Italia e il mondo

Tutte le alleanze dell’Egitto contro la Turchia su gas e difesa, di Giuseppe Gagliano

Sino ad ora l’Egitto è stato un gigante dipendente sostanzialmente dalle forniture di grano americano e dai finanziamenti sauditi. Con lo sfruttamento dei propri giacimenti gasiferi molte cose potranno cambiare in quella regione. Il ruolo dell’Italia potrebbe essere determinante, ma non riesce a liberarsi dalle manipolazioni ben architettate, ma tutto sommato avulse, del tipo “caso Regeni” sufficienti a metterla in difficoltà._Giuseppe Germinario

Come si muove, con chi e contro chi l’Egitto su gas e difesa. L’analisi di Giuseppe Gagliano

 

Dal colpo di stato del luglio 2013 e soprattutto dopo la sua elezione alla presidenza nel maggio 2014, una delle priorità di Abdel Fattah al-Sisi è stata riportare l’Egitto al suo posto sulla scena regionale, ma soprattutto ricostruire l’economia dopo la gestione disastrosa di Mohamed Morsi e dei Fratelli Musulmani, al potere dal 2012 al 2013. Infatti dal 2013 Sisi ha intrapreso una serie di riforme strutturali importanti e di vasta portata in campo socioeconomico.

Ebbene, nonostante queste misure di austerità siano accolte molto male dalla popolazione e nonostante la performance economica dell’Egitto sia elogiata da istituzioni internazionali come il Fondo monetario internazionale (Fmi), resta il fatto che l’Egitto deve ancora affrontare la povertà endemica. Proprio per questa ragione le scoperte egiziane dei giacimenti di gas costituiscono una svolta fondamentale nell’economia egiziana.

Anche se il paese ha la sesta più grande riserva di petrolio in Africa ed è al ventesimo posto per le riserve di gas naturale al mondo nell’agosto 2015, Il Cairo fa la sua più importante scoperta in un contesto energetico delicato per il Paese.

Infatti, gli egiziani hanno lottato per diversi anni per soddisfare la loro domanda locale nonostante le riserve molto grandi (2.200 miliardi di metri cubi a gennaio 2015). I motivi sono stati i consumi elevati (il gas rappresenta il 53% del consumo di energia primaria) e una politica di esportazione troppo ambiziosa verso i paesi vicini.

Scoperto dalla compagnia petrolifera italiana Eni, il mega giacimento di gas in acque profonde di Zohr — con 850 miliardi di metri cubi di gas recuperabile — è il più grande giacimento del Mediterraneo orientale. Si trova in mare, a circa 170 km dalla costa egiziana. L’estensione dei giacimenti di gas è tale che la sua area è di 100 km².

Eni lo gestisce e possiede la maggioranza delle azioni (60%). Ha venduto il resto a Rosneft (30%), una società russa, e BP (10%). Gli interessi dell’azienda Eni sono numerosi in Egitto. Dal 2010 sono stati firmati diversi accordi tra Eni e la statale Egpc (Egyptian General Petroleum Corporation) riguardanti progetti nel Golfo di Suez, nel deserto, nel delta del Nilo e nell’offshore del Mediterraneo, in cambio del coinvolgimento del gruppo Egpc nei suoi permessi in Iraq e Gabon.

Il 31 gennaio 2018, il presidente al-Sisi ha inaugurato il giacimento di gas di Zohr. Tuttavia, la produzione è iniziata a un ritmo più lento — 350 milioni di piedi cubi — ben al di sotto degli importi annunciati nel 2015, producendo un miliardo di piedi cubi al giorno.

Nella primavera del 2019, la società Eni ha annunciato la scoperta di un nuovo giacimento di gas naturale al largo del Paese, nel pozzo Noor-1 nell’area esplorativa di Noor. Fonti vicine all’azienda ritengono che il potenziale coinvolto possa essere paragonato allo Zohr.

Queste scoperte sono ovviamente un vantaggio per l’Egitto poiché il Cairo sarà in grado di produrre più gas per soddisfare la sua domanda locale ed esportare di più, il che genererà ulteriori profitti, mentre nel 2015 il governo egiziano si era rassegnato a importare gas naturale da Russia, Algeria e Israele per far fronte alle carenze di produzione.

Oggi, in attesa del pieno sfruttamento dei propri giacimenti di gas, l’Egitto sta rivedendo questi accordi come quello fatto con Gerusalemme. Quindi, più o meno a lungo termine, israeliani ed egiziani dovrebbero porre in essere importanti modifiche sull’esportazione di gas naturale firmato il 19 febbraio 2018.

Al livello di politica interna il presidente egiziano sta naturalmente sfruttando a suo vantaggio queste rilevantissime scoperte allo scopo di consolidare il suo potere politico e la sua leadership.

Negli anni 2000, il presidente Hosni Mubarak ha sperperato i proventi di un precedente boom del gas in sussidi, mentre assegnava contratti lucrativi ad amici e parenti. Un errore che l’attuale presidente non sembra voler ripetere.

Affinché questo nuovo afflusso di “oro blu” avvantaggi direttamente il maggior numero di persone, il governo vuole sfruttare questa opportunità per rifornire le casse, soddisfare pienamente la domanda interna, sviluppare un’industria locale, ma anche garantire una transizione energetica in flessibilità. In particolare, fornisce un incentivo finanziario per gli automobilisti ad abbandonare la benzina e il diesel a favore del gas.

L’Egitto sta attualmente registrando un aumento del 110% delle sue riserve di gas e si sta posizionando come hub commerciale del gas per la regione del Mediterraneo. Inoltre, oltre all’italiana Eni, già molto attiva, questa notizia sta attirando nel Paese anche altre grandi compagnie petrolifere internazionali come Shell, BP, Petronas, Total o compagnie russe come Gazprom e soprattutto Rosneft.

Da quando è salito al potere nel luglio 2013, con la ripresa economica del suo Paese, l’altra priorità di al-Sisi è stata quella di riportare l’Egitto al suo posto sulla scena regionale.

Così, il rais egiziano è riuscito a preservare la sua partnership con gli americani. Ha anche preso parte, almeno sulla carta, alla coalizione che sta conducendo la guerra in Yemen e guidata da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (che sono i principali finanziatori del Cairo).

I rapporti con gli israeliani, in particolare nel Sinai, sono senza precedenti. Inoltre, ha concluso importanti e storici accordi militari e commerciali con i russi, si è avvicinato alla Cina ed è anche in trattative con Damasco e Teheran.

Tutto ciò sta significare che il presidente al-Sisi sembra aver permesso al suo Paese di riprendere il suo ruolo di attore centrale nel panorama regionale.

Inoltre, anche se il suo ruolo è poco noto ai profani ed è eclissato dalla forte visibilità internazionale di Mohammed Ben Salman e Mohammed Ben Zayed, si deve riconoscere che al-Sisi è molto coinvolto in tutte le questioni delicate della regione come il conflitto israelo-palestinese, il conflitto libico e anche nei negoziati in Siria.

Nella feroce lotta per la leadership politica nel mondo sunnita che è attualmente condotta dal blocco Turchia/Qatar e dall’asse composto da Egitto, Arabia Saudita, Stati Uniti Emirati Arabi (Eau), uniti da Israele (accordi di Abraham tra Israele, Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Sudan) e discretamente sostenuti dalla Russia, non si può trascurare il ruolo politico del presidente egiziano. Al-Sisi ha infatti avviato una repressione senza precedenti contro i Fratelli Musulmani, di cui l’Egitto era la base storica della confraternita.

Da questa prospettiva, l’Egitto si trova in prima linea di fronte alle aggressive politiche neo-ottomane e panislamiste di Erdogan a Gaza (Hamas), in Libia (che sostiene il governo a Tripoli mentre il Cairo sostiene il maresciallo Haftar) e anche nel Mediterraneo orientale. Questo è il motivo per cui negli ultimi mesi c’è stato il sostegno del Cairo alla Grecia, a Cipro e persino alla Francia di fronte alla politica di proiezione di potenza turca.

Infatti la Turchia intende pienamente ottenere la sua parte della torta e cerca di competere con l’Egitto nella sua posizione di leader energetico nell’area. Da quel momento in poi, un riavvicinamento politico-energetico tra Egitto, Grecia e Cipro divenne inevitabile.

Già nel 2014 Atene e Il Cairo hanno firmato un memorandum di cooperazione in difesa, volto a rafforzare i loro legami militari e fornire addestramento ed esercitazioni militari congiunti. Quindi, nell’agosto 2020, la Grecia ha ratificato un accordo con l’Egitto sulla condivisione delle aree marittime, in risposta all’accordo turco-libico firmato a fine 2019 che consente alla Turchia di accedere a una vasta area marittima nel Mediterraneo orientale.

La cooperazione militare trilaterale tra Grecia, Israele e Cipro, avviata nel novembre 2017, si è intensificata negli ultimi mesi. Allo stesso modo, nel novembre 2020, lo sceicco Mohammed Bin Zayed, principe ereditario di Abu Dhabi e vice comandante supremo delle forze armate degli Emirati Arabi Uniti, ha ricevuto Kyriákos Mitsotákis, il primo ministro della Grecia, per discutere le relazioni tra gli Emirati e la Grecia e i mezzi per rafforzare i legami reciproci e lo sviluppo degli interessi comuni delle due nazioni come investimenti, commercio, politica, cultura e soprattutto difesa. Questo autentico accordo di difesa è inequivocabilmente orientato a contenere l’espansionismo turco nel Mediterraneo orientale e nel Medio Oriente.

Nel settembre 2020, il Cairo e Atene hanno finalmente firmato un trattato ufficiale che rende il Forum del gas del Mediterraneo orientale un’organizzazione internazionale con sede nella capitale egiziana. Oltre all’Egitto e alla Grecia, il Forum conta altri cinque membri fondatori: Italia, Cipro, Giordania, Israele e Palestina. L’obiettivo è quello di creare un mercato regionale del gas che serva gli interessi dei paesi membri. In concreto, si tratta di modernizzare le infrastrutture, coordinare le normative sui gasdotti e sul commercio, puntando a migliorare la competitività dei prezzi e, soprattutto, a salvaguardare i loro diritti sul gas naturale.

Per quanto concerne i rapporti con Israele occorre in primo luogo sottolineare che le prime scoperte israeliane di gas offshore sono iniziate nel gennaio 2009 con il giacimento Tamar (260 miliardi di metri cubi). Da allora, gli annunci si sono moltiplicati: Dalit, Leviathan (650 miliardi), Dolphine (2,3 miliardi), Sara e Mira (180 miliardi), Tanin (31 miliardi), Karish (51 miliardi), Royee (91 miliardi) o ancora Shimshon ( 15 miliardi). Oggi, le riserve totali di Israele, provate o potenziali, sono stimate in circa 1.5 trilioni di metri cubi di gas naturale.

Nel dicembre 2019, guidata da un consorzio israelo-americano, è iniziata la produzione del mega-deposito Leviathan dopo anni di lavoro e miliardi di investimenti. Questo progetto dovrebbe essere in grado di soddisfare le esigenze israeliane, ottenere l’indipendenza energetica per lo stato ebraico e consentire a quest’ultimo di esportare gas naturale verso i suoi vicini, o addirittura di posizionarsi come il principale paese esportatore di gas verso il Medio Oriente e l’ Europa, in particolare grazie al progetto del gasdotto del Mediterraneo orientale attraverso Cipro e la Grecia.

Ebbene proprio di fronte alla minaccia turca e alla normalizzazione dei rapporti tra gli Stati del Golfo (alleati dell’Egitto) e lo Stato ebraico, è evidente che allo stato attuale sia legittimo che Israele hanno bisogno di una forte partnership soprattutto in termini diplomatici e di sicurezza. Gli interessi geopolitici comuni potrebbero avere la precedenza sulla possibile concorrenza commerciale.

In definitiva il presidente al-Sisi aspira a stabilire una vera “diplomazia del gas” e ciò consentirebbe quindi all’Egitto di rafforzare la sua influenza, sia economica che strategica nel Mediterraneo orientale. Anche per questa ragione l’Egitto rimane un partner fondamentale per l’Italia.

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POPOLO, ELITE, DEMOCRAZIA, di Pierluigi Fagan

POPOLO, ELITE, DEMOCRAZIA. (Post pensante, quindi pesante) Il “populismo” era una espressione politica manifestatasi a cavallo tra XIX e XX secolo in Russia, negli Stati Uniti d’America e in periodi relativamente più recenti in Sud America. Le prime due manifestazioni politiche fotografavano una opposizione tra una vasta porzione di popolo, agricolo, contro i poteri dominanti del tempo, tempi in cu la composizione sociale era molto semplificata. Leggermente diversa la composizione sociale in Sud America, figlia del diverso corso storico di quel continente. Papa Francesco (che è argentino), ebbe a ricordare che secondo lui, populismo era anche quello di Hitler e del suo partito-movimento che s’impose durante le convulsioni finali della Repubblica di Weimar.
Ho sempre nutrito una infastidita diffidenza verso l’utilizzo recente di questa categoria, in quanto democratico radicale non ho mai capito la differenza tra populismo e demagogia, stante che un democratico sa molto bene cos’è la demagogia in quanto storica malattia degenerativa proprio della democrazia. Non solo la categoria è incerta ma la sua applicazione mi è sembrata molto a casaccio. AfD, FN, Vox, FdI, ad esempio, mi sembrano legittimi partiti di destra, non vedo cosa c’entri il populismo. Avranno la loro percentuale di inclinazione demagogica, ma in comune a molte altre forze politiche in questi tempi di “democrazia spettatoriale”. Non ho neanche mai capito cosa c’entrasse la Brexit col populismo. E’ stata una etichetta intrisa di giudizio negativo, applicata appunto un po’ a casaccio per delegittimare posizione politiche avversarie. Forse se ne può accettare l’utilizzo descrittivo nel caso polacco, ungherese e di Trump, in buona parte per la forma di qualche tempo fa nel caso M5S e Lega, ma sono tutti casi da meglio precisare.
Non è un caso che questa categoria politica nasca come fenomeno politico concreto tra fine XIX ed inizi XX secolo, assieme al suo riflesso teorico. Questa è la “Teoria delle élite” di Mosca-Pareto-Michels. Ma la teoria era descrittiva, il suo utilizzo in chiave prescrittiva che cioè preveda politicamente che possa esistere una possibile contrapposizione secca tra élite e popolo inteso come il 99% di Occupy Wall Street (non a caso fenomeno americano), è un passaggio non compreso in quella teoria. Forse compresa da Michels quando da socialdemocratico tedesco diventò simpatizzante del fascismo italiano della prima ora, ma il caso individuale non è riflesso nella teoria in quanto tale.
Se la contrapposizione élite vs popolo esiste in descrizione, vale anche in prescrizione? Cioè esiste una via politica concreta che opponga le élite al popolo? Direi proprio di no, tranne in un caso. Il caso che prevede questa contrapposizione è quello vagamente oppositivo, ma una opposizione che non sviluppa una sua visione alternativa del potere, solo di interpreti, è movimento di opinione non movimento politico. Quando da movimento di vaga opinione diventa movimento concretamente politico, rischia solo di sostituire una élite ad un’altra, una élite sfidante “buona” fintanto che si contrappone a quella cattiva, ma destinata a trasformarsi inevitabilmente in “cattiva” quando prenderà il ruolo di élite dominante a sua volta. Come faccia una intenzione populista a riportare il potere al popolo, non è mai detto perché diventerebbe una teoria della democrazia che nessuno si sogna minimamente di promuovere davvero.
Sono cinque i fattori che hanno favorito l’affermarsi di questa partizione “popolo vs élite”. Il primo è la torsione globalista-finanziaria del modo economico occidentale, un nuovo modo che di sua natura intrinseca premia moltissimo pochissimi e pochissimo moltissimi. Il secondo è il fondo di impotenza che questa partizione induce, chi sa oggi come contrastare e riformulare il sistema in modo che non produca questa asimmetria di poteri? Il terzo è il collasso del pensiero politico di sinistra occorso all’indomani del ’91. Questo ha lasciato il campo a due fazioni di destra, populiste si sono manifestate le destre conservatrici finalmente in grado di assurgere al ruolo di difendenti il “popolo” considerato un omogeneo post-classista (il concetto di classe, a destra, fa l’effetto che l’aglio fa ai vampiri), in opposizione a quelle liberal-globaliste tacciate di progressismo-elitista, ma non meno di destra anch’esse. Anche parti una volta di sinistra si sono accodate a questa “furia del dileguare” della dicotomia destra-sinistra propagandata dalle destre. Del resto quando il cervello va in pappa l’indistinto della “notte in cui tutte le vacche sono nere” diventa l’unico modo di far funzionare l’apparato interpretativo. Il quarto fattore è la sempre più pronunciata divergenza tra complessità obiettiva del mondo e nostre facoltà di interpretarla. Sintomo di questa divergenza è la fioritura di teorie del complotto che antropomorfizzano e semplificano processi impersonali complessi. Il quinto e più importante, è la crisi ormai decennale della democrazia rappresentativa occidentale. Se in origine la democrazia altro non è che l’assemblea decisionale di individui facenti parte della forma di vita associata, la democrazia rappresentativa ha aggruppato questi individui in partiti e la degenerazione populista ha ulteriormente aggruppato i comunque plurali partiti in una massa indistinta, il popolo. Quest’ultimo passaggio, oltre per la coazione degli altri quattro fattori, si è creato per degenerazione democratica decennale in favore della democrazia spettatoriale. Da spettatori a consumatori il passo è stato breve, la politica diventa una faccenda di marketing, il politico è diventato il prodotto, il voto l’atto d’acquisto. Questo filone degenerativo origina delle specifiche teorie elitiste attive sulla “maggioranza silenziosa” nate in America negli anni ’60.
Il tutto prospera oltreché sui fenomeni nel mondo, da un totale abbandono della teoria politica democratica. Una forma detta “democrazia” ce la siamo trovata fatta quando siamo nati, ormai la generazione che ha vissuto la non democrazia sta scomparendo fisicamente e con lei almeno il ricordo del prima. Se quella forma meritasse o meno il titolo di democrazia non l’abbiamo mai discusso davvero e fino in fondo, perché poco chiaro cosa s’intendesse per “democrazia” in quanto tale. In teoria politica occidentale abbiamo Machiavelli, Bodin, Hobbes, Locke, Montesquieu, il “popolo” sotto forma di Terzo Stato di Sieyès, Tocqueville, vari conservatori à la Burke, Marx, Lenin, a parte Rousseau e pur coi suoi limiti, nessuno era democratico. Le origini del sistema parlamentare sono elitiste, dalla Gloriosa rivoluzione inglese di fine XVII secolo che affonda le sue radici nelle assemblee baronali dei tempi della Magna Charta (inizio XIII secolo). Un sistema nato elitista non diventa democratico solo perché si amplia la base elettorale, è un problema strutturale. C’è anche chi con somma impudenza epistemica usa con nonchalance l’ossimoro della “democrazia di mercato” come fosse un concetto. Da quando un ossimoro può diventare un concetto? qui siamo alla bancarotta logica. Quel sistema è stato usato di malavoglia dai seguici del marxismo-leninismo, tacciato di “democrazia borghese” è stato usato in attesa di fare un qualche salto rivoluzionario. Dove il fatto rivoluzionario s’è compiuto come in Russia, la fase dei soviet è durata lo spazio di un mattino, la fretta rivoluzionaria e le pressioni anti-rivoluzionarie, hanno portato a forme oligarchiche teorizzate già nel concetto di avanguardia del popolo (autonominata tale come tutte le élite).
Insomma, ci siamo dichiarati democratici senza sapere bene cosa significasse, quindi abbiamo accettato il lungo e costante processo di degenerazione attiva della democrazia condotto da élite sapienti, ci siamo ritrovati in assetti sociali descrivibili come élite vs popolo, abbiamo preso una descrizione e l’abbiamo fatta diventare una prescrizione stabilendo che è il popolo a dover dominare e non l’élite, abbiamo aspiranti nuove élite che in nome del popolo vogliono soppiantare quelle vigenti come già successe dalla Rivoluzione francese in poi.
Noi non siamo mai stati democratici, inutile piangere ciò che non c’è mai stato, piangiamo una vaga e romantica intenzione mai diventata pratica politica.

Molto interessante, grazie

Pierluigi

. Noterella brevissima: il potere (qualsiasi potere) è sempre un differenziale di potenza, + potente/ – potente. Il potere ugualmente distribuito tra tutti non esiste né può esistere, e l “uno vale uno” del M5* ne è la dimostrazione empirica. Sintesi, le élites ci sono sempre state e ci saranno sempre. Di qui sorgono le questioni a) legittimazione delle – b) ampiezza delle – c) ricambio delle – d) inclusività delle – e) efficacia nella leadership/capacità di competere con altre – f) coesione valoriale tra – e popolo eccetera.

Roberto Buffagni

Dalla nascita delle società complesse cinquemila anni fa, le élite ci sono sempre state. Che da ciò tu tragga certezza che sempre ci saranno è un “non sequitur”.

Pierluigi Fagan

E’ una argomentazione probabilistica + una di logica formale che si basa sul fatto che il potere è sempre un differenziale di potenza, + potente/ – potente

Roberto Buffagni

L’induzione è sempre probabilistica. Ma le probabilità lasciano spazio a possibilità contrarie

Pierluigi Fagan

Infatti non dico che sia impossibile, mai dire mai. Mi sembra molto, molto improbabile, ma io sono un reazionario

Roberto Buffagni

A me interessava solo fa notare che una cosa storicamente rarissima e legata a condizioni molto speciali, non diventa probabile se nessuno si applica a pensarla per poi provarla a farla diventare possibile.

NB_Tratto da facebook

 

Conosci il tuo nemico, di George Friedman

Conosci il tuo nemico

Pensieri dentro e intorno alla geopolitica.

Di: George Friedman

La cosa più importante nel poker è sapere contro chi stai giocando. Devi conoscere la sua

debolezza – non tutte, intendiamoci, ma una debitamente fatale. Perché il poker è un gioco

complesso, richiede una vastità di talenti umani che devi presumere che i punti di forza del

tuo avversario siano molti. Con una debolezza puoi possedere il tuo avversario, e forse la notte.

Lo stesso vale per il gioco delle nazioni. C’è una tendenza tra le persone e le nazioni ad essere

genuinamente consapevoli delle proprie mancanze e ad ignorare le debolezze altrui.

Gli Stati Uniti vivono un momento particolarmente difficile per arrivare a una valutazione

globale delle altre nazioni, in particolare delle loro debolezze. Ciò è in parte dovuto all’enorme

numero di nazioni con le quali una grande potenza deve confrontarsi, in parte perché i suoi

cittadini tendono ad essere ipercritici nei confronti della propria nazione e quindi sovrastimano

le altre nazioni. Altrettanto spesso scambiano i punti di forza per punti deboli o viceversa.

Prima della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno sottovalutato ampiamente il

Giappone su tutto; dalla sua capacità di produrre aerei da combattimento di qualità superiore

alla sua incapacità di pensare attraverso un’astuta mossa d’apertura. Gli Stati Uniti

disconoscevano anche le loro debolezze; l’esercito e la marina erano tra loro nemici mortali.

In molti modi, non rispondevano a nessuno. Washington pensava che le forze navali giapponesi

avrebbero collaborato con il loro esercito, pianificando operazioni congiunte, condividendo

strutture e così via. Di conseguenza, le opportunità sono andate perdute.

Durante la Guerra Fredda, gli Stati Uniti consideravano l’Unione Sovietica come un’immagine

speculare di se stessi. Contava i carri armati di Mosca ed era sbalordito dal loro numero, senza

rendersi conto che in molti casi erano in rovina o che avrebbero avuto grossi problemi a

mantenere l’erogazione del carburante durante l’offensiva. Gli Stati Uniti giunsero alla

conclusione che i sovietici avrebbero invaso la NATO in breve tempo, e quindi fecero piani

per l’uso di armi nucleari tattiche. I politici statunitensi non si sono mai preoccupati di

chiedersi: se i sovietici ci hanno inchiodati, perché non agiscono? Questa eccellente domanda

è stata discussa raramente. Il potere sovietico era un dato di fatto, tranne per il fatto che i

sovietici non attaccavano perché non potevano. In altre parole, gli Stati Uniti si preoccupavano

dei punti di forza dell’Unione Sovietica piuttosto che delle sue debolezze.

Quando gli Stati Uniti invasero l’Iraq, pensavano che la missione principale fosse la distruzione

dell’esercito di Saddam Hussein e che una volta ottenuto ciò avrebbero potuto imporre loro la

propria volontà. Non capiva che il regime si basava su una società armata, violenta e capace.

Né capiva il ruolo che avrebbero giocato gli sciiti. In questo caso, gli Stati Uniti hanno perso la

forza dietro l’apparente debolezza dell’Iraq. Il risultato fu una guerra prolungata che gli Stati

Uniti hanno perso non vincendola.

Da allora la Cina è diventata il principale avversario di Washington. Come con i sovietici, gli

Stati Uniti contano il materiale militare come se solo questo ci dicesse del potere della Cina.

La marina cinese non ha combattuto una battaglia tra flotte dal 1895, quando il Giappone le

ha schiacciate. In un confronto con gli Stati Uniti, né l’aviazione cinese né la marina hanno

abbastanza esperienza in battaglia. Né hanno la memoria istituzionale della guerra per

sostenerli. Tutte le esercitazioni e l’equipaggiamento più brillante del mondo non preparano

alla guerra ammiragli o sottufficiali inesperti.

Con il Giappone, gli Stati Uniti non sono riusciti a riconoscere quel profondo difetto nelle forze

armate. Nella Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno sopravvalutato il loro nemico. In Iraq, gli

Stati Uniti non sono riusciti a capire la struttura della resistenza che avrebbero incontrato.

E ora con la Cina, non riescono a riconoscere un nemico ben addestrato ma inesperto.

Nel poker, non capire le debolezze degli altri giocatori o, peggio, non vederne nessuna, è un

errore costoso. Ma sono solo soldi. Il fallimento degli Stati Uniti nel capire l’Iraq gli è costato

molto sangue e risorse. Non vedendo la principale debolezza militare della Cina, gli Stati Uniti

agiscono con una timidezza che non è del tutto giustificata e perdono l’opportunità di

ristrutturare forse pacificamente le loro relazioni con la Cina.

https://geopoliticalfutures.com/know-your-enemy/?tpa=OGUwMTMxM2MyZTkyNTFmYWMxMzU0NTE2MTQ3ODU4MTI1MjhiN2M&utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_term=https%3A%2F%2Fgeopoliticalfutures.com%2Fknow-your-enemy%2F%3Ftpa%3DOGUwMTMxM2MyZTkyNTFmYWMxMzU0NTE2MTQ3ODU4MTI1MjhiN2M&utm_content&utm_campaign=PAID+-+Everything+as+it%27s+published

LA CARNASCIALATA E L’IMPEACHMENT DI TRUMP, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA CARNASCIALATA E L’IMPEACHMENT DI TRUMP

Le vicende successive all’irruzione a Capitol Hill ci hanno indotto a tornare ad intervistare Machiavelli, sempre così premuroso e disponibile.

Ecco cosa ci ha detto.

Cosa pensa dell’irruzione dei sostenitori di Trump al Congresso?

Che è stata una gran carnascialata. Ai tempi miei per fare un golpe s’usavano pugnale e veleno. Nel secolo scorso fucili e carri armati. A parlare, come fa la vostra stampa, di colpo di stato, Cile e così via si entra nella comicità. Ma tant’è: vi vogliono prendere tutti per grulli.

Ma è stato violato il tempio della democrazia… Ai tempi nostri si ammazzava in quello di Dominenostro, dove i Pazzi assalirono i Medici in una delle più belle chiese del mondo, e spensero Iuliano. A pugnalate e non in costume e con le corna.

Ma è stato violato qualcosa di sacro…

Voi il senso del sacro lo celate così bene che l’avete perso. A forza di negarlo non sapete più dove sta. Il che non vuol dire che non ci sia. Solo che lo tirano fuori solo quando serve ad abbindolare il popolo. Utile a legittimare il potere nell’occasione opportuna, e dimenticato in tutte le altre. Guardate come rispettano, a casa vostra, la volontà del popolo: negli ultimi dieci anni avete cambiato sette governi, uno solo dei quali poteva vantare di avere la maggioranza dei suffragi popolari espressi nelle elezioni. Spesso i capi del governo non erano stati eletti neppure in un’assemblea di condominio, e poco o punto conosciuti al popolo. Anche perché, visti i risultati, a conoscerli li avrebbe accuratamente evitati.

A cosa è dovuta, secondo Lei, quest’abitudine a prendere per grandi e decisivi eventi di scarsa rilevanza. E così a promuoverli da carnascialate a eventi storici?

Gli è che voi non volete vivere nella storia né studiarla, ma ne avete una nostalgia nascosta, che spesso vi sollecita non la ragione, ma la fantasia. Così credete di vivere eventi epocali, mentre invece state assistendo, appunto, a carnascialate. D’altra parte vivete rischiando poco, assai meglio che in qualsiasi altra epoca, ma vi annoiate parecchio. Compensate così la piattezza del reale con l’eccitazione del fantastico. Noi avevamo a che fare con le picche svizzere e le spade spagnole, e dovevamo stare ben attenti a guardarci da entrambe. Voi spade e picche le dovete creare e così vi limitate ai giochi da computer.

E che ne pensa del processo a Trump per, come dice lei, la carnascialata?

Che tutti sapevano come sarebbe andata, mancando al Senato i numeri per la condanna ed essendo evidente che la carnascialata non era nulla di preoccupante, oggi.

Ma è un sintomo per il futuro. Scriveva Lenin che non si combattono le battaglie che si sanno perse in partenza. Ed è vero come regola, ma talvolta posso esserci delle eccezioni.

Solo che le cause profonde della carnascialata non si eliminano con i processi: né quelli che si vincono e ancor più se si sanno persi.

Lei ha scritto che i processi politici sono utili alla Repubblica.

Purché si concludano con una giusta valutazione dei fatti per cui si accusa “le accuse giovano alle repubbliche quanto le calunnie nuocono”.

Il buon senso ha fatto sì, che, seguendo gli ordini, sia stato conseguito il risultato meno dannoso. Hanno dato sfogo agli omori senza attizzarne altri, contrapposti.

Allora meritano la sua approvazione?

Per ora si. Per il futuro, vedremo.

Teodoro Klitsche de la Grange

Che cosa succede in Francia sull’energia nucleare, di Giuseppe Gagliano

La questione ambientale sarà un terreno fondamentale di confronto e di scontro politico. Dagli indirizzi che verranno imposti e dagli strumenti che verranno utilizzati dipenderà la prevalenza dei particolari centri decisionali e la conformazione delle formazioni politico-sociali. E’ già un terreno di duro scontro nelle dinamiche geopolitiche celato dietro un lirismo stucchevole e strumentale. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Che cosa succede in Francia sull’energia nucleare

di

L’articolo di Giuseppe Gagliano sulla chiusura della centrale nucleare di Fessenheim in Francia

 

“Nella notte tra lunedì 29 giugno e martedì 30, la centrale nucleare alsaziana di Fessenheim ha cessato definitivamente l’attività prima di essere smantellata. Situata sulle rive del Reno, vicino alla Germania e alla Svizzera, la più antica centrale elettrica della Francia ha smesso per sempre di produrre elettricità. Nei prossimi quindici anni ne è previsto lo smantellamento, a partire dalla rimozione del combustibile altamente radioattivo, che, secondo il programma sarà completato nel 2023”.

La chiusura è stata accolta come un successo della lotta ambientalista. Da molti anni infatti numerosi attivisti antinucleari hanno portato avanti manifestazioni non violente e azione di lobbying sulle autorità francesi per chiudere la centrale nucleare di Fessenheim alle quali hanno risposto provocatoriamente gli attivisti pro – nucleare.

In un primo momento si era previsto che questa chiusura dovesse essere per così dire sincronizzata con il lancio della terza centrale a Flamanville.

Ma la data di completamento è stata posticipata a causa di nuovi problemi al 2023. Quindi, come produrre i 12,32 TWh prodotti nel 2019 dalla centrale nucleare?

È più che ingenuo scommettere su mega fattorie di pannelli solari o turbine eoliche. La prevista installazione massiccia di un pannello solare nell’Alto Reno in sostituzione di Fessenheim fornirebbe solo il 17% della potenza dell’impianto. È importante sottolineare che il sole della regione ha una percentuale del 13%.

Per continuare e per compensare questa improvvisa perdita di energia, EDF dovrà rivolgersi a centrali termiche. Queste ultime pesano molto nella produzione di carbonio rispetto alle loro omologhe nucleari. Dove l’elettricità nucleare emette solo 6 g di CO2 per KWH, quella prodotta dal gas emette fra 500 e 1000 g di CO2 prodotta dall’energia dal carbone.

Anche se è necessario credere nelle fonti energetiche rinnovabili come l’eolico, il solare o l’idroelettrico, occorre assumere un atteggiamento realistico: il miraggio di questa transizione non tiene conto di molteplici elementi.

Per citarne solo uno, l’offshoring dell’inquinamento. Infatti per poter avere elettricità verde, occorre importare pannelli solari o turbine eoliche. Merci prodotte per la stragrande maggioranza nella Repubblica popolare cinese in modo molto inquinante e che richiedono materie prime estratte in modo identico e in condizioni umane più che deplorevoli.

Sarebbe quindi più realistico e soprattutto più ecologico parlare di complementarità energetica, dove le fonti di energia rinnovabile producono simultaneamente centrali nucleari, riducendo la quota di elettricità a base di carbonio.

Partendo dalla constatazione di natura storica che il nucleare sia civile che militare ha consentito alla Francia autorevolezza e credibilità sia nel contesto della autonomia energetica che in quello della politica internazionale, il caso francese dimostra in modo esemplare come i fondamentalismi in campo ecologico conducano i governi a scelte che finiscono per danneggiarne l’autonomia energetica e soprattutto la competizione globale.

A tale riguardo è di estremo interesse l’intervista rilasciata dall’ex direttore dell’impianto nucleare Joël Bultel che smentisce numerosi luoghi comuni. Secondo l’ex direttore seguire il modello tedesco costituirebbe un grave danno per la Francia.

In primo luogo gli impianti tedeschi producono quasi 10 volte più CO2 rispetto al sistema francese nel quale i consumatori pagano circa il 75% in più per la loro elettricità rispetto ai loro omologhi francesi. Si tratta di un modello energetico dai costi altissimi: parliamo di oltre 500 miliardi di euro.

Sostituire una tecnologia che produce quanto effettivamente serve con un’altra tecnologia che produce in modo intermittente a seconda delle condizioni meteorologiche significa degradare l’autonomia energetica.

In secondo luogo la chiusura di questo impianto è stata in realtà dettata da motivi squisitamente politici e questa chiusura sarà pagata molto cara da i consumatori: quasi mezzo miliardo di euro a breve termine e diversi miliardi cumulativi (tra 4 e 7 per un prezzo medio di mercato dell’elettricità compreso tra 40 e 50 € / MWh) per i prossimi 20 anni per compensare il danno.

In terzo luogo — sottolinea il direttore — questo impianto era in realtà funzionante e avrebbe potuto continuare a produrre elettricità a basso costo per altri vent’anni. Infatti la Corte dei Conti francese ha sottolineato il grave danno economico che una tale chiusura determinerà.

In quarto luogo questa vicenda dimostra per l’ennesima volta il ruolo sempre più importante e rilevante delle associazioni e delle ONG ambientaliste nel condizionare le scelte di politica energetica dei governi e dall’altro lato dimostra la debolezza della classe politica che per ragioni di consenso politico — non certo per convinzione — asseconda queste scelte.

https://www.startmag.it/energia/che-cosa-succede-in-francia-sullenergia-nucleare/?fbclid=IwAR1sKIHI1dKPW9-yz87f5qNgSMmVOLu4wb1aHXXh44NHxuLSgltKWFxO-9I

La trappola delle cose gratuite, di Davide Gionco

 

La trappola delle cose gratuite

Di Davide Gionco
07.02.2021

Che cosa spinge un topolino a farsi prendere dalla trappola, dopo avere rosicchiato il pezzo di formaggio? Che cosa spinge un pesce a mangiare l’esca, per poi finire pescato e, a sua volta, mangiato da un essere umano?
In entrambi i casi il movente è la certezza di avere un pasto gratis, senza rischi. Insieme ad una mancata valutazione delle conseguenze. E’ noto che il topolino ed il pesce vengono ingannati e fanno una brutta fine, negli interessi dell’essere umano che voleva catturarli.

Il famoso generale cinese Sun-Tzu diceva chiaramente “Ricorda: la guerra si fonda sull’inganno“.
Chi vuole catturare il topo con una trappola, sceglie un cibo irresistibile per il topo ed una posizione per la trappola comoda da raggiungere. Un bravo pescatore sa scegliere un’esca irresistibile per i pesci e si mette a pescare dove sa che i pesci passeranno.
E’ il modo migliore per catturare il topo, il miglior modo per pescare il pesce. E’ il migliore modo per vincere la guerra, se sei un generale.
E’ il migliore modo per piegare la gente ai propri interessi economici (e magari politici), se sei una multinazionale, indirizzando le (credute) libere scelte di milioni di persone verso situazioni sconvenienti per loro e convenienti per la multinazionale.

Il cuore della trappola è una perfetta preparazione dell’esca.

Cosa c’è di più allettante di una televisione gratuita, che ci offre in prima serata programmi che stuzzicano i nostri istinti? Storie strappalacrime, immagini sensuali, spettacoli leggeri e divertenti, che non impegnano la mente?
Cosa di più rassicurante di una informazione martellante e unanime, che ripropone sempre la stessa narrativa sul mondo, affinché non dobbiamo fare la fatica di mettere in discussione le nostre convinzioni ed attivare il nostro senso critico?
E il tutto senza pagare: l’esca perfetta.

A parte il fatto che, ovviamente, il prezzo lo paghiamo, da qualche parte, dato che tutto quello che ci fanno vedere comporta dei costi coperti dall’acquisto dei prodotti reclamizzati, più costosi (per pagare la pubblicità) e di cui probabilmente non avremmo mai avuto bisogno.
“Gratis”, però, non riguarda tanto il prezzo economico, quanto soprattutto lo sforzo mentale che (non) dobbiamo fare per renderci conto della situazione.

Se il pesce si fermasse ad osservare per capire il meccanismo esca+amo+lenza, si guarderebbe bene dall’abboccare. Invece non si ferma a riflettere: vede l’esca da mangiare, abbocca e viene pescato.
Lo stesso avviene nel mondo dei mass media.
Il vero prezzo che paghiamo è essere portati a credere alla rappresentazione acritica della realtà che “ci viene venduta gratis”.  Tutto semplice da capire, poco da ragionare, una comunicazione ripetitiva e coerente che non fa venire dubbi. Tale rappresentazione è molto spesso funzionale a tutelare gli interessi del famoso “uno per cento del mondo“, quello che diventa sempre più ricco, mentre gli altri diventano sempre più poveri.

Facciamo qualche esempio recente.

Nel corso delle ultime elezioni presidenziali negli USA quale narrativa ci è stata proposta? Mentre il “candidato presidente cattivo” Donald Trump ci veniva presentato con molti aspetti negativi, il “candidato presidente buono” Joe Biden veniva presentato come il candidato senza difetti, senza nulla ceccepire sul suo sostegno alla guerra in Irak (che, secondo la rivista The Lancet, ha complessivamente causato 790 mila morti), sul suo voto favorevole alla guerra in Serbia, in Libia e infine in Siria. E, naturalmente, tutti contenti perché, alla fine, il buono ha vinto ed il cattivo ha perso.
Facile: il buono vince, il cattivo perde (come nei vecchi film). Il formaggio è buono e il topo è preso dalla trappola.
In questi giorni il presidente Sergio Mattarella ha incaricato Mario Draghi per la formazione di un nuovo governo. Tutte le televisioni e i giornali, unanimi, continuano a rivolgere elogi sperticati all’ex governatore della Banca Centrale Europea, senza neppure una voce critica. Nessuna voce critica sul passato di Draghi, sulle conseguenze sociali delle privatizzazioni da lui promosse quando era al Tesoro, sulle sue dichiarate intenzioni di adottare le solite dottrine neoliberiste per l’economia italiana, le stesse che hanno prodotto povertà e disoccupazione in tutto il mondo, come sempre a favore del solito 1% del mondo.
Non si tratta di essere “pro” o “contro” il Biden di turno o il Draghi di turno, ma si tratta di un sistema di informazione “gratuito” (mentalmente non impegnativo) che, deliberatamente, ci presenta una narrativa totalmente acritica e molto distante dalla realtà. E lo fa per perseguire obiettivi ben precisi, senza stimolare il nostro senso critico per esprimere un nostro giudizio sulla realtà, perché se venisse risvegliato il nostro senso critico, potremmo assumere una opinione diversa da quella desiderata da chi decide come fare l’informazione.

Il meccanismo si ripropone con i social media, che ci troviamo comodi sul telefonino, che ci consentono di condividere contenuti con amici in tutto il mondo…
Anche in questo caso, ovviamente, i costi di funzionamento di questi servizi, come pure gli utili miliardari di chi li possiede, ovviamente li paghiamo quando acquistiamo i prodotti che ci hanno proposto, dopo avere conosciuto i nostri gusti (i famosi like  = mi piace).
Ma non solo. Pensavamo di poter disporre di un comodo sistema per essere informati sulla realtà, indipendente dai mass media, dove ciascuno può “dire la sua”. Peccato che gli algoritmi di funzionamento dei social media limitino il nostro accesso alle notizie “diverse da come la pensiamo” tramite le cosiddette “bolle di filtraggio” (filter bubble). L’effetto non è molto diverso da quello del coro unico delle televisioni.
I social media preferiscono darci conferme sulle idee che già abbiamo (spesso provenienti dalle televisioni e dai principali giornali), piuttosto che farci confrontare con idee fuori dal coro. Se poi qualcuno, dal loro punto di vista, esagera, i vari Facebook, Twitter, Youtube, Instagram, ecc. applicano sempre di più la censura unilaterale delle notizie che ritengono che non debbano essere diffuse. Esattamente come avveniva ai tempi del fascismo, quando le notizie da censurare erano quelle che criticavano il regime. Ricordiamoci che, ai tempi del fascismo, erano giudicate “fake news” le critiche alla guerra in Etiopia (con uso di armi chimiche) ed alle leggi razziali.
Anche Google, che si presenta come un motore di ricerca “tecnico”, neutro, gratuito ed efficiente, in realtà decide che cosa dobbiamo trovare, cosa no e in quale ordine. Ci dà la sensazione di navigare liberi su internet come potremmo fare andando a spasso in una città, ma in realtà ci sono zone della “città virtuale” che ci sono precluse, sconosciute e, quindi, di fatto inaccessibili, senza che noi neppure ce ne rendiamo conto.

Ma la trappola più pericolosa di tutte, nella quale stiamo incoscientemente cadendo, viene dal settore del commercio. Amazon e Alibaba continuano a proporre ai consumatori prodotti a prezzi decisamente inferiori a quelli dei negozi, tempi di consegna rapidi e direttamente a casa, vasta gamma di scelta: davvero sembra non esserci competizione. Anche perché Amazon paga poco o nulla di tasse, a differenza dei suoi concorrenti che vendono tramite negozi fisici sul territorio o anche online, ma senza usufruire dei vantaggi fiscali delle multinazionali.
Anche in questo caso il pezzo di formaggio è molto allettante: un gran numero di italiani si indirizza verso queste forme di vendita, guardando solo ai vantaggi a breve termine e senza porsi interrogativi sulle conseguenze di questa scelta.

Vi è la convinzione profonda che un prodotto sia unicamente costituito da una qualità e da un prezzo, per cui, una volta scelta la qualità, la soluzione più conveniente è quella che costa di meno.
La trappola scatterà una volta che tutti i negozi delle nostre città avranno chiuso, per cui saremo obbligati a fare acquisti unicamente dal sig. Jeff Bezos o dal sig. Jack Ma.

I quali potranno mettersi d’accordo nell’alzare unilateralmente i prezzi, non avendo più concorrenti, per cui i consumatori attualmente poco accorti non avranno via di scampo dai prezzi gonfiati.
Ma non solo. Anche i produttori dei beni commercializzati saranno messi sotto scacco. Infatti non avranno altro modo per raggiungere i loro clienti che passare per la distribuzione monopolistica di Amazon & c., i quali potranno imporre ai produttori di minimizzare i prezzi (e le loro rendite), al fine di massimizzare le rendite del distributore. Rendite minime per i produttore significheranno, ovviamente, salari minimi per i lavoratori.
Quindi i consumatori poco accorti verranno presi in trappola una seconda volta, dopo l’aumento dei prezzi, anche dalla riduzione del salario come lavoratori.

Infine non dobbiamo dimenticare le conseguenze sociali derivanti dalla chiusura di gran parte dei negozi in Italia. Oltre alla perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro nel settore dobbiamo prefigurarci dei centri abitati sostanzialmente privi di negozi. Immaginiamo le conseguenze per la vita sociale delle nostre città. I negozi non sono solamente dei punti vendita di merci, ma luoghi di incontro fra le persone, vetrine che abbelliscono le nostre vie e rendono vivi i luoghi in cui viviamo.

I legislatori dovrebbero tenere conto del prezioso valore sociale del commercio al dettaglio e tutelarlo dalla concorrenza della grande distribuzione delle vendite online. Ma anche noi cittadini dovremmo imparare a stare molto più attenti ogni volta che ci vengono proposti beni e servizi gratuiti o a prezzi eccezionalmente concorrenziali, perché quello che a prima vista sembra molto conveniente in molti casi non è altro che un’esca irresistibile che ci porterà a conseguenze per nulla convenienti.
Non lasciamoci prendere in trappola!

MEGLIO ARISTOTELE, di Teodoro Klitsche de la Grange

MEGLIO ARISTOTELE

Tra le tante cose che ci ha portato il Covid, v’è l’analisi/prospettiva/auspicio della riduzione/depotenziamento/annichilimento dei ceti medi e del loro ruolo nelle comunità umane. Sembra che le decadenti élite globalsinistre esorcizzino il proprio declino auspicando quello degli strati sociali meno ben disposti verso di loro. Pomposi accademici, elzeviristi mainstream, economisti di regime (e anche non di regime) profetizzano che dopo la scossa del Covid lavoratori autonomi, professionisti, artigiani, commercianti, quadri del settore privato (e anche di quello pubblico) diverranno pochi, inutili e miseri. Qualcuno sostiene idee del genere basandosi sul darwinismo sociale, altri sulle profezie marxiste, altri scomodano la “mano invisibile”.

Tutti sembrano contenti dell’auspicato evento: ma non tengono conto di quanto “pesino”, soprattutto se si passa da criteri economici a quelli politico-sociali i ceti medi; perché questi sono stati spesso considerati l’ossatura della società, i garanti dell’equilibrio politico-sociale sul quale ogni comunità durevole – ma soprattutto quelle democratiche – si fonda.

Già Aristotele – sostenitore dello Status mixtus, cioè di costituzioni che tenessero insieme elementi di più forme “pure”1 – lo sosteneva; si chiede infatti qual è la costituzione migliore, quale “forma di vita partecipata”, e fa ricorso al “giusto mezzo”2. Dove non c’è il giusto mezzo dei “ceti intermedi” ma prevalgono i troppo ricchi o i più poveri, si creano, per così dire, problemi di governabilità “Si forma quindi uno stato di schiavi e di despoti, ma non di liberi, di gente che invidia e di genere che disprezza, e tutto questo è quanto mai lontano dall’amicizia e dalla comunità statale, perché la comunità è in rapporto con l’amicizia, mentre coi nemici non vogliono avere in comune nemmeno la strada” (il corsivo è mio) e conclude che questo è l’ordinamento migliore: “È chiaro dunque, che la comunità statale migliore è quella fondata sul ceto medio e che possono essere ben amministrati quegli stati in cui il ceto medio è numeroso e più potente, possibilmente delle altre due classi, se no, di una delle due, ché in tal caso aggiungendosi a una di queste, fa inclinare la bilancia e impedisce che si producano gli eccessi contrari”3.

Nell’età moderna il rapporto tra ricchezza e istituzioni è spesso considerato analogamente4. Una particolare menzione merita Gaetano Mosca che nell’analisi della classe politica e del regime liberale (lo “Stato rappresentativo”) scrive che “il principio liberale trova le condizioni migliori per la sua applicazione quando il corpo elettorale è composto in maggioranza da quel secondo strato della classe dirigente che forma la spina dorsale di tutte le grandi organizzazioni politiche”5.

Marx ed Engels vedono invece i ceti medi, classi superate dallo sviluppo capitalistico; non si pongono il problema della democrazia (in senso classico) perché questa come ogni regime politico è destinata a sparire con la realizzazione della società comunista6.

È un pensiero ricorrente quindi che, ai fini dell’ordine politico sociale, ancor più in comunità democratiche, è decisiva l’esistenza di un ceto medio che garantisca l’equilibrio politico e sociale (e così moderi la lotta politica) e da cui viene reclutata (parte) della classe dirigente.

Ed è quindi quanto mai curioso che non sia considerata la funzione politica del “giusto mezzo” nelle società umane e di come la decadenza di questo apra a scenari di lotta aspra e dissoluzione istituzionale. Probabilmente va ascritto, almeno in buona parte – alla tendenza a pensare il criterio economico per valutare il buon governo prevalente su ogni altro; ed ancor più che un risultato quantitativamente “pagante” per tutti debba essere apprezzato anche da parte di coloro che pagano il conto. Ma in politica non è così: vale ancora il giudizio di Friederich List (da me spesso citato) che giudicava la propria come economia politica perché teneva conto dell’interesse della comunità, mentre quella di Adam Smith era economia cosmopolitica perché considerava quanto giovava all’homo aeconomicus, astratto e distaccato da ogni legame d’appartenenza politica e sociale.

In effetti è proprio del pensiero politico che l’interesse della comunità organizzata in Stato e non quello dell’umanità sia da conseguire. In primo luogo riguardo all’equilibrio del sistema, senza il quale quello all’esistenza viene, prima o poi, ad essere compromesso.

Teodoro Klitsche de la Grange

1“Diciamo di seguito a quanto s’è trattato in che modo sorge, oltre la democrazia e l’oligarchia, la cosiddetta politia, e in che modo bisogna costituirla. Insieme risulterà chiaro anche come si definiscono la democrazia e l’oligarchia, perché si deve fissare la distinzione tra queste due forme e poi metterle insieme, prendendo per dire un contributo da ciascuna delle due” i passi sono ripresi da Aristotele, La politica, IV, 9, 1294 a-b e ss. trad. it. di R. Laurenti.

2 Scrive “In tutti gli stati esistono tre classi di cittadini, i molto ricchi, i molto poveri, e, in terzo luogo, quanti stanno in mezzo a questi. Ora, siccome si è d’accordo che la misura e la medietà è l’ottimo, è evidente che anche dei beni di fortuna il possesso moderato è il migliore di tutti, perché rende facilissimo l’obbedire alla ragione, mentre chi è eccessivamente bello o forte o nobile o ricco, o, al contrario, eccessivamente misero o debole o troppo ignobile, è difficile che dia retta alla ragione” e prosegue “Oltre ciò, quelli che hanno in eccesso i beni di fortuna, forza, ricchezza, amici e altre cose del genere, non vogliono farsi governare né lo sanno… mentre quelli che si trovano in estrema penuria di tutto ciò, sono troppo remissivi. Sicché gli uni non sanno governare, bensì sottomettersi da servi al governo, gli altri non sanno sottomettersi a nessun governo ma governare in maniera despotica” (il corsivo è mio) op. cit., 1295 b..

3 Op. cit., 1296 a.

4 Per sintetizzarlo v. la voce Buon governo di P. Silvestri nel Dizionario del liberalismo “Con la progressiva emersione della sfera pubblica moderna, e in vista di un nesso più stretto tra governati e governanti, sotto forma di equilibrio delle forze sociali. In questo senso, e secondo l’idea sette-ottocentesca di «civilizzazione» che individuava un circolo virtuoso tra tra borghesia e progresso, il ceto medio era chiamato a svolgere un ruolo cruciale nell’ideale del governo misto. L’idea di «civilizzazione» supponeva che nella misura in cui lo sviluppo economico-sociale avrebbe allargato i fianchi del ceto medio (inteso come fulcro della società civile), a sua volta l’espansione del ceto medio avrebbe dovuto assorbire e mediare la lotta sociale e l’antagonismo fra le classi, anche in virtù di una maggiore osmosi tra sfera della proprietà e sfera pubblica” ed autori lì citati.

5 Ovviamente di Stato liberale si tratta. Ma nel discorso di Mosca per liberale lo s’intende non tanto in senso ideal-tipico, ma come assetto concreto che i poteri pubblici (ormai democratico-liberali) avevano all’inizio del XX secolo. E aggiunge “Al di sotto del primo strato della classe dirigente ve ne è sempre, e quindi anche nei regimi autocratici, un altro più numeroso, che comprende tutte le capacità direttrici del paese. Senza di esso qualunque organizzazione sarebbe impossibile, perché il primo strato non basterebbe da solo ad inquadrare e dirigere l’azione delle masse. Sicché dal grado di moralità, d’intelligenza e di attività di questo secondo strato dipende in ultima analisi la consistenza di qualunque organismo politico” v. Elementi di scienza politica, Torino 1923, pp. 412 ss.

6 “Quelle che furono fino ad ora le piccole classi medie dei piccoli industriali, negozianti e rentiers, degli artigiani e dei contadini proprietarii, finiscono per discendere al livello del proletariato” Manifesto del partito comunista.

ITALIA 2030, di Pierluigi Fagan

ITALIA 2030.
Mattarella ha fatto di necessità virtù. La necessità era data da quello che ha ricordato nel suo messaggio ovvero che non si dava nessuna maggioranza politica possibile. Si aprivano così due strade: elezioni o governo di transizione nazionale. Quanto alle elezioni, tra scioglimento delle Camere e presa operativa di un nuovo governo con in mezzo le elezioni sono passati 4 mesi nel 2013 e 5 nel 2018. Se si fosse andati ad elezioni, in questo mentre, si sarebbe comunque dovuto gestire la pandemia, porre in essere la necessaria campagna vaccinale, presentare comunque il Recovery Plan entro fine aprile stante che poi sarebbero passati altri due mesi per la discussione con la Commissione ed un altro con il Consiglio per poi organizzare la macchina di spesa in azioni concrete, alcune condizionate dall’Europa. Più tardi si fosse presentato il Piano, più tardi sarebbero arrivati i soldi. Nel frattempo, oltre le questioni sanitarie, si sarebbe dovuto anche affrontare il disagio sociale ed economico tra cui decidere cosa fare alla scadenza del blocco dei licenziamenti a fine marzo. Chi avrebbe dovuto e potuto fare tutto ciò senza mandato politico? Con quale credibilità nell’interlocuzione con l’Europa, gravida di qualche opportunità e molti probabili problemi? Secondo quale strategia di prospettiva visto che il Recovery Fund è un investimento di prospettiva? Infine, l’Italia martoriata dalla pandemia, avrebbe comunque vissuto una aspra stagione di conflitto politico elettorale con anche problemi evidenti di normale agibilità politica viste le difficoltà a riunirsi, fare assemblee, comizi etc. .
Mattarella non l’ha pubblicamente ricordato ma quest’anno, l’Italia ha la presidenza di turno del G20 che avrà assise finale di chiusura a Roma a fine ottobre. Sono 8 incontri tematici già svolti sotto la direzione del precedente Governo, più di 70 incontri che avrebbe dovuto gestire in qualche modo un governo pro-tempore seguendo quali fini non è chiaro, per poi arrivare ad altri poco meno di 50 per arrivare alla fine gestiti dal nuovo governo probabilmente in opposizione a quanto sino ad allora detto e fatto con evidente sconcerto degli altri 19 partners. Problema che si sarebbe riflesso anche col Recovery in quanto il nuovo governo avrebbe poi dovuto gestire piani fatti da altri e -come detto- secondo quale logica politica non si sa.
Al di là di tutte le dietrologie possibili, vi sarebbe sembrata quella delle elezioni una strada percorribile? Onestamente penso proprio di no. Ma arrivati qui vanno aggiunte due altre necessità non dichiarate. La prima è che il RF non è stato un progetto privo di attriti in Europa ed indubbiamente, l’Italia ne fa parte da leone. Un fallimento dell’Italia nella gestione dei fondi rappresenterebbe in Europa, una sconfitta per quanti hanno appoggiato l’iniziativa e la ripartizione ed alimenterebbe una nuova stagione di instabilità interna ai processi di unificazione europea. La seconda è l’allineamento con gli USA che nel frattempo sono passati da Trump a Biden con questo ultimo che ha idee ben chiare e precise sul come gestire la partita geopolitica dei prossimi tempi, un Occidente (allargato nel concetto di liberal-democrazie) con a capo gli americani vs sfidanti multipolari, un o di qua o di là preciso e di altrettante precise conseguenze su cui va presa posizione.
La virtù (dal punto di vista di Mattarella) passa attraverso l’idea di fare un governo di doppio livello. Un livello politico “all in” in modo sia di congelare la rissosità politica, sia di fornire una base di necessitato consenso all’azione del livello tecnico del governo stesso. Il livello tecnico avrebbe solo supervisionato le politiche sanitarie già impostate, magari migliorandole ma costringendo anche opposte fazioni a collaborare poiché ognuna a governo di un segmento specifico di un processo continuato. Questa rimaneva una gestione del tutto politica ma sottraendola alla dialettica governo-opposizione diventava quasi tecnica. Lo stesso livello politico, non solo entrando a più o meno parità nel Governo, ma anche come quasi totalità parlamentare, avrebbe sancito la legittimità democratica sia del Governo, sia della sua azione riformatrice. Seguono considerazioni politiche quali gli effetti di tutto ciò sulle derive populiste e sovraniste ora ostracizzate in via definitiva o quasi, almeno negli intenti.
E veniamo così al primo livello, il vero e più importante livello, il livello tecnico-politico. Draghi agisce verso l’esterno come garante, garante della buona attuazione del piano di ripresa sdoganato in Europa non senza difficoltà e limitazioni (il piano è comunque insufficiente), garante dell’allineamento atlantico, garante verso i mercati. Attenzione perché il nostro spread ha raggiunto il minimo da dieci anni ed a queste condizioni nuovo debito anche fuori dal RP si rende possibile, “debito buono” ovvero debito connesso a spesa che crei condizioni di possibilità per la crescita. E’ dal 1995 che il Pil italiano cresce ogni anno meno della media Europa.
Nel suo vasto curriculum, Draghi ha anche un dottorato al MIT (primo italiano) con Modigliani e Solow. Solow (Nobel ’87) è l’economista forse più noto nell’ambito della teoria della crescita che lega soprattutto al progresso tecnologico che incide sulla produttività, ritenuta la chiave della lievitazione. Ma successivi sviluppi teorici hanno aggiunto note sul capitale umano, sulle infrastrutture, sui quadri giuridici in cui opera la macchina economica.
Per sapere come Draghi pensava di applicare le sue convinzioni teorico economiche al caso Italia, basta leggersi le Considerazioni finali del Governatore di Banca d’Italia del 2011 quando lasciò l’istituto di palazzo Koch per andare a Francoforte. Da pagina 11 alla 16 è riassunta la diagnosi Draghi, quindi la prognosi. Si tenga conto che dieci anni al Tesoro (governi tanto di centrodestra che di centro sinistra) e cinque a Bankitalia, fanno di Draghi il miglior conoscitore possibile delle strutture dell’economia italiana sotto i profili fiscali, imprenditoriali, legislativi, strutturali, sociali e conoscere è la precondizione per cambiare tramite interventi coordinati. Draghi cioè è tra i pochissimi (forse l’unico) che conosce a fondo l’intero sistema anche perché la sua stessa definizione funzionale più precisa è -a mio avviso- proprio quella di funzionario di sistema. Un funzionario di solito al servizio di poteri vari che affollano il vertice del potere sistemico, oggi incaricato da Mattarella di esprimere per la prima volta in vita sua la sua visione in forma esecutiva, salvo via libera politico.
In breve, la diagnosi di sistema fatta a suo tempo da Draghi, era: 1) ottimizzazione della spesa pubblica esaminando problemi ed opportunità di bilancio “voce per voce” impiegando eventuali risparmi in investimenti strutturali; 2) riduzione tasse se c’è recupero di evasione fiscale; 3) se non c’è recupero di produttività i salari ristagnano e ne risente la crescita; 4) la produttività italiana ristagna perché il nostro sistema non si è ancora adattato all’evoluzione tecnologica ed alla globalizzazione; 5) non funziona la giustizia civile e questa mancanza di quadro normativo porta a perdere anche un punto di Pil oltreché sconsigliare investimenti esteri; 6) fino ad un altro punto percentuale di mancata crescita lo si deve al sistema educativo e formativo, soprattutto universitario e di livelli medi di scolarità tra i più bassi tra i paesi OCSE; 7) c’è poca concorrenza di mercato; 8) abbiamo una prolungata carenza di spesa ed efficienza di spesa nelle infrastrutture; 8) non sappiamo neanche impiegare a fondo e gestire bene i fondi europei; 9) si è scaricata tutta la flessibilità necessaria nel mercato del lavoro in entrata (contratti); 10) le sole contrattazioni nazionali sono tropo rigide ed impediscono patti aziendali locali tra lavoratori ed imprese; 11) scarsi supporti nei servizi sociali e non solo, deprimono la partecipazione femminile al mercato del lavoro creando un ulteriore freno allo sviluppo sistemico; 12) il sistema di protezione sociale deve esser in grado di sostenere chi perde un lavoro e ne cerca un altro aiutando così la vivibilità di un sistema in perenne trasformazione adattiva; 13) le imprese italiane sono piccole, famigliari, sottocapitalizzate, strutturalmente inabili al mercato globale.
Come in parte si vede nella recente composizione del governo, i ministeri – Tesoro, Giustizia, Infrastrutture, Istruzione – sono le chiavi necessarie per la trasformazione strutturale auspicata e quindi avocati a sé o a sue dirette emanazioni, quelli del Digitale e della Transizione ecologica sono più legati alla gestione dei fondi di ripresa europei, ma il primo è anch’esso infrastrutturale. Così per la delega per i rapporti con l’UE ed in fondo anche l’asse strategico degli Affari esteri.
Draghi ha poco tempo forse poco più di un anno. Ma l’obiettivo non è risolvere tutti gli italici problemi in un tempo impossibile, è impostare la struttura. Dopodiché come Presidente della Repubblica ha almeno altri sette anni per supervisionare lo sviluppo di quella struttura. Il PdR controfirma ogni anno la finanziaria e non sarà una passeggiata per i governi dei prossimi anni, far firmare paginette con tutto ed il suo contrario recapitate al Quirinale mezzora prima della scadenza. Draghi diventerà un vincolo interno più che il pareggio di bilancio in Costituzione. Draghi diventerà il garante del rischio o opportunità Italia almeno fino al 2030. Il mandante di Draghi è Mattarella, ovvero l’ultimo rappresentante in vita della sinistra democristiana (si rivedano le dichiarazioni di Tabacci dopo il recente incontro delle delegazioni dei partiti stante che Tabacci era di un tipo di sinistra democristiana -Mantova, Marcora- e Mattarella di un’altra -Sicilia/Aldo Moro), un ottantenne che dà mandato ad un settantaquattrenne interpretando a modo suo l’interesse generale visto che dal basso non s’è riusciti a convenire su uno diverso.
L’operazione Draghi si potrebbe infatti intendere come titolo, contenuto e garanzia, di un piano “Italia 2030”, piani di pianificazione e prospettiva che ormai fanno quasi tutti in ambito internazionale. Se l’Italia mostra di poter tornare in trend di crescita almeno pari o qualche volta superiore alla media UE, non importa l’entità del suo debito, l’Europa è salva (almeno su questo aspetto), l’euro è salvo. Altrimenti potrebbe venir giù tutto, incluso il tetto della casa in cui abitiamo noi stessi.
Poiché siamo già lunghi, mi risparmio ogni più dettagliata analisi e soprattutto il giudizio, anche perché il giudizio lo darà chi legge e soprattutto lo dovrà dare a fronte dei fatti che dettaglieranno questo lungo elenco di intenzioni. Mi limiterò ad un punto.
Draghi è chiamato a proseguire il ruolo che ebbe Ciampi con cui ha molti punti contatto. Ciampi era di area catto-liberal-socialista, banchiere centrale, economista, politico, scuola elementare dai gesuiti, cattolico, germanofono, austero e riservato, Presidente del Consiglio prima e della Repubblica poi nonché a capo di una squadra di economisti-funzionari detti “Ciampi boys” capitanati da Mario Draghi che proprio lui aveva spinto al Tesoro. Nonché patriota. Draghi non è qui per gestire la pandemia o solo per il Recovery plan-fund o per l’Europa o per gli USA, è qui per fare una profonda riforma strutturale dell’Italia.
La missione di Draghi è normalizzare l’Italia, allineare l’Italia allo standard occidentale. L’Italia è un paese capitalista dove il capitalismo funziona male. Non è né un modello alternativo, né una versione declinata del modello standard ed è in queste condizioni dai primi anni Novanta. Coi tempi che vengono incontro, l’interesse generale dovrebbe esser quello di definirsi o in un senso o in un altro. Draghi viene a definirci in un senso, chi propugna un senso alternativo dovrebbe esser a livello della sfida, se ne è capace. Tutto il resto sono epidemie narrative (citazione cara a Draghi e riferita ad un concetto formulato da un altro Nobel per l’economia, R.J.Schiller, 2013). E’ qui perché nel nostro Paese sembrano non esistere forze sociali ed intellettuali in grado di proporre un proprio piano Italia 2030 egemonico. Sarà quindi il caso di farsene una idea in fretta se non si vuol subire quello che ha in mente Draghi o se s’intende anche solo migliorare il suo piano, perché sempre più nei prossimi tempi, quando un uomo con una strategia incontra un uomo con la tattica, l’uomo della tattica è un uomo morto.
LA MANO DI DRAGHI.
Avrete letto su i quotidiani che all’indomani dell’incarico conferito da Mattarella a che Draghi, la chiave di ricerca “Draghi è di destra o di sinistra?” su Google è esplosa. Tra i tanti e divertenti meme che sono girati negli ultimi giorni ce n’era uno con la foto del nostro con la sua mano in primo piano accompagnato dalla scritta ironica “Questa mano po’ esse Friedman o po’ esse Keynes”. Il post tenta di farsi largo e delucidare questo guazzabuglio categoriale.
Prima però va fatta una nota, anzi una doppia nota. La prima è che noi interpretiamo la realtà cercando di infilare questa nei nostri schemi categoriali a mo’ dell’antico mito greco del Letto di Procuste. Questi era un brigante posto su un passo di montagna che schiaffava i viandanti su un letto di pietra. Laddove questi risultavano più piccoli li “stirava”, laddove fossero stati più grandi li amputava. Così noi spesso teniamo fisse le nostre categorie e stiriamo o amputiamo i fatti per farli corrispondere alle nostre categorie apriori. La seconda è Draghi ha una mentalità complessiva che ovviamente fa perno sull’economia, impostazione otto-novecentesca per altro condivisa da un vasto arco intellettuale che va dai marxisti al liberali.
In questi giorni, c’è chi ha rimarcato nel curriculum del nostro Federico Caffè, stante che il più accreditato allievo organico del professore fu invero Bruno Amoroso che poca simpatia aveva per Draghi, la sua formazione al MIT presso cui risulta esser il primo italiano ad essersi specializzato, la lunga carriera di “public servant” stante che i public servant sognano di esser un giorno non più “servant”, l’incarico in Goldman Sachs per altro breve e forse meno significativo del ritenuto, la lunga presenza nei centri internazionali del sistema (WB, BIS, AsDB, Gruppo dei Trenta etc.), fino al mitico bluff del Whatever it takes alla BCE. Segnalo che alla fine del suo mandato pare gli sia stato offerto di sostituire Lagarde all’IMF, ma il nostro ha declinato l’invito, evidentemente aveva altri piani e che Draghi faccia piani è caratteristica primaria del personaggio. Zamagni pochi giorni fa, diceva fosse allineato (con spostamento un po’ più a destra) alla visione economica di papa Francesco. Brancaccio e Realfonzo invece, l’hanno inquadrato come liberal-schumpeteriano. Dacché i lettori, col loro Letto di Procuste mentale, avranno tratto l’impressione sia in fondo un ambiguo poiché poco definibile rispetto alle misure del letto di pietra che hanno in testa.
Com’è Draghi al netto del Letto con cui vorremmo misurarlo? In realtà, anche Draghi che più di altri forse pensa che l’economia ordini tutto il resto, parte da una preferenza ideologica prettamente politica. Questa è un “ircocervo” direbbero i procustiani un “né-né” o un “e-e” ovvero la categoria a cui lui stesso, in una rara intervista, si è definito: liberalsocialista. Cos’è un liberalsocialista?
I liberalsocialisti innanzitutto sono pochi, da sempre, una sparuta pattuglia di gente che non s’è iscritta alle due partizioni dominanti liberale e socialista, trovandovi pragmaticamente del buono tanto nell’uno che nell’altro. Ora farò un elenco di liberalsocialisti che ai lettori più giovani dirà meno che un elenco dei componenti della nazionale di hockey canadese, ma che ai lettori più anziani dirà invece qualcosa di più. Si tratta di un ampio fronte (sì, sono storicamente pochi, ma molto vari) che include: Gaetano Salvemini, Carlo Rosselli, Ernesto Rossi, Piero Gobetti, per un po’ anche Benedetto Croce, Guido Calogero, Guido De Ruggiero, Aldo Capitini, Piero Calamandrei, Leone Ginzburg, Altiero Spinelli, Eugenio Colorni, Leo Valiani, Norberto Bobbio (Ralf Dahrendorf), Silvio Trentin, Ferruccio Parri, Riccardo Lombardi, il padre di Berlinguer Mario, con una area intorno in cui piazzare Vittorio Foa, Adriano Olivetti, Giorgio Bocca, Federico Chabod, Enrico Cuccia, Ugo la Malfa, Carlo Bo, Bruno Zevi ed altri. Così per Carlo Azeglio Ciampi da cui discende in linea diretta Mario Draghi. Ma Draghi, a mio avviso, ha una sensibilità politica meno pronunciata di quella economica versione tendenzialmente tecnica. Si noti, del gruppo fanno parte per lo più teorici politici ed intellettuali, non economisti.
Se l’ispirazione ideale pregressa dei liberalsocialisti o socialisti-liberali è quella di Giuseppe Mazzini, nei fatti la gran parte dei nomi citati ha fatto parte del movimento Giustizia e Libertà ma di più Partito d’Azione che ne fu l’espressione più organica, fino al socialismo democratico. Dopoguerra, li troviamo solo per caso e per poco tempo nel PLI, soprattutto nel PRI, nel PSDI, nella galassia socialista dal PSI al PSIUP, nel Partito Radicale originario. L’affiliazione rara e poco organica alla Democrazia Cristiana per taluni (coloro nella cui mentalità cui fa perno la “fede”), deriva dalla coincidenza nella visione teorica della c.d “economia mista” per certi versi, nell’ordoliberalismo tedesco inziale (quello di W.Eucken e W.Ropke) ovvero l’economia sociale di mercato o più sfumatamente nella altrettanto variegata “sinistra DC” di cui Mattarella è erede come i “margherita” Letta-Franceschini. Ma per altre linee, si potrebbe aver riferimento nella terza via di Blair, Obama, fino a Renzi. Certo, tra Renzi, Foa, Parri, La Malfa e Olivetti passano fiumi, ma tant’è, l’area è piccola ma molto variegata. La sindrome pulviscolare o delle cinquanta sfumature non è esclusiva dei marxisti e dei liberali quindi lo sarà anche di questi un po’ dell’uno ed un po’ dell’altro che quindi non sono né l’uno, né l’altro
Di tutto ciò, Mario Draghi è solo una espressione tipicamente economica, molto più contemporanea del vecchio azionismo del ’45, quindi alle prese con evoluzioni dei significati di liberalismo, socialdemocrazia, mercato, società degli ultimi decenni, oltre ovviamente al potente cambiamento di scenario ormai non più nazionale, ma europeo (Draghi è idealmente un federalista europeo) e soprattutto mondiale o globale. Inoltre, più che ampiamente “economista”, Draghi ha una specializzazione monetaria e di bilancio, forse lo si potrebbe inquadrare come “keynesiano idraulico” secondo la sprezzante definizione data da A. Coddington, ma i teorici del keynesismo potranno esser più precisi nel rilascio della patente.
In breve del breve, questa area di pensiero è fortemente democratica anche se per composizione ed intensità intellettuale prende poi pose liberal-elitiste e crede che il modo economico migliore sia di tipo (capitalista) di mercato che però è solo un modo migliore relativo, il mercato spesso fallisce e non è detto che il suo bene si traferisca di per sé alla società. Va quindi guidato, corretto, assistito ma con discrezione, senza distorcene i delicati equilibri dinamici. In pratica sarebbero gli alfieri di una politica economica programmata che li differenzia dai fondamentalisti di mercato, tanto quanto dai pianificatori economici totali. Una mano visibile che aiuta la mano invisibile. Anzi due mani visibili, la mano destra e la mano sinistra.
C.Tito oggi, su Repubblica, sostiene come per altro indicavamo nel nostro precedente post, che l’azione di governo centrale ovvero con accanto problemi sanitari e problemi del Recovery, che Draghi indicherà nel discorso per la fiducia al Senato, sarà basata su tre punti: fisco, giustizia civile e pubblica amministrazione. Secondo ma ha sottovalutato infrastrutture (Giovannini) ed istruzione (Bianchi) ma insomma, l’anima strutturale di questa azione di riforma molto potente ed ambiziosa appare chiara. Il tutto basandosi sulla concordia e coesione sociale necessaria: “”Dobbiamo prendere il nostro destino nelle nostre mani se vogliamo sopravvivere come comunità” secondo quanto espresse al commiato di fine mandato alla BCE, valeva per l’Europa come per ogni singolo Stato componente l’Unione.
Rispetto quindi alle premesse, Draghi è un po’ tutte le cose che sono state dette dai principali commentatori, ma nessuna di queste singolarmente presa. Infine, da notare che nessuno in Italia ha delegato direttamente Draghi ad una simile riforma fondamentale (se non Mattarella che però democraticamente è solo uno che vale uno), ma non ha neanche delegato i partiti che lo appoggeranno. I partiti sono lì su altri mandati. Nessuno ha discusso ampiamente in Italia di questi temi di ambiziosa riforma in questi anni, per lo meno in maniera seria ed organica. Ne consegue che un uomo solo ha idee molto chiare ovvero Draghi, controllato e supportato da molti uomini che hanno tante idee ma altrettanto poco chiare e comunque mai sistemiche e sistematizzate ovvero i partiti non meno dei sindacati e le parziali associazioni di categoria, politici mandati lì da un popolo che di idee ne ha poche ma molto confuse.
Chiudo quindi con una citazione a me cara di Gunther Anders: “«Cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque. E, in larga misura, questo cambiamento avviene senza la nostra collaborazione. Nostro compito è anche ďinterpretarlo. E ciò, precisamente, per cambiare il cambiamento. Affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi».
Si pone quindi sempre lo stesso storico problema: a quale mentalità condivisa è attaccata la mano che agisce? Cosa scegliere quando la realtà chiama l’intervento della mano ma questa non ha una mentalità condivisa che la ordina? Non fare nulla perché non siamo democraticamente pronti e pagare i prezzi salati dell’inazione? Delegare a chi sembra di sapere sebbene chissà poi cosa sa, se sa? O renderci conto che siamo sempre in ritardo e pensare a come cercar di evitare in futuro di esser sempre così distratti, trafelati e senza una meta decisa in autonomia dalla massa critica della nostra comunità?
Alcuni link utili per approfondire:
NB_Tratto da Facebook

LE MANI SPORCHE E LA LEGA, di Teodoro Klitsche de la Grange

LE MANI SPORCHE E LA LEGA

Le recenti vicende della crisi politica hanno provocato il solito rosario di spiegazioni basate su ideali, coerenza, ecc. ecc., aventi tutte in comune: a) la funzione propagandistica, di favorire gli amici (globalsinistri) e denigrare i nemici (sovrandestri) b) ciò che più interessa, usando argomenti di contorno, secondari, ed eliminando (perché scomodi e spesso estranei al loro modo di pensare) quelli principali.

Utilizzando la “cassetta degli attrezzi” del realismo politico l’interpretazione delle mosse degli attori in gioco è diversa.

Il primo caso è la “conversione” europeista di Salvini onde – secondo i media mainstream lo stesso sarebbe: un voltagabbana traditore e/o sconfitto da Draghi e dalle panzerdivisionen europee.

In realtà la prima regolarità della politica è la ricerca del potere (e del dominio), e la conversione della Lega deve valutarsi alla luce di quella regolarità assai più della quantità (e qualità) degli improperi anti-europei lanciati da Salvini e rilanciati dagli euroglobalisti (per lo più dai loro araldi); anche perché i nemici sono sì quelli con cui si conduce la guerra, ma anche coloro con cui si fa la pace.

All’uopo è bene ricordare il dramma di Sartre “les Mains sales”, in cui il protagonista, estremista dissidente uccide il segretario del partito comunista Hoederer perché ha realizzato un accordo con il regime collaborazionista filotedesco, contro il quale comunisti e i loro alleati conducevano una guerra civile. La scena del negoziato tra i leaders è un insieme di topos realistici a favore del capovolgimento di fronte, la spartizione del potere e i fattori di potenza.

Senza alcun problema Hoederer propone un accordo – accettato dal nemico, il capo dei filonazisti, ma rifiutato dal leader degli alleati borghesi – nel quale il partito comunista ha un ruolo preponderante nel nuovo organo di governo (3 membri su 6); la ragione di ciò è l’avanzata delle armate sovietiche, e la necessità dei conservatori d’ingraziarseli, nonché quella di tutti di far cessare le lotte interne e la guerra (esterna). Come dice il Principe, capo dei filonazisti “è necessaria una visione realistica della situazione”; Karsky, il capo degli antinazisti non comunisti, che ricorre (anche) ad argomenti moralistici, rimane isolato e perdente.

Di accordi come quello rappresentato nel dramma da Sartre, nella storia ne sono stati realizzati infiniti, anche in una guerra fortemente “ideologizzata” come la seconda guerra mondiale.

Ma perché in un contesto istituzionale come quello italiano, la partecipazione al governo, anche con forze opposte, ha tale importanza, tenuto conto che la Lega rischia di pagare un prezzo in termini elettorali alla coerenza della Meloni? Qua occorre ricorrere a due pensatori del ‘900. Il primo, Carl Schmitt sostiene che in una Repubblica parlamentare (com’è l’Italia) “Chi detiene la maggioranza fa anche le leggi ed inoltre è in grado di far rispettare le leggi che esso stesso ha fatto. Ma la cosa più importante è che il monopolio di far valere le leggi in vigore gli conferisce il possesso legale degli strumenti di potere statali e di conseguenza anche un potere politico assai più ampio della semplice «validità» delle norme”. Il giurista di Plettemberg chiama ciò “un plusvalore politico addizionale che si aggiunge al potere meramente normativistico-legale: un premio super legale al possesso legale del potere legale ed alla conquista della maggioranza”.

Entrando nel governo la Lega (e Forza Italia) ottengono due vantaggi: fruire di detto “plusvalore” e sottrarne (una parte) agli avversari.

E qua occorre ricordare Gramsci, per cui “lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catene di fortezze e casematte”: ma in uno Stato amministrativo, “sociale”, distributivo e soprattutto ben più esteso di quello liberale di un secolo fa, una parte di quelle casematte, che il pensatore sardo vedeva nella società civile, sono ora collocate (e dirette) nel e dal settore pubblico. Occupare – almeno in parte – la direzione di (gran parte) di quelle casematte è un passo – più che notevole – verso il potere.

D’altra parte anche se Draghi è, per storia e curriculum personale tutt’altro che un sovran-popul-identitario, ma un euroglobalista, lo stesso realismo consiglia: a) di tener conto che la maggioranza del popolo italiano è dall’altra parte b) che seguire una politica che non ne tenga conto è indebolire il governo sia in termini di consenso che di potenza. I cattivi risultati ottenuti dai governi italiani degli ultimi dieci anni con l’Europa (e non solo) sono stati determinati – in buona parte – dal fatto che i poteri “forti” (statali e non) sapevano di avere a che fare con governanti deboli, carenti di consenso e anche perciò poco affidabili. Utilizzabili nell’immediato, ma controproducenti per gli sponsor nel futuro.

Il governo Monti, con l’enorme e rapido aumento dell’opposizione anti-sistema, l’ha provato.

Pensare che Draghi (e i leaders europei) voglia ripetere quel colossale errore, è far torto alla prudenza e alle indubbie capacità dell’ex capo della BCE. Certo, il futuro è incerto e, come sempre, saranno i risultati a dire se la manovra è riuscita o meno. Ma è sicuramente un errore giudicare vinta o persa la partita prima che l’arbitro ne fischi l’inizio, sulla base, magari, del colore delle magliette dei giocatori. Così si fa tifo da stadio, non analisi politica.

Teodoro Klitsche de la Grange

La preparazione di Draghi_di Gianni Candotto

Draghi, comunque, appartiene alla schiera ristretta dei decisori o quantomeno al livello immediatamente inferiore. E’ in grado quindi di adattare e rivedere le proprie posizioni in un contesto diverso, ferma restando la costanza della sua rete di relazioni e della sua appartenenza a determinati centri decisionali. Che sia in corso e che ci sia la consapevolezza e la necessità da almeno un paio di anni di un cambio di paradigma pare ormai evidente ai più_Giuseppe Germinario
DRAGHI E’ PREPARATO E HA UN GRAN CURRICULUM. QUINDI VIVA DRAGHI? PERCHE’ NO.
Dopo due anni e mezzo di grillismo e di improvvisati al governo, la domanda di gran parte della società è quella di avere persone competenti che sappiano gestire la cosa pubblica. Quindi per alcuni la figura di Draghi, che rappresenta l’antitesi umana e culturale del Di Maio di turno, rappresenta una lieta novità.
Al netto del fatto che in politica la competenza deve essere nella politica, non in una materia tecnica (essere un bravissimo architetto di suo non ha nessun valore per determinare la competenza politica, come essere un bravissimo medico, un bravissimo banchiere o un bravissimo fioraio, non significa essere un politico competente), ma questo è un argomento complesso che ci fuorvierebbe rispetto al ragionamento che voglio fare, occorre capire perché prima della competenza personale è necessario analizzare le idee che un politico vuol portare a compimento.
In politica conta molto la preparazione, perché la preparazione politica permette l’essere in grado di mettere in atto le idee che si vogliono portare avanti. Ma prima di tutto contano le idee che si vogliono portare avanti. Perché se le idee sono sbagliate la competenza è un pericolo, non una qualità.
Faccio un esempio pratico per semplificare il concetto (esempio che non c’entra con Draghi, ma è in generale). Prendiamo due politici fortemente favorevoli a un aumento dell’immigrazione in Italia. Di quelli che “non esistono i confini”, non esistono le nazioni, i popoli, abbiamo bisogno di milioni di immigrati perché ci paghino le pensioni ecc. La differenza tra i due è che uno è competente, l’altro incompetente e fannullone. Il risultato finale è che se governa il competente riuscirà a far venire molti più immigrati perché creerà un sistema efficiente di sussidi per immigrati, con casa, assistenza ecc., mentre se al governo ci sarà l’incompetente riuscirà a farne venire molti meno perché non riuscirà a organizzare un sistema di accoglienza ecc.ecc. Ma alla fine, se assumiamo che far venire milioni di immigrati sia un danno e un problema per l’Italia, il competente farà molti più danni dell’incompetente. Potrei fare esempi molto più estremi su quanti più danni può fare un competente preparato rispetto a un incompetente fannullone quando le idee sono molto più radicali e criminali, per esempio sulla volontà di creare una dittatura totalitaria, o di sterminare delle persone, ma mi fermo qua sperando che il concetto sia chiaro.
Quindi assunto che la competenza serve ad applicare con efficienza delle idee di governo, ma che la cosa fondamentale è sapere quali sono le idee, parliamo di Mario Draghi.
Quali sono quindi le idee che negli anni ha propugnato Mario Draghi? Quali sono le politiche che Draghi ha portato avanti negli anni?
Dal 1991 al 2001 è stato direttore generale del Tesoro e si è reso protagonista in tre vicende: le privatizzazioni del patrimonio dell’IRI (dal 1992 in poi), l’acquisto di derivati di Morgan Stanley (1994) e la legge Draghi (Testo Unico della Finanza legge 58 del 1998). Sulle privatizzazioni, oggi è opinione comune che si trattò di una scellerata operazione di svendita del patrimonio pubblico italiano che costò tantissimo all’Italia. Se Draghi fu forse (o forse no?) più il braccio operativo di questa operazione che la mente, fu comunque Draghi a presentare la vendita del patrimonio pubblico alla grande finanza anglosassone sul panfilo Britannia nel 1992.
Sempre sovrainteso da Draghi fu l’acquisto dei derivati “a copertura del debito”, i celebri “credit default swap” di Morgan Stanley, operazione riprodotta da tante amministrazioni locali, che dal 2008 creò un grande buco di bilancio a favore della grande banca d’affari americana (circa 25 miliardi). Un’operazione sicuramente disastrosa.
Un’altra decisione poi rivelatasi disastrosa è l’eliminazione della separazione tra banche d’affari e banche commerciali decisa nella legge Draghi del 1998. Questa legge ha permesso alle banche di usare il credito dei cittadini per acquistare titoli derivati e fare operazioni a rischio. Questa legge, assieme agli accordi europei di Basilea 3, anche lì Draghi ebbe un ruolo come presidente della BCE, fu lo strumento che permise alle banche operazioni spericolate e portò al fallimento di tante di esse, con i conseguenti disastri per i cittadini che avevano lasciato alle stesse i loro risparmi.
I tanti che lo ammirano, e oggi si sono moltiplicati come funghi, ricordano il “whatever it takes” del luglio 2012 che mise fine alla speculazione sul debito italiano, riportando il celebre spread a livelli più normali. Ma a parte essere un’operazione normale di una banca centrale, che l’Italia, se avesse avuto una banca centrale propria, avrebbe fatto da sola senza tanto clamore, bisogna analizzare i tempi. Fu fatta nel luglio 2012, 10 mesi dopo che l’Italia era andata in sofferenza per lo spread. E non in crisi di debito pubblico, che un po’ tutti gli studiosi un po’ più seri sapevano non esistere, ma sotto attacco speculativo. E la dimostrazione l’abbiamo sotto gli occhi di tutti oggi. Col debito al 125% del 2011 dicevano che lo stesso era insostenibile, oggi col debito al 160% in netto peggioramento lo spread è quasi a zero e il debito risulta sostenibilissimo. Questo perché l’Italia può sostenere un debito pubblico, pur non avendo una banca centrale creditrice di ultima istanza, fino circa al 230/240% del proprio Pil. Quindi era solo una speculazione finanziaria, e aver aspettato 10 mesi per difendere uno stato da un attacco speculativo, per me è ben lungi dall’essere un merito. Ma nel 2012 c’era Monti che applicava alla lettera i “consigli” proprio di Draghi della lettera Draghi Trichet inviata a Berlusconi il 5 agosto 2011.
Cosa diceva quella lettera, che era un po’ il manifesto politico di ciò che andava fatto secondo Draghi? Parlava di necessità di tagli pesanti alla spesa sociale. Monti e i suoi successori applicarono questa direttiva. I 50 miliardi di tagli alla sanità nascono da lì. E le mancanze degli ospedali, del personale, delle terapie intensive, che abbiamo avuto sott’occhio con l’emergenza Covid hanno origine lì: nella visione politica di Draghi. Nella lettera si parla di necessità di rendere flessibili i contratti di lavoro. Il dramma del precariato estremo dei giovani ha origine nelle idee che hanno ispirato la lettera di Draghi. Nella lettera si parla liberalizzazione dei mercati e aumento della concorrenza. Il fatto che lo Stato non abbia fatto nulla per evitare la vendita di tantissime aziende italiane a francesi o hedge funds ha origine lì (mentre i francesi hanno fatto leggi che vietano l’acquisto di aziende private francesi da parte di stranieri), il fatto che Amazon, per fare un esempio, faccia una concorrenza sleale ai negozi e questi ultimi siano costretti a chiudere ha origine lì. E così via.
Quindi il suo curriculum è quello di un liberista intransigente. E’ vero che nell’intervista del 25 marzo 2020 al Financial Times Draghi parla anche di investimenti pubblici, ma un’intervista a un giornale vale di meno dell’attività di una vita. Coerente. Da uomo preparato. Da liberista intransigente.
Se pensate che il liberismo intransigente sia la cura necessaria per l’Italia abbracciate l’idea che Draghi sia la soluzione. Se non lo pensate no.
E io penso che il liberismo sia il problema.
Non la soluzione.
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