taiwan, che è sicuramente il conflitto globale potenziale più preoccupante. Una guerra nel Pacifico che coinvolga le due potenze potrebbe sembrare destinata a concludersi in tempi relativamente brevi, con il successo della conquista di Taiwan da parte della Cina o con una devastante reazione. Ma se si considera la complessità delle operazioni e si tiene conto delle variabili umane, diventa chiaro che un’invasione cinese di Taiwan sarebbe probabilmente prolungata. Per i cinesi, attaccare Taiwan significherebbe tentare, senza alcuna esperienza, una grande campagna aeronavale e persino un assalto anfibio di dimensioni storiche, senza dubbio l’operazione più difficile della guerra. Lo farebbero di fronte ad alcuni dei sistemi difensivi più avanzati al mondo e contro una popolazione che, come nel caso degli ucraini, sarebbe galvanizzata dal desiderio di salvare il proprio Paese. Sarebbe così difficile, infatti, che i cinesi potrebbero benissimo optare per un blocco aeronavale esteso intorno all’isola.

    Che si opti per un blocco o per una vera e propria invasione, i combattimenti si estenderebbero probabilmente su gran parte dell’Oceano Pacifico e le sfide logistiche sarebbero immense da tutte le parti. La guerra sarebbe tanto difficile per Washington quanto per Pechino. Gli Stati Uniti disporrebbero di alcune delle linee di rifornimento più lunghe al mondo, che si estenderebbero su tutto l’Oceano Pacifico, rendendole difficili da proteggere. Le forze americane dovrebbero operare relativamente vicino alla Cina continentale, rendendo le truppe statunitensi vulnerabili agli attacchi. Inoltre, gli Stati Uniti si troverebbero a combattere contro un nemico che non può essere conquistato e che ha le risorse industriali e tecnologiche per continuare a combattere per anni e anni.

    Una guerra tra Stati Uniti e Cina, quindi, non sarebbe né rapida né semplice. Non sarebbe decisa da una battaglia qui o da una battaglia là, o da quale Paese ha le armi più fantasiose. Sarebbe invece decisa dalla capacità di ciascuna parte di far funzionare sistemi militari complessi e di disporre di personale ben addestrato e motivato, potenzialmente per molto tempo. Qualsiasi Stato che stia contemplando un’azione militare nella regione dovrebbe rendersi conto di questi fatti e pensarci due volte prima di lanciare un conflitto.

    PHILLIPS O’BRIEN is Chair of Strategic Studies and Head of the School of International Relations at the University of St. Andrews.

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Russia Ucraina, il conflitto 42a puntata La complessità del conflitto Con Stefano Orsi e Max Bonelli

Il conflitto sta sempre più assumendo quelle caratteristiche di una guerra di logoramento ed annichilimento che l’esplicita indicazione delle condizioni russe di un accordo lasciava presagire. Sempre più è l’intero territorio ucraino ad essere coinvolto; sempre più probabile che dal conflitto ne uscirà uno stato ridimensionato nei suoi confini e prostrato nelle sue condizioni. Un regime orai sempre più ostaggio dei propri mentori e delle proprie ambizioni scioviniste del tutto disconnesse dalle sue reali capacità operative autonome. Il conflitto ucraino sta svelando al mondo che la NATO a guida statunitense non è invincibile, anche in campo aperto. Una perdita di autorevolezza che muoverà vorticosamente le attuali dinamiche geopolitiche. Giuseppe Germinario il sito www.italiaeilmondo.com ha aperto un canale telegram con una ampia disponibilità di filmati oltre ai consueti articoli ed interviste https://t.me/italiaeilmondo

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La Russia sta finalmente correggendo le false percezioni dei BRICS, di ANDREW KORYBKO

La Russia sta finalmente correggendo le false percezioni dei BRICS

ANDREW KORYBKO
3 AGO 2023
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È sempre stato irrealistico immaginare che i BRICS siano un’alleanza di Paesi completamente sovrani che si sono uniti per l’odio comune verso l’Occidente e che quindi stanno complottando per rovesciare il dominio del dollaro nel prossimo futuro, come sostengono alcuni dei principali influencer della comunità Alt-Media.

Molti esponenti della comunità Alt-Media (AMC) sono stati fuorviati da alcuni influencer di spicco e hanno immaginato che i BRICS siano qualcosa che non sono. In particolare, pensano che si tratti di un’alleanza di Paesi completamente sovrani che si sono uniti per l’odio comune verso l’Occidente, motivo per cui starebbero complottando per dare il colpo di grazia al dollaro in un futuro molto prossimo. Chi condivide osservazioni “politicamente scomode” come quelle contenute nelle analisi che seguono, di solito viene attaccato dall’AMC:

* “Le aspettative popolari sul nuovo progetto valutario dei BRICS dovrebbero essere mitigate”.

* “Il Sudafrica ha dimostrato che il BRICS non è quello che molti dei suoi sostenitori supponevano”.

* “I media alternativi sono sotto shock dopo che la Banca dei BRICS ha confermato di essere conforme alle sanzioni occidentali”.

* Spiegare le differenze tra Cina e India sull’espansione dei BRICS”.

La Russia sta finalmente correggendo le false percezioni sui BRICS in vista del vertice di questo mese, screditando così la narrazione dei principali influencer dell’AMC. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha recentemente confermato che esistono divergenze tra i suoi membri sull’espansione formale del gruppo, che la Russia è riluttante a condividere pubblicamente la sua posizione ufficiale su questo argomento delicato e che non c’è alcuna possibilità che i BRICS svelino una nuova valuta a breve. Ecco i resoconti della TASS su ciascun punto:

* “‘Esistono sfumature’ tra i membri dei BRICS riguardo alla potenziale espansione del gruppo – Cremlino”.

* “La Russia non si affretterà ad annunciare la sua posizione sull’espansione dei BRICS – Cremlino”.

* “La moneta comune dei BRICS è difficilmente realizzabile in tempi brevi – Cremlino”.

Estrapolandoli nell’ordine in cui sono stati condivisi:

* I BRICS sono effettivamente divisi tra coloro che vogliono cogliere il momento storico espandendo il blocco il più possibile da subito e coloro che ritengono che un ritmo più lento sia più allineato con i loro interessi comuni;

* la Russia sembra essere più favorevole al secondo approccio, altrimenti non si lascerebbe sfuggire l’opportunità di segnare punti politici nei confronti dell’Occidente, pubblicizzando l’espansione dei BRICS per preparare l’opinione pubblica globale a una presunta imminente nuova era di affari geoeconomici;

* e le naturali differenze del blocco tra i suoi diversi membri rendono estremamente improbabile che tutti accettino presto di cedere parte della loro sovranità economica promuovendo attivamente una nuova moneta a scapito delle rispettive valute nazionali.

Nulla di tutto ciò è sorprendente o il risultato dell’influenza occidentale, ma era del tutto prevedibile a causa delle dinamiche interne al gruppo BRICS e delle relazioni dei suoi membri con l’Occidente, che gli osservatori oggettivi comprendono bene ma di cui l’AMC è stata in gran parte all’oscuro, dal momento che alcuni influencer di primo piano hanno distorto e talvolta omesso i fatti relativi per promuovere la loro agenda. Ci sono sempre stati argomenti legittimi a favore e contro la rapida espansione di questo blocco e il ritmo con cui accelera i processi di multipolarità finanziaria.

Ad esempio, un’espansione troppo rapida rischia di indebolire il BRICS, poiché diventerà più difficile raggiungere il consenso, ma non sfruttare l’interesse di altri Paesi a partecipare alle sue attività rischia di sprecare questo momento storico, ergo la necessità di un compromesso come BRICS+. Lo stesso si può dire del ritmo con cui il BRICS accelera i processi di multipolarità finanziaria, dato che tutti i suoi membri, a parte la Russia, sono in rapporti di complessa interdipendenza economico-finanziaria con l’Occidente.

Sulla base di questa osservazione, tutti i membri dei BRICS, pur avendo un interesse comune a diversificarsi dal dollaro e dalla loro sproporzionata dipendenza dal commercio e dagli investimenti occidentali, intendono procedere in modo diverso. Dare un colpo mortale al dollaro e rovinare l’economia occidentale danneggerebbe i loro interessi e, anche se alcuni potrebbero pensare che questo sarebbe comunque utile alla Russia, si sbagliano perché la destabilizzazione economico-finanziaria che ne deriverebbe per Cina e India non è a suo favore.

Di conseguenza, è sempre stato irrealistico immaginare che i BRICS siano un’alleanza di Paesi completamente sovrani che si sono uniti per l’odio comune verso l’Occidente e che stiano quindi complottando per rovesciare il dominio del dollaro nel prossimo futuro, come sostengono alcuni dei principali influencer dell’AMC. L’unica ragione per cui questa falsa percezione è diventata virale è che il pubblico di riferimento non ne sapeva di più, dato che coloro di cui si fidavano hanno distorto e talvolta omesso i fatti relativi a questo fenomeno per promuovere la loro agenda.

Se non contrastate, le speranze irrealisticamente elevate che molti in tutto il mondo sono stati indotti a nutrire nei confronti dei BRICS li porteranno inevitabilmente a rimanere profondamente delusi dopo che il vertice del gruppo di questo mese non avrà soddisfatto le loro aspettative, rendendoli così suscettibili di suggerimenti ostili. Una massa critica di sostenitori del multipolarismo potrebbe quindi “disertare” dalle teorie cospirative del “piano scacchistico 5D” sui BRICS per abbracciare quelle “doom & gloom” (D&G) spinte dall’Occidente per demoralizzarli.

Col senno di poi, la Russia avrebbe dovuto gestire in modo proattivo le percezioni sui BRICS per evitare questo scenario con largo anticipo, ma stava dando priorità agli sforzi per proteggere la propria integrità di fronte all’attacco propagandistico senza precedenti dell’Occidente e non aveva abbastanza esperti a disposizione per farlo. Inoltre, fino a poco tempo fa non si era resa conto di quanto fossero imprecise le opinioni di molti sostenitori del multipolarismo su questo gruppo, ancora una volta per lo stesso motivo per cui ha esperti limitati e non può coprire tutto.

Questa intuizione spiega i tardivi tentativi della Russia di correggere queste false percezioni a sole tre settimane dal prossimo vertice. Potrebbe essere troppo poco e troppo tardi per impedire le “defezioni” di alcuni sostenitori del multipolarismo dal campo della cospirazione “5D chess” a quello “D&G”, come si può dire per l’arresto da parte della Russia, il mese scorso, del famigerato teorico della cospirazione “D&G” Igor Girkin, ma è meglio di niente e dimostra che il Cremlino è ora consapevole della minaccia posta ai suoi interessi di soft power da alcune teorie cospirative.

Quelle di Girkin sull’operazione speciale erano “non amichevoli”, mentre le teorie cospirazioniste dell’AMC sui BRICS sono “amichevoli”, ma entrambe manipolano la percezione dei sostenitori della Russia su questioni sensibili, portandoli a diventare sempre più lontani dalla realtà con il passare del tempo. C’è voluto un po’ di tempo, ma la Russia sta finalmente correggendo queste false percezioni e contrastando le teorie cospirative associate, e si spera che faccia tesoro di questo slancio per fare presto lo stesso anche su altre questioni sensibili.

I disaccordi espressi con rispetto e le critiche costruttive ben intenzionate dovrebbero essere sempre incoraggiate, ma distorcere e talvolta omettere i fatti per creare artificialmente una falsa percezione che favorisca un’agenda è inaccettabile e dovrebbe essere sempre contrastato. I principali influencer dell’AMC devono quindi decidere se svolgere il primo ruolo a sostegno degli interessi di soft power della Russia o continuare a svolgere il secondo, rimanendo così gli “utili idioti” dell’Occidente.

https://korybko.substack.com/p/russia-is-finally-correcting-false

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Ecco come la Polonia sta subdolamente prendendo il controllo dell’Ucraina occidentale, di ANDREW KORYBKO

Ecco come la Polonia sta subdolamente prendendo il controllo dell’Ucraina occidentale

ANDREW KORYBKO
28 LUGLIO 2023

Il suo potere politico è stato consolidato la scorsa estate dopo che la Rada ha concesso ai polacchi praticamente gli stessi diritti degli ucraini, in conformità con la promessa fatta da Zelensky a Duda nel maggio 2022, mentre l’aspetto economico è stato anticipato dall’apertura a metà luglio del primo ufficio del “Servizio di ricostruzione dell’Ucraina” a Lvov. Stando così le cose, non c’è nemmeno bisogno, a parte il prestigio, che la Polonia schieri formalmente truppe in Ucraina, anche se questo non significa che non accadrà.

Il “Servizio di ricostruzione dell’Ucraina” della Polonia

La plenipotenziaria polacca per la cooperazione allo sviluppo polacco-ucraina Jadwiga Emilewicz ha inaugurato il primo ufficio del “Servizio di ricostruzione dell’Ucraina” (URS) di Varsavia a Lvov il 17 luglio, in un evento che ha attirato scarsa attenzione da parte dei media internazionali al di fuori dei due Paesi. La Polskie Radio, finanziata con fondi pubblici, ha riferito qui del seminario che ha tenuto quel giorno sotto gli auspici dell’Istituto delle Imprese di Varsavia e di quello del giorno successivo nella vicina Lutsk, capoluogo della regione di Volyn.

In breve, la Emilewicz ha annunciato che presto verranno aperti altri uffici in Ucraina e che “stiamo preparando strumenti assicurativi e di credito per le aziende polacche”. Ha aggiunto che “vogliamo essere presenti sul territorio per sostenere gli imprenditori polacchi nello stabilire contatti e monitorare le esigenze di investimento… Stiamo creando una piattaforma di dialogo tra le imprese polacche e ucraine, coinvolgendo le istituzioni di sviluppo e le autorità nazionali e locali”.

Entrambi i seminari hanno visto la partecipazione di personalità influenti. Quello di Lvov ha visto la partecipazione del governatore regionale Maxim Kozitsky, che ha condiviso i dettagli delle attività dell’URS in quella regione sul suo canale Telegram qui. Nel frattempo, al seminario di Lutsk ha partecipato il capo dell’amministrazione militare della vicina regione di Rivne, Vitaly Koval, che ha invitato le aziende polacche a investire subito in quella regione. È importante notare che tutte e tre le regioni – Lvov, Volyn e Rivne – facevano parte della Polonia del periodo interbellico.

Due sviluppi interconnessi

Le attività di URS in queste zone dell’Ucraina occidentale, che la maggior parte dei polacchi considera ancora una parte inestricabile della loro civiltà millenaria, sono la naturale conseguenza di due sviluppi interconnessi avvenuti nel maggio 2022. Il Presidente polacco Andrzej Duda ha visitato Kiev e ha parlato alla Rada il 22 dello stesso mese, durante la quale lui e il suo omologo ucraino Vladimir Zelensky si sono impegnati ad accelerare l’integrazione globale dei loro Paesi.

Le trascrizioni integrali in lingua inglese dei loro discorsi possono essere lette sui rispettivi siti web presidenziali ufficiali qui e qui. Nell’ambito della presente analisi, il discorso di Duda è stato caratterizzato da una condivisione dei piani di miglioramento della connettività stradale, ferroviaria e di altre infrastrutture. Nel frattempo, Zelensky ha detto che creeranno un controllo congiunto dei confini e delle dogane. Ha anche dichiarato che Kiev darà ai polacchi praticamente gli stessi diritti che hanno gli ucraini nel suo Paese.

Inoltre, le osservazioni di Duda sul fatto che “il confine polacco-ucraino dovrebbe unire, non dividere” e quelle di Zelensky sul fatto che “non ci dovrebbero essere confini o barriere tra di noi” hanno suggerito fortemente l’intenzione di fondersi in una confederazione de facto, come è stato valutato in questa analisi all’epoca qui. Il giorno successivo, il 23 maggio 2022, Zelensky partecipò virtualmente al World Economic Forum (WEF) di Davos di quell’anno e tenne un discorso che può essere letto integralmente in inglese sul suo sito ufficiale presidenziale qui.

In quell’occasione ha annunciato che “offriamo un modello di ricostruzione speciale, storicamente significativo. Quando ciascuno dei Paesi partner o delle città partner o delle aziende partner avrà l’opportunità – storica – di assumere il patrocinio di una particolare regione dell’Ucraina, città, comunità o industria”. In sostanza, Kiev intende ripagare i suoi padroni concedendo loro privilegi postbellici nelle regioni che preferiscono, che nel caso della Polonia sono le parti dell’Ucraina occidentale che controllava.

Perfezionare i piani economici della Confederazione di fatto

Questi due sviluppi interconnessi del maggio 2022 hanno portato la Polonia ad aprire il suo primo ufficio URS a Lvov 14 mesi dopo. Sono stati quindi compiuti progressi tangibili nei piani sottilmente mascherati dei loro leader di fondersi in una confederazione di fatto attraverso il “modello speciale – storicamente significativo” che Zelensky ha descritto durante il suo discorso al WEF. Sebbene all’epoca Kiev abbia concesso alla Polonia il “patrocinio” sull’Ucraina occidentale, è stato necessario attendere fino ad oggi perché Varsavia avviasse il suo meccanismo economico associato.

Questo ritardo si spiega con la necessità di condurre studi sull’attualità e di riunire tutte le parti interessate, in modo che tutto possa procedere a un ritmo accelerato dopo l’apertura del primo ufficio URS. Il post di Kozitsky su Telegram citato in precedenza riguardava tre particolari progetti infrastrutturali che fanno avanzare la visione di Duda di snellire la connettività polacco-ucraina. Se abbinati ai piani per la creazione di uno spazio doganale condiviso, ciò equivale essenzialmente alla dimensione economica della loro confederazione de facto.

Le richieste di aiuti militari e garanzie di sicurezza della Polonia

Anche l’aspetto della sicurezza di questi piani sta avanzando. Nel marzo di quest’anno, il ministro delle Finanze polacco ha annunciato che Varsavia ha fornito all’Ucraina aiuti militari per circa 6,2 miliardi di euro nel 2022, facendo della Polonia il terzo finanziatore statale della guerra per procura tra NATO e Russia. Dall’inizio dell’operazione speciale russa sono circolate anche notizie di mercenari polacchi che combattono per Kiev, e il “Corpo dei volontari polacchi” si è persino preso il merito di un’incursione nella regione russa di Belgorod a maggio.

Le ripetute richieste della Polonia di “garanzie di sicurezza” per l’Ucraina potrebbero essere il filo conduttore per il dispiegamento formale delle sue forze convenzionali nel caso in cui queste venissero estese, sia a livello multilaterale attraverso la partecipazione di Varsavia a questo schema, sia a livello bilaterale con Kiev, anche se quest’ultimo è raggiunto in segreto. Il rapporto di Politico dello scorso novembre sull’accumulo militare senza precedenti della Polonia suggerisce che la Polonia sta pianificando di avere la capacità in eccesso necessaria per un dispiegamento estero su larga scala in futuro.

Verso un intervento convenzionale della Polonia in Ucraina

La spesa per la difesa sarà portata al 5% del PIL, avrà 300.000 soldati attivi entro il 2035 e sta acquistando miliardi di dollari in attrezzature moderne dagli Stati Uniti e dalla Corea del Sud. Tuttavia, la Polonia è un membro della NATO con garanzie di mutua difesa ai sensi dell’articolo 5 da parte della superpotenza nucleare americana, quindi tutti questi passi sono eccessivi se Varsavia volesse solo proteggersi da un ipotetico attacco russo. Questa osservazione suggerisce che la Polonia si sta effettivamente preparando per un intervento militare convenzionale in Ucraina.

Anche se ci vorranno ancora molti anni prima che completi i suoi ambiziosi piani militari, il fatto di essere un membro della NATO significa che la Polonia può in teoria dispiegare all’estero tutto ciò che è attualmente disponibile in patria senza temere un attacco da parte della Russia, poiché l’ombrello nucleare degli Stati Uniti impedisce che ciò accada. Le leadership russa e bielorussa stanno prendendo molto sul serio questo scenario, come dimostrano le dichiarazioni dei loro rappresentanti a fine luglio, pochi giorni dopo l’apertura del primo ufficio URS della Polonia a Lvov, il 17 dello stesso mese.

Russia e Bielorussia avvertono dei piani polacchi per l’Ucraina

Il capo dei servizi segreti russi Sergey Naryshkin ha messo in guardia dall’accumulo militare della Polonia vicino al confine ucraino il 21 luglio durante una riunione del Consiglio di sicurezza la cui trascrizione in inglese può essere letta integralmente sul sito ufficiale del Cremlino qui. “Putin ha esposto i piani regionali della Polonia nel tentativo di dissuaderli”, ma ha anche detto che “se [Kiev] vuole cedere o vendere qualcosa (alla Polonia) per pagare i suoi capi, come fanno di solito i traditori, sono affari loro. Noi non interferiremo”.

La sua unica linea rossa a questo proposito è che la Polonia non attacchi la Bielorussia, poiché ciò “significherebbe lanciare un’aggressione contro la Federazione Russa. Risponderemo con tutte le risorse a nostra disposizione”. Per quanto riguarda il membro dell’Unione, il Presidente Alexander Lukashenko ha visitato San Pietroburgo due giorni dopo, il 23 luglio, meno di una settimana dopo che la Polonia aveva aperto il suo primo ufficio URS. In quell’occasione, ha anche lanciato l’allarme sui piani della Polonia in osservazioni che possono essere lette sul sito ufficiale del Cremlino qui.

Il leader bielorusso, tuttavia, la pensa diversamente dal suo omologo russo, che lo ha definito “inaccettabile” per la minaccia alla sicurezza che potrebbe rappresentare per i confini meridionali dello Stato dell’Unione. A parte le divergenze di vedute, queste dichiarazioni confermano che le leadership russa e bielorussa ritengono che la Polonia potrebbe presto avviare un intervento militare convenzionale in Ucraina per integrare il suo controllo economico sulla parte occidentale del Paese.

Il pretesto che la Polonia potrebbe sfruttare per attuare i suoi piani egemonici potrebbe essere uno sfondamento russo attraverso la linea di contatto o un attacco a bandiera falsa contro i progetti polacchi nell’Ucraina occidentale, attribuito ai Wagner bielorussi, anche se sono possibili altri “eventi scatenanti”. C’è anche la possibilità che Kiev inviti apertamente questo intervento durante o dopo l’apparentemente inevitabile cessate il fuoco e/o i colloqui di pace con la Russia come parte di una “garanzia di sicurezza” bilaterale o multilaterale.

Riflessioni conclusive

Allo stato attuale, la Polonia ha già preso furbescamente il controllo dell’Ucraina occidentale senza dover sparare un colpo. Il suo potere politico è stato consolidato l’estate scorsa, dopo che la Rada ha concesso ai polacchi praticamente gli stessi diritti degli ucraini, secondo la promessa fatta da Zelensky a Duda nel maggio 2022, mentre l’aspetto economico è stato anticipato dall’apertura a metà luglio del primo ufficio dell’URA a Lvov. Stando così le cose, non c’è nemmeno bisogno, a parte il prestigio, che la Polonia schieri formalmente delle truppe in Ucraina.

Tuttavia, è proprio per questo motivo che potrebbe accadere, sia perché potrebbe aumentare le prospettive del partito al governo in vista delle elezioni del prossimo autunno, sia perché mostrerebbe al mondo che la Polonia sta ripristinando con successo il suo status di Grande Potenza, da tempo perduto. Detto questo, l’integrazione formale dell’Ucraina occidentale nella Polonia non è un fatto compiuto, anche se ciò accadesse, poiché rischierebbe di provocare un forte furore da parte delle forze nazionaliste su entrambi i lati del confine.

Tenendo conto di queste preoccupazioni, che hanno implicazioni politiche molto serie e anche di sicurezza latente, lo scenario di formalizzare un giorno l’attuale confederazione polacco-ucraina de facto è molto più realistico di quello di Varsavia che morde la parte occidentale dell’ex Repubblica sovietica. In questo modo si raggiungerebbe lo stesso obiettivo strategico di espandere la “sfera di influenza” della Polonia in una porzione del suo ex Commonwealth senza rischiare grossi contraccolpi. A dire il vero, questo scenario potrebbe essere inevitabile.

03https://korybko.substack.com/p/heres-how-poland-is-slyly-taking

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La realtà vorrebbe dire la sua, di Aurelien

La realtà vorrebbe dire la sua.
Chiamata per Tom e Daisy Buchanan

AURELIEN
2 AGO 2023

In precedenti saggi ho parlato delle carenze della Casta Professionale e Manageriale (PMC) internazionale. Questa non è un’altra diatriba contro di loro (cerco di evitare le diatribe, se possibile), ma piuttosto una riflessione su alcune delle ragioni per cui hanno fatto un tale pasticcio del mondo, e su ciò che potrebbe accadere ad esso, e a loro, come risultato. Se la vostra definizione di “speranza” include la progressiva scomparsa della PMC, o almeno una massiccia riduzione della sua influenza, allora questo saggio ha una certa lievitazione di speranza qualificata, poiché credo che la PMC abbia effettivamente esaurito la sua strada in un’ampia varietà di settori.

In un precedente saggio, ho parlato dell’infantilizzazione di gran parte della cultura politica occidentale oggi, anche nel caso di argomenti seri come l’Ucraina. Credo che questo sia in gran parte colpa della PMC, una casta per la quale nulla è mai completamente reale, gran parte della vita è un gioco o un modello matematico, o una serie di numeri in un rapporto, e dove è sempre possibile abbandonare le cose quando vanno male, e ricominciare da capo. Come casta, sono fondamentalmente frivoli, per quanto si prendano sul serio, e, come i bambini, non vogliono mai assumersi la responsabilità o la colpa di nulla. La loro casta è protetta non solo dal denaro (comprende, ad esempio, docenti universitari mal pagati), ma anche da una forte disciplina ideologica, da legami di istruzione, esperienza, collaborazione professionale e persino familiari. Chiude i ranghi istintivamente contro persone come voi e me.

Soprattutto, è una casta che è stata educata a pensare allo stesso modo (o se pensate che “pensare” sia troppo generoso, a dire e credere le stesse cose). Questo avviene in parte all’università, naturalmente, ma anche nelle scuole di business e negli MBA più avanti negli anni, nelle “conferenze” e nei “seminari” e nei corsi per “giovani leader”. Anche in questo caso, “educazione” è forse la parola sbagliata, perché tradizionalmente implica la trasmissione della conoscenza, che non è una priorità per le sedicenti istituzioni di apprendimento di questi tempi. Mi è venuta piuttosto in mente la Teoria dell’adolescenza permanente del romanziere e critico Cyril Connolly, basata sulle sue riflessioni sul periodo trascorso a Eton. Egli sosteneva che le esperienze vissute dai ragazzi nei loro anni formativi nella scuola pubblica inglese erano così intense da dominare le loro vite e arrestare il loro sviluppo, e che questo fatto spiegava molto della società britannica del suo tempo. Ammettendo che gli studenti universitari di oggi si trovino più o meno allo stesso livello di sviluppo intellettuale e personale dei coetanei di Connolly a Eton, credo che l’analogia sia utile: la PMC internazionale è talmente segnata dall’eterna adolescenza dei sistemi educativi moderni che il suo sviluppo è essenzialmente arrestato lì. Allo stesso modo, ciò che lega i suoi membri non è l'”istruzione” che ricevono, che spesso è sommaria, ma gli atteggiamenti sociali, i contatti personali e l’ideologia di cui si nutrono, dato che tutte le università occidentali si assomigliano sempre più.

Allo stesso modo, ai tempi di Connolly, si accettava che le scuole pubbliche non servissero principalmente a impartire conoscenze, ma a “formare il carattere”, attraverso la disciplina, i giochi di squadra e l’inculcazione di un’etica cristiana del servizio. Non è un’educazione che vorrei aver ricevuto, ma bisogna ammettere che i suoi alunni hanno continuato a combattere e morire in guerra, a scalare montagne, a esplorare parti lontane del mondo, a contribuire alla gestione del Paese e, in alcuni casi, a intraprendere carriere intellettuali di rilievo, come Connolly e il suo esatto contemporaneo George Orwell. Le università e le business school d’élite della PMC svolgono oggi più o meno la stessa funzione sociale: oggi si può decorare il proprio discorso non con riferimenti classici ma con cliché da IdiotPol, ma lo scopo della propria formazione è ancora quello di garantire che si parli la lingua del potere e che si venga riconosciuti. Ma d’altra parte, essere un ministro junior, un mediatico o un funzionario di una ONG non è proprio come scalare una montagna, comandare una nave da guerra o lavorare con i partigiani nell’Europa occupata.

Naturalmente, le università non sono sempre state come sono ora. Si pensi che anche quaranta o cinquant’anni fa erano destinate alla minoranza di studenti con un’inclinazione intellettuale che volevano approfondire gli studi. Molte lauree erano di tipo professionale (medici, avvocati, ingegneri, persino teologi) e altre servivano a formare i futuri insegnanti in quella che già allora stava diventando una professione da laureati nella maggior parte dei Paesi. Altre costituivano una formazione intellettuale generale per coloro che sarebbero andati a ricoprire incarichi governativi e amministrativi, e altre ancora mantenevano l’arredo intellettuale generale della nazione: dall’archeologia alla zoologia. Molti altri giovani si accontentavano di entrare subito nel mondo del lavoro, mentre altri seguivano apprendistati tecnici. La maggior parte delle lauree aveva un’applicazione pratica: anche gli economisti studiavano in gran parte il funzionamento dell’economia. Ma molte persone non laureate potevano e hanno fatto ottime carriere.

La frequenza di massa all’università è un’idea recente e le sue origini sembrano essere diverse nei vari Paesi. Nei Paesi anglosassoni viene generalmente liquidata come un racket finanziario, e in parte lo è, ma dovrebbe anche essere vista come una tipica misura neoliberale: una laurea è qualcosa che si dovrebbe avere il diritto di possedere se si può pagare o prendere in prestito il denaro per conseguirla. (Si basa anche sulla (falsa) premessa che l’istruzione di per sé sia sufficiente per la crescita economica e la prosperità). Ma in altri Paesi, dove l’istruzione universitaria è ancora effettivamente gratuita, l’obiettivo è molto più quello di nascondere gli altissimi livelli endemici di disoccupazione giovanile. In Francia, ad esempio, dove il superamento del Baccalaureato dà diritto a un posto all’università, il “Bac” stesso è stato talmente svalutato, al fine di aumentare il livello di superamento e quindi il numero di studenti all’università, che gli studenti di oggi a diciotto anni sono indietro di due o tre anni rispetto ai loro omologhi di cinquant’anni fa (poiché i libri di testo sono prescritti a livello nazionale, è possibile misurare questo declino in modo oggettivo su un periodo di tempo).

La frequentazione massiccia delle università, spesso senza un corrispondente aumento del personale docente, e il passaggio al lavoro occasionale degli insegnanti universitari in molti Paesi, significa che in termini di qualità le lauree non possono più essere quelle di una volta. Ma significa anche che i diplomi devono essere cuciti insieme in modo che gli studenti meno intellettuali possano superarli, e tali diplomi, ovviamente, diventano più popolari tra gli studenti in generale perché sono meno difficili. Negli ultimi decenni si è assistito a un’esplosione di lauree in materie come le Relazioni Internazionali, gli Studi Culturali e gli Studi Commerciali (il prototipo di laurea PMC), il cui contenuto intellettuale effettivo è spesso trascurabile e che non fornisce ai suoi studenti PMC gli strumenti per fare qualcosa. Naturalmente, i laureati in PMC di questi corsi, con magari un anno post-laurea in una Business School o un Master in Diritto dei Diritti Umani, scivolano senza sforzo verso lavori di gestione, ONG, politica e amministrazione, dove non è richiesta la conoscenza della materia, ma dove le abilità sociali, il networking e il senso di superiorità che deriva da un’educazione costosa garantiscono il successo. La maggior parte delle persone che hanno lavorato in grandi organizzazioni possono raccontare storie dell’orrore di questi idioti con credenziali che hanno rovinato team e organizzazioni per stupidità e ignoranza. Ma questo è il PMC per voi.

Queste persone si riconoscono dal loro vocabolario dichiarativo e dai loro atti performativi, che sono in gran parte conseguenza di un’educazione che privilegia il conformismo e penalizza il pensiero originale. In questo senso, le università sono in gran parte una continuazione dell’infanzia. In passato, a partire dal Medioevo, l’università era l’ambiente in cui i giovani più intellettuali crescevano, sia intellettualmente che personalmente, sapendo che non tutte le loro esperienze sarebbero state felici. L’idea moderna che la vita non sia una sfida da affrontare, ma una minaccia da cui i bambini devono essere protetti, trova la sua naturale conclusione nel prolungamento dell’infanzia fino all’università, dove gli studenti si aspettano di essere protetti da qualsiasi cosa negativa possa accadere loro e di veder assecondate le loro debolezze intellettuali.

Il risultato, come confermerà chiunque abbia a che fare con le università di oggi, è la crescita esplosiva dei “servizi agli studenti”, destinati a perpetuare il ruolo dei genitori assenti nella vita di uno studente. Come nel caso dei genitori, i risultati sono spesso contrastanti e incoerenti, e a volte le diverse ingiunzioni sono difficili da conciliare tra loro. Nella maggior parte delle università di cui ho avuto esperienza, i requisiti accademici sono trattati con una certa flessibilità, mentre i codici sociali (spesso non scritti, o almeno interpretati in modo molto libero) sono applicati in modo molto più rigido. Il plagio o la copia possono comportare un avvertimento, se si ha una buona scusa, mentre una parola fuori posto dopo un bicchiere di troppo può essere la fine della carriera universitaria. Non si tratta di uno sproloquio sui giovani d’oggi (non faccio sproloqui): In realtà mi dispiace per alcuni studenti che ho incontrato, che hanno scelto di rimanere nel sistema universitario a un livello superiore alle loro reali capacità o necessità, perché non si sentono pronti ad affrontare il mondo esterno, ma hanno paura di commettere un errore che potrebbe portare alla loro espulsione da esso. E ho incontrato amministratori che non sapevano più cosa fare con loro. Nessun insegnante vuole che i suoi studenti falliscano, e molti studenti oggi vogliono avere successo, ma l’università riconfigurata dalla PMC rende la vita di entrambi più difficile del necessario. E il PMC è contento di questo: accetta che, per ottenere la propria perpetuazione, le istituzioni debbano essere rovinate e che la maggior parte di coloro che vi sono coinvolti debbano soffrire. A sua volta, questo atteggiamento riflette un approccio essenzialmente adolescenziale e frivolo alla vita, con la garanzia di impunità per le proprie azioni come un bambino assecondato.

La PMC non ha alcun interesse nella trasmissione della conoscenza a qualsiasi livello: anzi, la conoscenza può essere una minaccia, perché crea centri di potere separati con una propria legittimità. Così abbiamo visto la PMC abbracciare e soffocare settori come quello dell’assistenza medica, essenzialmente sminuendo ciò che non può capire (le complicate questioni mediche) ed enfatizzando ciò che può capire (le presentazioni in Powerpoint dei risultati finanziari). Dopo tutto, è abbastanza facile far venire medici e infermieri dall’estero, no? Finché non lo è. Allo stesso modo, il governo può essere ridotto a obiettivi, politiche dichiarative, azioni performative e tweet, perché il governo non è fondamentalmente serio, vero? Finché non lo è. Soprattutto, anche se il PMC accetta che le persone che sanno davvero le cose e possono farle sono effettivamente necessarie, cerca di mantenere le distanze da loro. Un professore di diritto dei diritti umani è accettabile, un procuratore di reati finanziari no.

Con il passare del tempo, i più ambiziosi e aggressivi tra i laureati della PMC sono andati a ricoprire ruoli importanti nelle istituzioni, spesso in lavori che in passato non esistevano, perché non erano considerati necessari. (È stato ampiamente notato che nella stessa settimana in cui è iniziata la guerra in Ucraina, la NATO ha nominato un responsabile della diversità a tempo pieno. Le priorità vanno rispettate, dopotutto, e la NATO, come tutte le organizzazioni, in realtà non fa nulla, è solo una scatola di giocattoli con cui giocare). E usano queste posizioni di potere per diffondere la loro ideologia, attraverso “workshop” e “corsi di formazione” obbligatori, spesso dedicati a temi che non hanno alcuna esistenza oggettiva.

Questa insensibilità deriva in parte dal rafforzamento ideologico collettivo (consumare gli stessi media, rispecchiare le opinioni altrui, tenere a distanza di sicurezza i punti di vista alternativi), in parte dal senso di impunità (c’è sempre un altro lavoro da qualche parte se sbagli) e in parte dal potere che il PMC internazionale ha di imporre la propria ideologia e coprire i propri errori. È, in effetti, l’impunità di ogni classe dirigente corrotta della storia. Per esempio, anche se non avete mai letto Il grande Gatsby, probabilmente vi sarete imbattuti in questa citazione:

“Erano persone sbadate, Tom e Daisy: distruggevano cose e creature e poi si ritiravano nei loro soldi o nella loro grande sbadataggine, o in qualunque cosa li tenesse insieme, e lasciavano che altri rimediassero al disordine che avevano combinato”.

Che è più o meno la storia delle élite, storicamente. Tom e Daisy erano protetti da qualcosa di più del denaro: avevano posizione sociale, reti, “educazione” e soprattutto la “grande noncuranza” di Fitzgerald: erano così sicuri della propria superiorità che non si curavano molto della gente comune. Questa è la PMC di oggi: il pericolo principale che rappresentano per persone come voi e me è la fatale fiducia collettiva e radicata che loro e le loro idee non possano mai sbagliare, e che alla fine nulla sia mai veramente serio. Se rompono qualcosa, non importa.

Ho già fatto l’esempio delle università, ma in realtà l’atteggiamento del PMC nei confronti di tutte le istituzioni è che sono (a) luoghi in cui possiamo creare posti di lavoro per persone come noi e (b) oggetti interessanti su cui fare esperimenti socio-politici. Le scuole sono un caso simile, purché siano scuole di altri. Quindi il PMC è ancora ipnotizzato dal tremolio delle braci morenti dell’ideologia della de-scolarizzazione degli anni Sessanta. L’educazione come repressione, la libertà di apprendimento dei bambini, l’abbattimento della gerarchia insegnante-alunno in un’esperienza di co-apprendimento in cui non ci sono risposte sbagliate. (Quando negli anni ’70 le persone cercavano di convincermi che l’educazione fosse una forma di violenza, chiedevo loro cosa pensassero dell’ignoranza).

Non sarebbe interessante e divertente, pensavano alcuni decenni fa, applicare alcune di queste idee e vedere cosa succede? Ok, le persone noiose che sanno davvero le cose ci dicono che questo ha portato a un calo catastrofico delle capacità di lettura e scrittura della gente comune, e che i datori di lavoro non riescono a trovare personale che sappia leggere abbastanza bene da impilare gli scaffali dei supermercati. Ma bisogna ammettere che si tratta di un’idea interessante e che comunque non siamo responsabili delle conseguenze. Un tempo la sinistra, che considerava l’istruzione una causa sacra, sarebbe intervenuta per opporsi a questi esperimenti, ma la moderna sinistra nozionistica non ha più una base di classe di massa e quindi non ha bisogno né vuole un elettorato istruito, perché si è defilata per unirsi al PMC diversi decenni fa. Così l’educazione dei bambini comuni diventa un teatro di sperimentazione performativa per assicurarsi tweet di approvazione. Le autorità francesi, di fronte al continuo declino degli standard educativi, qualche anno fa hanno deciso che il vero problema era… “l’omofobia” nelle scuole, e che quindi ci doveva essere “tolleranza zero” per essa, tranne quando proveniva da genitori di stretta fede musulmana, perché razzismo. Credo che stiano ancora cercando di risolverlo, ma è una questione che riguarda gli insegnanti mal pagati delle aree più difficili, che devono affrontare le conseguenze pratiche. Progettiamo subito una nuova campagna contro la “transfobia” nelle scuole, con seminari obbligatori per gli insegnanti. Inutile dire che questa grande disattenzione non si estende ai loro figli, che vengono educati in istituti tradizionali con una disciplina rigida e metodi di insegnamento antiquati. E così il divario tra l’educazione ricevuta dai figli della PMC e quella dei figli della gente comune cresce ogni anno.

Naturalmente non c’è niente di più divertente e interessante che rifare le società degli altri. Questo gioco ha l’ulteriore vantaggio che tutto ciò che si distrugge dovrà essere ripulito da altre persone di altri Paesi. Esiste infatti un’intera classe itinerante di “esperti” di PMC che si spostano da un Paese in crisi all’altro, lasciando dietro di sé una scia di rottami, a volte caos politico, a volte veri e propri rottami. Molti anni fa, mezzo addormentato all’aeroporto di Vienna una mattina presto, in attesa di una coincidenza per Sarajevo, ho visto seduto di fronte a me un giovane serio con un’elegante valigetta con il logo della Missione delle Nazioni Unite in Cambogia, senza dubbio diretto a creare scompiglio in una delle innumerevoli organizzazioni internazionali che cercano di rifare la Bosnia secondo i loro desideri. E da allora il numero di queste persone si è moltiplicato, girando per il mondo e lasciando una scia di distruzione normativa che Tom e Daisy non avrebbero mai potuto immaginare. Poiché la PMC non sa davvero nulla di nulla, i suoi rappresentanti trattano le altre nazioni, soprattutto quelle deboli in conflitto, come una scatola di mattoncini Lego da sistemare in una configurazione normativa piacevole, senza conseguenze. Quando Kabul è caduta in mano ai talebani, un paio di anni fa, non ho potuto fare a meno di pensare alla delegazione del Ministero degli Affari Femminili (creato dall’Occidente e finanziato dall’Occidente) e delle ONG associate finanziate dall’Occidente che avevo ospitato una volta: tutte donne della classe media con istruzione occidentale, che generalmente parlavano inglese. Spero che siano riuscite a correre abbastanza velocemente.

“Normativo” è la parola giusta. Poiché l’educazione della PMC non implica effettivamente l’apprendimento di qualcosa di utile, i suoi rappresentanti mostrano un’enorme disattenzione nei confronti di ciò che accade realmente sul campo: tutto ciò che chiedono è che ciò che è accaduto possa essere presentato come un successo, o almeno come un’interessante esperienza di apprendimento, dimostrando che “le misure del successo” devono essere più “granulari”, o che “è necessario un migliore coordinamento tra le parti interessate” o infine che “il nostro messaggio deve essere più mirato”. Ma non c’è, e non può esserci, alcuna accettazione del fatto che le loro idee possano essere sbagliate, perché sono per definizione normativamente corrette.

Questo non vuol dire che il PMC abbia un’ideologia organizzata: tutt’altro. Quello che ha è una serie di slogan normativi vagamente liberali, ognuno dei quali appartiene a una particolare lobby, che a volte si scontrano l’uno con l’altro. In passato, ad esempio, il PMC era banalmente antimilitarista, senza sapere nulla di questioni militari. Oggi è banalmente (e aggressivamente) militarista, senza aver imparato nulla sulle questioni militari nel frattempo. Quindi, poiché c’è una necessità normativa identificata dal PMC di “salvare” una popolazione da qualche parte che i media dicono essere a rischio, allora bisogna inviare forze anche se non esistono. In questo modo di pensare, i conflitti e persino la guerra non sono fondamentalmente seri. Minacciare la guerra contro la Russia e la Cina è solo una posizione retorica, come un tweet: non implica che qualcosa di serio accadrà davvero. Se succede, beh, è laggiù e non ci riguarda. Allo stesso modo, la PMC sembra credere contemporaneamente che le donne siano una forza di pace e che quindi debbano essere rappresentate in modo sproporzionato nei negoziati sui conflitti, ma anche che le donne siano in grado di combattere e uccidere tanto quanto gli uomini, e che debbano essere promosse alle più alte posizioni di comando in combattimento. Ma gli eserciti, come tutte le organizzazioni, sono essenzialmente decorativi e poco seri: non importa come funzionano, l’importante è il loro aspetto.

In Francia, di recente, le organizzazioni femministe hanno esercitato un’intensa attività di lobbying per ottenere maggiori risorse da destinare alla violenza contro le donne da parte della polizia (che altre parti del PMC francese nel frattempo liquidano come irrimediabilmente razzista e vogliono abolire). Ma hanno taciuto sulla terribile aggressione e mutilazione di una ragazza adolescente in una zona povera di Tolosa, avvenuta di recente per aver indossato abiti troppo succinti, perché gli aggressori erano… beh, potete immaginare da quale comunità provenissero. Nel frattempo, alcune femministe della comunità degli immigrati hanno esortato le vittime di violenza domestica a non denunciare la violenza alla polizia perché ciò potrebbe “stigmatizzare” gli immigrati nel loro complesso. E così via, ma le contraddizioni dell’ideologia del PMC non derivano dall’ipocrisia in quanto tale (anche se questa è sempre un problema in politica), ma piuttosto da un’incoerenza di pensiero e da un’ampia disattenzione sul fatto che i diversi slogan siano o meno in conflitto tra loro. Le conseguenze pratiche di queste confusioni, dopo tutto, devono essere risolte da altri.

Prima che tutto ciò inizi a sembrare troppo deprimente, ricordiamo che la PMC non è così potente come sembra, perché alla fine non sa nulla e non può fare nulla. Se vogliamo, è uno Stato che ha il monopolio formale della forza, ma la cui polizia è in gran parte non addestrata e non è in grado di affrontare i criminali gravi. In effetti, per la sua sopravvivenza la PMC dipende dalla polizia vera e propria, che nella maggior parte dei Paesi è impegnata ad alienare e che in ogni caso non morirà per proteggere i suoi lussuosi appartamenti.

Inoltre, se non si può fare appello ai loro sentimenti più sottili (poiché gli ideologi sono generalmente irraggiungibili in questo modo), si può sperare di vederli scomodati o addirittura spaventati, e in alcuni casi questo sembra accadere, poiché argomenti che prima erano chiusi contro le polemiche hanno iniziato ad aprirsi. Un esempio è quello dell’immigrazione.

Diciamo che venticinque anni fa, quando studiavamo diritto dei diritti umani, abbiamo scritto una relazione di fine corso molto apprezzata sul diritto intrinseco dei cittadini di qualsiasi Paese di vivere in qualsiasi altro Paese, ed è sempre stato ovvio che questo deve essere normativamente corretto. L’immigrazione di massa deve anche essere una buona cosa dal punto di vista pragmatico: più ristoranti etnici, prezzi più bassi con una forza lavoro meno costosa, facile accesso alle pulizie e a persone disposte a lavorare in orari non sociali. È vero che, già all’epoca, gli esperti sottolineavano i pericoli dell’importazione massiccia di società con costumi e valori molto diversi, scaricate in aree povere già prive di risorse, che spesso non parlavano la lingua madre e portavano con sé reti religiose e criminali, nonché l’assoluta necessità di fornire risorse massicce per assimilare ed educare queste persone. Ma ricordiamo di aver sostenuto nel nostro articolo che l’Occidente aveva un imperativo categorico kantiano ad accettare queste persone, e c’era qualcosa in Kant sul fatto che tali imperativi fossero automaticamente possibili, o qualcosa del genere, non è vero? Ad ogni modo, nei commenti settimanali antirazzisti che scriviamo per un mezzo di comunicazione adiacente al PMC, di solito sosteniamo qualcosa del genere. I dettagli devono essere risolti da altri: il nostro compito è solo quello di individuare gli obblighi morali da imporre loro.

Ma le cose potrebbero cambiare un po’. Cara, l’Agenzia ha telefonato per dire che la nostra donna delle pulizie non può più venire. A quanto pare il marito ha subito molte pressioni da parte dei nuovi vicini per non permettere alla moglie di andare a lavorare fuori, e non so dove troveremo qualcuno che venga fino in centro a pulire il nostro appartamento di 150 metri quadrati. Sì, caro, e il ristorante che ci piace in piazza non apre più il sabato sera: ci sono stati troppi disordini e violenze a causa delle lotte tra bande di spacciatori. Che fine ha fatto il mondo? E il direttore del supermercato locale ha detto che ora dovranno chiudere alle 20, perché gli autisti degli autobus si rifiutano di andare in periferia di notte per paura di essere attaccati, e quindi il personale non può tornare a casa. È una vera sofferenza.

Nulla di tutto ciò è inventato, tra l’altro. Anche se per il momento il PMC è stato in grado di imporre una rigida disciplina ideologica alle discussioni sui recenti disordini in Francia, la sua presa sul discorso si sta chiaramente indebolendo, e altrettanto chiaramente sta iniziando ad avere paura di se stesso. Una buona guida è la sezione dei commenti dei lettori di Le Monde agli articoli che dicono che è tutta colpa della violenza della polizia blah blah blah del razzismo strutturale blah blah, e che in generale sono stati assolutamente sprezzanti. E Le Monde ha la reputazione di censurare i commenti più critici, quindi il cielo sa come erano. Quando hai perso i lettori di Le Monde …. Nel frattempo, gli intrepidi esploratori dei media adiacenti al PMC, che si avventurano nelle aree ad alta densità di immigrati, riferiscono con toni scioccati, scioccati, che molti degli abitanti del luogo, provenienti da famiglie di immigrati, stanno pensando di votare per la Le Pen come l’unica in grado di trovare una via d’uscita dall’attuale situazione.

Poi c’è tutta quella roba degli studi critici, che ha creato tanti dipartimenti universitari e tanti buoni posti di lavoro per il PMC nell’amministrazione universitaria, dove non è necessario sapere nulla, ma che fungono da trampolino di lancio per acquisire potere anche su altre istituzioni. Ma all’improvviso, sembra che i nostri figli prendano sul serio tutta questa roba del Gender: non vogliono più avere relazioni, perché alle ragazze è stato insegnato che gli uomini sono intrinsecamente aggressivi e violenti, e ai ragazzi è stata imposta la paura di essere accusati di queste cose. A entrambi è stato insegnato che tutte le relazioni umane sono solo lotte di potere e che si tratta di chi ha il controllo. Non è mai stato questo il piano, e la nostra vasta compiacenza sugli effetti di questo insegnamento sta venendo meno. Qualcuno dovrebbe risolvere la questione. E questa faccenda del cambio di sesso, che era così bella quando la leggevamo nei romanzi sulla cultura di Iain Banks, si rivela un po’ più complicata nella vita reale: suicidi e altro. E poi, naturalmente, c’è Covid, dove il PMC, che ha bisogno che Covid finisca per poter fare il brunch, si è improvvisamente reso conto che Covid ha un proprio punto di vista sull’argomento, e che dichiarare che qualcosa è finito non significa effettivamente che lo sia. Chi l’avrebbe mai detto?

All’estremo opposto, c’è la questione della guerra, del conflitto, della pace e dell’uso della violenza. Come ho detto sopra, il PMC contiene idee irrimediabilmente contrastanti su questi argomenti, a volte sostenute dalla stessa persona a giorni alterni, ma ciò che distingue il PMC nel suo complesso è, in primo luogo, la totale ignoranza delle questioni militari e, in secondo luogo, la forte convinzione che la loro ignoranza non abbia importanza. Nient’altro può spiegare la spaventosa alienazione dalla realtà delle élite politiche e mediatiche di oggi: evidentemente hanno imparato alla Business School che la domanda crea la propria offerta (ora non ricordo i dettagli) e sembrano sinceramente credere che basti annunciare una nuova divisione corazzata per far sì che gli imprenditori si attivino per aprire fabbriche che consegnino carri armati entro la fine dell’anno, e che un esercito possa essere creato da un giorno all’altro se si paga abbastanza.

Le sanzioni, che sono normativamente giuste a prescindere dalle conseguenze, sono qualcosa che abbiamo imparato al corso di diritto internazionale e sono un’idea davvero interessante. Sì, potrebbero esserci delle conseguenze per le nostre popolazioni, le nostre economie e le nostre industrie, sì, le cose potrebbero andare in frantumi, ma poi ci ritiriamo nella nostra grande negligenza e lasciamo che siano gli altri a occuparsi delle conseguenze. Finché, naturalmente, le conseguenze non iniziano a colpirci personalmente, in modo inequivocabile, come penso accadrà.

Il PMC può pensare solo in modo normativo e in termini astratti, da cervello sinistro. L’Ucraina sta vincendo perché ci sono delle ragioni. Se l’Ucraina non sta vincendo, ciò implicherebbe che le idee normative che guidano il PMC devono essere sbagliate, e questo è impossibile. Quindi l’Ucraina sta vincendo. Ancora più importante, la Russia deve perdere, e qualsiasi forza che lo renda possibile, compresi i macho con tatuaggi nazisti, deve essere sostenuta. Poiché questa casta vive in un mondo in cui il discorso è l’unica realtà, come hanno imparato da qualche parte all’università, non ricordo bene i dettagli, sono cresciuti con l’idea che il controllo del discorso significa controllo della realtà. Ripetete dopo di me: questi non sono tatuaggi nazisti. Quando la verità è troppo dolorosa da gestire, si cerca di cancellarla e se non funziona si trova uno spazio sicuro da qualche parte. Il problema è che, mentre questo approccio può funzionare in un sistema, come quello universitario, in cui si ha un controllo pratico totale, non può funzionare quando il mondo reale bussa alla tua porta e devi fare qualcosa.

Cosa che accade sempre più spesso. Siamo arrivati al punto in cui negare l’esistenza dei problemi e imporre il silenzio a chi si controlla non basta più a contenere il problema. È ora che la PMC cresca, ma non credo che sia in grado di farlo. A livello individuale, la maggior parte di queste persone non è molto temibile: sono troppo inconsistenti per essere malvagi, troppo infantili per essere sinistri. Come classe, sono uniti contro gli estranei, ma al di là di questo, non c’è letteralmente nulla che li unisca se non un vasto compiacimento nei confronti di tutti e di tutto il resto. Ma non è certo che gli affari del mondo occidentale siano mai stati gestiti da una casta di persone più superficiali, più insicure e più immature.

Il che mi ha fatto pensare, come si fa, a un altro romanzo ambientato in una società altrettanto rarefatta e pubblicato più di un secolo prima di quello di Fitzgerald. Mi riferisco a Les Liaisons dangéreuses di Pierre Choderlos de Laclos (negli anni Ottanta ne è stata fatta una versione cinematografica in lingua inglese con Glenn Close). La storia riguarda due aristocratici malvagi, il visconte di Valmont e il marchese di Merteuil. Il Marchese convince il Visconte a sedurre Cécile, un’adolescente di un convento che sta per sposarsi con il Conte di Gercourt, perché Gercourt è un ex amante con cui lei ha litigato. (La rappresentazione glaciale e virtuosa di un mondo di manipolazione rituale degli altri e di vuoto edonismo seriale ricorda stranamente quella del romanzo di Fitzgerald, soprattutto per il senso di assoluta impunità di cui godono tutti i personaggi principali. Seducono le persone e distruggono le loro vite, lasciando che siano gli altri a rimediare al disastro. (Cécile alla fine fugge in convento). Formano una casta, come i personaggi di Fitzgerald, che si difende dagli estranei, ma dove tutti sembrano impegnati a sfruttare gli altri (il marchese si diverte a torturare le ex amanti nella speranza che lei le riprenda, per esempio).

Si è tentati di vedere la PMC di oggi come una sorta di versione adolescenziale da bar dell’aristocrazia europea della fine del XVIII secolo, che parla una lingua comune, isolata dal contatto con la gente reale, che si sposta da un paese all’altro, educata ora in università d’élite piuttosto che da precettori privati e in Grand Tour. E naturalmente l’aristocrazia del romanzo di Laclos ha fatto una brutta fine, una manciata di anni dopo la sua pubblicazione nel 1782.

Tuttavia, Laclos stesso non sembra aver anticipato la Rivoluzione e, sebbene i suoi personaggi principali facciano entrambi una brutta fine, non è per ragioni politiche, così come l’inutile omicidio di Gatsby alla fine del romanzo non è in realtà il prodotto di nulla se non della gelosia e dell’incomprensione. Quindi, se da un lato si è tentati di fantasticare su una rivoluzione che spazzerà via dal potere questa casta, dall’altro la loro fine effettiva (che credo si stia avvicinando) sarà probabilmente più banale e meno brusca.

Come ho già sottolineato in precedenza, non esiste un’ideologia o un movimento in attesa in grado di prendere il posto del PMC, né esistono strutture intermedie che possano organizzare la sua caduta e la sua sostituzione. È un peccato, perché in effetti il PMC è vulnerabile e sarebbe un bersaglio facile da spazzare via. Penso piuttosto che un po’ alla volta, persona per persona e istituzione per istituzione, la PMC comincerà a crollare sotto lo stress di situazioni che non possono essere ridotte a tweet e slide di Powerpoint. Dove troverete i politici in grado di guardare negli occhi una Russia forte e potente e di rispondere con concessioni realistiche e promesse di buona condotta piuttosto che con facce sciocche e insulti? Dove troverete gli opinionisti dei media che spiegheranno che il riscaldamento globale non è quello che vorremmo, ma quello che è e che dovremo fare? Quanto dureranno ancora i gruppi per i “diritti umani” che ci dicono che i governi non devono costringere le persone a fare qualcosa per evitare la diffusione di Covid?

In passato abbiamo assistito alla sostituzione totale delle classi dirigenti. Qui non credo sia possibile. Ma non vedo nemmeno conversioni damascene. Se sei un esperto di diritti umani normativi che ha passato vent’anni a dare lezioni ai governi di tutto il mondo su come dovrebbero comportarsi, cosa farai quando queste idee saranno brutalmente messe da parte mentre la civiltà occidentale lotta per sopravvivere? Beh, suppongo che si possa andare a lavorare in un supermercato, ma è discutibile che molte persone di questo tipo abbiano le qualifiche pratiche per farlo.

Ci saranno lacrime prima di andare a dormire.

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SITREP 8/1/23: L’Egemone inizia a disfarsi, di SIMPLICIUS THE THINKER

L’Africa occidentale si prepara a una guerra regionale, di ANDREW KORYBKO

Questo sito ha sottolineato da oltre due anni la possibilità che l’Africa, in particolare l’area sub-sahariana, possa diventare l’epicentro di un confronto militare tra i paesi europei dell’area mediterranea, con l’eventuale contributo della Germania, da una parte e la Cina e la Russia dall’altra. E’ la stessa inerzia delle dinamiche geopolitiche scatenate dagli Stati Uniti a trascinare in quell’imbuto i tre principali paesi latini:

  • l’assoggettamento europeo sempre più passivo alle mire oltranzistiche e belliciste statunitensi verso Russia e Cina
  • la scarsa rilevanza militare dell’Europa nello scacchiere indo-pacifico e il suo residuo retaggio di dominazione e di interessi in Africa utile a spostare parzialmente l’area operativa del conflitto in zone che eluderebbero il confronto diretto tra superpotenze dall’esito ancora troppo incerto e catastrofico
  • la caduta verticale di autorevolezza e credibilità dell’intero campo occidentale in quell’area
  • l’impostazione manichea delle relazioni con quei paesi sui presupposti di un conflitto religioso e di un confronto tra democrazie-dittature i quali sono stati la maschera e il veicolo di conflitti di natura prevalentemente tribale; un paradosso che ha lasciato in mano russa e cinese il pallino del sostegno alla formazione di veri stati nazionali fondati sull’esercito.

La prosopopea nazionale e nazionalista con la quale il governo Meloni sta cercando di ammantare la propria sudditanza e la propria totale accondiscendenza all’avventurismo della leadership statunitense si rivelerà ben presto un velo insufficiente a coprire la propria dabbenaggine tale da azzerare la residua credibilità che l’Italia era riuscita a costruire nel primo trentennio del secondo dopoguerra e già duramente compromessa dall’intervento in Libia e dal Governo Draghi in particolare. Non potremo nemmeno più assumere la veste presentabile delle peggiori interferenze occidentali. Giuseppe Germinario

L’Africa occidentale si prepara a una guerra regionale
ANDREW KORYBKO
1 AGOSTO

Gli ultimi eventi non ispirano fiducia sulla possibilità di evitare una guerra più ampia in Africa occidentale, ed è per questo che tutti dovrebbero prepararsi allo scoppio di una guerra entro la fine del mese. Se l’ECOWAS, sostenuta dalla NATO e guidata dalla Nigeria, non sconfiggerà rapidamente la neonata coalizione saheliana composta da Burkina Faso, Mali e Niger (con la Guinea che potrebbe unirsi a loro in qualche modo), si prevede che la Russia sosterrà concretamente quest’ultima, dando vita a un conflitto per procura della Nuova Guerra Fredda in cui il Ciad potrebbe essere l’artefice.

Il colpo di stato militare patriottico della scorsa settimana in Niger, attuato in risposta all’incapacità del regime precedente di garantire la sicurezza dei cittadini di fronte alle crescenti minacce terroristiche, si sta rapidamente trasformando nel catalizzatore di quella che potrebbe presto diventare una guerra regionale in Africa occidentale. I Paesi si stanno schierando in vista dell’ultimatum della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS), che scade questa domenica, per reintegrare il presidente estromesso Mohamed Bazoum o affrontare quella che probabilmente sarà un’invasione guidata dalla Nigeria e sostenuta dalla Francia.

Sintesi del contesto

Ecco alcune analisi rilevanti per aggiornare tutti:

* “Il colpo di stato nigeriano potrebbe cambiare le carte in tavola nella nuova guerra fredda”.

* Il presidente ad interim del Burkina Faso ha detto ai suoi colleghi di smettere di essere burattini dell’imperialismo”.

* L’Occidente vuole che la Nigeria invada il suo vicino settentrionale”.

* Interpretare la risposta ufficiale della Russia al golpe nigeriano

* Un ex senatore nigeriano ha condiviso 13 ragioni per cui il suo Paese non dovrebbe invadere il Niger”.

Due nuovi sviluppi rendono il rischio di guerra uno scenario molto reale.

Una diplomazia infruttuosa ha portato a minacce di guerra ed evacuazioni di emergenza

Il Burkina Faso e il Mali, i cui presidenti ad interim sono stati portati al potere da colpi di stato militari patriottici e hanno recentemente partecipato al secondo vertice Russia-Africa la scorsa settimana a San Pietroburgo, hanno dichiarato congiuntamente lunedì sera che un intervento in Niger sarebbe stato considerato come una dichiarazione di guerra contro entrambi. Si sono inoltre impegnati a ritirarsi dall’ECOWAS se ciò dovesse accadere. Qualche ora dopo, martedì mattina, la Francia ha annunciato l’evacuazione d’emergenza dei cittadini dell’UE dal Niger, lasciando intendere di aspettarsi una guerra.

Il presidente ciadiano ad interim Mahamat Idriss Deby Itno, anch’egli salito al potere in circostanze simili a quelle dei suoi colleghi saheliani, pare non sia riuscito a mediare un compromesso come aveva cercato di fare durante la sua visita alla capitale nigeriana di Niamey. Sebbene il suo Paese non faccia parte dell’ECOWAS, coopera strettamente con il Niger e la Nigeria contro la comune minaccia terroristica di Boko Harm. Il Ciad è anche una potenza militare regionale che potrebbe rivelarsi l’artefice di questo potenziale conflitto, come verrà spiegato in seguito.

Forze straniere in Niger

Prima di condividere alcune previsioni di scenario e le relative variabili che possono dare forma alla traiettoria di questo probabile conflitto, è importante toccare alcuni altri dettagli regionali, a cominciare dalla presenza di forze straniere in Africa occidentale. Il Niger ospita attualmente truppe francesi, statunitensi, tedesche e italiane e la sua giunta ha affermato lunedì che Parigi sta cospirando con i lealisti dell’ex regime per coordinare gli attacchi aerei volti a liberare il leader estromesso del Paese, detenuto nel palazzo presidenziale.

La Federazione di fatto burkinabé-maliana

Il prossimo dettaglio da menzionare è che il Burkina Faso e il Mali stanno seriamente prendendo in considerazione la possibilità di fondersi in una federazione, di cui il presidente ad interim Ibrahim Traore ha recentemente parlato in un’intervista a Sputnik. Questi piani, che sono stati ventilati per la prima volta a febbraio, aggiungono un contesto cruciale alla loro dichiarazione congiunta di lunedì sera, secondo cui considereranno un’invasione del Niger come una dichiarazione di guerra contro entrambi e accorreranno di conseguenza in difesa del Paese vicino.

La posta in gioco della Guinea nel gioco regionale

A questo proposito, nello stesso mese in cui hanno presentato i loro piani di federazione, i due Paesi hanno iniziato a esplorare il potenziale di cooperazione trilaterale con la vicina Guinea. Il Paese è sotto governo militare dalla fine del 2021 ed è stato sospeso dall’ECOWAS proprio come i due Paesi per lo stesso motivo. Tutti sono vicini alla Russia, quindi la Guinea, che confina con l’Atlantico, potrebbe in teoria servire a Mosca per rifornire i suoi partner senza sbocco sul mare, a meno che, naturalmente, l’ECOWAS e/o i suoi signori occidentali non la blocchino.

Il fattore Libia

A prescindere dal fatto che ciò accada o meno, il vicino libico del Niger potrebbe svolgere un ruolo complementare nel rifornire la neonata coalizione saheliana. Il leader del Consiglio presidenziale Mohamed Yunus al-Menfi ha anche partecipato al secondo vertice Russia-Africa della scorsa settimana e ha incontrato il Presidente Putin, durante il quale il leader russo si è impegnato a “promuovere ulteriormente i progressi sui binari chiave della soluzione basata sugli sforzi per garantire l’unità, la sovranità e l’integrità territoriale dello Stato libico”.

Questi tre obiettivi sono rilevanti se si considera che la dichiarazione congiunta burkinabé-maliana avverte che un’invasione del Niger “potrebbe destabilizzare l’intera regione, come ha fatto l’intervento unilaterale della NATO in Libia, che è stato alla base dell’espansione del terrorismo nel Sahel e nell’Africa occidentale”. La loro valutazione condivisa è accurata e può servire da pretesto alla Russia per aumentare gli aiuti militari a loro e al Niger attraverso la Libia, quest’ultima estremamente fragile e che potrebbe essere destabilizzata anche da questa guerra imminente.

Potenziali ponti aerei russi

Sebbene al momento non esista un ponte aereo conveniente tra la Russia e la Libia, il circuito russo-siriano attraverso il Caspio, l’Iran e l’Iraq potrebbe essere ampliato attraverso il Mediterraneo orientale dopo il rifornimento di carburante nella Repubblica araba per servire questo scopo. Se l’Arabia Saudita e il Ciad, di recente orientamento multipolare, accettano di concedere alla Russia i diritti di transito aereo, si potrebbe creare un altro corridoio attraverso l’Iran, l’Arabia Saudita, il Sudan e il Ciad per eludere le possibili interferenze della NATO nel Mediterraneo.

Quest’ultima rotta, tuttavia, non può essere data per scontata, dopo che il Sudan ha nuovamente esteso la chiusura dello spazio aereo fino a metà agosto. Sebbene il Vice Presidente del Consiglio di Sovranità Transitorio del Sudan abbia appena guidato la delegazione del suo Paese in Russia, la giunta militare che rappresenta è ancora coinvolta in un sanguinoso conflitto con le Forze di Supporto Rapido, legate a Wagner, per cui la fiducia non è così forte come un tempo. Inoltre, il Ciad ha mantenuto una posizione riservata nei confronti del Niger, e a ragione.

Calcoli strategico-militari del Ciad

Questa potenza militare regionale deve evitare di esporsi eccessivamente di fronte alle complesse minacce interne e internazionali, le prime delle quali riguardano i ribelli anti-governativi e i Rivoluzionari del Colore, mentre le seconde coinvolgono ribelli e terroristi con base all’estero e il rischio di ricadute di conflitti regionali. Dall’inizio di quest’anno, inoltre, il Ciad sta cercando di riequilibrare le sue relazioni sbilanciate con l’Occidente, il che comporta alcune pressioni che potrebbero limitare la sua gamma di opzioni in caso di crisi regionale.

Le dieci variabili principali

Lo stato degli affari strategico-militari descritto fino a questo punto pone le basi per la previsione di scenari, anche se il lettore dovrebbe ricordare che le dinamiche caotiche di ogni conflitto significano che anche le previsioni più convincenti potrebbero alla fine non realizzarsi. Detto questo, questo tipo di esercizi di riflessione sono comunque utili se si basano sulle relazioni oggettivamente esistenti tra le parti in causa e sui loro calcoli più probabili, basati sulla comprensione dei rispettivi interessi.

Tutti gli scenari dipendono da variabili, le più pertinenti in questo contesto sono le seguenti:

1. La Nigeria accetterà di eseguire gli ordini dell’Occidente guidando l’invasione del Niger da parte dell’ECOWAS?

2. Il Ciad si unirà alla Nigeria, giurerà di difendere il Niger, giocherà a fare il kingmaker in un secondo momento o rimarrà completamente fuori dal conflitto?

2. Che ruolo avranno le forze occidentali in Niger se la Nigeria invaderà il Paese?

3. Attaccherebbero le forze burkinabé-maliane intervenute o queste ultime potrebbero attaccarle per prime?

4. Quanto è probabile che altri Stati dell’ECOWAS attacchino e/o invadano il Burkina Faso e/o il Mali?

5. Quanto sono preparate militarmente, economicamente e politicamente tutte le parti regionali per un conflitto prolungato?

6. Su quali corridoi logistici potrebbero contare gli alleati stranieri e quali ostacoli potrebbero impedirli?

7. Una guerra più ampia in Africa occidentale si trasformerà in un altro conflitto per procura della Nuova Guerra Fredda?

8. In che modo le tensioni tra NATO e Russia in Africa occidentale potrebbero influenzare la guerra per procura in Ucraina?

9. Altri Stati africani si sentiranno incoraggiati a risolvere militarmente i propri problemi regionali?

10. Quale ruolo potrebbero svolgere Paesi neutrali come Cina e India nell’inevitabile processo di pace?

Da quanto detto sopra, si possono prevedere i seguenti scenari, ma nessuno di essi è ovviamente garantito:

———-

1. Conflitto limitato (scenario rapido)

* La Nigeria sconfigge rapidamente la giunta nigeriana e i suoi alleati burkinabé-maliani all’interno del Niger con/senza il supporto di Francia-Stati Uniti (forze aeree e/o speciali) e/o del Ciad (aria e/o terra), lasciando intatti Burkina Faso e Mali con i rispettivi governi provvisori a guida militare.

2. Conflitto allargato (Scenario Swift)

* Con l’appoggio diretto della Francia e/o degli Stati Uniti e possibilmente con un certo livello di sostegno ciadiano, la Nigeria guida una forza d’invasione dell’ECOWAS che deposita rapidamente i governi provvisori a guida militare burkinabé, maliana e nigeriana, ripristinando così la “sfera d’influenza” appena persa da Parigi in Africa occidentale.

3. Conflitto limitato (scenario prolungato)

* Il Niger diventa un conflitto per procura della Nuova Guerra Fredda, poiché l’invasione del Paese da parte dell’ECOWAS a guida nigeriana non riesce a deporre la giunta a causa dell’accanita resistenza delle forze burkinabé-maliane sostenute dalla Russia.

4. Conflitto allargato (scenario prolungato)

* I blocchi summenzionati rimangono invariati, così come la situazione di stallo e lo status di neutralità del Ciad, ma la portata del conflitto si espande fino a includere la Federazione burkinabé-maliana de facto, il che incoraggia l’Egitto a intervenire in Sudan e il Ruanda a fare lo stesso in Congo, scatenando così una crisi di portata africana.

———-

La “gara logistica”/”guerra di logoramento” tra NATO e Russia in Ucraina influenzerà il sostegno che queste ultime daranno ai rispettivi alleati dell’Africa occidentale nei due scenari prolungati e potrà anche influenzare la loro decisione di provocare uno stallo in uno dei due teatri della Nuova Guerra Fredda. Ci si aspetta che Cina, India e altri importanti Paesi neutrali come la Turchia intervengano diplomaticamente anche in questi scenari prolungati, anche se è impossibile a questo punto prevedere il loro successo.

Queste coppie di scenari comportano anche grandi rischi per la stabilità della Nigeria, poiché potrebbero portare a crisi economiche e di sicurezza a cascata, che si combinerebbero in una gravissima crisi politica se gli scioperi dei lavoratori paralizzassero il Paese e se i ribelli e/o i terroristi sfruttassero la ritrovata attenzione delle forze armate per il Niger. Per essere chiari, nulla di tutto ciò è garantito, ma non si può nemmeno escludere, vista la fragilità della Nigeria. Un pantano nigeriano potrebbe quindi portare a conseguenze imprevedibili e forse di vasta portata per il Paese.

Riflessioni conclusive

Gli ultimi eventi non ispirano fiducia sulla possibilità di evitare una guerra più ampia in Africa occidentale, ed è per questo che tutti dovrebbero prepararsi allo scoppio di una guerra entro la fine del mese. Se l’ECOWAS, sostenuta dalla NATO e guidata dalla Nigeria, non sconfiggerà rapidamente la neonata coalizione saheliana composta da Burkina Faso, Mali e Niger (a cui potrebbe unirsi in qualche modo anche la Guinea), si prevede che la Russia sosterrà concretamente quest’ultima, dando vita a un conflitto per procura della Nuova Guerra Fredda, in cui il Ciad potrebbe essere l’attore principale.

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IL CLIMA IN VALLE D’AOSTA, di Augusta Vittoria Cerutti

L’emergenzialismo è una modalità di governo. Nei momenti di aperta conflittualità e di profonda trasformazione diventa la modalità di governo di élites spesso in crisi di autorevolezza e credibilità. Il tema delle variazioni climatiche, nella loro versione attribuita a cause prevalentemente o esclusivamente antropiche, sarà uno dei motivi conduttori necessari ad alimentare il clima emergenzialista in attesa e propedeutici ad emergenze politiche estreme, queste sì legate alle dinamiche sociali. Il sistema mediatico eserciterà, come d’abitudine, la funzione di strillone. L’emergenzialismo climatico vive di un paradosso: riconosce il dramma di una situazione sfuggita di mano e attribuisce allo stesso tempo all’uomo la facoltà di onnipotenza che gli permetterebbe di risolvere tali crisi. Le implicazioni sono enormi e contraddittorie:
  • da una parte si esorcizza l’intervento dell’uomo, dall’altra se ne omette le possibilità pragmatiche di adattamento, intervento e trasformazione dell’ambiente, dall’altra ancora si stigmatizza sterilmente nelle sue caratteristiche distruttive il suo intervento
  • si confonde l’aspetto climatico con quello ecologico ed ambientale
  • si tende a generalizzare temi che andrebbero trattati pragmaticamente e localmente secondo le diverse realtà e variazioni sulla superficie terrestre
  • si trasforma il tema delle trasformazioni climatiche ed ambientali, di per sé politico, in una strumentalizzazione rozza del confronto geopolitico e politico-sociale e in una criminalizzazione dell’avversario politico e di eventuali untori colti all’occasione
  • paradossalmente, d’altro canto, tende a nascondere la natura politica e geopolitica della gestione delle risorse ambientali, come quella delle acque
  • riporta in auge, in contrapposizione al produttivismo positivista, in termini allarmistici, il tema malthusiano dell’inesorabile ed imminente esaurimento delle risorse terrestri che prescinde dalle potenzialità dello sviluppo scientifico e tecnologico e dalla necessità di una gestione equilibrata delle fasi di transizione.

L’articolo qui sotto, ripreso significativamente da una sede istituzionale, vuole essere un ennesimo contributo di riflessione. Giuseppe Germinario

IL CLIMA IN VALLE D’AOSTA
di Augusta Vittoria Cerutti

L’allarme del IPCC

Quattro millenni fa il ghiacciaio del Ruitor non esisteva e al suo posto vi era un lago poi trasformatosi in torbiera ed ora ricoperto dalla coltre glaciale. Ogni tanto, però parti di quella torba vengono trascinati dai movimenti del ghiacciaio fino alla fronte. Essa fornisce un prezioso materiale di studio per conoscere il passato delle nostre montagne.Da alcuni anni a questa parte le variazioni climatiche sono diventate oggetto di preoccupato interesse da parte dei mas-media e dell’ opinione pubblica. Grande impatto ha avuto la diffusione di modelli computerizzati di simulazione climatica proposti dall’Intergovemental Panel on Climate Change (IPCC), ente creato dall’ONU nel 1988 per studiare l’attuale cambiamento climatico. Allarma il fatto che per la prima volta nella storia del Pianeta, nel corso del XX secolo l’uomo, a causa dell’industrializzazione, dei trasporti e dei riscaldamenti è giunto a produrre un inquinamento atmosferico tale da modificare la composizione chimica dell’aria.
Nell’atmosfera vengono immessi grandi quantità di gas provenienti dalla combustione di carbone e petrolio utilizzati per produrre energia. Questi gas, fra cui vi è l’anidride carbonica (CO2), hanno il potere di intercettare il calore oscuro irradiato dalla superficie terrestre dopo il tramonto del sole; per questa loro proprietà simile all’effetto dei vetri di una serra, vengono detti “gas serra”. Essi, ostacolando il raffreddamento notturno che dovrebbe equilibrare la temperatura atmosferica, provocano un progressivo aumento di calore. Gli scienziati dell’IPCC attribuiscono a questo meccanismo la causa essenziale dell’attuale fase di riscaldamento e per il futuro prevedono un continuo aggravarsi della situazione, dato l’attuale trend di sviluppo tecnologico e demografico. L’aumento esponenziale della CO2 porterebbe ad una sempre maggiore intensità dell’effetto serra con un conseguente progressivo riscaldamento climatico accompagnato da apocalittici sconvolgimenti degli attuali equilibri idrologici ed ecologici .
L’effetto serra è certamente una realtà ma è noto che fra i gas presenti nell’aria il maggior responsabile è il vapor acqueo che si produce spontaneamente in natura; l’incremento dell’anidride carbonica dovuta alle attività umane certamente altera un equilibrio pre-esistente, ma in quale misura? Nel mondo scientifico il dibattito su questo interrogativo è assai vivace; molti sono gli esperti che ritengono non corretto basare unicamente sull’incremento dell’anidride carbonica le simulazioni computerizzate della futura evoluzione dell’ambiente (NOTA 1).
L’inquinamento prodotto dall’uomo è certamente un grave danno ecologico con effetti pesantemente nocivi su tutti gli organismi viventi e come tale deve essere combattuto con il massimo impegno. Ma il riscaldamento climatico globale molto probabilmente ha origini diverse.
Meteorologia e Climatologia sono due scienze complementari ma la prima richiede un approccio mentale analitico, la seconda sintetico. La Meteorologia analizza il “tempo che fa” ossia i fenomeni atmosferici attualmente in atto; la Climatologia riflette sulla interazione che in lunghi periodi si instaura fra i diversi fenomeni atmosferici e come questa interazione si rifletta sull’ambiente influenzando gli aspetti del paesaggio e le attività delle popolazioni.
Le cause delle variazioni climatiche per ora sfuggono all’indagine scientifica; molti fatti però tendono a collegarle alla circolazione atmosferica generale che sarebbe responsabile del movimento delle grandi masse d’aria, le une più calde, le altre più fredde, posizionate in diverse zone del Pianeta.

Clima e ghiacciai

La Climatologia non dispone di strumenti capaci di registrare l’interagire dei diversi elementi atmosferici in lunghi tempi ma il clima proprio di ciascuna regione geografica si evidenzia nella natura e nell’aspetto del manto vegetale spontaneo e nel comportamento dei ghiacciai.
La valle d’Aosta è un vero e proprio museo di climi grazie al suo territorio grandemente esteso in altitudine ed ha attualmente più di 200 ghiacciai che si espandono su una superficie di circa 135 chilometri quadrati. Studiando nei vari periodi lo spostamento in altitudine dei limiti climatici dei grandi insiemi vegetali (i coltivi, i boschi e i pascoli) e l’evoluzione degli apparati glaciali possiamo agevolmente ricostruire la storia del clima e di conseguenza anche quella dell’ambiente e delle attività umane che in esso hanno avuto vita.
Da una ventina di anni a questa parte i ghiacciai valdostani sono entrati in una accentuata fase di contrazione, come pressoché tutti quelli delle Alpi e delle altre catene montuose del mondo. È la conseguenza del riscaldamento globale.
Le variazioni glaciali sono strettamente legate a quelle del clima in quanto il ghiaccio di ghiacciaio altro non è che neve trasformata. Nelle zone più alte, ove la temperatura è pressoché sempre sotto lo zero, si formano i bacini di alimentazione; qui la neve che si accumula di anno in anno si trasforma lentamente in ghiaccio a causa della progressiva compressione. La massa glaciale a poco a poco scivola verso valle alimentando i bacini ablatori, vale a dire le parti degli apparati che, essendo poste a quote inferiori a quella del limite climatico delle nevi perenni, sono sedi di processi di fusione.
Quando il clima è freddo e nevoso il limite climatico delle nevi perenni è relativamente basso, nei bacini di alimentazione si raccoglie molta neve e si forma più ghiaccio di quanto ne fonda nei bacini ablatori: i ghiacciai entrano allora in fase di espansione aumentando di lunghezza e di volume. Se invece il clima si riscalda o le nevicate si fanno meno copiose, il limite delle nevi si innalza provocando contemporaneamente una minore produzione di ghiaccio e un più intenso processo di fusione; di conseguenza i ghiacciai entrano in fase di contrazione lineare e volumetrica. È appunto quanto sta accadendo in questi due ultimi decenni .
Il monitoraggio dei ghiacciai effettuato dai primi decenni del XX° secolo dal Comitato Glaciologico Italiano e dal 2002, per quelli valdostani dalla Cabina di Regia dei ghiacciai della Fondazione Montagna Sicura, evidenzia dati preoccupanti: negli ultimi venti anni le lingue vallive dei ghiacciai più grandi si sono raccorciate di diverse centinaia di metri e ancora più grave è la riduzione volumetrica degli apparati messa in luce da bilanci di massa fortemente negativi i quali indicano che la quantità di neve accumulata nella stagione fredda è molto inferiore alla quantità di ghiaccio che fonde in quella calda.
Il comportamento dei ghiacciai quindi conferma il riscaldamento climatico globale.
In base ai dati dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale si constata che negli ultimi centocinquanta anni la temperatura media sulla Terra è cresciuta di circa 0,7 °C; nella zona alpina l’aumento è alquanto maggiore giungendo a circa 1 °C (NOTA 2). Sono valori piuttosto modesti ma le conseguenze si prospettano preoccupanti soprattutto se si accertasse che l’attuale riscaldamento è conseguenza dell’attività umana e che di conseguenza il suo trend sarebbe destinato non soltanto a proseguire nel futuro ma addirittura ad ingigantirsi.
Qualcuno considera addirittura l’attuale accentuato ritiro dei ghiacciai come un sintomo di esser giunti al punto di non ritorno!
Uno studio serio e sistematico delle variazioni glaciali e delle variazioni climatiche ci porta a considerazioni assai meno allarmistiche.
Prima di tutto i vent’anni di osservazioni su cui si basano i modelli computerizzati dell’IPCC sono assolutamente troppo pochi per ritenere di aver colto i fattori di fenomeni tanto complessi quali sono le variazioni climatiche le quali si svolgono sempre in periodi di tempo plurisecolari.
Se – come richiesto dalla climatologia – prendiamo in considerazione l’intero XX secolo, ci troviamo immediatamente di fronte a fasi di espansione glaciale, che, ovviamente si effettuarono in concomitanza di periodi caratterizzati da un clima fresco e nevoso, chiaramente documentato dai dati dell’osservatorio meteorologico del Gran San Bernardo e da quelli di molti altri sparsi in tutto il mondo (vedi tabella nella pagina precedente).

Eppure fin dai primi decenni del ‘900 l’industrializzazione dell’Euro-pa Occidentale era notevolmente sviluppata e si basava prevalentemente sull’uso di grandi quantità di carbon fossile. Le emissioni di CO2 fin da allora erano considerevoli eppure i ghiacciai alpini una prima volta fra il 1910 e il 1923 e una seconda fra il 1960 e il 1985, (quindi nella immediata vigilia dell’attuale episodio di riscaldamento) aumentarono grandemente di volume e allungarono le lingue vallive di diverse centinaia di metri.
Questi due periodi freschi e nevosi verificatisi in piena era industriale ci pongono di fronte a un interrogativo di base: in quale misura i processi climatici possono essere influenzati dall’azione umana?

Ottomila anni di variazioni climatiche in Valle d’Aosta

Il ghiacciaio di Pré-de-Bard durante la Piccola età glaciale, al culmine della sua espansione storica, Rigorosi studi di climatologia storica la giovane disciplina che Emanuel Le Roi Ladurie definì “Le nouvel domaine de Clio”, ci portano a riconoscere nel corso degli ultimi 8000 anni, numerose variazioni climatiche, tutte di durata plurisecolare (NOTA 3).
Le specifiche ricerche si valgono di studi sui sedimenti marini e continentali, sulle oscillazioni del livello marino, sulle variazioni lineari e volumetriche dei grandi ghiacciai, sui pollini fossili; sui cerchi di accrescimento di alberi plurisecolari. Le più avanzate metodologie permettono di correlare gli isotopi dell’ossigeno presenti nei sedimenti o nel ghiaccio antico dei grandi ghiacciai, con le condizioni termiche del momento in cui è avvenuta la sedimentazione o si è formato il ghiaccio. Nello stesso modo, la dendrocronologia, mediante lo studio dei rapporti fra gli isotopi dell’ossigeno, del carbonio, e dell’azoto che costituiscono la sostanza legnosa di tronchi millenari, può valutare la temperatura che caratterizzava il periodo in cui andavano formandosi i singoli cerchi di accrescimento. Il radiocarbonio permette oggi di datare i resti organici per cui con la collaborazione di tutte queste ricerche è stato possibile, ormai da qualche decennio conoscere con ragionevole sicurezza le caratteristiche cronologiche del clima negli ultimi 8000 anni, malgrado che solo dalla fine del XVIII secolo si disponga di misure strumentali di temperature e di precipitazioni.
D’altra parte sul territorio valdostano e in tante altre parti del mondo sono rimaste testimonianze che mal si accordano con l’ambiente climatico attuale come il ritrovamento di antichi ceppi di conifere centinaia di metri più in alto dell’attuale limite climatico del bosco.
L’archeologia scopre che l’Aosta romana fra il I e il V secolo d.C. era una città popolosa, dalla vita elegante e raffinata. Ma – ci chiediamo – donde poteva venire il reddito capace di sostenere l’alto tenore di vita che l’archeologia ci attesta?
Nei duemila anni di storia valdostana si alternano momenti fulgidi e momenti oscuri; i primi si accompagnano regolarmente a intensi traffici attraverso gli alti valichi, i secondi al languire di questa attività (NOTA 4). È ovvio però chiedersi come potessero fiorire i traffici transalpini se solo fra fine giugno e il principio di ottobre i valichi del Piccolo San Bernardo (2180 m) e del Gran San Bernardo (2470 m) fossero stati allora liberi dalla neve come accade oggi. È noto infatti che le carovane someggiate non possono transitare su strade innevate ma gli attuali tre mesi estivi sono un periodo di attività annuale troppo breve per spiegare la grandiosità dell’Aosta romana e di quella medioevale, la “pulcelle” dei Conti e Duchi di Savoia fra il XII e il XVI secolo. Qualche cosa di fondamentale deve essere cambiato nel lungo arco di tempo della nostra storia (NOTA 5).
Oggi sappiamo che è cambiato il clima, che più volte si sono verificate variazioni climatiche di durata plurisecolare, tali da mutare l’ambiente e influenzare profondamente la vita e l’attività delle popolazioni.
Si è accertato che trattasi di variazioni di temperatura e di piovosità che possono apparire minimi: da uno a quattro gradi centigradi delle temperature medie annue e di un 20% o 30% della quantità di precipitazioni. Ma se le precipitazioni annue per qualche decina di anni da una media di 700 mm si riducono a 500 mm, mettono in crisi l’agricoltura, mentre ne aumentano il rendimento se si accrescono a 900 mm. Una nevosità più o meno abbondante sui valichi determina un periodo più o meno lungo di fruizione delle alte vie transalpine con conseguenze economiche e sociali di grande importanza. Una variazione di temperatura di due gradi centigradi, se si protrae per qualche decennio, sposta di circa 300 metri di altitudine i limiti climatici delle colture, dei boschi dei pascoli e delle nevi perenni. Una variazione “fredda” di quella entità può privare di risorse alimentari le popolazioni che vivono sul limite climatico delle colture mentre, al contrario una variazione “calda” può migliorare grandemente il loro ambiente di vita.

La cronologia del clima europeo e le testimonianze sul territorio valdostano

Il ghiacciaio di Pré de Bard in fase di contrazione, ripreso nel 2004 dallo stesso punto di vista utilizzato dall’artista del secolo XIX.Fra il 5000 e il 1400 a.C. il nostro clima era caratterizzato da una temperatura di almeno 4 °C superiore all’attuale.
Questo periodo, il più caldo degli ultimi 8.000 anni, viene designato con il termine scientifico di optimum climatico assoluto del Post-glaciale.
In montagna, i limiti climatici del bosco, del pascolo, delle nevi persistenti, con temperature annue di almeno 4°C superiori alle attuali si innalzano di quasi 700 metri. Nella nostra regione in quel lontano periodo il bosco saliva almeno fino ai 2600 metri di altitudine, il pascolo si portava attorno ai 3200 metri sul livello del mare e il limite delle nevi persistenti addirittura a 3600-3700. Il grande ghiacciaio del Ruitor che domina la conca di La Thuile, allora non esisteva perché la quota massima delle creste rocciose che delimitano il suo circo è inferiore a quella che in quel lontano periodo aveva il limite delle nevi perenni e pertanto l’innevamento del territorio doveva essere solo stagionale. Il bacino però era occupato da un lago in cui vegetavano piante palustri che con il tempo si trasformarono in torba. Alcuni millenni più tardi, nel 1500 a.C. si instaurò un clima freddo; l’innevamento del circo divenne perenne e si formò il grande ghiacciaio che ricoprì la torbiera. Dal 1975 parte di questa torba viene spinta a valle dal movimento del ghiacciaio dando così modo ai ricercatori di raccoglierne campioni e di studiarli. La datazione al radiocarbonio, fatta per conto del Politecnico di Torino, ha rilevato un’età assoluta di 6.500 anni per gli strati più antichi; di 3500 per quelli più recenti, confermando in pieno il quadro climatico che emerge da indagini fatte in altri luoghi e con altre metodologie (NOTA 6). Questo periodo corrisponde alle età umane del Neolitico e dell’eneolitico.
Nella torba del Ruitor, che sappiamo essersi originata ad una quota largamente superiore ai 2500 metri, vi è una alta percentuale di pollini fossili di varie conifere ma anche di latifoglie fra cui il tiglio. La loro presenza indica che presso quel lago, attualmente coperto dal ghiacciaio, fino a 3500 anni fa giungeva il bosco. È evidente che la montagna offriva allora un ambiente assai più accogliente di quello che conosciamo oggi. Si spiega così come l’uomo neolitico abbia potuto risalire la valli alpine con grande facilità, insediarsi in alta quota, frequentare gli alti valichi dello spartiacque (NOTA 7) e formare quelle comunità culturali fra i due opposti versanti delle Alpi sempre meglio documentate dai reperti che vengono alla luce (NOTA 8).
In territorio valdostano sono da ascrivere a questo periodo numerosi ritrovamenti. Molti siti archeologici sono collocati ad altitudini superiori ai 1000 metri, disseminati nei territori comunali di Saint-Pierre, Saint-Nicolas, Arvier, Villeneuve, Quart, Nus, Monjovet, Challant-Saint-Victor, la Magdaleine, Champorcher e altri ancora. Il più importante di questi siti è la necropoli di Saint-Martin-de-Corléans, alla periferia occidentale di Aosta, un insieme di monumenti megalitici fra i più insigni d’Italia. La datazione assoluta al radiocarbonio rivela per i livelli più antichi un’età che risale al 3070 a.C. (=5020 B.P.) (NOTA 9). La sua grande somiglianza con la necropoli coeva di Saint-Leonard, presso Sion è ritenuta una importante testimonianza della comunanza culturale, in età neolitica, fra le genti degli opposti versanti delle Alpi Pennine e quindi della fruizione per lunghi periodi annuali del valico del Gran San Bernardo.
Fra il 1400 e il 300 a.C. il clima diventa molto freddo.
La torbiera del Ruitor viene ricoperta dal ghiacciaio già nel 1500 a.C. e nei secoli seguenti il peggioramento climatico si fa sempre più grave culminando fra il 900 e il 300 a.C. Ne sono particolarmente colpite le popolazioni dell’Europa Orientale che vivono in un ambiente a clima continentale non mitigato dagli influssi dell’Oceano Atlantico o del Mare Mediterraneo. Proprio in quel periodo (Età del Ferro) hanno luogo le migrazioni dei popoli indoeuropei provenienti dalla pianura Sarmatica. Fra gli altri migranti vi sono i Celti che fra il 900 e il 300 a.C. si diffondono in tutta l’Europa Occidentale. La celtizzazione della Valle d’Aosta avviene probabilmente dopo il V sec. a.C.

Dal 300 a.C. il clima prende a migliorare: è l’Optimum dell’età Romana che si protrarrà per ben sette secoli.
Il primo ad approfittare della nuova situazione fu Annibale che nel 218 a.C., quando ancora i romani ritenevano inaccessibili la Alpi, le valicò con un esercito di più di 25.000 uomini.
Dopo l’impresa del Cartaginese Roma comprese che la Catena Alpina non poteva più essere considerate una barriera difensiva; la sicurezza del suo territorio doveva essere tutelata dal controllo dei paesi transalpini che avrebbero dovuto fungere da antemurali. Nella concezione dei Romani, grazie al nuovo Optimum climatico che assicurava la transitabilità dei passi alpini quasi per tutto l’anno, le Alpi si trasformarono da barriera in cerniera, furono dotate di grandi vie di comunicazione e per quasi cinquecento anni, sotto il controllo della Città Eterna esplicarono la funzione di trait d’union fra il Mediterraneo e l’ Europa Centro-settentrionale.

A servizio e a guardia dei traffici transalpini, nel 25 a.C. venne fondata la città di Augusta Praetoria sul crocevia fra la Strada consolare delle Gallie già da tempo costruita per raggiungere la città di Ludgudum (Lione) attraverso l’Alpis Graia (valico del Piccolo, San Bernardo) e la via che si dirigeva verso l’Europa centro-settentrionale attraverso il Summus Poenninum (valico del Gran San Bernardo). Grazie alla propizia situazione climatica che favoriva il flusso dei traffici, l’importanza che Aosta assunse nei secoli dell’Impero Romano divenne assai maggiore di quella che essa ha attualmente. I viaggiatori che risalivano la Strada consolare delle Galli venivano accolti nella vivace e ricca città dai signorili archi della triplice Porta Pretoria, suo centro degli affari e cuore economico e politico era il mercato, il grandioso Foro giunto quasi intatto fino a noi; nel tessuto urbano il ricco Complesso termale, il monumentale Teatro che pare potesse accogliere più di 5000 spettatori, l’ampio Anfiteatro offrivano il modo di coltivare gli interessi culturali e il tempo libero.

Fra il 400 e il 750 d.C. si registra un notevole raffreddamento del clima.
La transitabilità dei passi alpini divenne assai precaria, legata alla sola stagione estiva.
I popoli dell’Europa orientale e settentrionale a causa della variazione climatica fredda, videro diminuire drasticamente la produzione agraria delle loro terre e molte tribù furono costrette a migrare verso le regioni Mediterranee meno colpite dai rigori del clima grazie alla loro posizione geografica.
Sono le invasioni barbariche, quelle tumultuose migrazioni dei popoli germanici che nell’alto medioevo travolsero la potenza dell’Impero Romano.
La valle d’Aosta conobbe nel 489 l’incursione dei Burgundi, qualche anno dopo fu la volta degli Ostrogoti, poi dei Longobardi. Nel 575 la regione valdostana entrò a far parte del regno dei Franchi e da allora restò nella loro area politico-culturale.

Dopo il 750 il clima migliora rapidamente e si instaura l’Optimum dell’età feudale.
L’innevamento dei valichi alpini ritorna assai breve e si apre il periodo d’oro dei traffici fra le Repubbliche Marinare delle coste mediterranee e i grandi centri delle Fiere transalpine (Ginevra, Lione, Borgogna, Fiandre, Champagne).
È il periodo del Sacro Romano Impero e della organizzazione feudale dell’Europa. Sulle Alpi, prendono vita numerosi stati di valico istituiti a controllo e a servizio delle vie transalpine, arterie vitali della grande unità politica. Fra di essi vi è quello dei Conti di Savoia il cui fulcro fu per secoli la Valle d’Aosta con i passi del Piccolo e del Grande San Bernardo.
Il limite climatico delle colture cerealicole si spinge fino all’altitudine di 2300 m. Lo conferma la presenza di settori attrezzati per la trebbiatura del grano in fienili di dimore dell’alta valle di Ayas e di Valgrisenche poste a quell’altitudine, ora diventate stagionali ma costruite nei tempi in cui lassù si poteva abitare tutto l’anno.
Riguardo allo stato dei ghiacciai l’Abbé Henry, noto ricercatore tanto in campo storico quanto in campo naturalistico, scrive in una sua relazione (NOTA 10); “Entre le 1300 e le 1600 les glaciers devaient être très petits et réduits à leur minimum… Sa découle d’un grand nombre de documents tels que les Reconnaissances de l’époque ou le mot glacies est introuvable. Une autre preuve que les glaciers étaient alors très petits et très recules c’est que les passages par les cols élevés de montagne étaient alors très faciles et très fréquentés: on allai communément, on faisait passer vaches et mulets de Prarayé à Evolène par le Col Collon (3130 m), de Zermatt à Evoléne par le Col d’Hérens (3480 m); de Valtournenche à Zermatt par le Col de Saint-Théodule (3380 m).
Il Colle del Teodulo – oggi centro di uno dei più prestigiosi comprensori sciistici – nel Basso Medioevo fu a tutti gli effetti un itinerario “ Europeo” sulla via transalpina che univa il porto di Genova con quello di Amsterda. Tutte le carte geografiche del ‘500 e del ‘600, comprese quelle del grande cartografo olandese Mercatore, rappresentano il “Mons Silvius” – tale era il suo nome in latino – e il villaggio di Ayas, suo principale centro di servizi. In quelle redatte nei paesi d’oltralpe compare la dizione: “Krëmertal”, ovvero “Valle dei mercanti” posta fra i toponimi di Ayas e del valico del Teodulo.
Il controllo delle strade che dalla valle della Dora salivano al colle del Teodulo, era esercitato dagli Challant, la più prestigiosa famiglia nobiliare valdostana che proprio da quel traffico traeva la sua ricchezza e la sua rinomanza a livello europeo.
In questo periodo caldo dai traffici assai vivaci, prese origine la millenaria fiera di Sant’Orso che tutt’ora si celebra il 31 gennaio nel cuore dell’inverno, una stagione che pare ben poco propizia ad un gran concorso di gente, soprattutto in passato quando non esistevano i mezzi spazzaneve. Il più antico documento che riguarda questa rassegna risale al 1305 ma pare che allora essa già fosse secolare, era esclusivamente dedicata agli attrezzi agricoli e si svolgeva nei tre giorni che precedevano la festa di Sant’Orso e nei tre che la seguivano. Questa grande fiera invernaleè una testimonianza della mitezza che doveva caratterizzare la stagione fredda durante gli otto secoli dell’Optimum climatico del basso medioevo.

Fra il 1550 e il 1850 ha luogo la più grave crisi climatica del tempi storici denominata dagli specialisti il Pessimum climatico della Piccola Età Glaciale.
Essa provocò un abbassamento di almeno 500 metri dei limiti climatici delle colture, del bosco, del pascolo e delle nevi persistenti determinando un lungo innevamento annuo dei valichi e addirittura la glacializzazione dei più elevati e insieme la perdita di una grande quantità di terre coltivabili. Venendo a mancare contemporaneamente i proventi legati ai traffici transalpini e quelli delle più elevate terre agricole, il periodo della Piccola età glaciale fu per le valli alpine un‘epoca di estrema povertà.
In valle d’Aosta il contraccolpo fu durissimo: da ganglio dei traffici europei la Regione si trasformò in cellula chiusa in se stessa; le attività economiche si ridussero ad una agricoltura volta esclusivamente all’autosussi-stenza e tanto misera che viene definita dagli studiosi francesi “de acharnement”; la popolazione, poverissima e denutrita, venne falcidiata dalla peste e da malattie endemiche, molte delle quali riconducibili alla malnutrizione e alle grandi fatiche che in tali condizioni ambientali i lavori agricoli richiedevano.
Le condizioni del clima determinarono, nel corso della Piccola età Glaciale, la più imponente crescita volumetrica, areale e lineare dei ghiacciai verificatasi negli ultimi due millenni. Ne sono testimoni sul terreno, gli apparati morenici formati da questa gigantesca espansione; lo studio di questi ultimi ha permesso di ricostruire i profili delle aree che vennero glacializzate in quei freddissimi trecento anni. In base a queste indagini i tecnici dell’Assessorato al Territorio, Ambiente ed Opere pubbliche, stimano che nei primi decenni del XIX° secolo i ghiacciai valdostani si estendessero su circa 330 kmq, vale a dire su più del 10% del territorio regionale.

Dopo la metà del secolo XIX inizia il riscaldamento climatico tuttora in corso.
La fine della piccola età glaciale è segnata da una improvvisa forte diminuzione delle precipitazioni e da un sensibil innalzamento delle temperature: all’osservatorio meteorologico del Gran San Bernardo nei vent’anni successivi al 1856 le precipitazioni annue risultano meno di 1600 mm e l’altezza della neve caduta di 870 cm nei confronti di medie di lungo periodo assai più elevate; le temperature medie annue che fino al 1860 erano state attorno ai -1,9 °C si innalzano bruscamente a -1,5 °C.
Questo stato di cose causa una sensibile riduzione di volume dei ghiacciai ed un considerevole raccorciamento delle lingue vallive. Fra il 1862 e il 1882 il ghiacciaio del Lys al Monte Rosa perde ben 950 metri di lunghezza (NOTA 11); la Brenva, fra il 1846 e il 1878, circa 1000 m­etri (NOTA 12), il Pré de Bard fra il 1856 e il 1882, 750 metri (NOTA 13) e nello stesso periodo il Lex Blanche, circa 800 (NOTA 14).
Si tratta di una situazione, molto simile a quella che stiamo vivendo in questi anni, che perdurò quasi un ventennio. Da allora, come mostra la tabella conclusiva, si alternarono fasi di clima fresco favorevoli al glacialismo e fasi di clima più caldo avverse ad esso.
Esaminando il comportamento dei ghiacciai valdostani dagli inizi del XIX° secolo quando culminava la massima espansione storica, al 2005, data dell’ultimo volo aerofotogrammetrico, si constata che questo lungo arco di tempo è stato ritmato da undici fasi, caratterizzate alternativamente da contrazioni ed espansioni degli apparati glaciali.
Nessuna delle espansioni però raggiunse la misura di quelle verificatesi durante la Piccola età Glaciale; quasi tutte quelle posteriori al 1860 hanno prodotto volumi di ghiaccio dalla massa inferiore a quella perduta nella precedente contrazione per cui gli apparati hanno subìto attraverso il tempo una notevole riduzione planimetrica, areale e volumetrica. Dall’indagine svolta dei tecnici della Cabina di regia dei ghiacciai sui fotogrammi del volo aerofotogrammetrico 2005 risulta che l’attuale estensione dei ghiacciai valdostani è pari a 135 kmq, il che corrisponde al 40% dell’estensione massima che l’area glacializzata aveva assunto nella Piccola età Glaciale. Bisogna tenere presente che circa il 20% di questa copertura venne asportata dalla fusione avvenuta fra il 1860 e il 1882, quando in Italia l’industrializzazione era appena agli inizi e pertanto la variazione calda di quei decenni non era certo imputabile all’opera dell’uomo.
La fase di clima “caldo” che stiamo vivendo non è una novità dell’ultimo ventennio; si tratta di processo modulare in atto dalla seconda metà del 1800 e simile a quelli che hanno avuto luogo nei secoli dell’optimum dell’età feudale o in quelli dell’età romana. Pare quindi logico pensare che, pur in presenza di alterazioni di origine antropica, l’attuale riscaldamento globale faccia parte dell’alternanza ciclica di fasi calde e fasi fredde che da sempre caratterizza la storia del clima.

Note:

1 C. Allègre, Le droit au doute scientifique, Le Monde, Paris, 27 ottobre 2006;
S. Pinna, Il Clima divulgato: una realtà virtuale imposta come dato di fatto, Ambiente, Società, Territorio. Rivista A.I.I.G. Roma, agosto 2007, pag. 3-8.

2 L’istituto Federale Svizzero di Meteorologia e Climatologia segnala che, all’Osservatorio del Gran San Bernardo, entrato in funzione nel 1818 e quindi con una serie di dati ultracentenaria, la temperatura media annua dall’inizio delle osservazioni al 1970 risulta di –1,5°C. La media del trentennio “standar” (OMM) 1971-2000 è di –0,5°C.

3 Segnaliamo alcuni dei più noti studi di climatologia storica:
– E. Le Roy Ladurie, Histoire du climat depuis l’an mil, Paris, 1967;
– M. Pinna, La storia del clima: variazioni climatiche e rapporto clima-uomo, Soc. Geografica Italiana, 1984;
– M. Pinna, Variazioni climatiche, Angeli, Milano 1996;
– P. Acot, Storia del Clima, Roma, 2004;
– L.Bonardi, Che tempo faceva?, Milano, 2004.

4 L. Colliard, Precis d’histoire valdôtaine, Aosta, 1980.

5 P. Guichonnet, Les bases géographiques de l’histoire de la Vallée d’Aoste, Atti del congresso internazionale “La valle d’Aosta e l’arco alpino nella politica del mondo antico”, Aosta, 1988, pag. 20-46.

6 E. Armand, G. Charrier, L. Peretti, G. Piovano, Ricerche sull’evoluzione del clima e dell’ambiente durante il quaternario nel settore delle Api Occidentali Italiane. La formazione di torbiera presso la fronte attuale del ghiacciaio del Ruitor: suo significato per la ricostruzione degli ambienti naturali nell’Olocene medio e superiore. Bollettino del Comitato Glaciologico Italiano, serie II, n. 23 (1975), pag. 7-25.

7 K. Spindler, L’uomo dei ghiacci, Milano, 1999.

8 M.R. Sauter, L’occupation des Alpes par les populations préhistoriques, in Histoire et civilisation des Alpes. T.1, Toulouse-Lausanne, 1980, pag. 61-94.

9 F. Mezzena, La Valle d’Aosta nella preistoria e nella protostoria, in Archeologia in Valle d’Aosta: dal Neolitico alla caduta dell’Impero Romano, catalogo della mostra, Aosta, 1981, pag. 15-60.

10 Abbé Henry, Le glacier de Prarayé ou de Tsa de Tsa, Roma, 1934.

11 U. Monterin, Le variazioni secolari del clima del Gran San Bernardo e le oscillazione del ghiacciaio del Lys al Monte Rosa, in Raccolta di scritti di U. Monterin, Boll. Vol.II, Aosta, 1987, pag 199.

12 G. Marengo, Monografia del ghiacciaio della Brenva, in Boll. C.A.I. n 45, 1881.

13 F. Sacco, op. cit., 1919, pag 95.

14 F. Sacco, op. cit., 1919, pag 33.

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Destini energetici: Parte 5: Transizione energetica – Destinazione misteriosa di Satyajit Das

Destini energetici: Parte 5: Transizione energetica – Destinazione misteriosa

Il commento di un lettore

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Ciò che Das descrive in modo così eloquente non è un problema, piuttosto un dilemma o una situazione difficile, cioè non c’è soluzione. Sta descrivendo l’attuale realtà futura dell’energia nel modo più accurato possibile. I contorni del dilemma sono stati ben compresi dalla fine degli anni ’50. Opere come “Man’s Role In Changing the Face of the Earth” di Lewis Mumford, “The Closing Circle” di Barry Commoner e “Global 2,000 Report”, commissionato da Jimmy Carter sono solo alcuni dei tanti colpi di avvertimento ignorati dall’élite del potere. La realtà di un futuro prossimo con un accesso radicalmente ridotto all’energia e alle risorse minerarie e con crescenti vincoli ecologici è difficile da accettare, figuriamoci affrontare in modo significativo.
Giovanni Steinbach

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Energia abbondante ed economica è uno dei fondamenti della civiltà e delle economie moderne. Gli attuali cambiamenti nei mercati dell’energia sono forse i più significativi da molto tempo. Ha implicazioni per la società nel senso più ampio. Destini energetici è una serie in più parti che esamina il ruolo dell’energia, le dinamiche della domanda e dell’offerta, il passaggio alle energie rinnovabili, la transizione, la sua relazione con le emissioni e i possibili percorsi. Le parti 1, 2, 3, e 4  hanno esaminato i modelli di domanda e offerta nel tempo, le fonti rinnovabili, lo stoccaggio di energia e l’economia delle rinnovabili. Questa parte esamina la transizione energetica.

Una transizione energetica si riferisce a un importante cambiamento strutturale nei sistemi energetici. Ci sono state diverse transizioni storiche di questo tipo: dai biocarburanti, come il legno, all’energia idrica ed eolica e poi ai combustibili fossili. Nel suo uso attuale, è usato per descrivere il tentativo di sostituire i sistemi di produzione e consumo di energia basati sui combustibili fossili con fonti energetiche rinnovabili. Questa trasformazione è incorniciata dalla necessità di mitigare le emissioni per controllare i cambiamenti climatici.

L’ arco della storia dell’energia è rappresentato di seguito.

In Energy Transitions, il professor Vaclav Smil fornisce la prova che una nuova fonte di energia ha impiegato in genere tra i 40 ei 60 anni per guadagnare una quota di mercato significativa negli periodi precedenti. Le attuali proposte presuppongono che l’energia rinnovabile produrrà guadagni comparabili in un periodo molto più breve .

Ciò sottovaluta la complessità dell’attuale transizione energetica:

  • La scala è senza precedenti e richiede la riorganizzazione dei sistemi energetici per oltre 8 miliardi di persone e alti livelli di domanda industriale e domestica.
  • In generale, le transizioni energetiche comportano il passaggio a fonti di energia più efficienti. L’attuale processo inverte la tendenza con uno spostamento verso fonti meno efficienti con EROEI inferiore, minore densità energetica, minore densità di potenza superficiale e grandi requisiti di stoccaggio.
  • A differenza delle modifiche precedenti, è probabile che il costo dell’energia aumenti anziché diminuire.
  • Anche l’urgenza del cambiamento dovuta alla necessità di contenere le emissioni è senza pari.
  • I precedenti cambiamenti negli accordi energetici sono stati intrapresi prima delle moderne strutture normative, in particolare nei paesi avanzati, che dovranno adattarsi rapidamente a cambiamenti su larga scala all’interno di standard ambientali, di sicurezza e di concorrenza contrastanti.
  • Anche la probabile interruzione degli accordi sociali e geopolitici è potenzialmente maggiore rispetto alle trasformazioni precedenti.

Una transizione incompleta

L’attuale transizione energetica, così come concepita, è fortemente sbilanciata verso l’elettrificazione incentrata sull’utilizzo di fonti rinnovabili a basse emissioni per produrre elettricità in sostituzione dei combustibili fossili.

Gli attuali piani di transizione prevedono una grande espansione della produzione globale di elettricità di un fattore da due a tre volte, senza utilizzare combustibili fossili.

Ma l’elettricità, sulla base della maggior parte delle stime, costituisce meno del 20 percento dell’attuale mix energetico .

Le alte temperature, il fabbisogno di potenza e densità energetica dell’industria pesante (manifattura, acciaio, cemento, ammoniaca, plastica), del trasporto merci e dell’aviazione favoriscono i combustibili fossili che dovranno essere elettrificati o riprogettati per utilizzare combustibili alternativi che potrebbero rivelarsi difficili senza significativi progressi della scienza e delle tecnologie di produzione.

Ci sono barriere scoraggianti. Le tecniche di riduzione diretta per la produzione di acciaio possono consumare 15 volte più elettricità rispetto all’attuale approccio di cokefazione equivalente. Richiede minerale di ferro più puro per sciogliersi completamente in fornaci alimentate a idrogeno per eliminare i contaminanti. Anche la sostituzione dei combustibili fossili nella produzione di cemento e in altri processi industriali è una sfida.

La fattibilità tecnica dell’elettrificazione, l’uso di biocarburanti o altri metodi sono in fase di sviluppo e probabilmente saranno molto più costosi dei metodi attuali. Si stima che la decarbonizzazione della produzione di alluminio coerente solo con un percorso net-zero o 1,5°C richieda un investimento cumulativo di circa 1 trilione di dollari, principalmente nell’alimentazione e nelle fonderie .

L’elettrificazione, in ogni caso, non è sufficiente per eliminare le emissioni di carbonio da molte industrie pesanti a causa della chimica dei processi. Circa la metà dell’anidride carbonica nella produzione di cemento proviene dalla conversione del calcare in clinker. Nell’acciaio, la trasformazione dell’ossido di ferro in ferro puro richiede lo stripping degli atomi di ossigeno che si combinano con il carbonio per produrre anidride carbonica. La modifica della chimica è necessaria per ridurre queste emissioni.

I problemi di peso della batteria, capacità di potenza e durata rimangono vincoli nell’elettrificazione del trasporto pesante. Lo spazio necessario per i serbatoi di idrogeno sufficienti per alimentare l’aviazione a medio e lungo raggio limita i carichi utili che incidono in modo significativo sull’economia di queste forme di trasporto.

L’elettrificazione completa o addirittura sostanziale come percorso verso la decarbonizzazione può rivelarsi sfuggente.

Intensità materiale

I macchinari della transizione energetica – pannelli solari, turbine eoliche, accumulo di energia, impianti di riserva, linee e reti di trasmissione riconfigurate, veicoli elettrici – richiedono grandi quantità di metalli, minerali ed energia, ironia della sorte, dai combustibili fossili. Le rinnovabili sostituiscono l’intensità delle emissioni con l’intensità dei materiali.

Ad esempio, i veicoli elettrici richiedono fino a sei volte più minerali rispetto alle auto convenzionali alimentate da motori a combustione interna.

I veicoli elettrici pesano in media 340 chilogrammi (750 libbre) in più. Il peso aggiuntivo influisce sul fabbisogno energetico e sull’efficienza poiché la maggior parte dell’energia in qualsiasi forma di trasporto veicolare viene utilizzata per spingere il suo peso.

Le turbine eoliche richiedono acciaio (66-79 percento della massa totale della turbina); fibra di vetro, resina o plastica (11-16 percento); ferro o ghisa (5-17 percento); rame (1 percento); e alluminio (0-2 percento). Le terre rare sono gli ingredienti chiave dei potenti magneti richiesti. Le stime suggeriscono che sono necessarie circa 500 tonnellate di acciaio e 1.000 tonnellate di calcestruzzo per megawatt di energia eolica.

Ogni modulo batteria Tesla da 80 chilowattora a lungo raggio da 450 chilogrammi (1.000 libbre) è composto da 6.000 singole celle, ciascuna contenente 10 chilogrammi (25 libbre) di litio, 36 chilogrammi (60 libbre) di nichel; 18 chilogrammi (44 libbre) di manganese; 14 chilogrammi (30 libbre) di cobalto; 80 chilogrammi (200 libbre) di rame; e oltre 250 chilogrammi (550 libbre) di alluminio, acciaio, grafite, plastica e altri materiali. Se ridimensionati in base al tipo di stoccaggio che potrebbe essere richiesto a livello statale o nazionale, gli importi necessari sono sbalorditivi. Complessivamente, l’utilizzo di moduli batteria per sostenere il fabbisogno di elettricità estivo di punta di New York per 45 minuti richiederebbe 3.750 tonnellate di litio, 9.000 tonnellate di nichel, 6.600 tonnellate di manganese, 4.500 tonnellate di cobalto, 30.000 tonnellate di rame e 82.500 tonnellate di altro materiali.

Poiché i metalli e le altre sostanze necessarie richiedono una notevole quantità di energia per essere prodotti, l’effetto netto complessivo sulle emissioni (minore produzione dalle fonti di energia aggiustata per la maggiore quantità di materiali richiesti) non è chiaro.

Le emissioni del ciclo di vita dei veicoli elettrici, la quantità totale di gas serra emessi durante l’esistenza di un prodotto, compresa la sua produzione, utilizzo e smaltimento, sono rivelatrici. Utilizzando misure standardizzate (tonnellate metriche di CO2 equivalente (tCO2e)) di gas serra, è possibile ricavare le emissioni comparative dei veicoli elettrici, ibridi e ICE di medie dimensioni :

I veicoli elettrici hanno le emissioni del ciclo di vita più basse, ma le emissioni di produzione sono circa il 40% superiori a quelle dei veicoli ibridi e convenzionali, principalmente dall’estrazione e dalla raffinazione di materie prime come litio, cobalto e nichel. La maggior parte dei vantaggi in termini di emissioni sono in fase di utilizzo. Questi confronti si basano su 16 anni di utilizzo e una distanza di 240.000 chilometri (150.000 miglia). Laddove il veicolo ha una vita più breve o viene utilizzato in modo meno intensivo (il che è probabile poiché i veicoli elettrici sono più adatti a distanze di viaggio più brevi), le elevate emissioni di produzione indicano che le emissioni del ciclo di vita del veicolo elettrico si avvicinano a quelle dei tradizionali veicoli a combustione interna.

Le affermazioni di minore intensità di materiale dei veicoli elettrici presuppongono spesso anche la capacità di riciclare i componenti , il che, in realtà, non è dimostrato. Anche se possono essere progettati per utilizzare meno materie prime, molte sono le richieste di terre rare che necessitano di processi di produzione tossici. L’analisi presuppone che i veicoli elettrici siano alimentati esclusivamente da elettricità proveniente da fonti energetiche rinnovabili, il che non è la situazione attuale.

Ciò significa che il passaggio alle energie rinnovabili potrebbe non ridurre le emissioni del quantum dichiarato e, forse, per niente in alcuni casi.

Materiali critici per la transizione

Le principali materie prime necessarie per la transizione energetica sono riassunte di seguito:

Di seguito si riporta l’applicazione e la relativa domanda di tali materie prime.

In generale, gli analisti si concentrano su due gruppi di materie prime: primo rame, nichel e cobalto e secondo litio e terre rare. In pratica dovrebbero essere prese in considerazione tutte le materie prime richieste.

Disponibilità delle risorse

Si presuppone la disponibilità delle materie prime richieste a un costo accettabile. Senza l’approvvigionamento necessario, la transizione energetica sarà, nella migliore delle ipotesi, ostacolata e, nella peggiore, non sarà possibile. Gli elementi chiave della disponibilità includono:

  • Sufficienza della risorsa.
  • Fattibilità di estrazione e produzione.

Non è chiaro se attualmente esistano quantità sufficienti di materie prime essenziali. La quantità di molti metalli necessari è maggiore di quanto inizialmente creduto, gli attuali livelli di produzione sono insufficienti e, forse la cosa più critica, le riserve minerarie note per alcuni materiali potrebbero essere inferiori alle quantità necessarie. Ulteriori investimenti possono espandere la produzione e l’esplorazione può scoprire nuove riserve, ma ci sono difficoltà nel superare le carenze soprattutto nel breve periodo.

Di seguito è riportata una stima delle riserve note di molte materie prime essenziali:

Simon P. Michaux , Professore Associato di Ricerca dell’Unità di Geometallurgia Lavorazione dei Minerali e Ricerca sui Materiali, Geological Survey of Finland, ha confrontato la produzione richiesta con le riserve conosciute concludendo che i metalli totali richiesti per una generazione di tecnologia per eliminare gradualmente i combustibili fossili sono insufficienti per molte sostanze.

 

Metallo Produzione richiesta (tonnellate) Riserve conosciute(tonnellate) Copertura di riserva(Percentuale di requisiti)
Rame 4.575.523.674 880.000.000 20 percento
Nichel 940.578.114 95.000.000 10 percento
Litio 944,150,293 95.000.000 10 percento
Cobalto 218.396.990 7.600.000 3 per cento
Grafite 8.973.640.257 320.000.000 4 percento
Vanadio 681.865.986 24.000.000 4 percento

Lo studio ha rilevato che c’erano riserve sufficienti di alcuni materiali:

 

Metallo Produzione richiesta (tonnellate) Riserve conosciute(tonnellate) Copertura di riserva(Percentuale di requisiti)
Zinco 35.704.918 250.000.000 700 percento
Manganese 227.889.504 1.500.000.000 658 percento
Silicio (metallurgico) 49.571.460 Relativamente abbondante Adeguato
Argento 145.579 530.000 3.641 percento
Zirconio 2.614.126 70.000.000 2.678 percento

Le stime della domanda e delle riserve sono inesatte e oggetto di febbrili controversie. Tuttavia, l’entità delle potenziali carenze deve essere attentamente considerata nei piani di transizione energetica.

Estrazione e produzione

Anche se esistono riserve, sorgono problemi di estrazione e produzione. La scala è impegnativa. L’entità dell’espansione della produzione richiesta per alcune materie prime chiave non è da prendere alla leggera.

La qualità dei giacimenti minerari che devono essere sfruttati è rilevante. I gradi sono diminuiti a causa dell’esaurimento naturale delle miniere già esistenti che sono, comprensibilmente, le più facilmente accessibili e a basso costo. Nel caso del rame, il grado medio delle miniere è diminuito da circa il 2,5% di 100 anni fa a circa lo 0,5% di oggi. Ci sono poche miniere di rame oggi che hanno un contenuto di rame superiore all’1% della roccia. La qualità media del rame cileno , uno dei maggiori produttori, è scesa del 30% negli ultimi 15 anni allo 0,7%. Alcune altre materie prime richieste si trovano naturalmente a concentrazioni inferiori. Nichel, litio, cobalto e rame costituiscono dallo 0,002% allo 0,009% della crosta terrestre. Al contrario, i metalli più abbondanti come il ferro e l’alluminio costituiscono rispettivamente il 6% e l’8%.

I gradi inferiori e la relativa scarsità aumentano i costi di esplorazione, sviluppo, estrazione e lavorazione, nonché il fabbisogno energetico e le emissioni di carbonio. Nel caso del rame, qualità inferiori significano che per produrre la stessa quantità di rame occorre utilizzare circa 16 volte più energia rispetto a 100 anni fa.

La convinzione che i miglioramenti nella tecnologia di esplorazione e produzione possano colmare le carenze è fuorviante. Le tecniche di esplorazione variano tra le materie prime. La tecnologia per la ricerca di giacimenti minerari, come il rame, è complicata dal fatto che i depositi sono spesso dispersi su vaste aree. Tecniche come il test sismico, che è un mezzo efficiente per la ricerca di idrocarburi, sono meno efficaci. Deve essere utilizzata la perforazione esplorativa, un processo lento.

Anche le aree che possono essere sfruttate sono diverse. L’estrazione della maggior parte dei metalli è concentrata in poche aree a causa dell’economia. Al contrario, la produzione di petrolio e gas a volte può essere intrapresa su scala ridotta. Oggi, molta esplorazione di idrocarburi è nell’oceano.

Esistono piani ambiziosi per l’estrazione in acque profonde di cobalto, nichel, manganese e rame . Ma ci sono difficoltà significative nell’operare in acqua salata corrosiva, a temperature vicine allo zero e sotto migliaia di libbre di pressione per pollice quadrato. I superamenti dei costi di capitale e operativi sono frequenti. Il costo del progetto del gas Gorgon al largo della costa dell’Australia nord-occidentale è aumentato dal budget di $ 11 miliardi a $ 54 miliardi.

I rapporti tra riserva e produzione spesso sovrastimano la quantità di minerali che possono essere estratti. Il tempo dall’esplorazione alla produzione è lungo. Ci vogliono anni per passare dall’esplorazione alla produzione di petrolio e gas. Al contrario, una miniera di rame greenfield può richiedere decenni per essere messa in funzione, anche se in genere hanno una vita più lunga che si estende fino a centinaia di anni. Ciò significa che anche se, come probabile, i prezzi aumentano bruscamente, è improbabile che l’offerta aggiuntiva di materiali richiesti per la transizione divenga rapidamente disponibile poiché presentano un’elasticità dei prezzi relativamente limitata .

Vincoli ambientali

È probabile che la produzione delle materie prime necessarie eserciti una pressione significativa su altre risorse come l’acqua e la terra.

La produzione di molte materie prime richiede grandi quantità di acqua . L’estrazione del rame richiede molta acqua. Ciò è complicato dal fatto che il 50% della fornitura mondiale di rame proviene dal Cile, dal Perù e dalla fascia africana del rame, tutte regioni con problemi di scarsità d’acqua. Le tecniche comuni per la produzione di litio sono ad alta intensità idrica, con aree come l’alto altopiano andino dove esistono grandi riserve che sono tra i luoghi più aridi della terra. La produzione di idrogeno richiede l’accesso a grandi quantità di acqua.

Ci sono richieste di terra scarsa che potrebbero essere necessarie per le popolazioni e la produzione alimentare. I biocarburanti richiedono grandi quantità di acqua e terra. Le materie prime da biomassa per l’energia alternativa estraggono efficacemente il terriccio. A livello globale, è probabile che fino al 90 percento del suolo superficiale della Terra sarà a rischio entro il 2050. Con un minimo di 15 centimetri (6 pollici) necessari per coltivare in modo efficiente, la perdita di terriccio si sta avvicinando a livelli critici. Strutture solari nei deserti che richiedono la demolizione di aree che distruggono l’ecosistema naturale e rilasciano anche una grande quantità di carbonio immagazzinato sottoterra in terreni desertici.

Altri effetti collaterali includono inquinamento e danni ambientali dovuti all’estrazione delle materie prime necessarie.

In effetti, le esternalità negative significative sono generalmente trascurate e non incorporate nei calcoli dei costi. Il consumo di energia e le emissioni di questi effetti collaterali sono spesso ignorati.

Vincoli di investimento

Gli investimenti sono essenziali per garantire la sufficienza dell’offerta. Negli ultimi decenni, il livello di investimento in materiali critici di transizione è aumentato (sebbene l’opacità dei dati delle società minerarie, in particolare le major diversificate, renda difficile identificare con precisione le aree interessate).

Dato che saranno necessari oltre 3 miliardi di tonnellate di minerali e metalli per raggiungere un risultato inferiore a 2°C e che la produzione di minerali, come grafite, litio e cobalto, dovrà aumentare di quasi il 500% entro il 2050, è discutibile se gli investimenti esistenti siano adeguati.

Ci sono diverse ragioni per un investimento inadeguato:

  • Ciclicità delle merci.
  • Prezzi reali bassi.
  • I grandi requisiti patrimoniali dei progetti.
  • Consolidamento e maggiore avversione al rischio all’interno di grandi gruppi di risorse.

La pressione degli attivisti sulle società di risorse per la decarbonizzazione, particolarmente esposte a combustibili fossili o ad alte emissioni, è sempre più un fattore. Con la maggior parte dei gestori patrimoniali e degli investitori desiderosi di migliorare la propria performance ESG (Environment, Social, Governance), c’è stata una riluttanza da parte degli enti pubblici a investire nella produzione di materie prime. Un’ulteriore influenza è la natura apparentemente fuori moda delle risorse relative alle industrie tecnologiche ad alta crescita, che ironicamente non possono sopravvivere senza i materiali che devono essere estratti. Le materie prime non possono essere richiamate con un’app da uno smartphone.

Senza investimenti sostanziali e le relative emissioni, è probabile la carenza di alcuni materiali .

I problemi con l’aumento delle fonti primarie hanno incoraggiato a concentrarsi sull’approvvigionamento secondario, come rottami e materiale riciclato. I tassi di riciclaggio per la maggior parte dei materiali critici per la transizione sono attualmente bassi. Ciò riflette le barriere ingegneristiche , nonché il materiale adatto limitato e l’utilità del materiale riciclato per le applicazioni. I prezzi storicamente bassi sono un altro fattore che crea disincentivi e incide sulla fattibilità finanziaria di alcuni tipi di riciclaggio. L’attuale scopo di soddisfare la domanda dalla fornitura riciclata è limitato.

La corsa verde

Le questioni relative alla sufficienza degli investimenti sono, in realtà, più profonde. Le spese in conto capitale sono inadeguate ma anche non adeguatamente mirate.

La transizione energetica si è evoluta in una “corsa verde” finanziaria speculativa. L’entusiasmo per le nuove tecnologie energetiche è ignaro di semplici fatti e la pianificazione di base è assente. Anche una volta completati, gli impianti rinnovabili non possono essere collegati alla rete a volte per diversi anni. In casi estremi, i progetti non vengono perseguiti a causa di queste carenze. Il Lawrence Berkeley National Laboratory ha trovato quasi 2.000 gigawatt di energia solare, di stoccaggio ed eolica negli Stati Uniti in attesa nelle code di interconnessione della rete di trasmissione.

Aggiunta del sostegno del governo, l’euforia degli investitori è cresciuta. Gli investimenti in titoli e fondi legati alle energie rinnovabili hanno raggiunto nuove vette. Le valutazioni delle azioni dei veicoli elettrici, come Tesla, i produttori di batterie e le società legate all’idrogeno sono aumentate notevolmente. La maggior parte ha un prezzo elevato a multipli di utili, vendite e valori patrimoniali. Nel 2020, gli SPAC (Special Purpose Acquisition Vehicles) di energia verde hanno raccolto 40 miliardi di dollari con il mandato di acquisire asset di energia pulita non ancora identificati.

I fondi sono spesso affluiti ad aziende con tecnologie non testate, piani irrealistici o semplici fronzoli e ciarlataneria. C’è una malsana mancanza di concentrazione sull’essenziale scienza di base sottostante a favore degli espedienti. Gran parte di questo investimento può essere completamente ammortizzato con le rapide e grandi perdite di capitale che lasciano meno denaro disponibile per bisogni reali.

Ad esempio, l’attuale interesse per l’economia dell’idrogeno smentisce i precedenti fallimenti degli investimenti. Nel 1997, l’entusiasmo dei media per l’energia a idrogeno traboccò appena prima della fine di quel boom. Un articolo recente che ha stimolato la “nuova” economia dell’idrogeno ha razionalizzato il fallimento dell’ondata degli anni ’90 come risultato dell’assenza di un mercato chiaro per il carburante e di un sostegno statale e aziendale limitato. Il sottotitolo del pezzo era significativamente qualcosa che la maggior parte delle persone ha imparato a temere: ‘Questa volta è diverso’. Un’analisi storica ha rilevato che i tentativi seriali di guidare un’economia globale dell’idrogeno sono stati in gran parte guidati dall’entusiasmo e resta da vedere se l’ondata attuale è diversa.

La frenesia speculativa distoglie fondi dalle imprese energetiche tradizionali. L’ industria energetica ha investito poco , nelle rinnovabili e negli idrocarburi. Dal picco del 2014, gli investimenti nell’energia tradizionale (petrolio e gas) sono diminuiti del 57% determinando una riduzione di oltre il 30% degli investimenti globali in energia primaria, da 1,3 trilioni di dollari nel 2014 a 0,8 trilioni di dollari nel 2020. Parallelamente, gli investimenti totali in energia sono diminuiti di circa il 22% dal picco di $ 2,0 trilioni nel 2014 a $ 1,5 trilioni nel 2020, anche se ora si sta invertendo.

La focalizzazione degli investimenti sulle rinnovabili non è sufficiente a compensare i minori investimenti nell’energia tradizionale, soprattutto in considerazione della scala ridotta e della maggiore intensità di capitale per unità di energia prodotta. Alla base di questo modello c’è la convinzione dell’imminente fine dell’era degli idrocarburi. Ciò è stato rafforzato da una marea di analisi che prevedevano il picco della domanda mondiale di petrolio e il calo di circa un terzo del consumo entro il 2040. È interessante notare che ciò è incoerente con le proiezioni del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti secondo cui la domanda americana aumenterà leggermente, e non diminuirà entro 2050.

Le aziende energetiche tradizionali hanno registrato investimenti minimi nonostante i comprovati record di attività e asset base. Le valutazioni sono contenute, ignorando i profitti record dovuti all’impennata dei prezzi del petrolio e del gas conseguente alla guerra in Ucraina.

C’è bisogno di spese in conto capitale per l’energia attraverso fonti nuove ed esistenti, che saranno necessarie per molto tempo a venire, così come le relative infrastrutture e materie prime. L’eccessivo affidamento sull’introduzione delle energie rinnovabili, la mancanza di investimenti nei combustibili fossili e i vincoli sui materiali critici per la transizione creano la possibilità di significative carenze energetiche future.

Vincoli politici

La transizione energetica deve affrontare ostacoli politici.

Mentre la maggior parte dei cittadini è a favore di un allontanamento dai combustibili fossili, l’intrusione da parte di impianti di energia rinnovabile e attività minerarie per estrarre risorse essenziali potrebbe non essere universalmente supportata. Alcuni minerali saranno inevitabilmente estratti in cattive condizioni di lavoro nei mercati emergenti, tra cui una sicurezza sul posto di lavoro inadeguata, l’utilizzo di lavoro minorile, nessuna salvaguardia ambientale e i proventi utilizzati per finanziare i conflitti. Ciò può rivelarsi problematico sia in base alle leggi esistenti che eticamente. Come minimo, ciò rallenterà la fornitura dei necessari materiali di transizione.

Dal punto di vista geopolitico, la richiesta di determinati minerali creerà tensioni. I petrostati esistenti rischiano di perdere finanziariamente e in termini di influenza. Allo stesso tempo, i produttori di materiali essenziali acquisiranno importanza. Il grafico sottostante illustra le nazioni che producono e possiedono riserve di quattro metalli di transizione chiave. L’ampia rappresentanza di paesi in via di sviluppo non necessariamente favorevoli alle agende occidentali è notevole.

Nota : le etichette dei dati nella figura utilizzano i codici paese dell’Organizzazione internazionale per la standardizzazione (IOS). Pr = produzione; r = riserve.

Una questione centrale è il predominio della Cina nella fornitura e lavorazione di minerali critici di transizione. La Cina ha quasi il monopolio su alcuni minerali; ad esempio, il 90 percento degli elementi di terre rare lavorati. È tra i più grandi processori di litio. La Cina fornisce oltre il 60% di tutta la grafite naturale e la maggior parte dell’equivalente sintetizzato necessario per gli anodi delle batterie al litio. Il problema principale è l’elaborazione. Molti materiali richiesti si trovano in basse concentrazioni che richiedono la lavorazione di grandi quantità di minerale e metodi metallurgici spesso inquinanti. I processi sono complessi, ad alta intensità energetica, pericolosi e costosi.

Questa situazione non è casuale. La pianificazione a lungo termine della Cina ha dato la priorità a queste industrie per decenni. Gli acquirenti occidentali hanno acconsentito mentre i trasformatori cinesi, supportati da sussidi statali e standard ambientali minimi, hanno abbassato i costi.

I piani per ridurre la dipendenza dalla Cina sono, nel migliore dei casi, probabilmente lenti o, nel peggiore dei casi, quasi impossibili nei tempi previsti. Le attuali strategie per la gestione della catena di approvvigionamento di queste materie prime includono il friend-shoring per creare fornitori alternativi, costruire scorte e capacità di lavorazione di riserva. È improbabile che sia facile e sarà costoso. Sovvenzioni altamente condizionate (come quelle contenute nell’Inflation Reduction Act degli Stati Uniti), finanziamenti, opposizione locale per motivi ambientali e riduzione dei prezzi da parte dei fornitori cinesi esistenti hanno finora rallentato diversi progetti. Crescente riconoscimento della posizione si riflette nel notevole cambiamento di linguaggio dal ‘disaccoppiamento’ al ‘de-risking’ in relazione al rapporto con la Cina. Qualunque sia il risultato, la disponibilità e il costo di queste materie prime essenziali limiteranno il passaggio a nuove fonti di energia.

Il controllo di alcune forniture è già un’arma economica. A seguito delle prime scaramucce, a metà del 2023, la Cina ha limitato le esportazioni di composti di gallio e germanio (utilizzati nei semiconduttori e nell’elettronica ad alta velocità), entrambi tra i minerali classificati dal governo degli Stati Uniti come critici per la sicurezza economica e nazionale. Molto probabilmente era una rappresaglia per i divieti statunitensi sugli acquisti cinesi di tecnologie avanzate.

Gli effetti di tali importanti riallineamenti di potere globale sono imprevedibili, specialmente in un periodo come quello attuale in cui sono evidenti varie tensioni.

Per arrivarci, non partirei da qui!

La transizione energetica è fondamentale per ridurre le emissioni di gas a effetto serra ma anche per integrare la fornitura in calo di combustibili fossili. Ma ci sono dubbi sulla fattibilità di una tale trasformazione dei sistemi energetici mondiali.

L’attuale focalizzazione ristretta sull’elettrificazione è limitante poiché l’elettricità è solo una piccola parte degli attuali sistemi energetici. I requisiti delle applicazioni industriali, dei trasporti pesanti e dell’aviazione richiederebbero che un’ampia varietà di questi processi fosse prima elettrificata o convertita in tecnologie con celle a idrogeno. Anche l’ approvvigionamento di materie prime essenziali per la transizione energetica non è assicurato . Le emissioni e le esternalità derivanti da una maggiore intensità materiale potrebbero non modificare sostanzialmente i livelli complessivi di produzione di gas serra. Gli attuali livelli di investimento sono inadeguati.

Alla fine, la transizione ha ‘hopium’ incorporato. Si trova sulla credenza micawberiana che qualcosa – scientifico o tecnologico – salterà fuori. Sono possibili scoperte che migliorino l’efficienza produttiva, riducono gli inquinanti o consentono la sostituzione di materiali critici per la transizione con alternative migliori, ma non ci si può fare affidamento.

Nella migliore delle ipotesi, qualsiasi transizione energetica potrebbe rivelarsi più lenta e più costosa di quanto si pensi attualmente. Nel peggiore dei casi, la transizione energetica potrebbe rivelarsi impossibile, almeno nella misura attualmente prevista con una sostanziale dipendenza residua dalle riserve di combustibili fossili in diminuzione.

Nel valutare i progressi, la formulazione dell’ex primo ministro russo Viktor Chernomyrdim sembra appropriata: “abbiamo completato tutti i punti: da A a B “.

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Autore: Satyajit Das, ex banchiere e autore di numerose opere sui derivati ​​e diversi titoli generali: Traders, Guns & Money: Knowns and Unknowns in the Dazzling World of Derivatives  (2006 e 2010), Extreme Money: The Masters of the Universe and the Cult of Risk (2011), A Banquet of Consequences RELOADED (2021) e Fortune’s Fool: Australia’s Choices (2022).

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