Non tutti se ne sono accorti, ma con la fine della leva che proiettava le nuove Forze Armate in una dimensione nuova, è scomparso il Soldato. E’ scomparso realmente, materialmente, anche e prima di tutto da un punto di vista semantico, terminologico. Ed è scomparso anche come “grado”, seppellito da un ammasso di “caporali” “caporal maggiori”, “caporal maggiori scelti”, “caporal maggiori capi scelti” e “caporal maggiori capi scelti con qualifica speciale”, promossi indipendentemente dalla funzione, che relegano il vecchio “soldato semplice” ad una specie transeunte in via d’estinzione, riservata a poche reclute nei primi mesetti di servizio.
Al suo posto, è comparso il “Volontario”, titolare di un termine ambiguo che lo doveva rendere meno sospetto per la classe politica, non solo in questo periodo infastidita da tutto quello che sa di militare; termine che – a orecchio – lo confonde coi molti benemeriti volenterosi della nostra realtà nazionale, quelli delle Misericordie, delle Croci Rosse e dei Vigili del Fuoco, ma anche con quegli operatori normalmente ben remunerati delle ONG che si occupano di traghettare in Italia i clandestini in afflusso dalle coste libiche.
La scelta di questa definizione civettuola nascondeva un’avvilente pulsione al “travestimento”, una presa di distanza dal passato, come se il titolo di Soldato fosse andato stretto alla nostra realtà tecnologica, come se ce ne dovessimo vergognare! Forse, un motivo tra i tanti di questa scelta è da ricercare nel fatto che Volontario si declina meglio al femminile (Volontaria) del termine Soldato (Soldata? Soldatessa?); e questo non è un dettaglio per un’istituzione che si è dovuta aprire all’arruolamento femminile sulla spinta di istanze politiche che non puntavano a sfruttare l’indubbio valore aggiunto della femminilità in selezionati settori dell’orbe militare, quanto piuttosto a mettere la sordina a quel complesso di sgradevoli e politicamente scorrettissimi valori “virili” che lo caratterizzavano. Da questo rinnegamento sono poi scaturiti altri “frutti” tutt’altro che gustosi, come il venir meno di standard fisici che erano normali, oltre che ovvi, ai tempi della leva e che ora avrebbero il sapore di ingiusti ostacoli per le “pari opportunità” da assicurare a tutti, alti e bassi, belli e brutti, maschi e femmine, omo ed etero.
Contemporaneamente, è entrato di gran voga il termine “professionista”, per dare una asettica connotazione “lavorativa” al mestiere delle armi. I recenti provvedimenti volti a consentire l’associazionismo sindacale nell’ambito della Difesa derivano, in fin dei conti, da questa nuova prospettiva, mettendola alla mercé di frotte di faccendieri autoproclamatisi esperti di misteri militari e di stuoli di azzeccagarbugli specializzati nella “tutela dei diritti”, anche i più turpi, che fino ad ora sarebbero stati trascurati o addirittura conculcati da Comandanti col monocolo chiusi nelle torri eburnee dei propri Circoli Ufficiali. Cosa c’è di meglio, insomma, di una catena di comando parallela a quella tradizionale, che misuri i passi dei Comandanti, ne registri le parole, gli sguardi imbronciati, ne vagli gli ordini, gli atteggiamenti e ne stronchi i cazziatoni? Una catena di occhiuti inquisitori, non trasferibili e intoccabili, magari al riparo dagli obblighi dell’indice di massa corporea, che ci sbarazzi una volta per tutte del precetto della subordinazione militare, fastidioso caposaldo della militarità “vera”. Ha gettato una luce sinistra, ma chiara, sulle motivazioni di quest’ultimo provvedimento un recente “post” su FaceBook di un attuale sottosegretario alla difesa, con il quale lo stesso si è permesso di utilizzare uno spezzone di un noto film sulle ultime ore di Hitler per irridere con una serie di luoghi comuni le “vecchie” Forze Armate, quelle pre-sindacali e pre-antinfortunistica che per un paio di guerre mondiali, con tutto quello che c’è stato in mezzo, e tre quarti di secolo hanno servito l’Italia. Il Ministro ha preso le distanze da un’iniziativa certamente non adeguata da parte di un componente del vertice della Difesa; ma a tutt’ora il sottosegretario è ancora lì, adeguatezza o meno.
Tornando a noi, questi “professionisti” hanno portato all’eclisse del soldato, termine al quale si ricorre raramente, per lo più quando lo si può aggettivare con l’espressione “…di pace”. Non c’è dubbio che la pace sia un bene al quale teniamo tutti (anche se a ben vedere qualche pazzo scatenato che soffia continuamente sul fuoco delle guerre – anche civili – c’è sempre), ma l’imbarazzo che deriva dalla constatazione che non esiste ancora nessuna risorsa migliore dell’uomo col fucile per tutelarla ha portato a inventare l’ossimoro del “soldato di pace”, chiara contraddizione in termini, vuota affermazione retorica priva di significato. Un po’ come “paese denuclearizzato” o “città della pace” che campeggia sui risibili cartelli stradali di tanti nostri borghi più o meno di provincia.
Inoltre, tale aggettivazione lascerebbe intendere che in essa risiede la vera nobiltà del militare di oggi, quasi fosse una giusta presa di distanza da chi non poteva fregiarsene, i nostri vecchi: quelli che abbiamo ricordato l’anno scorso in occasione del centenario della Vittoria; quelli che erano i destinatari di antichi monumenti nelle nostre piazze, inaugurati alla presenza di vedove ed orfani commossi ed oggi spesso oltraggiati da imbrattamuri senza fantasia consapevoli della propria impunità; quelli che tra di loro si consideravano camerati, o commilitoni per usare un nobilissimo termine coniato da Cesare stesso, e non colleghi, come con civetteria è in voga oggi anche a livello truppa; quelli che non avevano bisogno di travestirsi da “soldier of fortune de noantri” con tutti gli ammennicoli del caso: berrettino da baseball e pecetta nera ad occultarne gli occhi nelle foto, come si trattasse di agenti dei Servizi in missione speciale e non di spavaldi rappresentanti di un paese grande e pulito.
La negatività di questo approccio culturale diventa, se possibile, ancora più odiosa quando applicata alla categoria dei “Caduti”, quando il soldato che perde la vita in operazioni viene commemorato e onorato soprattutto perché “Caduto per la pace”, quasi che non bastasse il fatto che abbia sacrificato tutto “solo” per il Dovere. Ne consegue un’indotta graduatoria morale, per la quale il soldato caduto semplicemente in guerra ottanta o cent’anni fa sarebbe meno meritevole del nostro affetto e della nostra riconoscenza di quello che ha perso la vita distribuendo aiuti umanitari o prendendosi a fucilate col talebano di turno.
Per concludere queste riflessioni nelle quali ho voluto parlare solo di parole – dalle quali peraltro derivano deviazioni, e malattie, che intaccano la realtà – vorrei soffermarmi su un’altra idea falsata, per la quale le Forze Armate sarebbero semplici strumenti per fronteggiare ogni (ogni!) situazione di emergenza, ovunque si manifesti. E’ il precetto del “doppio uso”, termine utilizzato come una clava per convincerci che altro non sarebbero che una specie di Protezione Civile più o meno “militarizzata”, pronta ad intervenire dopo la prima scossa di terremoto e solo in ultima istanza in contesti bellici, dai quali il dettato costituzionale ci metterebbe al riparo, con un semplice artifizio retorico. Un ribaltamento di prospettiva incredibile, se si tiene conto che è solo grazie all’addestramento all’impiego in contesti bellici che le Forze Armate, soprattutto l’Esercito, furono in grado in passato di prestare la propria entusiastica e meritoria opera di soccorso alle popolazioni vittime di calamità e di proporsi quale esempio per chi sentì finalmente il bisogno di dotare l’Italia di una Protezione Civile efficiente. Si è, così, persa l’occasione di affermare semplicemente che le Forze Armate sono uno dei principali strumenti di Politica Estera del nostro paese, con il quale l’Italia può affermare i suoi interessi, funzione essenziale e non delegabile ad altri nel momento storico attuale. E chi conosce il rispetto e anche l’ammirazione che i nostri militari si sono guadagnati in tutto il mondo, sa di cosa parlo. Dovrebbero saperlo anche coloro che per motivi banalmente politici hanno l’onore di esserne al vertice, seppur temporaneamente; ma questa è un’altra triste storia.
Lungi dall’aver la pretesa di rappresentare, in tale contesto, lo strumento risolutivo per ogni situazione, i nostri uomini dovrebbero essere quindi considerati, in Afghanistan come in Libano, Somalia, Iraq, Niger o Libia, degli ottimi “alzatori di palla” che altri potrebbero e dovrebbero “schiacciare” nell’interesse di tutti, e l’osservazione di quello che fanno al proposito altri Paesi a noi molto vicini potrebbe essere illuminante.
Insomma, per quel che ci riguarda, per sostenere questa realtà e quella nella quale i nostri soldati vivono ogni giorno, pericolosamente, il primo dovere che dobbiamo rispettare è quello di coltivare una freschezza e chiarezza di idee che non può essere disgiunta da un corretto uso delle parole.
Che non sono solo fiato al vento, ma pietre, come sanno anche i sassi (appunto!).
Dal Mondialismo al Popolo Sovrano (Conversazione con la Redazione)
Dal Mondialismo al Popolo Sovrano, nella sostanza, potrebbe essere una variante “alternativa” dell’ultimo libro pubblicato da Vincenzo Bellisario: “Contrordine Globale – Dal Mondialismo al Sovranismo” (Racconto di un Sogno possibile)…
Vincenzo, nel suo ultimo libro, è molto diretto. Afferma: «Il principale fine di questo saggio non è quello di aggiungere troppa “carne al fuoco”, ma quello di fornire una rilettura/semplificazione ai minimi termini dei massimi eventi degli ultimissimi anni, che, in più di un caso, hanno colpito ed affondato “i globali”; i massoni “deviati”… che, negli ultimi 30-40 anni, hanno preso in mano il Mondo, di fatto, “privatizzandolo”, portandoci all’orrore quasi totale della nostra quotidianità, che, per fortuna e pian piano, sta cercando di raddrizzare il tiro… e questo proprio grazie alla cosiddetta “trazione populista”, che, “i globali” – i massoni “deviati” -, attraverso i loro portavoce (i “politically correct”), ci dicono essere criminale, assassina, nazista, fascista, populista, mafiosa, razzista, xenofoba, retrograda, provinciale, sessista, vecchia, bifolca… Perché? Semplicemente perché hanno paura di perdere il potere assoluto».
Individua una specifica categoria (i “politically correct”, quelli del “politicamente corretto”…), che, come afferma, è quella “specifica area” che coloro che Lui definisce massoni-globali-“deviati” utilizzano per far sì che il dominio quasi assoluto di questi ultimi rimanga tale… Scrive: «I burattinai, coloro che gestiscono questo impressionante e pericolosissimo Esercito di parassiti, violenti ed ipocriti (parlo, ovviamente, di coloro che Marcello Veneziani definisce i “politically correct”, quelli del “politicamente corretto”… la Sinistra mondiale, i ricchi e i figli dei ricchi… quelli della “caviale e champagne”… coloro che hanno una visone del Mondo e delle cose, solo ed esclusivamente teorica, e non pratica… coloro che parlano solo ed esclusivamente per sentito dire…, per intenderci meglio…), hanno eccessivamente forzato la mano: si sono spinti molto oltre, rendendo poveri anche tantissimi di coloro che avevano avuto la possibilità di conoscere e vivere il benessere; tantissimi di coloro che appartenevano alla ormai quasi sepolta classe media, di cui l’Italia vantava il primato assoluto… nel Mondo.
Ecco perché le super-oligarchie mondiali, temono, per la prima volta, di perdere il potere assoluto: perché svariate centinaia e centinaia di milioni di persone che appartenevano alla classe media e che avevano sempre preso per oro colato tutto quello che veniva comunicato attraverso l’informazione ufficiale e che improvvisamente ed “inaspettatamente” sono scivolate verso il basso, si sta lentamente risvegliando; stanno lentamente uscendo da quel coma quasi irreversibile, talvolta voluto e talvolta non voluto, inconsapevole, in cui avevano silenziosamente vissuto per svariati anni; nel benessere…
Voglio dire questo: la povertà, per svariate centinaia e centinaia di milioni di persone che non avevamo mai creduto alla povertà, si sta quasi rivelando un “bene”. Questo perché un ricco può anche in parte credere a quello che legge o ascolta e che riguarda la povertà, ma, una cosa è viverla la povertà, altra cosa e sentirne parlare in TV o leggerla sui giornali. Loro, i burattinai, i massoni “deviati”, come affermavo: hanno eccessivamente forzato la mano, si sono spinti molto oltre. Adesso, a parte i “morti perenni” (tutti coloro che sono nati e cresciuti nella povertà, coloro che non contano e, molto probabilmente, non conteranno mai… spero, ovviamente, di sbagliarmi, e, nel mio piccolo, di invertire questa schifosa, insopportabile ed intollerabile “tendenza”…), c’è questo impressionante Esercito di ex benestanti, che, si sta pian piano muovendo/risvegliando…
Il Mondo, fortunatamente, sta lentamente lavorando per tornare alla “normalità”, ma la strada è sicuramente molto lunga e non semplice. Questo perché i “globali” (gli attuali padroni di gran parte del Mondo, i massoni “deviati”…) hanno eccessivamente forzato la mano: hanno esagerato, fino all’inverosimile.
Utilizzando un’espressione del giornalista Paolo Barnard: “Hanno reso plausibile l’impossibile…” La guerra, ovviamente, è appena iniziata…
Nessuna risorsa/forza che vira nella direzione opposta alla costruzione masso-globale-“deviata”, quindi, deve essere “abbandonata”…»
Cita, nell’Introduzione al libro, un convegno su “Sovranità e Globalizzazione”, tenutosi a Milano, assieme ad oratori del calibro di Ted Malloch (diplomatico, fedelissimo di Trump), Giulio Tremonti (più volte Ministro dell’Economia), Thomas Williams (professore di Filosofia presso l’Università Saint Thomas di Roma e direttore per l’Italia dell’Agenzia Breitbart), Giuseppe Valditara (professore ordinario di diritto privato romano) ed altri, nel maggio del 2017, dove era presente anche Marcello Foa, che definisce uno dei massimi intellettuali italiani (scrittore, giornalista ed attuale Presidente della RAI).
Questo convegno, secondo Bellisario, «risulterà essere tra i più importanti, in Italia e in Europa, in termini culturali, in sostegno di quel qualcosa di assolutamente “diverso” da quello che i signori “globali” ci hanno prospettato ed inculcato negli ultimi 30-40 anni, in Italia e nel Mondo (in primis nell’Eurozona e nell’Unione Europea); quel qualcosa di cui abbiamo assolutamente bisogno, per ritrovare la nostra la dignità come Popoli, e come singoli».
Bellisario condivide anche in maniera quali totale l’appello di Marcello Veneziani, lanciato in data 2 gennaio 2019, con il pezzo “Per una rivoluzione conservatrice”.
Scrive Veneziani: «Signori della Grande Stampa e della Tv, venditori di almanacchi e di oroscopi politicamente corretti, l’annuncio che avete dato a reti unificate è una bufala: il sovranismo non è finito dopo l’euro-accordo con Bruxelles sulla Manovra. Semplicemente non è ancora cominciato. Lo dico anche ai suoi fautori; il compito per l’anno neonato è far nascere un vero, maturo, duraturo, sovranismo. Ossia un governo che governi nel nome del popolo sovrano e dell’amor patrio, che decida come sa decidere un governo davvero sovrano, che sappia anteporre gli interessi generali e nazionali a quelli settoriali e particolari e stabilisca il primato della politica e della comunità nazionale sulla finanza e sulla tecnocrazia globali». Quindi, sempre Marcello Veneziani, conclude in questo modo: «Da troppo tempo noi italiani, noi osservatori, siamo seduti a vedere i fuochi d’artificio, limitandoci solo a mettere e togliere i like e le faccine. E “loro” che fanno e dicono solo per conquistare quei like, quelle faccine. È tempo di fare un passo avanti, sporgerci di più, rimetterci in gioco, esigere e orientare una rivoluzione conservatrice. Altrimenti non fallisce solo un governo, e una formula, ma si spegne una comunità, anzi una civiltà. Mi piacerebbe che questo compito fosse la nostra verità. Qui comincia l’avventura…»
Vincenzo modificherebbe esclusivamente il concetto di “rivoluzione conservatrice” in “rivoluzione sovranista”. Questo perché, afferma: «I concetti di Destra e di Sinistra appartengono ormai al passato remoto; sono vecchi di almeno 40-50 anni, se si pensa all’Italia. Se si guarda ad alcuni contesti occidentali più avanzati, i concetti di Destra e Sinistra sono superati da molto più tempo». Inoltre, per quanto guarda bene ad eventuali prossimi incontri a riguardo, crede, allo stesso modo, che la stoccata finale, più ampia e pubblica, bisognerà lanciarla tra la primavera del 2022 e quella del 2023; quando, appunto, si terranno le elezioni politiche e quando per l’appunto avremo, finalmente e dopo trent’anni di dominio assoluto del PD al Quirinale, una persona che Lui definisce “AMICO del POPOLO”, quindi, non amico dei “mercati”… Per “mercati”, naturalmente, intende i “mercati” dei capitali finanziari tanto cari ai dirigenti ed ai militanti piddini, bonini e boldrini, quindi, all’attuale Presidente della Repubblica, che altro non è se non un esponente di questi Partiti: da loro proposto ed eletto al Quirinale…
Parla di «una persona amica assieme al quale tutto sarà possibile; ogni eventuale scelta, anche quelle che per ora qualcuno farebbe passare come “estreme”»…, e conclude: «Il concetto di “rivoluzione conservatrice” potrebbe apparire come un qualcosa di vecchio e potrebbe non essere compreso da tutti. Quello di “rivoluzione sovranista”, invece, è un concetto molto più ampio; un qualcosa che già ad oggi, sommando l’area di Governo con altre formazioni minori (tipo Fratelli d’Italia ed innumerevoli altre forze minori sovraniste di ogni area), conta quasi il 70% degli italiani». Non per caso, fa notare Vincenzo: «Oggi, tal Massimo D’Alema, si rivolge a Calenda dicendogli quanto segue: “La malattia è il Neoliberismo, non il Sovranismo”… Tal Massimo D’Alema conosce bene la proporzione della ennesima mazzata che prenderanno nel 2023… Ecco perché cerca di “deviare”… ma per loro il tempo è scaduto, come è scaduto per Berlusconi, che, oggi, assieme alle sue “amichette di merenda” e di Partito (Bernini, Gelmini e Carfagna), cerca di imitare il PD et similia, per provare a ritagliarsi uno spazio… TEMPO SCADUTO!…»
Poi, si spinge oltre, con altri ragionamenti “esterni”, e cita i dirigenti e la quasi totalità dei militanti piddini, bonini e boldrini. Afferma: «Se non sei con loro, sei contro di loro… quindi, nella più ottimistica delle ipotesi, sei un “FASCISTA”… altrimenti, quanto segue: un criminale, assassino, nazista, populista, mafioso, razzista, xenofobo, misogino, retrogrado, provinciale, sessista, vecchio, bifolco»…, ed aggiunge, marcando assai bene le differenze: «Una volta, loro, i dirigenti e i militanti piddini, bonini e boldrini, erano quelli della Sinistra… gli altri, invece, quelli “Brutti, sporchi e cattivi” (come scriveva Ettore Scola e magistralmente interpretava il Gigante Nino Manfredi), erano quelli della “Destra”».
Quindi, rivolto ai dirigenti ed ai militanti piddini, bonini e boldrini: «Per circa 25 anni, avete accusato “quella persona” di ogni male possibile e di ogni tipologia di reato possibile; avete accusato e considerato “quella persona” un CRIMINALE… non solo “quella persona”, ma anche tutti coloro che appoggiavano e votavano la parte politica di “quella persona”… Che poi, però, a pensarci bene ed a voler essere onesti fino in fondo, prima di accusare la parte politica di “quella persona” di ogni CRIMINE possibile ed immaginabile, accusaste tutte le persone che hanno preceduto la parte politica di “quella persona” (Leone, De Gasperi, Andreotti, Fanfani, Spadolini, Forlani, Moro, De Mita, Almirante, Craxi, Cossiga, Martelli… ed ovviamente anche Falcone e Borsellino… E sì: questo perché, Falcone e Borsellino, si erano “permessi” di essere vicini – se non erro, “addirittura”, tesserati – ad un Partito che ai tempi rispondeva al nome di Movimento Sociale, quel Partito che i dirigenti e i militanti piddini, bonini e boldrini definivano e definiscono “FASCISTA”…). Inoltre, sempre se vogliamo essere onesti fino in fondo, non accusaste solo “quella persona”, ma anche la moglie e i figli di “quella persona”; non accusaste solo “quella persona”, ma anche i collaboratori e gli amici di “quella persona”; non accusaste solo “quella persona”, ma anche le aziende e gli averi di “quella persona”… Insomma, potremmo continuare in eterno riguardo a tutto quello che i dirigenti e militanti piddini, bonini e boldrini hanno detto e fatto contro “quella persona”… Oggi, dopo che ormai la parte politica di “quella persona” è completamente “MORTA”, sepolta e fuori dai giochi, vorreste farci credere che il problema non è più la parte politica di “quella persona” e “quella persona” (quindi tutti coloro che avete considerato vicini a quella persona… Leone, De Gasperi, Andreotti, Fanfani, Spadolini, Forlani, Moro, De Mita, Almirante, Craxi, Cossiga, Martelli… ed ovviamente anche Falcone e Borsellino… E sì: questo perché, Falcone e Borsellino, si erano “permessi” di essere vicini – se non erro, “addirittura”, tesserati – ad un Partito che ai tempi rispondeva al nome di Movimento Sociale, quel Partito che i dirigenti e i militanti piddini, bonini e boldrini definivano e definiscono “FASCISTA”…), ma altre tipologie di parti politiche ed altre persone… TEMPO SCADUTO!…»
N.B. “Quella persona”, naturalmente, non può che essere “LUI”: Silvio Berlusconi…
Chiede, ai dirigenti ed ai militanti piddini, bonini e boldrini: «Come mai non avete mai citato e/o indicato come “cattivi” gli imprenditori et similia Rothshild, Rockefeller, Buffett, Soros, Clinton, De Benedetti, Marcegaglia, Montezemolo, Benetton, Della Valle, Agnelli, Profumo, Passera, Elkan, Cairo (la lista è lunghissima!)?…»; «Come mai non avete mai citato e/o indicato come “cattivi” gli Andreatta, i Ciampi, i Draghi, gli Scalfaro, i Padoa Schioppa, i Napolitano, i Costamagna, i Monti, i Prodi, i D’Alema, i Cottarelli, i Padoan, i Letta ed innumerevoli?…»
Cita anche Berlusconi, ed afferma: «Dissero che chi votava per Silvio Berlusconi, era di “Destra”; era “cattivo”… questo provavano a far passare all’interno dei loro innumerevoli contesti mediatici e di massa (per la verità, li definivano direttamente “fascisti”, but, anyway…); gli altri, invece, loro, piddini, bonini e boldrini, erano quelli della Sinistra (quelli “buoni”, of course… quelli “rispettosi” della Costituzione… quella Costituzione che poi, guarda te, decisero di stravolgere, ma furono fortunatamente demoliti dai cittadini). Loro ci chiesero di “archiviare” la Destra e Berlusconi, per 25 anni, ininterrottamente… tutti noi, alla fine, ci abbiamo veramente “creduto” e li abbiamo accontentati… ecco perché sono nati i Sovranisti e i Mondialisti».
Letteralmente: «Il Sovranismo (dal francese souverainisme) è, secondo la definizione che ne dà l’enciclopedia Larousse, una dottrina politica che sostiene la preservazione o la ri-acquisizione della Sovranità nazionale da parte di un Popolo o di uno Stato, in contrapposizione alle istanze e alle politiche delle Organizzazioni internazionali e sovranazionali»; il Mondialismo, invece: «È un Movimento di carattere politico-sociale o atteggiamento di pensiero che considera i varî fenomeni politici, economici, culturali, sociali, eccetera, come espressione di una serie di complessi equilibrî e relazioni tra i diversi Stati, e non come manifestazione di singole componenti nazionali».
Ancora: «Una volta, quelli di Sinistra, dicevano che quelli di Destra erano i Mondialisti, in quanto Capitalisti legati alle multinazionali, alle banche, ai “poteri loschi”, ai soldi ed a quelli “Brutti, sporchi e cattivi” di cui sopra (loro, in teoria, quindi, erano i Sovranisti; quelli che non erano legati alle multinazionali, alle banche, ai soldi, ai “poteri loschi” ed a quelli “Brutti, sporchi e cattivi”… ai MASSONI… loro si accontentavano di poco – vedi le manifestazioni del G7 del 2001, a Genova!). Oggi, invece, sono quelli di Sinistra che dicono apertamente e “fieramente” di essere Mondialisti… Inoltre, come se non bastasse, tantissimo di loro ti dicono tranquillamente di essere anche Capitalisti e ti spiegano che senza gli investitori internazionali ed i capitali esteri, le cose non si muoverebbero. E promuovono anche ed alla grande le delocalizzazioni, ed addirittura, nelle scuole, lo insegnano ai bambini. Sono coloro che ti dicono che “una buona percentuale di disoccupazione fa bene all’occupazione ed all’economia”; sono coloro che hanno imposto la deflazione, affermando che l’inflazione è uno dei mali assoluti…
Gli altri, invece, sono i Sovranisti, gli “sfigati”, coloro che vorrebbero “chiudersi”; che non hanno la mente aperta; che non saprebbero rapportarsi; coloro che vorrebbero “semplicemente” recuperare ogni tipologia di Sovranità (Costituzionale, monetaria, politica, tutte…) per stare bene a casa loro; coloro che dicono rabbiosamente che vogliono tornare a decidere per se, a casa loro; coloro che non accettano più, MAI PIU’, che “altri” (“gli altri”, sono i massoni, parliamoci chiaro!) possano decidere per loro; coloro che vorrebbero applicare la Piena Occupazione, il Pieno Stato Sociale, quindi, distribuire a tutti gli “interni” i Pieni Diritti senza “contare” sugli altri; coloro che ti dicono che non esiste che ci possano essere inoccupati, disoccupati, precari, persone senza fissa dimora, senza reddito, gente che non può curarsi perché non ha soldi o altro di ancora più triste; coloro che vorrebbero nuovamente stampare denaro ed “addirittura” fare deficit… e tranquillamente anche “debiti” ed inflazione; coloro che guardano al Giappone, per citarne uno, che ha un debito/PIL al 250% e “viaggia” di brutto e non al Congo, che, all’opposto del Giappone, ha un debito/PIL a meno del 20% ed andate pure a verificare da soli come “viaggia”; in pratica, NON “viaggia”; i Mondialisti, invece, sono quelli che vogliono far sì che i Paesi europei, per “funzionare meglio”, come il Congo, per esempio, debbano portare il loro debito/PIL al 60%… e perché no: anche sotto il 60%… ed ovviamente devono pareggiare il bilancio – vedi il Fiscal Compact -, meglio ancora se fanno “surplus” (che in pratica significa che dovrebbero spendere meno di quello che incassano; cioè: dovrebbero comportarsi all’opposto di come si “muove” uno Stato ed allo stesso modo di come si “muove” un privato cittadino… ma lo Stato si “muove” all’opposto del cittadino, quindi, non può fare il cittadino, esattamente come il cittadino, che si “muove” all’opposto dello Stato, non può fare lo Stato, altrimenti, crollano entrambi… gioco di parole voluto, ma spero che il concetto sia chiaro!…); i Sovranisti sono coloro che all’opposto dei Mondialisti ti dicono che la disoccupazione è il massimo “CANCRO” della nostra società, quindi, va STANATA; inoltre, ti dicono che è sempre meglio avere un po’ di inflazione, piuttosto che la deflazione (inflazione: troppi soldi a fronte di pochi prodotti; deflazione: pochi soldi e tanti prodotti che rimangono invenduti… quindi, blocco della produzione, licenziamenti di massa, disoccupazione, sottoccupazione, precarietà e lavoro mal pagato, perché tutti sono disposti a tutto pur di lavorare e guadagnare qualcosa… ecco perché tale Francois Mitterand, anni fa, affermava: «La gente deve togliersi di mezzo. La piena occupazione darebbe troppo potere al popolo. La deflazione, la disoccupazione e i lavori precari, invece, glielo sottraggono»); i Sovranisti, invece, sono coloro che non vogliono più dipendere e “contare” dagli “esterni”… coloro che ti dicono che certo, per tante cose, non si torna indietro, ma, per ogni cosa, decido io, non tu, “esterno”; e che tu, “esterno”, tu massone o servo dei massoni, puoi tranquillamente investire e/o altro, se noi si decide per una eventuale crescita del settore privato; coloro che ti dicono che tu, “esterno”, tu massone o servo dei massone, puoi tranquillamente investire e/o altro, se noi si decide per questo, ma dimenticati dei servizi essenziali, dei beni pubblici (acqua, luce, gas, trasporti, sanità, istruzione…): quelli assolutamente devono essere pubblici; coloro che ti dicono che non esiste che tu, “esterno”, tu massone o servo dei massoni, puoi acquistare un azienda EX pubblica INDISPENSABILE per quattro soldi e che rendi “utili” eterni (vedi, per esempio e per citarne una, quindi, per essere chiaro e per capirci meglio di cosa stiamo parlando… Insomma, vedi Autostrade SPA, acquistate dalla famiglia Benetton, azienda INDISPENSABILE e di proprietà EX pubblica, che rendono a questi – ai Benetton – alcuni miliardi di EURO di “utili” ogni anno…); coloro che ti dicono che è meglio non appoggiarsi a nessuno, perché “Se ti appoggi a qualcuno, ricorda, che se si sposta, tu cadi”…; coloro che ti dicono che onestamente, a me, di tutte le varie oscillazioni mondiali, di tutte le “variante” multinazionali, bancarie, assicurative e quant’altro, e di tutti i movimenti e flussi dei cosiddetti “mercati” finanziari… non m’interessa!…; coloro che ti dicono che tutte queste realtà, possono anche e tranquillamente continuare ad esistere, ma, devono completamente essere “slegate” da ogni contesto che riguarda lo Stato, il Governo, la produttività, la famiglie, la vita delle persone. Volete giocare con i “mercati”? Fatelo pure: come quando giocate al bingo… se va bene, okay, altrimenti: il problema è vostro, personale, esclusivamente vostro, quindi, non è il problema di tutti… Loro chiesero di “archiviare” la Destra, tutti noi, alla fine, ci abbiamo veramente “creduto” e li abbiamo accontentati… ecco perché sono nati i Sovranisti e i Mondialisti; ecco perché i concetti vecchissimi di Destra e di Sinistra sono stati ormai definitivamente archiviati.
I Mondialisti, sono loro, i dirigenti e i militanti piddini, bonini e boldrini (ma anche, ormai, una buona parte degli irrilevanti “forzisti”…), quelli che una volta erano di Sinistra e “sovranisti”… I Sovranisti, invece, sono tutti i tantissimi altri; parliamo di quasi il 70% del Popolo italiano, europeo e mondiale. Loro, ovviamente, i Mondialisti, i dirigenti e i militanti piddini, bonini e boldrini (ma anche, ormai, una buona parte degli irrilevanti “forzisti”…), sono quelli che hanno capito tutto. Gli altri, invece, i Sovranisti, semplicemente, sono quelli che non hanno capito NULLA…
Ecco perché la stragrande maggioranza ha votato e vota per la Lega e i 5S… ecco perché dobbiamo continuare ad accontentarli… ecco perché bisogna continuare ad appoggiare “a morte” il Governo sostenuto dalla Lega e dai 5S… ecco perché bisognerà continuare a sostenere e votare i due Partiti che sono attualmente al Governo (Lega e 5S)… semplicemente, perché ce l’hanno chiesto proprio “loro”; i dirigenti e i militanti piddini, bonini e boldrini…
Detto questo, però, vorrei anche dire ad alcuni dei 5S quanto segue: o con “loro” (dalla parte del Mondialismo e dei Mondialisti…), oppure, dall’altra parte: dalla parte del POPOLO SOVRANO…
Non si può la mattina essere con il POPOLO SOVRANO e la sera dalla parte del Mondialismo e dei Mondialisti… Altrimenti, a breve, i vostri militanti, vi condanneranno all’estinzione…»
«Non fatevi “fottere” dai massoni, dai paramassoni e dai loro “amici di merende” inseriti all’interno di tutte le Istituzione mediatiche e di massa che si sono già messi al lavoro per provare a “deviare” questi due concetti fondamentali ed opposti», afferma. Ancora: «I Mondialisti sono coloro che ti dicono quanto segue: “Faccio io per te, perché io so come si fa, tu, invece, non lo sai”; sono quelli che ti dicono che “La Democrazia è una forma di Governo sbagliata, perché è assurdo che siano le pecore a guidare il pastore” (Mario Monti); sono quelli che ti dicono che “Gli Stati e i Governi – quindi le Costituzioni e i Parlamenti – sono superati”. Uno dei tanti Mondialisti? Mario Monti, of course. La “pensano” in questo modo: “Non dobbiamo sorprenderci che l’Europa abbia bisogno di crisi, e di gravi crisi, per fare passi avanti. I passi avanti dell’Europa sono per definizione cessioni di parti delle sovranità nazionali a un livello comunitario… È chiaro che il potere politico, ma anche il senso di appartenenza dei cittadini a una collettività nazionale, possono essere pronti a queste cessioni solo quando il costo politico e psicologico del non farle diventa superiore al costo del farle perché c’è una crisi in atto, visibile, conclamata” (Mario Monti).
I Sovranisti, invece, semplicemente, sono coloro che decidono volta per volta e si affidano alla “base”; sia durante il percorso di legge e senza alcun problema anche dopo che una legge è stata approvata, per esempio, con un bel Referendum… I Mondialisti, invece, odiano i Referendum… Ve la ricordate BREXIT? Vi rinfresco le idee: “Brexit mi è servito anche a capire che in giro c’è tanta gente che reputa il Popolo incapace di intendere e votare”; “Monti, Saviano, e molti altri, sottolineano che il Popolo non necessariamente fa le scelte giuste. Ciò accade solo raramente, e, precisamente, quando queste scelte coincidono con le loro”; “L’Inghilterra e Londra, sono passate, secondo la stampa occidentale, in 48 ore, da simbolo di integrazione, libertà, multiculturalismo e quant’altro, a Covo di fascisti, nazisti, razzisti, vecchi, bifolchi”; “L’odio per l’esito di un Referendum Democratico, che da due giorni gli europeisti stanno vomitando in ogni mezzo di comunicazione e sui social, guidati dai vari Mario Monti, Saviano, Severgnini e compagnia, fa paura”…»
Poi si rivolge agli “iper-sovranisti”, quelli che vorrebbero fare tutto e subito e che onestamente hanno anche ragione, considerando lo sfacelo sociale ed umano italiano in piedi ormai troppi anni. «Io sono tra questi – afferma – ma, a differenza degli “iper-sovranisti”, tengo conto di una serie FONDAMENTALE di cose… Gli “iper-sovranisti” dimenticano alcuni “fattori”: al Quirinale, c’è “uno di loro”. Stessa cosa, per Bankitalia. Stessa cosa, alla Consulta, al CSM, all’interno di tutte le “Alti Corti”, in Confindustria, CGIL, CISL, UIL, quasi ovunque…
Inoltre, l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, avverrà solo nel 2022…»
Vincenzo considera il “Sovranismo” come «una sorta di auto-difesa dal CANCRO mondiale, irreversibile e criminale, dei signori “globali” – i massoni “deviati” -, che, di fatto, negli ultimi 30-40 anni, hanno “privatizzato” il Mondo (impossessandosi di tutto il meglio; impossessandosi dei servizi indispensabili, che rendono profitti eterni e che dovrebbero essere pubblici, di proprietà degli Stati nazionali; perché appunto indispensabili, per i cittadini…) e si sono sostituiti ai Governi, ai Parlamenti ed alle Democrazie… ed hanno fatto e fanno tutto quello che vogliono, in maniera assolutamente incontrollata ed indisturbata; come vogliono, dove vogliono e quando vogliono». Quindi, afferma: «Ecco perché il ritorno al “Sovranismo”; ecco perché bisogna andare dalle parte opposta a quella che ci hanno prospettato negli ultimi 30-40 anni i vari Soros, Van Rompuy, Junker, Barroso, Trichet, Merkel, Sarkozy, Napolitano, Andreatta, Draghi, Monti, Prodi, Padoan, Bonino ed il 99.9% di tutti i media a loro asserviti mondiali ed europei; ecco perché bisogna tornare ad essere padroni in casa propria, riprendersi le “chiavi di casa”, riappropriarsi delle Sovranità – per tutti coloro che come noi le hanno perse -, quindi, non cederle… è una “medicina” indispensabile… la cura dai mali “esterni” e la soluzione per tutti i mali “interni”; una sorta di difesa immunitaria indispensabile. Senza “difese”, in questo Mondo zeppo di “malattie finanziarie” costruite ad hoc dai “globali-deviati”, si muore: non c’è alcuna speranza (parliamo sempre delle malattie costruite ad hoc dai “globali-deviati” per affondare i Popoli ed impadronirsi e sostituirsi agli Stati, ai Parlamenti ed alle Democrazie, in modo da impossessarsi di tutti i beni EX pubblici ed indispensabili, che, in quanto tali, garantiscono profitti eterni: sanità, istruzione, pensioni, acqua, luce, gas, trasporti, telefonia ed altro… per citarne una e, purtroppo, molto tragica: perché, la famiglia Benetton, ha acquistato la Società Autostrade?… Forse perché forniva e fornisce almeno due miliardi di Euro di utili all’anno?… Perché, invece, la famiglia Benetton, non ha acquistato le fabbriche che producono bottigliette di plastica, tappi di sughero o gessetti per le lavagne?… E perché, allo stesso tempo, lo Stato, che ci dicevano che aveva bisogno di soldi, e, quindi, per forza di cose, avrebbe dovuto vendere, privatizzare e liberalizzare, privatizza aziende che forniscono utili da capogiro?… E perché, nonostante le impressionati privatizzazioni, il debito, che avrebbe dovuto scendere, è salito di svariate centinaia, centinaia e centinaia di miliardi di Euro – e continua a salire incessantemente, nonostante i pesantissimi sacrifici di quasi tutti – ed il “normale” privato cittadino ha continuato e continua ad impoverirsi, senza sosta, a discapito dei grandi ricchi, che hanno acquistato le aziende private e sono diventati ricchissimi; intoccabili…? E perché le aziende pubbliche, che ci dicevano che erano obsolete, sono diventate degli “scatafasci”, quasi tutte, ed i prezzi dei servizi, che, dopo le privatizzazioni, ci dicevano che sarebbero scesi, nel giro di pochissimi anni, si sono triplicati – TUTTI – ed i servizi sono peggiorati?… CAPITE!?)…»
Ancora, agli “iper-sovranisti”: «Giulio Sapelli avrebbe dovuto essere il nostro attuale Presidente del Consiglio e Paolo Savona il nostro attuale Ministro dell’Economia… Detto questo: davvero riuscite ad immaginare che chi ha “fatto fuori” Giulio Sapelli e Paolo Savona possa collaborare con il Governo, magari in “gioco di squadra” segreto e rapido, per esempio in un weekend, quando i cosiddetti “mercati” sono chiusi, in modo da fare tutto quello di cui avremmo eventualmente bisogno?… » E conclude: «Bisogna avere molta pazienza, ed arrivare alla fatidica data: il 2022… giorno in cui al Colle, dopo trent’anni di dominio assoluto del PD, finalmente, inseriremo un “AMICO del POPOLO”…»
Quindi, ancora una volta (sempre rivolto ad alcuni dei 5S): «O con “loro” (dalla parte del Mondialismo e dei Mondialisti…), oppure, dall’altra parte: dalla parte del POPOLO SOVRANO…
Non si può la mattina essere con il POPOLO SOVRANO e la sera dalla parte del Mondialismo e dei Mondialisti… Altrimenti, a breve, i vostri militanti, vi condanneranno all’estinzione…»; e conclude: «Bisogna appoggiare “a morte” il Governo sostenuto dalla Lega e dai 5S… bisogna continuare a sostenere e votare i due Partiti che sono attualmente al Governo (Lega e 5S)… semplicemente, perché ce l’hanno chiesto proprio “loro”; i dirigenti e i militanti piddini, bonini e boldrini… i Mondialisti amici dei Mondialisti!…»
La saga del gasdotto North Stream 2 (NS2) continua e potremmo dire con una certa vivacità. Nel precedente articoloconcludevamo l’analisi con queste parole: “ … Si rinforza a nostro parere l’ipotesi secondo cui la via d’uscita che i tedeschi stanno esaminando prevede la costruzione del NS2 ma con una diversa regolazione dei gasdotti transnazionali, affidata ad organismi dell’UE”E’ quello che hanno concordato a livello UE Francia e Germania ma non senza colpi di scena significativi.
Mentre la costruzione del gasdotto procede con la posa di qualche kilometro di tubazione ogni giorno che passa, la cronaca recente ci racconta che è stata discussa tra i ministri dell’energia della UE una nuova proposta di legge (Direttiva) europea – sponsorizzata dall’UE, dalle nazioni di Visegrad e soprattutto … dagli USA – che prevedeva l’estensione dell’applicazione dei principi di separazione societaria/proprietaria fra rete, operatore e venditore del gas naturaleanche ai gasdotti internazionali che connettono l’UE a paesi terzi. Questa versione avrebbe affossato del tutto l’operatività del NS2 – forse la sua stessa costruzione – che saràutilizzato da Gazprom per vendere il suo gas, detenendone la quota maggioritaria. Gazprom mantiene a tutt’oggi il monopolio per l’esportazione di gas russo, garantito da una legge del Cremlino.
La Germania si è sempre opposta a tale versione rigida della proposta di Direttiva.La Francia aveva pochi giorni fa fatto sapere che l’avrebbe appoggiata, garantendone pertanto una prima approvazione nel complicato processo approvativo europeo. Un vero e proprio attacco frontale agli interessi strategici tedeschi. Sono bastate 24 ore affinché si addivenisse ad un compromesso, fra Francia e Germania, che prevede che sia lo Stato membro con il quale il gasdotto internazionale si connette per primo a “gestire la supervisione” dell’applicazione della Direttiva sul suo territorio e nelle sue acque territoriali. Cosa abbia ottenuto la Francia in cambio non è dato sapere, ma trattandosi di questione di primaria importanza per la Germania – che ha annunciato di recente di voler dismettere tutte le centrali a carbone entro il 2038, mentre quelle nucleari saranno spente entro il 20122 – sicuramente non si tratta di quisquilie.
La Direttiva dovrà essere discussa nel Parlamento europeo nei prossimi mesi. La sua applicazione nella versione di compromesso non impedirà certo la costruzione del NS2, ma ne complicherà l’operatività dovendo questa essere vagliata dai burocrati di Bruxelles cui ovviamente la Germania si dedicherà con sapiente e generosa “solerzia”.
Inseriamo nel quadro politico-energetico la notizia secondo cui martedì scorso il ministro dell’economia tedesco Altmeier ha affermato davanti ad una platea di lobbisti industriali tedeschi ed americani, di sentirsi molto ottimista rispetto alla possibilità che la Germania si doti di due se non tre rigassificatori di GNL che potrebbe arrivare dagli Stati Uniti.
Per completare il quadro infine leggiamo la notizia del blocco della costruzione del gasdotto South Transit East Pyrenees(STEP) tra Francia e Spagna (vedi figura). In un’ottica di “unione energetica” questo gasdotto avrebbe permesso il collegamento dei terminali di ri–gassificazione del GNL spagnoli – oggi largamente sottoutilizzati – con il cuore della rete di gasdotti dell’Europa Centrale, un’iniziativa che avrebbe molto senso nell’ottica della diversificazione delle fonti e della sicurezza degli approvvigionamenti per le nazioni europee affamate di energia ed in crisi di produzione autoctona. Ma i regolatori spagnoli e francesi hanno decretato che il gasdotto non serve, è troppo costoso e non supera l’analisi costi-benefici! Più realisticamente si potrebbe pensare che la sua realizzazione avrebbe danneggiato il monopolista francese Engie da una parte e portato intollerabili vantaggi alla ribelle Catalogna dall’altra.
Possiamo concludere questa sintetica analisi notando che una effettiva unione energetica europea rimane una prospettiva irrealistica e solo retorica, mentre le principali e più assertive nazioni europee pensano – meglio sarebbe dire si illudono – che la propria sicurezza energetica possa essere raggiunta in modo più efficace e vantaggioso decidendo individualmente. Con l’effetto per nulla secondario che ognuna di esse si ritrova a dipendere ancora di più dell’egemone al di là dell’Atlantico, gli USA, che si impongono come vettori energetici di riferimento nell’Europa orientale – a costi superiori per i cittadini – aprono nuove teste di ponte in Germania, alimentano a spot altri Paesi come Spagna e Italia e si impadroniscono di una rete chiave in Ucraina.
“Per un sovranismo europeista”* di Franco Cardini (uno degli intellettuali italiani più lucidi e capaci) è certo un articolo che merita di essere letto, giacché, oltre ad evidenziare i gravi limiti di un “sovranismo” che rischia di configurarsi come una forma di nazionalismo “incapacitante” nell’attuale fase multipolare**, offre l’occasione per una riflessione critica sulla questione della costruzione di un autentico polo geopolitico europeo. Infatti, pure a Cardini si possono – e si devono – rivolgere diverse critiche. Vediamone brevemente alcune1) Cardini (ma non è il solo) pare non tener conto che civiltà e cultura si collocano su un piano distinto (benché non irrelato) da quello geopolitico. Ad esempio, la civiltà e la cultura greca erano imperniate sulle poleis che continuarono a farsi la guerra pure dopo la guerra del Peloponneso, finché le poleis dovettero riconoscere la supremazia del regno macedone.
Insomma, civiltà e cultura (europea) non bastano per dar vita ad un soggetto geopolitico (europeo).2) Cardini difende un sovranismo europeo, ma nulla dice del debito sovrano dei singoli Stati europei. Dovrebbe allora esserci un unico debito pubblico europeo? E la Germania che non ha voluto nemmeno gli eurobond accetterebbe? Quello che le banche tedesche e francesi hanno fatto alla Grecia non ha nulla da insegnare? Inoltre, è davvero possibile che un generale greco o italiano possa comandare la difesa europea, inclusa la force de frappe? E quale dovrebbe essere la politica estera dell’Europa? In altri termini chi deciderebbe? La Germania vuole un seggio all’Onu (e non ne vuole sapere di un seggio europeo) e la Francia non è certo disposta a rinunciare al suo. Come la mettiamo allora con il sovranismo europeo?
3) Cardini da un lato sostiene che l’Europa dovrebbe smarcarsi dai potentati economici e finanziari, che ritiene dei poteri “transnazionali”, dall’altro però pensa che per riuscirvi l’Europa si dovrebbe sganciare dall’America, ossia da uno Stato nazionale. La contraddizione è palese, perché in pratica questo equivale a riconoscere che i potentati economici e finanziari sono e non sono “transnazionali” in quanto di necessità “agganciati” a precisi centri di potenza (geo)politici, ossia in quanto non possono non agire in sinergia con uno Stato nazionale egemone o con più Stati nazionali (anti-egemonici o sub-dominanti), che del resto sono ancora i principali attori geopolitici sulla scacchiera globale. Difatti, solo gli Stati possiedono i mezzi di coercizione (satelliti, missili, aerei, navi da guerra, forze corazzate, servizi, polizia, tribunali, prigioni, ecc.) per “regolare” i rapporti internazionali. D’altronde, è forse possibile spiegare la guerra in Siria o il conflitto israelo-palestinese o lo scontro tra Israele e l’Iran o la questione dell’Ucraina o la guerra dell’Arabia Saudita nello Yemen o il terrorismo islamista e via dicendo “solo” con il potere della finanza o la geoeconomia? Ovviamente no. Qualunque riflessione sulla questione di uno spazio geopolitico europeo e della “sovranità nazionale” quindi dovrebbe perlomeno tener presente che per comprendere la realtà geopolitica occorrono non solo categorie economiche o “ideologiche” ma anche e soprattutto categorie politico-strategiche.D’altronde è noto che terminata la Seconda guerra mondale gli americani erano disposti ad appoggiare i vari movimenti nazionalisti del Terzo Mondo. Tuttavia dovettero riconoscere che pure i comunisti erano nazionalisti. Come allora giustificare la lotta contro il comunismo? Il problema lo risolsero sostenendo che i comunisti non erano veri nazionalisti.
In realtà, era vero l’opposto. Ho Chi Minh, ad esempio, era comunista ma pure nazionalista dalla punta dei piedi fino alla punta dei capelli, per così dire. Il fatto che i vietnamiti comunisti fossero nazionalisti rappresentava la regola non l’eccezione per quanto concerne le varie lotte di liberazione dopo la Seconda guerra mondiale.
In questa prospettiva, si dovrebbe allora comprendere che oggi più che di un sovranismo europeista vi sarebbe bisogno di una lotta di liberazione nazionale dei popoli europei, ossia di una “Internazionale” dei popoli europei. In definitiva oggi essere “inter-nazionalisti” significa sia difendere il “senso di appartenenza” che opporsi al capitalismo predatore neoliberale ovvero opporsi tanto all’euro-atlantismo (mascherato da europeismo) degli eurocrati quanto all’imperialismo neoatlantista di Trump e Bannon.
Il 28 febbraio si terrà il XXII congresso di Magistratura Democratica. Un buon osservatorio su cosa si muove negli ambienti giudiziari, su quale tipo di investitura intendono attribuirsi e su come intendono influire sulle vicende politiche del paese. Qui il link della relazione del segretario. Un testo particolarmente illuminante http://www.magistraturademocratica.it/congresso/2019/relazione-guglielmi
Augusto Sinagra, già magistrato ed accademico, ora avvocato, con il suo consueto acume ci offre il suo punto di vista su un ruolo così controverso e determinante delle vicende del nostro paese. I magistrati e la magistratura in qualche maniera partecipano sempre del gioco politico tra centri decisionali. Le modalità con le quali però intervengono da almeno trenta anni contribuiscono a destabilizzare sin dalle fondamenta il paese sino ad ostacolare la formazione di una nuova classe dirigente. Intanto l’orologio giudiziario prosegue intermittente. Un nuovo avviso ha raggiunto il Ministro Salvini. Questa volta per vilipendio. Buon ascolto Giuseppe Germinario
A valutare la vicenda della Diciotti secondo i parametri (prevalenti nei commenti sui media) dell’ “uno vale uno” e della legalità (egualitaria) si perde solo tempo in discussioni senza senso e senza base. Meglio ragionare in termini a un tempo più realistici e più ordinamentali, e tener conto del pensiero politico-giuridico qualitativamente prevalente.
La questione è se Salvini (ma ormai mezzo governo) debba essere giudicato per aver tenuto la Diciotti e i suoi migranti “a bagno maria” non permettendone lo sbarco. A seconda dell’angolo visuale da cui si guarda la vicenda il tutto può costituire un reato (approccio giuridico-causidico-forenzese) ovvero una misura per la tutela di un interesse azionale (visione politico-ordinamentale). E può essere – e tante volte nella storia lo è stato – entrambi: un reato cioè, ma, al tempo. una misura politicamente opportuna. Scriveva Vittorio Emanuele Orlando (il quale da giurista e statista se ne intendeva) che se avesse dovuto essere processato per tutti i passaporti falsi che aveva rilasciato da Ministro, avrebbe trascorso in galera tutta la vita. Solo che quei passaporti falsi “s’avevano da dare” per raccogliere le informazioni opportune per vincere la guerra. Ossia a rispettare la legge avrebbe compromesso l’interesse nazionale. E dato che salus rei publicae surtema lex, la via “retta” era (ed è) evidente.
Ciò non toglie che debba esserci un rimedio per conciliare le opposte conseguenze che derivavano dalla prospettiva (visuale) diversa.
Dato che lo Stato democratico-liberale è uno status mixtus che si regge sia sui principi di forma politica che su quelli dello stato borghese, il sistema per conciliare i punti di frizione è stato particolarmente sviluppato. E la giustizia penale sui politici è quella che ha raccolto più interesse anche “mediatico” da qualche secolo. Anzi già da prima Machiavelli scriveva che la giustizia “politica” è opportuna in una repubblica: ma di stare attenti alla composizione dell’organo giudicante “perché i pochi sempre fanno a modo de’ pochi”. Dalla riflessione dei teorici dello Stato borghese (Constant per primo) si desume che la giustizia “politica” non può che essere derogatoria: non cioè uguale a quella ordinaria. Ne deriva che secondo Carl Schmitt “il carattere politico della questione o l’interesse politico all’oggetto della controversia può venire così fortemente in risalto che anche in uno Stato borghese di diritto deve essere presa in considerazione la caratteristica politica di questi casi…per specie particolari di vere controversie giuridiche è previsto a causa del loro carattere politico un procedimento speciale o una speciale istanza (in cui)… deriva sempre il caratteristico allontanamento dalla forma giurisdizionale tipica dello Stato di diritto, la considerazione del carattere politico attraverso particolarità organizzatorie o d’altro genere con le quali si attenuta il principio tipico dello Stato di diritto della giurisdizione generale”.
Se però tali deroghe e particolarità non sono poste in essere le conseguenze sono:
1) che l’organo competente a decidere diventa un’istanza politica o addirittura l’organo reale di direzione politica (così da ufficio giudiziario diventa autorità politica). Lo Stato non è più uno Stato democratico-rappresentativo, ma uno Justizstaat, ossia uno Stato giurisdizionale. E l’organo deputato alla giustizia politica è quello politicamente più influente come, un tempo il Consiglio dei dieci a Venezia.
2) che se i magistrati costituiscono una burocrazia reclutata per concorso – come avviene, per lo più, nelle democrazie moderne – il carattere democratico-rappresentativo dello Stato va perso. Avendo il potere di carcerare chi governa – nei fatti rimuovendolo – a decider chi deve governare sarebbero i Tribunali e non i governati che li hanno eletti.
Per ovviare a questo evidente inconveniente un giurista francese, Duguit, riteneva che l’organo di governo (nella specie il Capo dello Stato) potesse continuare a svolgere le proprie funzioni pur in stato di detenzione.
A questa soluzione Orlando replicava ironicamente: come avrebbe fatto il Presidente detenuto a ricevere un ambasciatore o anche un altro capo di Stato invece che all’Eliseo, “in una cella della prigione della Santé”?
E il giurista siciliano continuava qualificando impostazioni come quelle “aberrazioni, contro cui resiste la forza delle cose” cioè la realtà dell’istituzione politica, nella quale, con riguardo al problema, occorre conciliare il principio di responsabilità con la necessità dell’inviolabilità (assoluta o relativa) di determinati organi dello Stato. Cosa che si realizza nella democrazia, rimettendo il giudizio sul governante ai governati, cioè al corpo elettorale, che come ha il potere di eleggerlo, così quello di rimuoverlo (direttamente o indirettamente).
L’intera redazione di Italia e il Mondo ha deciso di sostenere e divulgare l’appello del professor Andrea Zhok. Ci pare, appunto, la condizione minima che consenta l’apertura di un confronto di merito e di una battaglia politica trasparente che espliciti i punti di vista e le intenzioni delle varie forze politiche a riguardo. L’urgenza e la fretta dettate da una situazione politica così precaria possono spingere a soluzioni abborracciate e pasticciate. Il disastro politico determinato dalla promozione e gestione dei referendum istituzionali da parte del Governo Renzi e dalle modalità di avvio delle trattative sulle competenze delle regioni adottate dal Governo Gentiloni e dai Presidenti di Regione di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna ha contribuito altresì ad innescare tale situazione. Troppo spesso i cambiamenti di indirizzo e di strategie interne ai partiti e alle formazioni politiche si sono compiuti negli ultimi decenni con atti di rimozione e di elusione piuttosto che di critica e di ripensamento. Le conseguenze, in particolare i trasformismi e la crisi di identità, sono ormai sotto gli occhi di tutti; la sovraesposizione inconsapevole del paese e della sua classe dirigente a dinamiche geopolitiche sempre più complesse ed ostili ne sono il portato. Un atto così importante per il futuro della nazione e delle istituzioni, per la loro stessa unità e funzionalità, rischia purtroppo, se non governato in una prospettiva di unità nazionale, di seguire questo solco e di accentuare la fragilità, la decomposizione e la subordinazione pedissequa del paese a strategie altrui, sia interne all’Unione Europea che esterne ad essa. Occorrono prese di posizione chiare e motivate non solo in Parlamento, ma anche da parte del Governo e delle istituzioni regionali, gli altri referenti ed attori determinanti di tali decisioni. L’auspicio è che la dichiarazione di Andrea Zhok, professore di filosofia all’Università degli Studi di Milano, assuma la forza di un vero e proprio appello sostenuto da un significativo gruppo di promotori_Giuseppe Germinario
UN APPELLO MINIMALISTA, di Andrea Zhok
La proposta di riforma per l’autonomia regionale, ora in via di approvazione, presenta, come sempre accade per i documenti ufficiali con valore legale, non poche complessità interpretative.
Ciò ha la conseguenza di rendere ogni confronto ed eventuali critiche necessariamente approssimativi e smentibili, comprimendo così le possibilità di discussione.
Una cosa sembra chiara: procedere senz’altro con un voto parlamentare su una questione di importanza cruciale per l’ordinamento futuro della nazione, senza che vi sia stato un approfondito dibattito pubblico NON E’ UNA PROCEDURA ACCETTABILE.
Credo perciò sia necessario chiedere con forza un CONGELAMENTO del processo parlamentare in cui è incardinata questa normativa, e simultaneamente l’avvio di un approfondimento, con dibattiti e discussioni pubbliche che ne chiariscano le implicazioni.
Se i proponenti della riforma sono certi delle loro buone ragioni, non avranno motivo di respingere questa richiesta di approfondimento.
Questa è una richiesta, di carattere insieme formale e sostanziale, rispetto a cui nessuno che abbia a cuore le sorti del paese dovrebbe sottrarsi.
Considerazioni sul pensiero di Hauriou, Schmitt e Romano
SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Il pensiero istituzionista di Hauriou, Romano, Schmitt. – 3. Linee di elaborazione successiva. – 4. Il carattere fondamentale del l’organizzazione nel pensiero istituzionista. – 5. Conclusione.
– All’influenza di Santi Romano dob biamo che, per i giuristi italiani non orientati verso il normativismo, è quasi un luogo comune affermare che è l’ordinamento a produrre il diritto, o meglio il diritto è tale, in quanto è ordinamento. E, per definire l’ordinamento, si è per lo più ricorsi al concetto di organizzazione (1), impie gato dal giurista siciliano per dare l’idea di che cosa, in primo luogo, fosse l’ordinamento giuridico. Da questa consapevolezza si è fatta derivare la necessità di studiare, per capire il fenomeno giuridico, le organizzazioni; e, del pari, che queste sono fonte non solo di rapporti giuridici, ma di norme, e, in genere, di diritto oggettivo.
Se però andiamo a vedere cosa s’intende per organizzazione (lasciando momentaneamente da parte l’ordinamento) si scopre una genericità definitoria, e spesso, un’assenza totale di definizione. Così tale concetto, indicato talvolta come la nuova frontiera del diritto (pubblico), assume le sembianze dell’araba fenice, di cui secondo un noto detto, tutti giuravano dell’esistenza, ma senza sapere, non avendola vista, come fosse. Soluzione che appartiene al genere delle scorciatoie scientifiche, restie alla precisione concettuale, quanto prodighe nell’impiego di termini, che, indefiniti, proprio perciò sono assai comodi. Ciascuno infatti può connotarli come vuole, e trovarsi tuttavia d’accordo, come i teologi ricordati nelle “Lettres Provinciales” con chi, pur servendosene, ne ha un concetto opposto.
Accanto a chi si contenta di questo approccio pirandelliano, vi sono altri che, volenterosamente, hanno voluto dare una fisionomia all’araba fenice. E così si è sostenuto che perché un gruppo umano possa avere un’organizzazione occorre: a) una distinzione di compiti – questa ritenuta essenziale -; b) per il raggiungimento di un fine : non sem pre ritenuto essenziale né necessario.
A ben vedere non ci si può ritenere appagati da tale connotazione tributaria più all’analisi semantica del termine che alla sua effettiva corrispondenza alla realtà.
Invero, se la si volesse seriamente applicare nel mondo giuridico, non si potrebbe fare a meno di considerare organizzazioni -e per tale via, almeno in parte e/o in nuce – ordinamenti, anche gruppi umani a carattere effimero ed occasionale. I turisti di un viaggio “organizzato” o i bambini che giocano ai quattro cantoni sarebbero così la morula delle grandi organizzazioni sociali (2). Identiche nei connotati essenziali – come l’individuo sviluppato rispetto all’embrione – e diverse solo quantitativamente, perché, come l’individuo, enormemente più ricche di cellule e assai più differenziate.
In effetti al di là delle considerazioni che possono farsi su tali concezioni, appare chiaro che sono assai lontane (e non hanno colto i caratteri più pregnanti) del concetto (di ordinamento e) di organizzazione, formulato dai giuristi – comunemente “classificati” come istituzionisti -come Santi Romano, Maurice Hauriou ed, in certa misura, il “secondo” Carl Schmitt (3). A questi, in effetti non sarebbe capitato di formulare un concetto così poco adattabile al fenomeno primario dell’esperienza giuridica da essi considerato, e cioè lo Stato.
Nel loro pensiero è l’analisi dell’istituzione-Stato a costituire la base per la costruzione dei concetti su ricordati, di cui rappresenta la forma-concreta-più complessa ed avanzata. E, dello Stato, l’essenziale è costituito dalla stabilità e dall’effettività; pertanto tutti, in misura maggiore o minore, sottolineano tali caratteri, che un gruppo umano deve avere per costituire un ordinamento. Stabilità i cui connotati sono variamente individuati: da quello puramente temporale (la durata) alla certezza dei rapporti, al progetto politico (all”‘idea” e forse anche alla “formula politica” di Gaetano Mosca) e soprattutto al concreto rapporto di comando – obbedienza che deve sussistere in ogni organizzazione sociale che non sia effimera od occasionale. Su quest’ultimo aspetto (che ha carattere determinante rispetto agli altri, perché è il sussistere di rapporti di comando ed obbedienza che conferisce durata, certezza e concretezza all’istituzione) è d’uopo soffermarsi.
Il pensiero istituzionista di Hauriou, Romano, – In effetti nel pensiero degli autori citati, tranne che per Schmitt, l’essenzialità del rapporto comando-obbe dienza per l’esistenza di un’organizzazione sociale non è stata posta in rilievo maggiore di altri caratteri; ciò spiega in parte perché sia stata successivamente quasi totalmente dimenticata a beneficio d’interpretazioni riduttive del pen siero dei due giuristi, ma, soprattutto, della teoria istituzionista. Hauriou, com’è noto, pone in rilievo, nel costruire il proprio concetto d’istituzione, quelli di “potere” “ordine” e “libertà”. Non è inesatto affermare che dei tre concetti è stato il secondo ad aver più successo. Primo e terzo sono stati assai meno considerati. Ma non è inutile notare come è il”potere” a costituire la base del pensiero di Hauriou, nel quale tutti e tre confluiscono e caratterizzano il concetto di istituzione.
È questa a ricondurre ad unità la dialettica fra questi elementi. Ma non può dimenticarsi che nel concetto di potere il giurista francese concentrava gli aspetti volontaristici e soggettivistici della propria concezione del diritto; secondo Hauriou “Il potere è una libera energia della volontà che assume il compito del governo di un gruppo umano mediante la creazione dell’ordine e del diritto” (4). Essenziale a questo compito creativo è il comando, per cui, qual che pagina dopo, nel delineare i caratteri dell’organizzazione sociale, specifica: “Il y a d’abord une erreur à éviter (dans laquelle, bien entendu, des quantités de gens se sont précipités): c’est l’explication de l’organisation sociale par la divisione du travail ou par la différenciation des fonctions entendue au sens économique de la loi du moindre effort. Il y a une trentaine d’années, on a cru à cette explication par les organismes vivants; je pense qu’on en est revenu. En tout cas, en matiére d’organisation sociale, la differéncia tion des organes et des fonctions, au sense économique, est un phénomène tardif, et non point primaire. Les phénomèns primaires sont d’ordre politique, c’est l’apparition d’un centre directeur ou fondateur, celle d’organes de gouvernement, celle d’equilibres gouvernamentaux et, enfin, des consentements” (5); onde conclude che “l’apparizione del Centro fondatore e degli organi di governo costituisce, se si vuole, una differenziazione tra governcmti e governati, ma questa è di natura politica e non ha alcun rapporto con la divisione del lavoro” (6). L’organizzazione sociale lungi dallo spiegarsi con il meccanico svolgersi di leggi naturali, sorge da una “libera energia della volontà”, questa energia crea “l’ordine ed il diritto”; l’ordinamento (e l’organizzazione) nasce con la differenziazione tra governanti e governati, distinzione che non ha nulla d’economico.
Per Santi Romano, “ogni forza che sia effettivamente sociale e venga quindi organizzata si trasforma perciò stesso in diritto… Viceversa non è diritto… soltanto ciò che non ha organizzazione sociale” (7). E che cos’è un’organizzazione sociale? Santi Romano aveva una giusta diffidenza verso il concetto: ma quando giunge a dare una rappresentazione delle istituzioni (in rapporto al concetto d’organizzazione), scrive che: “…Tali enti vengono a stabilire quella sintesi, quel sincretismo in cui l’individuo rimane chiuso; è regolata non soltanto la sua attività, ma la sua stessa posizione, ora sopraordinata ora subordinata a quella di altri, cose ed energie sono adibite a fini permanenti e generali, e ciò con un insieme di garanzie, di poteri, di assoggettamenti, di libertà, di freni, che riduce a sistema e unifica una serie di elementi in sé e per sé distinti. Ciò significa che l’istituzione, nel senso da noi profilato, è la prima, originaria ed essenziale manifestazione del diritto. Questo non può estrinsecarsi se non in un’istituzione, e l’istituzione intanto esiste e può dirsi tale in quanto è creata e mantenuta in vita dal diritto” (8).
Anche nel trattare della giuridicità degli ordinamenti considerati “antigiuridici” sostiene che è “un’ordinamento giuridico…; in quanto irreggimenta e disciplina i propri ele menti” (9). È significativo che Romano dia quasi per nulla peso alla differenziazione delle funzioni, e ne attribuisca tanto ai concetti di “unità” e “chiusura” per definire l’istitu zione: ma, in relazione a ciò, giova sottolineare che è difficile, se non impossibile, concepire un ordinamento “unito”, se non attraverso il potere di comando di un individuo (o di un organo) su altri individui (od organi) e il correlativo crearsi di posizioni (status) di sovra e sottoordinazione.
C’è poi un passo dell’ Ordinamento giuridico in cui ilgiu rista chiarisce in modo decisivo tale carattere essenziale dell’ordinamento: ed è quando ricorda “che è possibile concepire un ordinamento, che non faccia posto alla figura del legislatore, ma solo a quella del giudice … Se così è, il momento giuridico, nell’ipotesi accennata, deve rinvenirsi, non nella norma, che manca, ma nel potere, nel magistrato, che esprime l’obiettiva coscienza sociale, con mezzi diversi da quelli che son propri di ordinamenti più complessi e più evoluti” (10). Anche in questo passo Santi Romano individua nel potere (di comando) la condizione necessaria perché sussista un ordinamento (e con ciò l’organizzazione del gruppo sociale). D’altra parte in ciò è coerente col pensiero espresso in altri saggi. In uno dei più interessanti, !”‘Instaurazione di fatto di un ordinamento giuridico” , il rapporto forza-diritto-legittimità è analizzato in modo che risulterebbe incomprensibile, a non tener presente il concetto di istituzione, proficuamente caratterizzato dal rapporto comando-obbedienza. Analogamente nel descrivere l’organizzazione unitaria di un movimento rivoluzionario (che è un ordinamento giuridico, “sia pure imperfetto, fluttuante, provvisorio”), Romano ricorda “ci saranno dirigenti … norme di vario genere che regolano le attività rivoluzionarie, persone ed enti che obbediscono a tali norme, sanzioni…” (11).
Sembra superfluo sottolineare che il concetto d’ordinamento giuridico da Schmitt tratteggiato negli anni ’30 presuppone, anzi è costruito, intorno al rapporto comando obbedienza. Non solo Schmitt parla ripetutamente, nel riferirsi all’ordinamento concreto ed all’istituzione, di gerarchia e di disciplina, proprio negli scritti in cui sarebbe avvenuta la svolta del grande giurista verso l’istituzionismo; ma anche negli scritti precedenti, specialmente nella Politi sche Theologie I e nella Verfassungslehre è manifesto che l’esistenza di un’ordinamento (anche se Schmitt si riferisce quasi sempre ad un ordinamento politico) è determinato dal fatto che alcuni uomini hanno il (diritto di) comando su altri uomini.
Una comunità e un ordinamento sono tali in quanto sussi stono rapporti di sovra e sotto ordinazione tra le persone che vi partecipano (12). La stessa polemica che Schmitt svolge contro il concetto di ordinamento – come inteso dai giuristi normativisti – (13) rivela, accanto alla contrapposizione principale (tra diritto come ordinamento e diritto come norma) una, secondaria ma rivelatrice, tra concezione d’ordine” elaborato sui concreti rapporti tra componenti l’istituzione e quella fondata su regole meramente tecniche o comunque applicabili solo in una società dove vigono norme basate sullo “scambio” (cioè in definitiva, costituita di rapporti tendenzialmente e prevalentemente economici). Il carattere di categoria generale ,che ha un ordine del primo tipo e quello -limitato, se non eccezionale
– del secondo non hanno bisogno di essere sottolineati.
Schmitt non sottovaluta gli elementi dell’istituzione non totalmente riducibili al rapporto comando-obbedienza: nel suo pensiero la legittimità è (in parte) il corrispondente dell’idea di Hauriou. Tuttavia l’ispirazione continua che trae dai pensatori controrivoluzionari, (il cui pensiero giuridico
– in termini necessariamente generici – potrebbe definirsi un misto di istituzionismo e decisionismo) gli evita di cadere nel soggettivismo esasperato, che è la principale strada che si apre ad un decisionista conseguente. La polemica anti romantica, contro un “Io” politico svincolato da ogni riferimento alla concreta situazione storica e politica; il suo stesso definirsi, negli anni ’30 “organo del pensiero giuri dico del popolo tedesco”, ancorava il suo decisionismo all”‘ubi consistam” della situazione storica, determinata da tutte le “costanti” di cui l’uomo di governo (e lo scienziato politico) deve tener conto.
Resta il fatto, di per sé incontrovertibile, che tutti e tre i grandi giuristi delineavano il concetto di organizzazione in termini che hanno poco a che vedere con la divisione dei compiti tra più soggetti: questa appare loro secondaria, e, tutto sommato, derivata da quell’altra, essenziale, divi sione dei compiti, che vuole il gruppo sociale costituito quando qualcuno comanda e gli altri obbediscono. Del pari la stessa attività “regolativa” o di normazione, appare secondaria e derivata rispetto all’essenzialità di quel rapporto, come giustamente rilevava Santi Romano, coll’esempio – dinnanzi ricordato – di una comunità il cui tessuto connettivo era costituito dalle decisioni dei giudici (14).
Linee di elaborazione – Nella successiva elaborazione del concetto anche da parte dei giuristi più vicini all’ipotesi istituzionista, questa costante dell’idea di ordinamento (ed organizzazione) è andata – in parte – smarrita. C’è, quindi, chi ha identificato gli elementi neces sari dell'”ordinamento giuridico”, nella plurisoggettività, nella normazione, e nell’organizzazione. E quest’ultima, come accennato sopra, è caratterizzata esclusivamente dalla divisione dei compiti, con relativa istituzione di “uffici”. Talaltro ha voluto ricavare il concetto d’organizzazione basandosi su quello di “potere” (giuridico), ritenuto un prius rispetto a quello di diritto, e in grado di spiegare, in tali termini, i rapporti tra organi della stessa organizzazione, che è poi uno dei punti dolenti delle tematiche degli ordinamenti. Con ciò indubbiamente ci si avvicina di più alle concezioni dei tre giuristi ricordati, non foss’altro perché, nell’analisi semantica del termine “potere” è implicito, in una certa misura, minima se si vuole, il concetto di dominio, di signoria e quindi di comando. Ma le potenzialità positive di tale concezione non sono state spesso conseguentemente sviluppate e portate alle logiche conclusioni.
Il potere diventa così, più che altro, il contenuto (e il limite) della competenza dell’organo, anfibiologicamente (e, talvolta, ambiguamente) definibile sia in termini di divisione dei compiti (o del lavoro) sia in relazione ai rapporti di sovra e sottoordinazione. In questo si può notare la dimenticanza di un dato giuridico essenziale, costante preoccupazione dei teorici dell’istituzione, espressa in particolare da Schmitt e da Romano: quello dell’unità dell’ordinamento. A tale proposito è appena il caso di rilevare, prescindendo, al momento, da considerazioni di teoria generale e di sociologia del diritto, che qualsiasi organizzazione sociale può agire per il diritto, in quanto “unità”. Il diritto positivo non prende in considerazione, come soggetti di diritto, se non persone, fisiche o giuridiche che siano. Perché un gruppo possa essere centro d’imputazione di rapporti, occorre che i componenti raggiungano un’unità (di volizione e/o di azione). È solo questa che consente al gruppo d’agire e di avere rilievo giuridico.
A ·trasporre questo dato in termini di teoria generale (cioè in quelli in cui lo formulavano Schmitt, Hauriou e Romano) ciò significa che un gruppo sociale può avere consistenza d’ordinamento, quando (attraverso la sua organizzazione) opera la reductio ad unitatem delle volontà dei membri; al minimo, attraverso un differente potenziale di potere tra i componenti, che assicuri in ogni caso una decisione valevole per tutti. Se questa unità non c’è, non c’è neppure ordinamento, né organizzazione. Di guisa che il problema di quale ne sia l’elemento essenziale e basilare consiste nell’identificare quello che consente di unificare le varie componenti, e renderle così capaci di agire unitariamente. Questo è, indubbiamente, l’organizzazione “gerarchica” (intendendo tale termine in senso ampio) del gruppo (15), per cui ogni organizzazione ha un centro di riferimento dominante e decisivo rispetto agli altri. È significativo del disinteresse verso tale approccio, che sia stato poco considerato come il diritto positivo, laddove, in un’ente, non si riesca a raggiungere questa unità (e conseguentemente capacità d’agire), provveda con meccanismi “di supplenza”, tipici gli organi straordinari commissari o i provvedimenti “sostitutivi”, nominati o deliberati da uffici ed organi di Enti sovraordinati. La scarna riflessione su questi istituti è in puntuale corrispondenza con la sottovalutazione dell’elemento “autoritario” e del carattere unitario dell’istituzione, che da quello è assicurato.
D’altra parte, l’acuta sensibilità di Schmitt e Romano ai problemi del diritto “statu nascenti” ed alla concretezza storico-politica faceva dell’idea di unità il dato (e l’esigenza) necessaria e centrale. Lo studio, acuto anche se non approfondito, dell’organizzazione rivoluzionaria che fa il giurista siciliano, lo rende palese. Tutti, d’altra parte, possono immaginare che fine avrebbe fatto la Rivoluzione d’ottobre, se, dopo la votazione del comitato centrale nella notte del 23 ottobre 1917, maggioranza e minoranza bolscevica fossero andate ciascuna per la propria strada, e, ancor di più se i militanti non avessero eseguito (o eseguito solo in parte) le decisioni del Comitato centrale.
L’idea di unità è d’altronde implicita nel concetto di “pouvoir” che tanta importanza ha nel pensiero di Hauriou. È importante notare come allo stesso appariva del tutto naturale che nell’idea di “pouvoir de droit” confluiscano i due aspetti della competenza (intesa in senso lato) e del dominio (che per Hauriou, dato il carattere burocratico dell’istituzione-Stato consiste soprattutto nel potere di controllo).
Dato che, come abbiamo visto, il concetto d’organizzazione accolto da alcuni giuristi successivi non è, se non in modesta misura, riferibile al pensiero di Romano, Schmitt ed Hauriou occorre ricavare quali referenti culturali abbia la concezione criticata.
È condivisibile che una teoria istituzionista del diritto, è, come sostiene Schmitt con espressione sintetica, una teoria caratterizzata dal carattere di sovrapersonalità, cui si contrappongono la personalità del decisionismo e l’impersonalità dell’impostazione normativistica (16). Tale scriminante, in sé riferibile più che al pensiero concretamente espresso, a tipi ideali, è un punto di partenza per comprendere i presupposti di una teoria istituzionale “debole”.
È indubbio che dopo il soggettivismo ed il razionalismo della seconda metà del XVIII secolo, fondamenti ideali della rivoluzione borghese, col XIX si apriva un periodo di prevalenza degli aspetti oggettivistici, considerati le “determinanti” del diritto. Non era solo la Scuola storica del diritto, né la filosofia hegeliana o i suoi epigoni (tra cui Marx): era la maior pars del pensiero politico-giuridico a reagire al soggettivismo razionalistico della Rivoluzione Francese. In linea generale ciò appare evidente: è più interessante però notarne le conseguenze sulla teoria generale del diritto.
A tale proposito, la prevalenza, nella seconda metà del XIX secolo, del positivismo giuridico, ha costituito un freno al formarsi di concezioni giuridiche che tenessero in gran conto gli aspetti sociologico-fattuali non solo come condi zionanti (in modo decisivo) il diritto, ma come costitutivi dello stesso, attraverso concetti come !'”istituzione” o simili ( ciò con l’eccezione, notata abitualmente, di Otto Gierke).
In questo senso, il positivismo giuridico della seconda metà dell’800 ha impedito che le concezioni maturate in altri ambiti scientifici potessero avere compiuta rispondenza in quello giuridico. Questo è vero in particolare per la teoria dell’istituzione. È certo, a tale riguardo, che tra il pensiero istituzionista e le (prevalenti) concezioni politico istituzionali del periodo della Restaurazione c’è un nesso evidente; del pari molti giuristi hanno sottolineato il carattere “sociologico” della concezione istituzionista, creando un nesso (che c’è, ma probabilmente più tenue di quanto si creda) tra sociologia e teoria istituzionale.
Senonché la sociologia, come qualunque scienza naturale, va alla ricerca delle determinanti e delle costanti dell’agire sociale; una spiegazione del diritto in termini puramente (meglio sarebbe dire piattamente) sociologici porta a sottovalutare e ad espungere dal mondo giuridico l’azione della libera volontà umana (Hauriou) e l’orgoglio della decisione fondamentale (Schmitt). E, quel che è più gra vido di conseguenze negative, la sociologia studia il diritto come fatto, mentre la scienza del diritto ha – ovviamente – una visione più ampia, comprensiva e diversa del fenomeno giuridico.
Ad applicare (con una certa ingenuità) il metodo delle ricerche sociologiche, è chiaro che costituiscono fatti l’esistenza di un gruppo sociale, la normazione che questi si da e l’organizzazione in cui si articola. Mentre sono spiegazioni di tali fatti, che l’organizzazione sia tale anche perché c’è una distinzione tra chi comanda e chi obbedisce, tra ciò che è comune e ciò che è individuale, o per la funzione che ha l’istituzione.
La spiegazione di un fatto però si presta, agli occhi di metodologi incantati dalla “oggettività” e dalla “misurabilità” del dato empirico, ad essere tacciata di non scientificità, se non di pregiudiziali ideologiche. A poco vale che, in uno specifico campo d’indagine, il dato empirico spieghi assai meno di una valutazione e definizione degli elementi in gio-
co, o meglio che quello sia solo (e in parte) la base su cui lavorare per arrivare a conclusioni di reale interesse.
Quando poi l’empirismo sociologico si coniuga con il determinismo economico, la distorsione del dato reale è assicurata. Da un simile mélange , tutti i concetti giuridici
vengono piegati ai presupposti elementari di un sistema di pensiero economico. La distinzione dei compiti nell’apparato di “governo” del gruppo diventa così una sottospecie della divisione del lavoro: come questa è determinata dalla razionalità funzionalistica di una migliore utilizzazione delle attitudini di ciascuno, ai fini di una maggiore produttività sociale; la stessa distinzione tra chi comanda e chi obbedisce (che è la base, sia pure funzionale, dell’ineguaglianza tra governanti e governati) diventa irrilevante, ma più ancora incompatibile, con un sistema di pensiero dominato dai postulati dell’eguaglianza tra homines aeconomici e della loro libertà di scegliere, acquistare e vendere, a pari condizioni, dei beni.
Al termine di questa strada, non si riesce più a comprendere in cosa una società cooperativa differisca dallo Stato, o, all’altro estremo sociologico, da un gruppo sociale occasionale. Che proprio teorici come Schmitt ed Hauriou aves sero messo in guardia contro queste interpretazioni economicistiche del diritto e del concetto d’istituzione è cosa che potrebbe, al limite, interessare poco, se non si volesse poi, attribuire alla teoria istituzionale implicazioni espressamente rifiutate dai “soci fondatori”. Come del pari, è evi dente che, come sopra cennato, lungi dal ricondursi ad una qualche forma di determinismo sociale, il pensiero di Hauriou appare ispirato al bergsoniano èlan vita!, all’istituzione come impresa della volontà umana libera e creatrice; e quello di Schmitt alla decisione sovrana, condizionata sì dalla situazione storica, ma, quanto meno nel caso d’eccezione, libera nei mezzi e, in certa misura, negli stessi fini.
Sotto un diverso aspetto, la teoria dell’istituzione è stata percepita (e recepita) come reazione avverso la “statalità” del diritto e come negazione del “monopolio” statale alla sua produzione, cui contrappone la pluralità degli ordina- menti giuridici.
Le valenze pluralistiche della teoria sono state tra le meglio accette, specie quando si coniugavano con precise (ancorché differenti) posizioni ideologiche. È stato quindi una conseguenza logica che dalla constatazione della pluralità degli ordinamenti si passasse al pluralismo, dal relativismo vitalistico e realistico all’ideologia del neo-corporativismo, se non del neo-feudalesimo (17). Questa è stata grandemente facilitata dall’immissione di robuste dosi di normativismo nella teoria dell’istituzione: il pluralismo così inteso consente infatti di coniugare il diritto “originario” all’esistenza ed all’autonomia dei più svariati gruppi (ed istituzioni) con le garanzie che solo uno Stato legislativo parlamentare, con le sue norme “misurabili”, promulgate con leggi (costituzionali ed ordinarie) non facilmente modificabili, può offrire congruamente.
Applicando ai tipi di pensiero giuridico le correlazioni che Schmitt stabilisce tra “tipi” di Stato (giurisdizionale, legislativo-parlamentare, governativo-amministrativo) e scelte politiche (conservatorismo, evoluzionismo progressista, radicalismo di destra o di sinistra), si può affermare che un tipo istituzionale “puro”, si coniuga col conservatorismo; quello normativista col progressismo moderato ed evoluzionista; il decisionismo col radicalismo. Con tutte le approssimazioni e i distinguo che il tema ed il carattere di queste classificazioni impone, il massimo della chiarezza nei risvolti politici di tali concezioni può però ancor meglio ritrovarsi nelle forme “miste” che nei tipi “puri” di pensiero. Sotto tale profilo, nella realtà storica la miscela più con servatrice è indubbiamente quella tra istituzionismo e normativismo. (nel senso precisato). In effetti una teoria istituzionale “pura” è una teoria del “movimento” (evolutivo) del diritto prodotto dalle varie articolazioni dell’istituzione (Hauriou); mentre una regolamentazione legislativa rigida dell’attività sociale tende ad imbalsamarla in forme e rap porti la cui evoluzione viene resa più difficile.
A ben vedere questa particolare “garanzia” della stabilità, tipica della vulgata pluralista, non la si trova nel concetto d’istituzione (o di ordinamento) di nessuno dei tre grandi giuristi: il paragone della scacchiera di Santi Romano, con l’organizzazione come prius e “ragione sufficiente” rispetto alla produzione normativa, con la stessa coesione dell’ordinamento ritenuta indipendente dalle “norme”, ma assicurata dal comando, rende bene il senso del concetto, in cui è il reale che precede e prevale, in ogni caso, sul normativo.
Come lo rende la contrapposizione di Schmitt tra la necessaria indeterminatezza di certi concetti, peculiari di un ordinamento concreto, perciò stesso applicabili solo in un determinato contesto di rapporti sociali, ed il concetto di “norma” della dottrina normativista (18).
Ciò perché, a differenza di alcune impostazioni “pluralistiche”, la teoria dell’istituzione non prescinde mai dai rapporti di sovra e sotto-ordinazione, né dalla concreta situazione che in quelli trova una costante. La pluralità di ordinamenti e la loro compresenza nella realtà sociale non ne significa l’eguaglianza, né tanto meno il diritto all’esistenza. Un pluralismo, gravido di implicazioni giusnaturalistiche, concepisce invece l’esistenza di una pluralità di ordinamenti come diritto all’esistenza medesima. Sostituendo così l’indi viduo ed i diritti dell’uomo, punto di partenza del liberali smo politico, con i gruppi ed i loro diritti “naturali” o “storici”, senza che con ciò, mutino presupposti e risultati; né si attingano le valenze realistiche della teoria dell’istituzione.
Partendo da un simile pluralismo non si riesce a comprendere neppure il reale significato di quello che è il punto d’Archimede della teoria istituzionale: e cioè l’esistenza di ordinamenti illeciti accanto (e/o all”‘interno” di) quelli leciti. L’apparente antinomia si risolve, per Santi Romano, nell’effettività (e quindi nella “validità”) di entrambi, assicurata dal rapporto comando-obbedienza all’interno di ciascuno di essi; per un pluralista coerente il problema è – a ben vedere -irrisolvibile: o la liceità reciproca è frutto di un impossibile “riconoscimento”, o l’asserita illiceità dell’uno
è frutto di un errore evidente se non di un inammissibile sopruso.
La caratteristica saliente, e il risultato, cui porta la conce zione criticata è la spoliticizzazione di ogni istituzione e di ogni teoria del diritto pubblico che si basi – anche se non totalmente – su categorie “politiche”. Organizzazione senza gerarchia e parità tra ordinamenti significa null’altro che la realizzazione del sogno sansimoniano di sostituire al governo degli uomini l’amministrazione delle cose (19).
Un’organizzazione caratterizzata dalla mera ripartizione di competenza e lavoro tra più uffici, a cui è estraneo ogni rapporto di subordinazione, non ha, invero, altro senso. Politica è invece, in primo luogo, comando e subordinazio ne: anche se tale requisito non basta a qualificare il “politico”, è indubbio che la sua eliminazione dal mondo significherebbe rendere impossibile l’attività politica, che, per definizione, è attività di gruppi umani fortemente coesi.
Del pari la rivendicazione della “parità” tra ordinamenti (o del diritto all’esistenza) si muove sullo stesso percorso. Parità tra ordinamenti vuol dire parità ed eguaglianza tra uomini che ne fanno parte, e, più ancora, tra coloro che li guidano. Il “diritto” all’esistenza di più ordinamenti, del pari, significa negazione dell’assolutezza della volontà che ne tiene unito almeno uno. Infatti ad una volontà che si assume assoluta non può contrapporsi alcun ostacolo giuridico. Entrambe le affermazioni sono quindi contrarie all’essenza del politico, che postula la subordinazione dell’uomo all’uomo e un comando privo di limiti, perché sussista una comunità politica (20). In questo contesto l’interpretazione pluralista della teoria dell’istituzione è l’esito, compiuto e coerente, della tendenza alla spoliticizzazione, tipica di un certo pensiero moderno.
Il carattere fondamentale dell’organizzazione nel pensiero – È stato asserito che la teoria istituzionale (specie nella formulazione di Hauriou) peccherebbe di “sociologismo”. L’errore (o meglio l’insufficienza) sarebbe quella di costruire il diritto sul “gruppo sociale”, mentre, perché un gruppo sociale sia coeso, occorre che i rapporti si organizzino nel (e con il) diritto. Questo sarebbe così l’elemento determinante nel dare consistenza giuridica al gruppo. Il fatto che questo esista viene così svalutato essendo, nella ipotesi più favorevole, una condizione, necessaria ma non sufficiente, perché si possa parlare di diritto.
In effetti la concezione criticata prende le mosse dalla necessità di differenziare, nei gruppi sociali, quelli che costituiscono istituzioni da quelli occasionali, ed effimeri: e sarebbe il diritto a distinguere gli uni dagli altri. Inoltre è stato sostenuto, specie per Hauriou, che la sua impostazione non tiene conto della possibile genesi “contrattuale” delle istituzioni, che farebbe così venir men il presupposto “autoritario” della volontà del fondatore. Tale critica non pare cogliere nel segno: è infatti viziata, in primo luogo, dalla mancata individuazione dell’elemento essenziale dell’istituzione, che imprime giuridicità (ed assieme lo rende tale) al gruppo sociale: la presenza dei rapporti di sovra e sotto ordinazione. Infatti, anche se da taluno è stato notato l’elemento “autoritario” che segna l’istituzione, è chiaro che tale critica presuppone di non tener conto (o non tenere nel dovuto rilievo), il rapporto comando-obbedienza. Invero ciò che differenzia un gruppo occasionale da un'”istituzione” non è il carattere giuridico (che è posterius), ma, come già scritto, tale rapporto, che ne assicura l’unità e la stabilità, e con ciò la giuridicità. Non è in altri termini il diritto ad autocrearsi, ma è sempre un elemento pre-giuridico a generare i rapporti giuridici.
Inoltre non è stato notato come sostenere che vi è un ordinamento “giuridico” quando è organizzato dal (o mediante il) diritto vuol dire esprimersi per tautologie,
come il malato immaginario di Molière durante l’esame di dottorato (21). Resta così da tale impostazione inspiegato il principale carattere innovativo della teoria dell’istituzione; quello di ridurre a questa il diritto, stabilendone l’identità. In realtà come scrive Schmitt, ciò che differenzia un giurista “istituzionista” da un “decisionista” o da un “normativista”, non è il negare che il diritto consista, oltre che di istituzioni, di norme e decisioni (e viceversa, per gli altri “tipi” di pensiero giuridico), ma a quale di questi tre concetti, possa ridursi, in ultima analisi, il diritto. Affermare che un ordinamento è giuridico in quanto “organizzato” dal diritto, significa sottrarre dalla connotazione del concetto il termine diritto, dando per scontato che debba aggiungersi dal l’esterno, e, nel contempo, negando l’identità tra diritto ed istituzione, su cui si regge la teoria istituzionista (22).
D’altra parte l’elemento normativo (inteso nel senso di comando, e non di regola) è per il diritto necessario ed insostituibile: è strano che questo, ritenuto generalmente essenziale per il “giuridico”, sia stato trascurato nello studio della teoria istituzionale. Specie se si tien conto che l’accentuato che la definizione dell’istituzione formulata da Hauriou non ne esclude affatto la fondazione “pattizia” (23), v’è da dire che gli istituzionisti pensavano principalmente alle istitu zioni – comunità (e non alle istituzioni – società) (24), non solo perché quella più complessa ed interessante per il giurista, ovvero lo Stato, è un’istituzione – comunità (25); ma perché queste non consentono di spiegare il diritto in base a termini giuridici, spiegazione che può essere avanzata per le altre. Sono, in parole diverse, gli ordinamenti comunitari a costituire il caso-limite (il quale, proprio per questo, è più interessante in sede scientifica), che permette d’individuare, nella purezza concettuale, gli elementi essenziali del diritto. La comunità prescinde dal consenso individuale, dal patto tra volontà libere ed eguali: l’elemento sociale e il carattere necessario (se non “naturale”) dell’ordinamento ne vengono così esaltati; la comunità è, per definizione, intessuta di rapporti di sovra e sotto-ordinazione, sin dal momento “costitutivo” (quasi sempre non individuabile); non è fondata sullo “scambio”. L’istituzione-società può prescindere da gran parte di questi elementi: solo da uno (forse da due) non può sfuggire: dalla presenza, una volta costituita, di una (o più) volontà “prevalenti”, decisive per l’agire comune. Così lo stesso carattere “pattizio” della costituzione di un associazione non toglie che, perché que sta possa esistere, vi debba essere un centro direttivo, che esercita dei poteri sociali, quanto meno quelli che consentono all’istituzione di agire unitariamente (26).
– Secondo la nota tesi, esposta da Schmitt nella Politische Theologie e in Politische Romantik, De Bonald, de Maistre e Donoso Cortès sono pensatori emblematici del decisionismo politico. In effetti Schmitt ne espone il pensiero contrapponendolo sia al liberalismo della restaurazione che al romanticismo politico. Di fronte a posizioni ispirate al soggettivismo, al razionalismo, all’occasionalismo e alla sostanziale negazione della sovranità, il pensiero dei controrivoluzionari, dominato dall’oggettività della concreta situazione storica e dalla costante affermazione dell’insostituibilità di decisione e sovranità, ha il pregio della chiarezza e della coerenza, che solo una radicale opposizione, intessuta (e derivata) di esperienze di vita oltre che di convinzioni e di cognizioni teoriche può dare. Ciò non toglie che il giurista tedesco sia troppo avvertito per sottovalutare i tratti del pensiero dei controrivoluzionari riconducibili al “tipo ideale” del pensiero istituzionista: solo che non li sviluppa, probabilmente perché non interessanti i temi affrontati nella Politische Theologie (alcuni cen ni, anche se non riçollegati alla teoria istituzionale, vi sono invece in “Politische Romantik” ).Nella realtà la concezione dei controrivoluzionari può essere ricondotta ad un mélange di istituzionismo e decisionismo, o meglio dei “tipi ideali” dell’uno e dell’altro. Del primo i controrivoluzionari hanno il senso del condizionamento storico-sociale delle istituzioni, l’infuenza su queste del sentire comune; un certo (limitato) determinismo storico; e la coscienza che ciò che è esistente, duraturo e proprio perciò vitale è, di per sé, produttivo di diritto. Del secondo la consapevolezza che comunque la comunità è tale (e può esistere) in quanto vi è un autorità assoluta, capace di prendere decisioni inappellabili; e che il potere consiste nel decidere per (e al di sopra degli altri). La formula paolina “om nis auctoritas a Dea”, (che si converte in quella maistriana che ogni potere è buono quando è costituito), non è interpretata dai controrivoluzionari nel senso, fatalista e determinista, dell”‘impersonalità” del potere, determinato da scelte imperscrutabili della Provvidenza (e/o della Storia), ma, in quello della necessità dell’autorità (cioè nel senso della “costante” storico·-politica di un potere sovrano), e nel contempo della personalità della stessa, libera nel prendere le decisioni fondamentali (27).È capitato così che i controrivoluzionari sono stati i primi ed energici assertori, in epoca contemporanea, di quelle tesi ricordate, fondamentali nel pensiero istituzionista. La consapevolezza di ciò non è stata, in genere avvertita; e, conseguentemente si è studiato poco o punto il rapporto tra questi e quelli.Ma, indubbiamente, il limite più grave che ne è derivato, è non aver compreso appieno il pensiero dei teorici dell’istituzione, non avendo tenuto conto, nella giusta misura, del carattere decisivo che gli stessi attribuivano ai rapporti di sovra e sotto-ordinazione, ed all’importanza dell’organizzazione “gerarchica” dell’istituzione. Ne è conseguita l’accentuazione del carattere sovra-personale (e, a tratti, impersonale) del pensiero istituzionale. Del determinismo sociale rispetto all’azione e alla volontà umana. Dell’istituzione come “cosa” (se non “macchina”), rispetto all’istituzione come insieme organizzato di rapporti tra uomini. Da ciò a passare ad una concezione tendenzialmente sansimoniana ed “oggettivistica” dell’istituzione il passo è stato breve
Nella realtà, questo può compiersi solo a costo di fermarsi all’aspetto superficiale ed esteriore dell’istituzione, dimenticandone la funzione e, soprattutto, omettendo di approfondire i risvolti più interessanti.
Nel pensiero dei tre grandi giuristi, come dei loro precursori contro-rivoluzionari, l’istituzione è strettamente legata alla decisione ed alla struttura “gerarchica”; l’oggettività dell’organizzazione non prescinde, anzi è fondata sulla soggettività del comando. Elementi oggettivi e soggettivi stanno in equilibrio. Anche perciò può parlarsi di una concezione che è un misto dei tipi ideali dell’istituzionismo e del decisionismo. L’impostazione vitalistica e l’approccio realistico con cui si accostano ai problemi del diritto li colloca, anche se in misura diversa, vicini ai più noti scienziati politici italiani del primo novecento, loro contemporanei, in cui la sensibilità sociologica si coniugava col realismo con cui indagavano sui rapporti politici.
La teoria della classe politica e delle élites, la legge ferrea delle oligarchie, la funzione ordinatrice dei principi di legittimità, sono acquisizioni che appaiono – in larga parte – comuni ai “machiavellici” ed ai giuristi ricordati (28). La relazione tra il pensiero degli uni e quello degli altri, come
per i controrivoluzionari, è ancora poco approfondita, probabilmente in omaggio a specializzazioni scientifiche che sovente riescono, così, ad occultare le relazioni più interessanti ed a precludersi una comprensione esauriente. Ma è sicuramente vero, come scrive Schmitt, che chi disturba questa divisione del lavoro nell’ingranaggio scientifico, diventa un guastafeste. E il guastafeste è, com’è noto, “sempre l’aggressore”.
Teodoro Klitsche de la Grange
( 1) Il concetto (o meglio il termine) di organizzazione è stato impiegato per connotare sia il concetto di ordinamento che come “nuova frontiera” della dottrina del diritto pubblico. In ambo i casi la letteratura non manca, per cui ci limitiamo a citare i contributi più caratterizzanti, rimandando per il resto alla dottrina citata da F. MODUGNO voce “Ordinamento giuridicodottrina” in Enciclopedia del diritto, p. 678 n. Quanto al primo problema si veda M.S. GIANNINI. Glielementi degli ordinamenti giuridici, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1958, p. 219; quanto al secondo i contributi sono assai più numerosi. A prescindere dalla nota impostazione di DE VALLES. Teoria giuridica dell’organizzazione dello Stato, Padova 1931 e 1936; v .. da ultimo, G. BERTI Il principio organizzativo del diritto pubblico, Padova 1986 (con ampia trattazione del concetto di organizzazione); per contributi meno recenti v. S. FODERAR O La personalità interorganica, II ed, Padova 1957; il volume collettaneo L’organizzazione amministrativa. Atti del IV Convegno di scienza dell’amministrazione, Milano 1959.
(2)È rilievo simile a quello formulato da M.S. GIA NNINI. Gli elementi,
cit.. che ne rileva la inconsistenza per la ricostruzione dei fenomeni giuridici.
(3)Per SANTI ROMANO v. L’Ordinamento giuridico, 1918 v. anche voce Organi in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano 1983; Prin cipi di diritto costituzionale generale Milano 1947; per HAURIOU Préçis de droit constitutionel (1929), risi. 1965; IDEM. Theorie de l’institution et de la fondation ora in traduzione italiana ne la Teoria giuridica de/l’istituzione e della fonda_zione, Milano 1967; per C. SCHMITT v. Legalitiit und legimitiit; Uber die drei Arten des Rechtwissenschaftlichen Denkens, ora entrambi tra dotti in italiano (anche se non totalmente) ed inseriti nella raccolta di saggi “Le categorie del politico” Bologna 1972.
(4)Préçis de droit constitutionel, , p. 15. D’altra parte tenuto conto del l’influenza che il pensiero di Bergson ha esercitato sul giurista francese, è proprio il “potere” col suo carattere dinamico e creativo a dover costituire l’elemento primario di un pensiero giuridico influenzato da una filosofia vita listica.
(5) cit., 72, si noti che Hauriou cita la tesi di Prévost-Paradol per cui
”l’obéissence est le lien des Societès”.
(6)loc. cii.
(7)L’ordinamento giuridico, Firenze 1967, pp. 43-44
(8)ult. cii., p. 43.
(9)Op. ult. cii., p. 44.
( IO) Op. ult. cit.. p. 21.
(11) Rivoluzione e diritto in Frammenti di un dizionario giuridico Milano 1983 p. 224.
(12) in C. SCHMI1T Politische Theologie I, trad. it. in “Le categoriedel politico” pp. 57-58. Schmitt, esponendo il pensiero di Hobbes rivela il carattere personale e concreto di ogni forma di subordinazione. “Se un potere dev’essere sottoposto ad un altro, ciò significa soltanto che colui che ha il primo potere dev’essere sottoposto a colui che ha l’altro potere”.
(13) Nel saggio “Uber die drei Arten”, in particolare pp. 251-255 trad. cit.
(14) È interessante notare che nel concetto d’istituzione formulato da Max Weber il rapporto di comando è Infatti l’istituzione è defi- nita “gruppo sociale”, i cui ordinamenti statuiti vengono imposti (con rela- tivo successo), entro un dato campo di azione, ad ogni agire che rivesta deter- minate caratteristiche (Wirtschaft und Gese//schaft, trad. it., p. 51).
Inoltre Weber richiama continuamente, quando scrive di “ordinamenti” dei gruppi sociali, l’elemento autoritario: così “per costituzione di un gruppo si deve intedere la possibilità effettiva di disposizione ad obbedire … nei con fronti della forza di imposizione della autorità di governo sussistente” (op. cit., p. 48).
Peraltro secondo Max Weber si ha un “gruppo sociale” quando l’osser vanza dell’ordinamento di questo “è garantita dall’atteggiamento di determi nati uomini, propriamente disposti a realizzarlo, cioè di un capo e, eventual mente, di un apparato amministrativo” ( op. cit., p. 46); al riguardo perché si abbia un gruppo, non ha importanza la distinzione tra comunità ed “associa zione”. L’essenziale è che vi sia la presenza di un “capo capo di famiglia, comitato di un unione, direttore di un impero, principe, presidente della repubblica, capo della Chiesa, il cui agire sia disposto a realizzare l’ordina mento del gruppo”; agire “non soltanto orientato in vista dell’ordinamento ma diretto alla sua imposizione coercitiva”
Imposizione che diventa connotato essenziale del concetto di “gruppo sociale”. Infatti – prosegue Weber “non ogni comunità od associazione costituisce un gruppo sociale- ad esempio non lo costituisce né una relazione erotica né un gruppo parentale privo di “capo”. Onde !'”esistenza del gruppo sociale è interamente legata alla presenza di un capo”.
Interessante è anche la distinzione che Weber fa tra “ordinamento ammi nistrativo” (che regola l’agire del gruppo) ed “ordinamento regolativo” che regola “un agire sociale di altro genere”, che, secondo lo stesso, coincide in generale – con quello tra diritto pubblico e diritto privato (p. 50).
Resta il fatto che, nella sociologia weberiana i concetti di “gruppo sociale”, “ordinamento” ed istituzione sono strettamente collegati alle relazioni sociali di comando e potere. Rilievo minore ha, invece, l’esistenza e la pro duzione di “regole” o “norme” relative all’azione dei consociati.
Anche secondo altri sociologi, ilconcetto d’organizzazione è strettamente legato alla struttura gerarchica. Gli apparati organizzati sono “comporta menti collettivi che sono ordinati, gerarchizzati, centralizzati.” (v. Gurvitch Trattato di Sociologia, Milano 1967, p. 229 v. anche p. 295).
(15) È chiaro che nel testo il termine “gerarchia” non è inteso nel senso
“tecnico” e riduttivo con cui lo impiegano (correttamente nel loro campo d’indagine) gli studiosi del diritto amministrativo, dove tale termine significa un certo tipo di rapporto tra uffici amministrativi (ed anche Enti), che viene, con ciò, contrapposto, ad altri modelli d’organizzazione.
(16) il saggio Uber die drei Arten. cit., trad. it. cit.. p. 252.
(17)L’uso di termini come “neo-corporativismo” e “neo-feudalesimo” richiama istituzioni medievali, contrapposte allo Stato moderno e che riaffio rano nell’età contemporanea, che si pensa caratterizzata dalla crisi della forma -Stato. Con ciò si vuole denotare sia un processo di “patrimonializza zione” e di “appropriazione” collettiva (od individuale) dei poteri pubblici, accanto (o in luogo) dell’unità e della “sovranità” dello Stato. Senonché la differenza (se ne possono indicare tante) che pare opportuno sottolineare tra il pluralismo corporativo feudale medievale e quello sindacai-partitico moderno è che, mentre in quello si concepiva l’ecumene o l’unità politica (per debole e frammentaria che fosse) come una comunità di comunità; nel
secondo la si concepisce come una società di società. Con conseguenze assai rilevanti, sul carattere dell’autorità, sull’appartenenza individuale, sui legami sociali e sulla stessa “governabilità” dei gruppi sociali (istituzioni) intermedi, che è interessante approfondire.
(18) Uber die drei Arten …, trad. it. cit., in particolare pp. 258-260
(19) Per la verità la frase di Saint-Simon (ripetuta poi da Engels), spesso interpretata nel senso utopistico cennato nel testo, aveva una valenza tecno cratica più che libertaria (o anti-autoritaria).
Come notava Michels “la scuola di Saint-Simon non immaginava affatto un avvenire senza classi …”. Essa anelava al contrario alla creazione di una nuova gerarchia, senza privilegi di nascita, ma con forti privilegi acquisiti, “deshommes /es plus aimant, /es plus intelligens et lesplus forts”; e proseguiva “uno dei più fervidi, sansimonisti … indotto a difendersi dal rimprovero di agevolare, mediante la sua dottrina, la via al despotismo, arrivò perfino al punto di sostenere che la maggioranza degli uomini deve ubbidienza all’auto rità emanata dalla capacità …” ( Studi sulla democrazia e l’autorità, Firenze1933 pp. 4-5). Col tempo, in taluni, il carattere politico e (relativamente) “autoritario” del pensiero dei sansimoniani si è smarrito. Ne è rimasto quello utopistico, il più adatto a mascherare realtà, di fatto, totalmente opposte.
(20) L’una e l’altra possono ricondursi al pensiero di Schmitt, in partico lare alla Politische Theologie, ed al Begriff des Politischen, trad. it. ne “Le categorie del politico”, cit., p. 89-208.
(21)In effetti le definizioni di Santi Romano (come quella di Maurice
48 Hauriou) non cadono nell’ingenuità scientifica di spiegare un.termine con un sinonimo, come fanno certi giuristi, col risultato di trovarsi così sempre al
punto di partenza. Ma quel che più interessa è che la definizione di Santi Romano del diritto non contiene, nel “definiens” nessun termine (o elemen to) specificamente giuridico (v. L’ordinamento giuridico, cap. 10, p. 25, 28). Società, ordine sociale, organizzazione sono tutti termini che possono essere impiegati indifferentemente nella scienza giuridica ed in altre scienze sociali, e, quel che più conta, denotano enti e rapporti concreti e “fattuali”. La circo stanza che. in sede di definizione non abbia impiegato alcun termine giuridi co, dimostra non solo il carattere euristico del processo logico seguito, ma più ancora che Romano riduceva il diritto al fatto dell’esistenza, in un grup po, degli elementi indicati come qualificanti.
(22) Nella realtà l’interpretazione del pensiero di Santi Romano è stata spesso viziata da una serie di equivalenze e di presunte antinomie in cui il pensiero del giurista siciliano andava, in buona parte, perso. In effetti 9ndo Santi Romano, il rapporto tra i termini “diritto” “ordinamento giu ridfco” e “istituzione” sono perfettamente equivalenti , secondo il seguente schema logico: diritto=ordinamento giuridico=istituzione (anche se Santi Romano distingue due modi di intendere il termine diritto, v. “L’ordina mento giuridico”, p. 27).
Invece secondo la tesi criticata la sequenza è totalmente diversa, ed è gra ficamente esprimibile così: ordinamento+diritto=istituzione. In cui, in effetti il concetto d’istituzione non coincide con nessuno degli altri due. Ma tale impostazione è stata fuorviata da un altra equivalenza, più o meno espressa, per cui non tutti gli ordinamenti sociali, pur essendo gruppi (e, in certa misura, organizzati) sono ordinamenti giuridici
Nel pensiero dei tre giuristi considerati invece un gruppo sociale ordinato
è perciò stesso, un ordinamento sociale e, conseguentemente, giuridico (e l’equivalenza è chiarissima soprattutto in Schmitt. come rilevato da P.P. PORTINARO, La crisi dello jus publicum europaeum, Milano 1982, p. 98- 99); mentre un gruppo sociale “non ordinato”, perciò stesso non è un ordina mento giuridico. È il concetto d’ordine (di “chiusura”, di “orientamento” unitario e relativamente uniforme – dell’agire sociale attraverso una volontà prevalente) a costituire il discrimine tra gruppi sociali che sono ordi namenti (e quindi sono ordinamenti giuridici) e quelli che non Io sono. È a questo, ed ai connotati che esso ha necessariamente, che va ridotto il diritto. E concetti come ordine, comando, ed effettività del comando stesso, sono, occorre ripeterlo, “fattuali” prima che “giuridici”.
(23)la definizione in Préçis de droit constitutionel, cit. p. 73 (per la forma dell’istituzione).
(24) Hauriou (op. cit, 76), riferendosi allo Stato (come istituzione) scrive che ha una “structure formelle parfait” (rispetto alle “institutiones similaires” ); esso è “/’organitation parfait de ce mouvement” (che è il “movimen to” intrinseco al concetto che dell'”ordre” ha Hauriou); mentre a pag. 1 ricorda che Io Stato è una forma perfezionata dell’ ordre.
La nozione di potere, ordine, Stato di Hauriou, con l’importanza che danno ai concetti di consenso “coutumier”; con il continuo richiamo alla communautè per la formazione dell’istituzione – Stato (ed anche per le altre istituzioni), mostrano come pensava, in primo luogo alle istituzioni “communitaires”.
(25) Ci scusino i lettori esperti della metodologia weberiana l’impiego dei “tipi ideali” comunità e società per classificare situazioni Chi scrive pensa, che è nel giusto Cari Schmitt a sostenere che, al fondo, anche lo Stato (o l’unità politica) più impregnato dell’idealtipo “società” a fondo, o nelle situazioni d’emergenza, si rivela più vicino al tipo ideale “comunità”. In tal senso è da prendere l’affermazione del testo: non cioè che nello Stato moderno manchino gli elementi riconducibili al tipo “società”; ma solo che, in definitiva, sono (o diventano) prevalenti quelli accostabili al tipo “comuni tà”. In effetti talvolta tali concetti vengono impiegati non come “tipi ideali”, ma come denotanti realtà sociali concrete, riconducibili in tutto e per tutto agli stessi (come le classificazioni zoologiche e botaniche). Èsignificativo tal volta leggere scritti di giuristi tutti convinti che, come “esistono” in concreto contratti e provvedimenti, così dovrebbero esistere “comunità”, “società”, “patrimonialismo” e, quel che più conta, persuasi di aver compreso, così facendo il senso dell’opera e del metodo di Max Weber (in particolare per chiarire il reale pensiero di quest’ultimo v. la raccolta di saggi pubblicati in traduzione italiana col titolo “limetodo delle scienze storico-socia/i”, Torino 195).
(26) Ci riferiamo, per la contrapposizione e la definizione tra comunità e società (e quindi tra le istituzioni – comunità e le istituzioni – società) alla (classica) ripartizione di Ferdinand TONNIES (v. Gemeinschaft und Gesell schaft, it. Milano 1979, in particolare p. 45-47); non si comprende a tale proposito come taluno abbia potuto affermare (v. M.S. GIANNINI, Introduzione al diritto costituzionale, Roma 1984, p. 31) che TONNIES “di stinse due sorta di gruppi: quelli diffusi non organizzati, che sono la società e quelli, diffusi o concentrati o organizzati, che sono le comunità”. Mentre è noto che per TONNIES il fundamentum distinctionis tra le une e le altre non era, come pensa GIANNINI, di avere o meno un’organizzazione, ma quello di basarsi su rapporti di tipo “meccanico” o, invece su rapporti “organici”. Per TONNIES (com’è intuibile nell’osservazione della realtà sociale e giuri dica) la Fiat è una società, mentre la setta valdese è una comunità. Ciò non toglie che entrambe siano ed abbiano delle organizzazioni.
Invero secondo TONNIES comunità significa un certo modo di atteggiarsi di relazioni sociali per cui “la comunità debba essere intesa come un organi smo vivente, e la Società, invece come un aggregato e prodotto meccanico” ( op. cit., p. 47). La prima è concepita come “vita sociale ed organica”; la seconda è una “formazione ideale e meccanica” (op. cit., p. 45).
Com’è noto che TONNIES, sviluppando questa intuizione basilare, rap portava ad uno dei grandi gruppi (o meglio ai tipi ideali) di associazioni sociali una serie di concetti, anche giuridici, derivanti dallo schema comu nità/società, come: volontà essenziale/volontà arbitraria; io/persona; pos sesso/patrimonio; suolo/denaro; diritto familiare/diritto delle obbligazioni; status/contratto (op. cit., p. 229). In questo, com’è chiaro. non c’è nulla che lasci presagire un fundamentum distinctionis come quello che attribuisce GIANNINI al sociologo tedesco, tenuto conto anche del fatto sopra cenna to, che sia le “società” che le “comunità” hanno un’organizzazione.
Il pensiero di TONNIES è stato peraltro costantemente interpretato nel senso esposto: basti citare all’uopo Max Weber, il quale pur innovando -in parte – alla distinzione di TONNIES, definisce “comunità” la relazione sociale in cui la disposizione dell’agire sociale poggia su una “comune appar tenenza oggettivamente sentita”; “associazione” se poggia “su una identità di interessi, oppure su un legame di interessi motivato razionalmente”. (Wirtschaft und Gesellschaft, trad. it. Milano 1980, p. 38).
(27) Il discorso sulla connessione tra istituzionismo e decisionismo nel pensiero dei controrivoluzionari potrebbe apparire impreciso, atteso l’im piego di termini e formule che, nate nella dottrina del diritto, possono tra sporsi con una certa difficoltà a problematiche non del tutto coincidenti
In effetti, come spesso notato, la dottrina dello Stato di Bonald, Maistre e Donoso Cortés (ma anche – in parte – quella di Haller) è incentrata sul rap porto tra metafisica (e visione del mondo) e società politica. L’uno determi nante l’altra; è il reale, che si tratti di leggi naturali o credenze, a determinare il normativo. In questo contesto il ruolo autonomo della decisione è quello (insopprimibile) della scelta -in un contesto dato-tra male e bene; è il libero arbitrio applicato alla politica. La libertà di scelta tra più situazioni determi nate. Il cattolicesimo di Bonald, Maistre e Donoso Cortés impediva loro di cadere sia in un determinismo storico-sociale assoluto, sia nell’altrettanto assoluto soggettivismo. L’espressione forse più chiara di questo rapporto la si trova formulata da Maistre all’inizio delle “Considerations sur la France”; “siamo tutti legati al trono dell’Essere supremo con una catena leggera, che ci trattiene senza asservirci. L’azione degli esseri liberi sotto la mano divina è quanto di più ammirevole esista nell’ordine universale delle cose. Libera mente schiavi, essi operano secondo volontà e necessità insieme: fanno real mente quel che vogliono, ma senza poter disturbare i piani generali. Ognuno di questi esseri occupa il centro di una sfera di attività, il cui diametro varia a piacere del geometra eterno, che sa estendere, restringere, arrestare o diri gere la volontà, senza alterare la sua natura. Nelle opere dell’uomo, tutto è misero come l’autore: le vedute sono ristrette, i mezzi rigidi, le molle infles sibili, i movimenti penosi, e monotoni i risultati. Nelle opere della divinità, le ricchezze dell’infinito si mostrano allo scoperto fin nel minimo dettaglio: la sua potenza agisce come per gioco; nelle sue mani tutto è docile, nulla le resiste; per essa tutto è mezzo, perfino l’ostacolo: e le irregolarità prodotte dall’operare dei liberi agenti trovano il loro posto nell’ordine generale.
Se si immagina un orologio di cui tutte le molle variassero continuamente di forza, di peso, di dimensione, di forma e di posizione, e che indicasse tut tavia l’ora invariabilmente, ci si farà un’idea dell’azione degli esseri liberi in relazione ai piani del Creatore. Nel mondo politico e morale, come nelmondo fisico, esiste un ordine comune, ed esistono eccezioni a questo ordine. Comunemente vediamo una serie di effetti prodotti dalle stesse cause; ma in alcune epoche vediamo azioni sospese, cause paralizzate ed effetti nuovi.”
(v. trad. it., Roma 1985, p. 3). Dalle due impostazioni, soggettivismo ed oggettivismo, il primo negherebbe l’uomo, nella sua natura problematica e nel suo essere libero e perciò nelle sue possibilità di salvezza, ilsecondo Dio e la Sua trascendenza. Nella realtà i riferimenti di Bonald, Maistre e Cortès (nonché di Haller) ad una concezione “istituzionale” (ante litteram) dello Stato (e – in minor misura – del diritto) sono così frequenti e ripetuti che larga parte delle tesi di Hauriou, Schmitt e Santi Romano ne sembrano la diretta derivazione, se non un’aggiornata ripetizione. Data l’influenza delle concezioni aristotelico-tomistiche sui controrivoluzionari non c’è neppure da stupirsi che la loro visione dello Stato non sia diversa. All’uopo è sufficiente ricordare l’affermazione di Bonald che: “la costituzione di un popolo è il modo della sua esistenza” (v. Observations sur l’ouvrage de M.me la Barone de Stael, trad. it. La costituzione come esistenza, Roma, 1985 p. 35); e che ciò che fa uno Stato sono “monarchia, religione e giustizia” (op. cit., p. 36); ovvero l’importanza che tutti i controrivoluzionari danno all’idea (e cioè alla visione del mondo) come determinante le istituzioni, come nello stesso senso alle cause storiche e naturali; o anche l’affermazione di De Maistre che “la costituzione è un’opera divina” e che “le radici delle costituzioni politiche esistono prima di ogni legge scritta “(Essai sur !es constitutions politiques I e IX); ovvero quella di Donoso Cortès che considera “le leggi fatte per la società e non viceversa ” ( Discurso sobre la dictatura, trad. it., Brescia 1964). Tutte affermazioni (e tante altre se ne potrebbero ricordare, a voler esaspe rare la pazienza del lettore) che confermano il carattere “istituzionalista” della loro visione della società politica.
(28) I rapporti tra le teorie di PARETO, MOSCA, MICHELS, FERRERO, e quella dei tre giuristi considerati, sono, ancor più di quelle tra questi e controrivoluzionari, largamente (se non totalmente) da Secondo PARETO le società umane non possono sussistere senza una gerarchia ( Oeuvres, voi. VII, p. 422 v. anche J. FREUND, Pareto, trad. it. Bari 1976
146), e che comunque ogni società è divisa in due strati “uno strato superiore, in cui stanno di solito i governanti, ed uno strato inferiore, dove stanno i governati”. ( Oeuvres voi. XII p. 1301). La “costante” della divisione in classi (governante e governata) nelle società umane è confermata da Mosca: “Fra le tendenze ed i fatti costanti, che si trovano in tutti gli organismi politi ci, uno ve n’è la cui evidenza può essere facilmente a tutti manifesta; in tutte le società … esistono due classi di persone: quella dei governanti e l’altra dei governati” ( La classe politica, rist. Bari 1966 p. 61). Il termine “organizzazione” viene talvolta da Mosca riferito alla classe dirigente, tal’altra all’intera società. Ma, in ambedue i casi, Mosca chiaramente riferisce il concetto al rapporto comando -obbedienza, sia in funzione del dominio stesso (la classe politica si organizza per esercitare il comando o, il che è lo stesso, per imporre la volontà dei propri componenti alla maggioranza), sia in funzione dell’esistenza della comunità globalmente intesa (v. op. cit., p. 177). Ancor più chiaro è il collegamento tra dominio delle élites ed organizzazione in MICHELS. Secondo questi “Chi dice organizzazione dice tendenza all’oligarchia. L’organizzazione ha nella sua fisionomia spiccati lineamenti aristocratici… Essa inverte il rapporto tra il condottiero e i condotti …; il formarsi di rami speciali di attività, la differenziazione politica che è conseguenza inevitabile dell’estendersi dell’organizzazione induce necessariamente i soci… a conferire ogni potere effettivo, come cosa che esige specifiche qualità e competenze, ai soli capi. .. L’organizzazione quindi scinde definitivamente ogni partito in una minoranza che governa e in una maggioranza che è governata” ( Studi sulla democrazia e l’autorità; Firenze 1933 p. 32-33).
Antonio Pilati, La catastrofe delle élite, Edizione Guerini e Associati, Milano 2018, pp. 143, € 17,50.
Dopo un silenzio durevole quanto innaturale, seguito da svalutazioni stizzose (tutt’altro che esaurite) da parte dalle élite in via di detronizzazione dopo il 4 marzo (le “idi di marzo” – anticipate rispetto al calendario romano – della seconda repubblica), la letteratura sul populismo e sul sovranismo ha avuto un’impennata spettacolare, proporzionale alla pluriennale compressione del dibattito su tale svolta storica. Di libri che ne parlano, e spesso, come questo, nel senso non di giudicarli rispetto a idee e valori, ma Wertfrei in ossequio al “fattuale”, ne escono non meno di uno a settimana. Al punto che, a leggerli tutti, sarebbe necessario di fare di un interesse una professione: quella di populologo o sovranologo (variante sovranosofo). Dato che non ho tempo di diventarlo, cerco di recensirne qualcuno. A questo attento saggio di Pilati mi è venuto in mente che potrebbe essergli assegnato il premio “eterogenesi dei fini” per l’importanza – tutt’altro che esagerata – data a tale costante delle vicende umane rispetto agli altri saggi in circolazione.
Una parentesi per il lettore: con eterogenesi dei fini si definisce quell’azione/i umana/e il cui risultato è tutt’altro che quello voluto dall’agente. Omne agens agit proter finem, sosteneva S. Tommaso, ma non è detto che le azioni portino alle conseguenze sperate, progettate, volute.
Ed è proprio quello che è capitato nella storia di questi anni, e che Pilati evidenzia sin dalle prime pagine del libro.
Le élite inconsapevoli (così – giustamente – definite) non hanno né capito quanto stava succedendo – dopo il collasso del comunismo – né elaborato una strategia che tenesse conto dei dati reali e delle regolarità del politico (e non solo). In fondo la rappresentazione più sintetica (o tranquillizzante) di tale visione l’aveva data Francis Fukuyama col notissimo saggio sulla fine della storia. Sul quale mi capitò di scrivere che il filosofo nippo-americano aveva affermato due cose: a) che le democrazie occidentali avevano vinto il confronto con il comunismo, ossia la guerra fredda (vero); b) che, venuto meno il conflitto borghesia/proletariato sarebbe venuto meno – o sarebbe stato eliminato, o almeno, minimizzato – ogni conflitto (falso). Cioè superata la regolarità amico/nemico. Invece già l’11 settembre 2001 (al più tardi) si aveva uno choc planetario, che provava quanto fosse frutto di (condivisibili quanto errate) aspirazioni la tesi di Fukuyama. E già da prima maturavano le condizioni politiche, economiche e sociali di un nuovo contenuto/scriminante dell’amico/nemico: quello tra globalizzazione e comunità (e identità). Ma di ciò si è letto poco fino a tre/quattro anni fa. Per cui chiamare inconsapevoli le élite che hanno gestito la globalizzazione nel ventennio a cavallo dei due secoli è tutto da condividere.
Scrive l’autore che i punti-chiave della globalizzazione non compresi dai governanti di allora, erano quattro: la crescita economica auspicata creava nuovi squilibri; indeboliva il primato economico americano; genera divisioni tra Stati e all’interno degli Stati tra i vincitori (pochi) e i perdenti (tanti) della globalizzazione; infine le classi dirigenti erano cieche e insensibili alla “caduta sociale (e al dolore esistenziale) di chi soffre con la nuova globalizzazione ipertecnologica”. Ma ciò generava una nuova offerta politica, corrispondente alla domanda degli insoddisfatti. “La spaccatura diventa insanabile e il conto arriva alle elezioni del 2016” (e non è finita). Anche il tentativo di correre ai ripari, trovando (e costruendo) una versione pop del Katechon paolino (che era l’Impero romano, istituzione di tutt’altra consistenza e serietà) si risolve in un’eterogenesi dei fini: “l’invenzione in provetta dello sprezzante elitista Macron”, peraltro lì per lì riuscita, pare stia risolvendosi in un’abnorme crescita dell’opposizione anti-elitaria ed extraparlamentare dei “gilet gialli”. In altre parole le ostetriche dei populisti sono state le élite inconsapevoli (e mediocri). Scrive Pilati, a tale proposito sull’Italia e sui governi Monti (e successivi) che la loro azione “accumula stasi dell’economia, che si traduce in una cronica perdita di attività produttive e di reddito per molta parte della popolazione, disordine amministrativo, che sfocia nel proliferare dei poteri di veto, fragilità nei rapporti internazionali che stringono i vincoli gravanti sull’Italia e impongono più volte soluzioni onerose (sicurezza, banche, energia)”.
Da cui la prevedibile vittoria dei partiti anti-sistema; la quale conseguiva però anche da un’incapacità di sintesi sistemica. Mancando questa, il concretizzarsi di un’opposizione anti-sistema, è una logica conseguenza; e anche d’altro, già evidenziato da Lasch oltre vent’anni fa.
Tuttavia la conclusione di questa fase è ancora da venire. “Il voto del 4 marzo 2018, con il suo dirompente risultato che dà oltre metà dei voti a due movimenti o neonati (M5S è alla sua seconda elezione nazionale) o appena rifondati (Lega) e mette ai margini le forze che da un quarto di secolo dominano la scena parlamentare e fanno i governi, è soprattutto un sintomo di malessere: chiude una fase storica, ma non mostra la forza e la visione di aprirne una nuova. Inaugura una transizione incerta, ancora da definire nei suoi tratti operativi, esposta a molti contrasti e a contrattacchi violenti: più che un momento di decollo segna una frattura – un’altra – nella storia della politica recente” ma rispetto alle alte due crisi recenti (Tangentopoli nel ’91-’94 e governo dell’establishment del 2011-2012) c’è qualche chances in più: “Nei casi trascorsi i cambiamenti non hanno provocato esiti felici e la crisi italiana nel tempo non ha fatto che aggravarsi: l’esasperazione testimoniata dai risultati elettorali lo dimostra. Oggi però è il contesto internazionale, che in passato non ha giocato per noi, è molto fragile… In Italia la presa dell’establishment, che ha sempre penalizzato gli impulsi innovatori, appare confusa e contestata, l’innovazione della tecnologia offre chance favorevoli”. Speriamo bene.
C’è tanto altro in questo interessante saggio, ma la natura succinta della recensione non consente di scriverne: ai lettori scoprirlo.
I veli di ipocrisia e le cortine fumogene legate ad una visione ed ambizione unipolare del dinamiche geopolitiche, del quale il multilateralismo rappresenta la forma più sofisticata di sistema di relazioni, stanno cadendo uno alla volta man mano che le ambizioni di diversi attori geopolitici cominciano ad emergere in aperta competizione. L’ambito economico rappresenta sì uno degli spazi di intervento, ma direttamente connesso agli altri e subordinato e impregnato di strategie politiche. Il piano strategico nazionale dell’industria tedesca, ampiamente illustrato e commentato da Alessandro Visalli, ci offre un ulteriore tassello di una rappresentazione più realistica di queste dinamiche entro le quali si possono collocare eventi importanti come il recente trattato franco-tedesco. Realismo che contribuirà a far sbiadire ulteriormente l’aura di potenza costruita artificialmente attorno a quel paese e alla sua classe dirigente. Una illusione dalla quale pochi sono riusciti a sottrarsi, tra questi il gruppo storico di conflitti e strategie del quale ha fatto parte l’attuale Italia e il mondo e pochi altri analisti italiani, tra questi Giuseppe Masala. Buona lettura_Giuseppe Germinario
NB_ Qui sotto un vecchio articolo su una parvenza di politica industriale in Italia
Il Ministro dell’industria e dell’energia del governo tedesco, Peter Altmaier dell’Udc, ha appena pubblicato un Rapporto preliminare per la strategia a medio termine del paese. Si tratta, come rimarca anche Bloomberg, di un documento di grande rilevanza per il riposizionamento ideologico, e quindi strategico, del paese guida dell’Unione Europea. Simili reazioni si sono avute su “Il Foglio”, secondo il quale “La Germania punta sullo Stato per garantire un futuro alla sua industria”, o da parte de “Il Giornale”, per il quale “Berlino alza le barricate per difendere le imprese dallo shopping cinese”. Sono usciti anche articoli per DW, “German minister defends controversial industrial strategy”, secondo il quale i critici (Ifo, ad esempio, o Lars Feld) sostengono che sia incompatibile con un’economia di libero mercato, o il New Observer, per il quale la Germania definisce una strategia per i “campioni” nazionali. O, ancora, il Financial Times, che vede ‘una tinta francese’ nel riportare in primo piano la politica industriale.
Come scrive lo stesso Altmaier è la prima volta che viene elaborata un’esplicita strategia industriale il cui scopo è “fornire una risposta razionale” a questioni chiave del presente. In primo luogo l’aggressiva presenza internazionale dei fondi sovrani cinesi e il rischio che le nuove tecnologie ‘leggere’ e basate sull’informatica evoluta possano mettere in secondo piano la tradizionale abilità ingegneristica ‘hard’ della Germania.
Come vedremo il documento è uno splendido esempio di razionalità ordoliberale e conferma, a chi fosse stato in questi anni particolarmente distratto, che le élite centroeuropee inseriscono la propria azione in una consapevole ed intenzionale politica di potenza che ha tradizione e storia nel paese.
Secondo quanto sostiene il documento le “questioni chiave del presente” sono:
– come sostenere i livelli di ricchezza del paese nel contesto di politiche economiche che a volte sono protezionistiche degli altri paesi e con riferimento alla sfida dell’innovazione? Su questa domanda centrale è innestato un richiamo storico-ideologico ben preciso, la centralità e protagonismo dello Stato nella tradizione ordoliberale rappresentata dalla figura chiave di Ludwig Erhard nella “creazione e conservazione delle prosperità”[1]. Ovviamente, come risultava dal programma “Prosperità per tutti”[2], di Erhard, la legittimazione di questo attivismo dello Stato è ricercata nella “promessa a tutti i cittadini, a tutti gli strati sociali”. Una promessa che per il Ministro è stata garantita dalla formula ordoliberale della “economia sociale di mercato”[3] della quale viene rivendicata la superiorità rispetto a qualsiasi forma di economia pianificata, come dimostrerebbe anche l’introduzione di elementi di mercato in Cina[4].
– L’equilibrio di potere economico mondiale è in una fase di cambiamento profonda e rapida, da un lato accelera la globalizzazione, ma dall’altro cambia; infatti aumenta l’intervento degli Stati e cessano gli accordi multilaterali. Dunque ci sono vincitori e perdenti, e siamo solo all’inizio di questa trasformazione.
– La Germania deve agire consapevolmente in questa situazione, partecipando attivamente e con successo allo sviluppo in corso. In particolare occorre salvaguardare le competenze tecnologiche chiave, senza restare fermi, come Stato, e non fare nulla. In perfetta coerenza con l’approccio neoliberale la soluzione è avere insieme sia più Stato sia più economia di mercato. Ciò perché la composizione delle scelte individuali delle singole aziende non è sufficiente per contrapporsi con successo alle sfide globali. La politica industriale pubblica in questi casi deve promuovere, attivare e proteggere le imprese e la vitalità delle forze di mercato, garantendo la conservazione dell’innovazione e della competitività. Questa è “responsabilità e compito dello Stato”, in linea con i principi della “economia sociale di mercato”.
Più in dettaglio, gli obiettivi del Programma sono:
– lavorare con le parti al recupero della competenza tecnologica e della leadership industriale, a livello nazionale, europeo e mondiale in tutti i settori permanenti.
– Farlo come condizione della performance economica complessiva della Germania e del benessere dei suoi cittadini.
– Aumentando gradualmente la quota del valore aggiunto industriale verso il 20% su base europea e il 25% su base nazionale.
– Utilizzando essenzialmente le forze del mercato privato e solo eccezionalmente l’intervento diretto dello Stato.
Descrivendo la situazione di background e quindi le sfide il Rapporto individua una congiuntura nella quale il vantaggio dell’industria tedesca si sta rapidamente riducendo. Fino ad ora i costi di manodopera e produzione relativamente più alti erano stati compensati efficacemente dalla superiorità tecnologica e quindi in termini di qualità. Ma i paesi competitori, ed in primis la Cina, stanno riducendo rapidamente il gap, grazie a joint venture, acquisizioni, ed investimenti in ricerca. D’altra parte ci sono settori, come i nuovi materiali e le innovazioni di automotive sostenibile, nei quali la Germania è in ritardo. Oppure come l’accesso globale e “l’economia piattaforma”, che sono egemonizzati dagli Usa o in Cina.
Invece nella IA la ricerca è abbastanza avanzata, ma le applicazioni sono indietro, ciò pone anche un problema di sovranità dei dati, ma più in generale di digitalizzazione (come ricordava qualche giorno fa Ashoka Mody[5]).
Altro settore arretrato è quello delle biotecnologie, o nella più generale ‘economia delle start-up’, data la presenza decisiva della finanza venture americana.
In definitiva il futuro e la competitività dell’industria tedesca dipende dalla capacità della parte pubblica di individuare e stimare le linee di sviluppo più promettenti in tempo utile, senza farsi catturare dal successo attuale, che potrebbe facilmente essere vanificato in futuro.
Del resto tutti gli altri principali paesi fanno una cosa del genere:
– gli Stati Uniti si facevano guidare dai grandi gruppi tecnologico come Apple, Amazon, Google, Microsoft, che investono centinaia di miliardi di dollari in ricerca per la IA, la digitalizzazione, la guida automatica e la biotecnologia. L’attuale amministrazione ha modificato la rotta verso la protezione e stimolazione delle industrie di base come quelle metallurgiche, l’automotive e l’agricoltura.
– Il Giappone investe sull’industria automobilistica, la IA, la robotica.
– La Cina svolge una politica industriale molto attiva in oltre dieci settori-chiave, e con la nuova via della seta cerca di controllare la logistica mondiale. Il rischio è che in caso di successo interi settori potrebbero vedere il predominio cinese e dunque l’impossibilità di competere.
Dunque è necessario padroneggiare le nuove tecnologie, in particolare quelle ‘di base’ e potenzialmente ‘dirompenti’, come la digitalizzazione guidata dall’intelligenza artificiale, nella medicina diagnostica e nella guida, ad esempio, e lo sviluppo di piattaforme informatiche di messa in contatto dei fornitori e richiedenti dei servizi. Questa modalità di relazione e di gestione del mercato può creare, per il Rapporto, grandi vantaggi in termini di disponibilità e trasparenza dei prezzi, ma può anche agire nel senso opposto se sono interamente monopolizzate da pochi grandissimi attori che controllano dati e capitali[6].
Un altro settore chiave è la combinazione di automazione produttiva e comunicazione sulla base di piattaforme (Industria 4.0[7]), altri sono le nanotecnologie, le biotecnologie, i nuovi materiali e l’informatica quantistica.
La politica industriale tedesca, dunque, deve:
– riaffermare la sovranità e la capacità industriale e tecnologica,
– riconoscere e proteggere l’importanza di avere tutti gli anelli della catena del valore internamente nel paese, dove queste sono state interrotte, o sono a rischio occorre operare prevenire un’ulteriore erosione o invertirne il corso,
– lottare per ogni posto di lavoro industriale, che è molto difficile da recuperare in seguito, per tutte le industrie, vecchie e nuove,
– rafforzare le PMI, in particolare le medie aziende molto specializzate,
– ma, al contempo, “le dimensioni contano”, quindi bisogna avere campioni nazionali in grado di competere alla pari con i giganti americani o cinesi, cosa che negli ultimi anni non è accaduto, tutti grandi gruppi sono storici, nessuno è emerso negli ultimi cinquanta anni,
– assicurarsi che il divieto di acquisizione di società da parte di concorrenti stranieri si applichi per la sicurezza nazionale, come oggi, ma anche nei settori sfidati di leadership tecnologica sopra ricordati. In questi casi lo Stato può fornire assistenza e in casi limite intervenire direttamente per acquisirle; “pertanto è prevista la creazione di una struttura nazionale di partecipazione regolata dal Parlamento” che operi nei casi più grandi, di importanza economica e di rilevanza “esistenziale”, e in modo appropriato e proporzionale. Un esempio di immediata partecipazione statale necessarie è per ridurre la distanza competitiva che si sta creando nel settore della guida automatica,
– stabilire che la protezione, attraverso interventi statali necessari per ragioni politiche generali, ed anche i sussidi mirati sono necessari per “compensare gli effetti negativi della concorrenza”, ripristinando condizioni di parità, “ciò deve essere possibile in conformità con la normativa UE”, ad esempio bisogna agire:
o sui prezzi dell’energia elettrica e dell’energia,
o sull’importo delle imposte sulle società,
o sull’impatto dei contributi di sicurezza sociale (che devono essere sempre inferiori al 40%),
Forse spaventato dalle conseguenze di vasto profilo di quanto fin qui detto, in linea con la tradizione ordoliberale, ma in frizione con la retorica liberoscambista, segue la recita di un catechismo:
– “Lo stato non può in nessun momento prendere decisioni commerciali per gli individui. Le aziende intervengono. Ogni azienda deve decidere da sola quale strategia vuole tenere e quali investimenti realizzare. Questo deriva dalla convincente unità di decisione e responsabilità. Ecco perché è compito di ogni azienda, che si tratti di investire in nuove tecnologie o no. Come il risultato di un’azione imprenditoriale deve rendere il successo e il fallimento altrettanto possibili se l’economia di mercato deve avere successo.
– Lo stato non dovrebbe essere arbitro ed intervenire nella competizione tra le singole società, né nella competizione nazionale né in quella internazionale. È l’unico modo in cui il processo dell’allocazione ottimale delle risorse può avere successo, il miglior fornitore può affermarsi per il massimo valore aggiunto per tutti.
– I principi del mercato e il vantaggio comparativo (Ricardo) restano validi. L’attenzione ad essi e la loro esecuzione sono nell’interesse di tutti gli interessati. Garantiscono che il successo di un’economia non è a spese di un’altra. Piuttosto possono crescere insieme e diventare più forti se riconoscono questi principi e li applicano”.
Quindi la Germania è sì impegnata per mercati aperti, e per l’espansione del multilateratismo come garanzia verso il protezionismo, ma contemporaneamente deve “lavorare intensamente per eliminare le disuguaglianze e gli svantaggi esistenti”. E quindi contrastare attivamente le distorsioni della concorrenza negli altri paesi, a tale scopo:
1- Revisionare la dottrina degli aiuti di Stato e del diritto alla concorrenza,
2- Abilitare aiuti temporanei in settori di elevata innovazione,
3- Contrastare il dumping e l’abuso di posizione dominante,
4- Facilitare le aggregazioni industriali nelle aree in cui servono grandi dimensioni per competere.
Questa politica industriale deve peraltro, per il documento, anche diventare la politica della UE; quindi anche nei paesi nei quali è in corso una deindustrializzazione (es. Italia) questa deve essere fermata[8]. Si propone la formazione di un “Consiglio dei Ministri dell’Industria”.
Non sfugge che se faccio discendere il benessere dei cittadini, e la legittimazione dell’azione e della stessa esistenza della funzione pubblica, dalla presenza di ‘campioni nazionali’ e di leadership nei settori di punta interpretando la competizione come predominio, il confine tra ‘libero’ mercato di scambio e ‘distorsione’ diventa confuso. Dal punto di vista che si assume, e che si difende orgogliosamente, il nazionalismo economico è solo a qualche centimetro di distanza.
La Germania, insomma, conferma ancora una volta che quando il proprio interesse nazionale, e quello delle sue principali lobbies, è minacciato è capace di svolte repentine. Purtroppo, anche quando prende una linea che potrebbe essere condivisa, tende a farla per le ragioni che riverberano la sua storia[9].
[1] – La differenza tra liberalismo classico e neoliberalismo, in particolare nella versione ordoliberale, è che il secondo enfatizza molto di più l’ordine come dovere politico e l’appello alla responsabilità individuale, che lo porta a temere l’economia di comando (Ropke) e l’eccessiva crescita del potere dello Stato, causa della dissoluzione del legame sociale per effetto della deresponsabilizzazione. Tuttavia l’azione dello Stato è legittima e necessaria proprio per promuovere l’aumento della qualità della vita (l’argomento qui stilizzato da Altmaier),e per creare un’organizzazione economicamente efficiente e rispettosa della dimensione morale dell’uomo, come dice Eucjker, 1952, “capace di funzionare e degna dell’uomo”. Centrale, nella prospettiva ordoliberale, in questo similmente a quella neoliberale, è la concorrenza, che si va a sostituire in posizione centrale anche al libero mercato competitivo fondato sullo scambio e quindi alla metafisica naturalistica (e teologica) della ‘mano invisibile’. La concorrenza è il principio cardine dell’ordine economico, capace di salvaguardare al contempo la libertà. Ma, questo il punto cruciale, la concorrenza non è un dato naturale, ma l’essenza che deve essere imposta in forza di una ‘decisione di base’, come diceva Erhard. Gli interventi statali sono quindi possibili e necessari, ma devono essere ‘giusti’ in base agli obiettivi istituiti e una ‘politica regolatrice’ orientata ad eliminare gli ostacoli frapposti all’affermazione dei principi di concorrenza.
[2] – L. Erhard, “Benessere per tutti”, Garzanti, 1957. In questo libro lo Stato è posto come protettore supremo della concorrenza e della stabilità monetaria. L’intervento pubblico è legittimo in quanto ogni cittadino ha diritto di godere di uguaglianza di diritti e di un quadro istituzionale stabile. Gli interventi devono riferirsi sempre a regole generali e mai privilegiare singole posizioni, avvantaggiandole.
[3] – Nel saggio di Bohm, “Società privata e economia di mercato”, 1966, viene rovesciata la tradizionale gerarchia tra diritto pubblico e diritto privato e quindi fonda il “sociale” come gioco tra individui sottomessi ad un unico ordine giuridico (di diritto privato). “Economia sociale di Mercato”, termine messo in campo da Muller-Armack, fra i negoziatori del Trattato di Roma, significa allora economia di mercato e nella quale si instaura la ‘democrazia del consumo’ per mezzo della concorrenza. L’economia è ‘sociale’ perché obbedisce alle scelte dei consumatori, un concetto che fu inizialmente criticato dai socialisti, per i quali il termine rinviava casomai a solidarietà e cooperazione. Ma per Armack questa forma produce la massima ricchezza e benessere, ed è ‘ordine artificiale’ istituito con un atto definitorio degli scopi essenziali di una società. Nel definirli è dunque l’atto (di fondare la concorrenza come principio di ordine) che costituisce la società, rovesciando il meccanismo rousseuiano. Dunque, anche se può non sembrare, la “economia sociale di mercato” degli ordoliberali è proprio direttamente opposta allo Stato Sociale, o stato welfarista, il cui funzionamento tende a ridurre la concorrenza.
[4] – Casomai sarebbe il peculiare sistema misto, nel quale tuttavia predomina ampiamente lo Stato che provvede a garantire i risultati economici ed individuali, ad essere all’origine del successo cinese. E’ difficile immaginare due culture così lontane.
[5] – Ashoka Mody non si stupisce dell’avvio della recessione nella seconda metà del 2018 in Germania. Secondo la sua analisi le cause sono molteplici: il rallentamento del commercio mondiale nel 2018 e dell’economia cinese, a sua volta causato in parte dalla interruzione di stimoli che rischiavano di far crescere eccessivamente bolle immobiliari e creditizie nel paese orientale, in parte dai conflitti commerciali in corso. Secondo fattore, il calo vertiginoso delle vendite di auto, diesel in particolare, sul mercato interno tedesco a causa degli scandali avviati dagli Usa. C’è molta geopolitica in questa congiuntura, ma c’è anche molta fragilità strutturale del sistema tedesco: un’enorme dipendenza dalla domanda estera, e paradossalmente dalle politiche pseudo-keynesiane che in patria si rifiutano ma che all’estero si sfruttano parassitariamente. Ancora, l’obsolescenza della struttura industriale e persino della cultura tecnica a causa di storiche carenze di investimenti pubblici e privati in un’economia interamente rivolta alla tesaurizzazione finanziaria. Ora servirebbe la politica, ma gli interessi costituiti di un’industria che vale il 14% del Pil e che non si vuole rinnovare verso la motoristica elettrica e verso una maggiore elettronica che oscura i tradizionali punti di forza ingegneristici del paese, li impediscono. La Germania, sostiene Mody, rischia di perdere la corsa tecnologica globale, mentre l’economia si polarizza tra vecchi lavori sicuri in sofferenza, per l’internazionalizzazione delle reti di produzione, e il lavoro povero che si estende, e quindi mentre il quadro politico si frammenta. Cfr “German is a diminished giant, and that spells trouble for Europe”.
[8] – La coerenza con il primato della ‘capacità competitiva’, che significa della capacità di prevalere, dei campioni e dei settori nazionali, con l’affermazione che l’intera Europa deve industrializzarsi scaturisce dalla pratica: con il mercato interno più forte, e con la corona di paesi satellite istituita, la Germania è nella posizione di subordinare le altre filiere produttive, incorporandole in posizione subalterna nella propria rete logistica e di subfornitori. In linea di massima è quanto sta succedendo, come si vede anche dalle reazioni dei ceti imprenditoriali del nord Italia al rischio di scontro e/o rottura.