Italia e il mondo

ITALEXIT, di Andrea Zhok

ITALEXIT

In questo periodo nell’area politica che frequento maggiormente c’è grande fermento, volano stracci e qualche coltellata.
Il grande tema è dato dalla comparsa sul terreno di un’aspirante forza politica, guidata dall’ex direttore della Padania e vicedirettore di Libero, sen. Gianluigi Paragone.

Il manifesto politico è scritto da mani capaci, e, per quanto semplicistico, tocca tutti i punti giusti nell’area di riferimento. Tuttavia più del manifesto, il cuore della proposta sta in ciò che viene comunicato dalla scelta stessa del nome: ITALEXIT, l’uscita dell’Italia dall’UE.

La fibrillazione nell’area politica di riferimento (oscillante tra ‘sinistra euroscettica’ e ‘destra sociale’) è manifesta. Il senso politico dell’operazione è piuttosto chiaro: esiste una fascia di elettorato rimasto politicamente orfano dopo che nella Lega l’europeismo di Giorgetti ha messo all’angolo l’area Borghi-Bagnai, e dopo che l’esperienza di governo ha mitigato l’euroscetticismo del M5S.
Il progetto di ITALEXIT sta nel chiamare a raccolta quest’area di malcontento in uscita da Lega e M5S, con numeri sufficienti da superare le soglie di sbarramento alle prossime elezioni politiche, portando qualcuno (a partire dal sen. Paragone) in Parlamento.

L’operazione è politicamente legittima e può avere successo.
Intorno a questa operazione, al suo retroterra e ai suoi concreti sbocchi si è acceso un rovente dibattito. Conformemente al modo di porsi del nuovo partito, la discussione si è immediatamente fatta incandescente intorno al tema dell’Italexit, con un ritorno in grande stile delle accuse di “altroeuropeismo”.

Per chi non sia addentro al linguaggio iniziatico di quest’area, per “altroeuropeismo” si intende l’atteggiamento, frequente soprattutto nella sinistra radicale, in cui da un lato si ammettono i difetti dell’Unione Europea, ma dall’altro si professa illimitata fiducia nella capacità dell’UE di autocorreggersi. “Altroeuropeismo” è un termine stigmatizzante in quanto l’Altroeuropeista finge di non vedere le colossali difficoltà, tecniche e politiche, che si frappongono ad una riforma radicale (ad esempio in senso keynesiano) dell’impianto normativo dell’UE, distintamente neoliberale.

L’Altroeuropeista esemplare è un parlamentare europeo che da decenni si atteggia a furente critico dell’Europa, salvo però rimanere attaccato al suo scranno e promettendo che le cose andranno meglio in seguito. L’Altroeuropeista non spende mai una parola che non sia generica intorno a ‘come’ le cose dovrebbero cambiare, salta a piedi pari la realtà dei rapporti di forza e dei vincoli, e si limita a ‘gettare il cuore oltre l’ostacolo’, proclamando la propria fede (e ciò magari gli fa guadagnare una cadrega).

Ora, mentre l’accusa di ‘Altroeuropeismo’ ha un’identità semantica ben chiara, per chi si appella all’Italexit, forse può essere interessante mettere alla prova un rovesciamento delle posizioni, per vedere se l’identità semantica del fautore dell’Italexit è parimenti chiara.

Qualcuno infatti potrebbe notare curiose quanto paradossali affinità formali tra i due estremi.

Dopo tutto chi pone l’Italexit come punto centrale e primario, proprio come l’Altroeuropeista, finge di non vedere le colossali difficoltà, tecniche e politiche presenti (qui rispetto all’uscita unilaterale dell’Italia dai trattati europei), come l’Altroeuropeista non spende mai una parola che non sia generica intorno a ‘come’ l’uscita dovrebbe avvenire, e come l’Altroeuropeista salta a piedi pari la realtà dei rapporti di forza e dei vincoli, limitandosi a ‘gettare il cuore oltre l’ostacolo’ e a proclamare la propria fiducia. (E chissà che così facendo non riesca pure lui a guadagnare una cadrega.)

A difesa di questa affinità formale si potrebbe dire che, dopo tutto, in entrambi i casi si tratta di posizioni critiche dello status quo, che per necessità devono appellarsi all’ottimismo della volontà, perché se aspettano il conforto della ragione potrebbero aspettare a lungo.

Questa è una possibilità, e se nel dibattito corrente non si fossero alzati i toni in maniera indecente, con accuse di tradimento come se piovesse, non mi sentirei di aggiungere altro.

Ma le accuse di ‘tradimento’ nei confronti di chi ha esaminato e denunciato reiteratamente il carattere neoliberale dell’UE, sono state davvero uno spettacolo po’ eccessivo anche per persone tolleranti.

Dunque, di fronte a questa chiamata alle armi nel nome dell’Italexit (e di ITALEXIT) forse qualche pacato ragionamento è doveroso.

Sulla cattiva coscienza degli Altroeuropeisti mi sono soffermato spesso, spendiamo dunque oggi un paio di parole sull’immaginario da Italexit.

Nell’agitare la parola d’ordine dell’Italexit ci sono, a mio avviso, tre livelli motivazionali possibili.

1) Il primo è il più semplice e diretto, ed evoca l’idea di qualcosa come strappare un cerotto: tieni il fiato, un momento di dolore, e poi stai bene. Qui stanno quelli che “mettiamo in moto la zecca di stato il venerdì sera, a borse chiuse, e zac, lunedì siamo di nuovo in possesso del nostro destino.”
Ora, è doloroso ricordarlo, perché sembra sporcare la bellezza della fede con la volgarità della realtà, però l’appartenenza dell’Italia all’UE consta di un intrico di scambi, contratti e leggi sedimentati in mezzo secolo, rispetto a cui è pia illusione pensare che l’unico problema da risolvere sia poter stampare moneta con valore legale. Che questo sia un punto strategico è certo, ma è solo un tassello in un ampio quadro complessivo. È ovvio che tutti i nostri rapporti reali, finanziari, di import-export, tutti i patti di collaborazione, la normativa sulla sicurezza transfrontaliera, gli accordi industriali, tutta la normativa sulle forme di scambio, sulla concorrenza, ecc. ecc. rimangono in vigore finché non vengono sostituite, una ad una.

Si tratta di un cambiamento storico che richiede non solo il supporto massivo delle forze politiche parlamentari, ma risorse tecnocratiche e la collaborazione di gran parte dei ceti dirigenti. Si tratta di un atto che avrebbe bisogno di un’unità d’intenti a livello nazionale come nella storia d’Italia non si è mai vista. Una volta ottenuta tale unità d’intenti saremmo di fronte ad un processo di medio periodo, in cui tutti gli accordi nuovi che vengono stipulati verranno stipulati sulla base dei reali rapporti di forza tra i contraenti, e saranno questi rapporti di forza a definirli come più o meno vantaggiosi rispetto agli accordi vigenti.
Più che strappare un cerotto, direi che siamo piuttosto dalle parti di tre anni di chemioterapia.

2) Il secondo tipo di argomento è di carattere tattico, ed agita l’Italexit più che come prospettiva rivoluzionaria come fattore di trattativa. In effetti un paese che ha tra le sue opzioni quella di abbandonare il tavolo ha un’arma in più nelle trattative, e in questo senso prendere in considerazione l’Italexit può rappresentare un modo per aumentare il proprio potere contrattuale in Europa.
Per molto tempo, quando in Italia era in vigore un irriflesso unanimismo sui ‘grandi ideali europei’, questa prospettiva tattica ha avuto grandi meriti, e anche ora, quando l’euroscetticismo è oramai sdoganato, rimane un buon argomento. Impostare il discorso in questi termini ha permesso di togliere molti veli e di vedere finalmente i rapporti intraeuropei per quello che sono: accordi tra stati nell’interesse degli stati.

I limiti di questa posizione sono, naturalmente, che una minaccia per conferire reale forza contrattuale dev’essere credibile. E aver maturato la consapevolezza che l’Europa non è il Paese dei Balocchi e che dobbiamo fare, come tutti, i nostri interessi, aumenta solo un po’ la nostra credibilità nel minacciare di andarsene. Il resto della plausibilità dipende da calcoli costi-benefici che hanno a disposizione anche gli interlocutori con cui si tratta e su cui non si può bluffare.

3) Il terzo tipo di argomento è quello del collasso endogeno. In questo caso parlare di Italexit può essere improprio, giacché la prospettiva effettiva è che venga meno per cedimento strutturale interno la casa da cui vorremmo uscire. Dunque non ce ne andremmo sbattendo la porta, perché non ci sarebbero più né la porta né le mura. Questa è l’opzione concretamente più probabile, ma è anche quella rispetto a cui le iniziative italiane giocano un ruolo irrisorio. Possiamo ‘prepararci mentalmente’. Possiamo preparare ‘piani B’. Ma in definitiva il boccino in mano ce l’hanno i paesi che l’UE la guidano, ed in particolare la Germania. Se la Germania decide che l’UE non è più un proprio interesse primario, si mette in moto un processo di disgregazione dei trattati in vigore, e di ridefinizione di altri trattati. Qui l’unico partito efficace per l’Italexit dovrebbe farsi eleggere al Bundestag.

Rispetto sia alle prospettive (3) che (2) qualunque rimodulazione tedesca delle regole europee (come quelle avvenute con il ruolo di supporto ascritto alla BCE, e anche con il Recovery Fund) modifica le carte in tavole e le opzioni disponibili. Condizioni più gravose rendono la minaccia di Italexit più plausibile e il collasso endogeno del sistema più probabile. Al contrario, condizioni di allentamento dei vincoli e di mutualità riducono la plausibilità sia di (2) che di (3).

Visto in quest’ottica, il quadro appare come alquanto meno rigidamente ideologico di quanto ci si potrebbe aspettare, e alquanto più pragmatico. E in effetti non c’è molto da stupirsi, perché, caso mai ce ne fossimo scordati, l’Italexit non è un fine ma un mezzo. Ed essendo un mezzo e non un fine, le sue forme, la sua plausibilità e l’intensità delle sue pretese possono variare a seconda di come varia il contesto storico e politico.

Dunque, se l’Italexit è un mezzo e non un fine, la vera domanda da porsi è: un mezzo per cosa?

La mia risposta è di ispirazione socialista ed è semplice: l’Italexit, se un senso ce l’ha, ce l’ha in quanto mezzo per riacquisire una sovranità democratica capace di porre in essere politiche nell’interesse del lavoro e di ridurre il potere di ricatto del capitale. Sovranità democratica e centralità del lavoro sono inscritte nel primo articolo della nostra Costituzione, e sono il lascito di un’epoca socialmente più avanzata di quella attuale.

La costruzione dei trattati europei, in particolare dal Trattato di Maastricht, ha imposto una svolta in senso dichiaratamente neoliberale, con la concorrenza posta come ideale normativo e la tutela della stabilità della moneta anteposta all’occupazione e ai salari. Dunque la catena logica va dalla tutela del lavoro, alla sovranità democratica, al rigetto della normativa europea.

Quest’ordine logico ha alcune implicazioni fondamentali. Non ogni modo di respingere le normative europee vale uguale.

Brandire l’Italexit per consegnare i lavoratori italiani a un settore industriale sussidiato dallo Stato non sarebbe un passo avanti, ma due indietro. Che la normativa europea vieti aiuti di stato all’industria privata (sia pure con svariate eccezioni) potrebbe rendere un rigetto della normativa europea accettabile per diversi settori industriali, ma di per sé potrebbe essere una condizione peggiorativa per il lavoro.

Brandire l’Italexit per svincolare le industrie italiane dai vincoli ambientali imposti a livello europeo può suonare liberatorio per molta piccola e media industria (e talvolta, visti gli inghippi burocratici, lo è senz’altro), ma non garantisce affatto un futuro migliore per il paese.

Brandire l’Italexit per ricollocarsi con più forza di prima sotto l’ombrello americano e atlantico non è, di nuovo, il viatico ad un paese migliore per i lavoratori italiani. Incidentalmente, l’Italia ha sofferto di pesanti limitazioni della sovranità almeno dal 1945, e ha perso di peso e ruolo industriale in quegli anni sotto la pressione USA (Mattei, Olivetti). Di fatto per parecchi anni la prospettiva europea è stata vissuta, sia a destra che a sinistra, come un modo per sottrarsi al giogo americano. Che per sfuggire al giogo americano si sia commesso l’errore di infilarsi nella trappola ordoliberale tedesca non significa che sfuggire oggi alla trappola ordoliberale tedesca per rifluire in quella neoliberista austro-americana sia un colpo di genio.

Ora, in conclusione, mi pare ci siano solo tre prospettive di massima sul tema Italexit.

La prima è pragmatica, e guarda all’appello all’Italexit come ad uno strumento politico accanto ad altri, uno strumento che sotto certe condizioni può essere utile coltivare, ma che non ha nessun valore intrinseco: esso conta se e quando è una carta giocabile per ottenere un miglioramento diffuso delle condizioni di vita nazionali. Ma non è un fine, non è un punto d’arrivo, non è una meta agognata, non è niente cui si deve giurare fedeltà. Date certe condizioni contingenti può essere uno scopo intermedio parziale.

La seconda prospettiva è ideologica e, appunto, pone il mezzo come fine: si pone l’Italexit come se fosse un ideale a sé stante, e dopo aver redatto un libro (o pamphlet) dei sogni si spiega al pubblico plaudente che ‘prima si deve riacquisire la sovranità’ e solo poi si potrà agire nel tessuto del paese secondo i precetti del libro.
Questa prospettiva, naturalmente, si garantisce a priori di non dover mai arrivare alla prova dei fatti; figuriamoci infatti se un’impresa letteralmente rivoluzionaria – e potenzialmente cruenta – come l’Italexit può essere affidata dal popolo a qualcuno sulla fiducia, solo perché ha redatto due buoni propositi sul web o ha ‘bucato il video’ con un meme. Si tratta ovviamente di un bellicoso pour parler destinato ad essere inconseguente rispetto alle promesse.

La terza prospettiva è opportunistica e personalistica. Essa non crede neanche per un minuto che la parola d’ordine dell’Italexit indichi una qualche sostanza politica percorribile. La sua funzione effettiva è di intercettare l’attenzione pubblica intorno a qualche slogan impetuoso e tranchant, in modo da ottenere una massa elettorale bastevole a portare qualcuno in parlamento. Questa prospettiva è possibile, ma al netto del gioco di specchi per i gonzi, la sua legittimità sta tutta nella credibilità personale di chi viene mandato in parlamento. Il voto viene in effetti chiesto sulla fiducia, e qui tutto dipende da questa fiducia.

Se da chi ti chiede il voto non compreresti un motorino usato, puoi impiegare gli atti di fede in direzioni più proficue.

Dove andremo?_ a cura di Elio Paoloni

Accogliamo ed estendiamo l’invito alla riflessione di Elio Paoloni. Un argomento non nuovo a questo blog e sul quale possono convergere forze esistenti e in formazione apparentemente ostili ed antitetiche_Giuseppe Germinario

Che ne pensano gli amici competenti?_Elio Paoloni

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Giorgio Bianchi

Se non trovano un’accordo sull’Italia, la questione potrebbe essere risolta offrendo un pezzo della penisola ad ogni contendente.
L’attuale classe politica non è in grado di garantire l’unità territoriale del nostro Paese, sopratutto alla luce del moltiplicarsi dei sindaci sceriffi e dell’abuso del termine eversivo “governatori”.
Per capire come andrà a finire la questione bisognerà osservare attentamente la Lega, per vedere se prevarrà la componente atlantica sovranista o quella europeista secessionista.
Gli USA intanto stanno spostando uomini e mezzi dalla Germania e una parte verrà dislocata in Italia:

Via quasi 12mila soldati Usa dalla Germania, molti arriveranno in Italia

https://www.repubblica.it/…/trump_muove_i_soldati_dalla_ge…/

La balcanizzazione dell’Italia è il piano B in caso di pareggio nella battaglia per la supremazia in Europa tra Aquisgrana e USA.
La mia nuova ipotesi di lavoro è capire se il Covid possa essere una trovata franco-cinese con contributo esterno anglo-israelo-mondialista.
È uno scenario che continuo a rifiutare, ma è l’unico che mi consente di incastrare tutti i pezzi spaiati del puzzle.

Spartizione dell’Italia: un’ipotesi ammessa dalla storia.

Scopriremo se quello di cui si comincia a parlare, la spartizione del Paese, è reale. Per il momento abbiamo una conferma dalla storia: la Polonia, in una situazione simile a quella dell’Italia di oggi, fu svenduta a Russia, Prussia e Austria per pagare il debito della corona polacca accumulato dall’ultimo Re massone Augusto Poniatowski.

A volte, studiare la storia di altri paesi è molto istruttivo. Ho recentemente approfondito uno degli episodi più scioccanti della storia moderna, la spartizione della Polonia. Si trattava del più esteso paese europeo; ricchissimo, colto, tenacemente «europeista» e «romano», che aveva avuto più volte un ruolo esiziale nella storia del nostro continente (si pensi alla liberazione di Vienna, nel 1683. Insomma: un colosso europeo che, come tutti i colossi, aveva i piedi d’argilla. Il piede destro era zuppo di vodka, che avvelenava i contadini e le classi popolari, il piede sinistro era tarlato dall’usura, che sovvenzionava una classe nobiliare contadina (la cui economia era, quindi, ciclica) e perennemente in guerra.
Non faceva eccezione l’ultimo re polacco, Augusto Poniatowski (1732 – 1798). Massone, era poco più che un burattino nelle mani delle potenze straniere e, soprattutto, dei creditori: aveva infatti le mani bucate ed arrivò ad accumulare 40 milioni di złoty di debiti (fu persino imprigionato per questo motivo). I suoi creditori erano usurai polacchi e, ovviamente, le banche: soprattutto con la banca del protestante scozzese Peter Ferguson Tepper (che fallì, a causa dei debiti di Poniatowski) e con le banche di Amsterdam.

Bene, arriviamo alle spartizioni. Esse furono tre, nel 1772, nel 1793 e nel 1795, per opera di Prussia, Russia e Austria. La prima avvenne immediatamente dopo l’abdicazione e la fuga (in Russia) di Poniatowski; le altre seguirono, praticamente, in modo meccanico. Ora: mi sono più volte chiesto come sia stata possibile una cosa del genere. Come può accadere che tre Stati si accordino tra loro per spartirsi un quarto Stato, senza suscitare la minima reazione nella comunità internazionale o all’interno dello Stato destinato a scomparire? Ora la cosa è più chiara, è sufficiente (come al solito) seguire il denaro. Se la finanza prende il posto della politica, può accadere che i creditori svendano un intero paese al miglior offerente; in questo caso a Russia, Prussia e Austria. I primi due si offrirono di pagare 2/5 dei 40 milioni di złoty del debito della corona polacca; l’Austria 1/5. Naturalmente, i costi di questa operazione sono stati trasferiti sulla popolazione locale grazie a esazioni e confische.

Questa la storia; veniamo ora alla parte istruttiva. La situazione della Polonia di fine Settecento ricorda molto quella dell’Italia attuale: il vuoto politico, il forte indebitamento… Prevengo la facile obiezione: so benissimo che il popolo italiano non è un Poniatowski collettivo. Il popolo italiano ha un risparmio privato enorme, sebbene in progressiva erosione; e lo Stato italiano produce (caso pressoché unico in Europa) un avanzo primario ormai da anni. Semplifico: lo Stato italiano incassa più di quanto spende per i cittadini, ormai da anni. Resta comunque l’enorme debito pubblico che, prevedibilmente, è destinato a salire ulteriormente nel prossimo futuro.

E quindi? Dopo tutto il sangue versato e la retorica unitaria, a nessuno verrebbe in mente di dividere l’Italia…Eppure l’ipotesi di una spartizione della penisola emerge (per ora carsicamente) qua e là, tra i ben informati. Ne ha scritto, ad esempio, Beppe Grillo nel suo blog; se ne vagheggia su Il Sussidiario; ne parla esplicitamente Dario Fabbri. In soldoni, uno dei possibili scenari futuri è proprio la spartizione dell’Italia tra Stati Uniti (Sicilia e Sud d’Italia, una portaerei naturale nel cuore del Mediterraneo), Germania (il Lombardo-veneto produttivo) e Francia (Piemonte e Val d’Aosta); resterebbe, abbandonato a sé stesso, il Centr’Italia.
Questo scenario getta una nuova luce sul ruolo che la Lega ha svolto (e continua a svolgere) dagli anni Novanta del secolo scorso ai giorni nostri; ne ragiona diffusamente nel suo blog Federico Dezzani.
Fanta-politica? Oppure uno scenario possibile e auspicato da alcuni? Lo scopriremo tra qualche anno (o mese?). Per il momento abbiamo una conferma che dalla storia, anche da quella altrui, si può imparare molto.

https://lanuovabq.it/…/spartizione-dellitalia-unipotesi-amm…

Dalla Germania al Mediterraneo, del Generale Marco Bertolini

“Oltre la politica interna, la mossa voluta da Trump evidenzia il ritorno alla Great power competition, cioè lo sforzo di contrastare la Russia tra Medio Oriente e Libia, e la Cina, attiva con la Via della Seta, che ingolosisce molti Paesi europei”. L’analisi del generale Marco Bertolini, già comandante del Coi e della Brigata paracadutisti Folgore

Il dispositivo strategico degli Stati Uniti è sempre stato caratterizzato da una generosa disseminazione di forze in buona parte dei Paesi europei, con una concentrazione marcata in Germania (36 mila uomini negli ultimi anni). C’erano ragioni storiche per quest’assetto, tenuto conto che la Germania era stata l’obiettivo primario della guerra di ottant’anni fa e che nel confronto col Patto di Varsavia doveva rappresentare il teatro dello sforzo principale della Nato. C’erano poi ragioni più politiche, come il controllo da vicino di un Paese che ha sempre preoccupato, per le sue potenzialità, “l’amico” americano. Ora, con una recente decisione del Pentagono, circa seimila militari americani “tedeschi” dovrebbero presto essere ripiegati negli Usa, mentre pochi di meno verrebbero ridislocati in altri Paesi europei, tra cui l’Italia, lasciando in Germania “solo” 24 mila uomini circa.

La mossa, fortemente voluta da Donald Trump, evidenzia un suo preciso disegno complessivo nella Great Power Competition, vale a dire nello sforzo statunitense per confermare la supremazia militare nel confronto con Russia a Cina, resa quanto mai urgente dall’attivismo di Mosca in Medio Oriente e in Libia, nonché da quello di Pechino con l’iniziativa della Via della Seta che ingolosisce molti Paesi europei, tra cui il nostro. Inoltre, potrebbe essere utile per conseguire una pluralità di obiettivi diversi.

Prima di tutto, con un occhio alla politica interna statunitense, Potus segna un punto a suo favore, con l’approssimarsi della scadenza elettorale che lo vede contrapposto a Joe Biden, nel confermare al suo elettorato un seppur parziale ridimensionamento del ruolo degli Usa quale poliziotto globale. Così facendo, impone il suo “passo” al partito democratico, che della globalizzazione è un fautore acclarato, e afferma la sua autorità nei confronti dell’establishment. Si impone, infatti, su quel Deep State che ha importanti ramificazioni anche negli alti vertici militari che lo hanno sfidato pure con inedite prese di posizione pubbliche da parte di alcuni famosi generali in quiescenza.

In secondo luogo, per quanto ci riguarda più da vicino, la decisione rappresenta un segnale forte lanciato ai Paesi europei – a partire dalla Germania stessa – da lui accusati di non impegnarsi sufficientemente con un programma di potenziamento militare nell’ambito della Nato. E Berlino evidenzia, al riguardo, l’abbandono delle frustrazioni di ex Paese “occupato” dimostrando di non gradire una mossa che altera uno status quo che ormai gli va bene. Anzi benissimo, se si considera il ruolo di primissimo piano nel quale si è affermato nel Vecchio continente, anche ai danni di altri Paesi come il nostro, come dimostrato dalle recenti questioni inerenti il Recovery Fund che lo confermano leader continentale indiscusso.

Da questo punto di vista, e qui arriviamo al terzo obiettivo, più che il ritiro di una parte dei militari negli Usa, è il ridislocamento di un’altra cospicua parte degli stessi (5.800 uomini) in altri Paesi europei a rappresentare il segnale più forte da un punto di vista strategico. Con questo provvedimento, infatti, si certifica una relativa perdita di importanza della Germania rispetto allo scacchiere meridionale, per il quale da anni l’Italia lamenta una scarsa attenzione da parte della Nato. Il nostro Paese, al contrario, dovrebbe vedere un aumento di forze Usa sul proprio territorio al quale non potrà non corrispondere un cambio del nostro ruolo nel “gioco” militare della super-potenza nel Mare Nostrum, fino ad ora abbandonato alle iniziative turche e francesi, per limitarci ai Paesi della nostra Alleanza. Non so quanto questo possa far piacere a una classe politica che considera le nostre Forze armate il succedaneo povero di quelle dell’Ordine, da impiegare nel controllo del distanziamento sociale nelle spiagge; ma chi riuscisse a fare due più due quattro potrebbe scoprire che il mondo sta cambiando, nonostante le nostre resistenze.

Infine, il provvedimento si presenta come manovra a bilancio zero nella strategia complessiva statunitense, disegnata in buona parte da quello che è stato definito lo stratega di Trump, quel generale Flynn riemerso dalla palude di accuse infamanti alle quali era stato sottoposto ancor prima dell’insediamento del suo presidente. Alla diminuzione delle forze, infatti, corrisponde un aumento in termini di aderenza alle aree più preoccupanti da parte di quelle unità che rimarranno nel vecchio continente. Ciò vale soprattutto per il sud Europa, dal quale il Comando statunitense per l’Africa (AfriCom) potrà esercitare una maggiore influenza sul “continente nero”, col bubbone dell’islamismo radicale che i francesi stentano a controllare nel Sahel. Ma un occhio sarà anche al Sud Europa stesso, esposto dagli egoismi dei sedicenti “frugali” europei alle tentazioni cinesi e russe. E che la frugalità dei contadini, dei minatori e dei pescatori virando a improbabile dote degli speculatori potesse esporre a queste conseguenze anche nel campo strategico è veramente la novità di questi strani tempi. Con la quale è il caso di fare i conti.

tratto da https://formiche.net/2020/07/germania-ritiro-truppe-usa-bertolini/?fbclid=IwAR3k2S1ocdN55ie5O3y60gSb8SzuwHtuAnqyTXxY9tIcxTBeS3T_aG7qsaQ

Lo strano caso Italia, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Luciano Barra Caracciolo, Lo strano caso Italia, Eclettica Edizioni, pp. 233, € 18,00

Escono da qualche anno sempre più libri che non “cantano in coro” e sottolineano, anzi, come la globalizzazione e l’euro siano stati, per l’Italia (soprattutto) un cattivo affare.

Questo saggio si distingue già dal titolo e dal sottotitolo. Quanto al primo l’aggettivo strano avrebbe dovuto essere scritto tra virgolette: perché – tanto strano il caso Italia non è (e il libro lo conferma), ma anzi era voluto e prevedibile.

Per il sottotitolo questo è “Breviario di politiche economiche nella crisi del globalismo istituzionale aggiornato all’emergenza coronavirus”; e il libro è – in gran parte – la dimostrazione che le politiche di austerità hanno provocato – o almeno aggravato decisamente – la crisi in atto (almeno) dal 2008, precipitata ulteriormente con la pandemia.  E così il breviario serve a riportare sulla “retta via”, ben nota agli economisti (non di regime), e a ritrovare le condizioni di compatibilità tra il modello economico-sociale delineato dalla Costituzione e quello emergente dai trattati europei.

L’autore rileva che a seguito dell’adesione all’euro “derivante da trattati e fonti di diritto internazionale (privatizzato) -, e avendo subito la conseguente ristrutturazione del proprio modello industriale e sociale derivante dalla correzione Monti (in poi), l’Italia registra una crescita zero”; questo perché “Le regole pattizie sovranazionali che impongono la globalizzazione, poi, sono regole di liberoscambio, cioè di affermazione del dominio del mercati sulle società umane, i cui bisogni, – l’occupazione, la dignità del lavoro, la solidarietà sociale espressa nella cura pubblica dell’istruzione, della previdenza e della sanità – divengono recessivi e subordinati alla scarsità di risorse… La globalizzazione è quindi un sistema di regolazione sovranazionale mirato a rafforzare le mire dei paesi (Stati nazionali) che la propugnano, da posizioni iniziali di forza politica ed economica, nel conquistare i mercati esteri”. E questo già lo scriveva Friedrich List quasi due secoli fa. E proprio per questo l’economista tedesco, che aveva assai presente funzione, carattere (e primato) del politico, sosteneva che la differenza essenziale tra quanto da lui sostenuto e il pensiero di Adam Smith era che la sua economia era politica cioè in vista dell’interesse, volontà e potenza delle comunità (organizzata – per lo più – in Stati), mentre quella dello scozzese era cosmopolitica (avendo come criterio-base l’interesse individuale).

Una delle conseguenze dell’economia cosmopolitica – nella versione contemporanea di Eurolandia – è di essere, per l’appunto, come sostiene l’autore in contrasto col modello delineato dalla Costituzione “più bella del mondo”.

Scrive Barra Caracciolo “a voler essere benevoli, a partire dal trattato di Maastricht, il modello costituzionale non sia stato rispettato; per espressa previsione delle norme inviolabili, e non soggette a revisione, della nostra Costituzione (artt, 1, 4, 36, 38, 32, 33… quantomeno), l’economia italiana segue il modello keynesiano… sicché esso non tollererebbe (cioè, non contemplerebbe come costituzionalmente legittime) politiche che, sempre per attenersi alle classificazioni e schematizzazioni di questi ultimi, implichino apertamente”, il di esso costante sacrificio. Accompagnato da salmi di giubilo alle regole europee degli eurodipendenti.

La venticinquennale stagnazione italiana è, in senso economico, determinata dalla crisi strutturale della globalizzazione da un lato, e dall’altro dall’impedimento di quelle politiche di sviluppo, dettate dalla nostra Costituzione, ma rifiutate dall’U.E.. Anche se, a quanto pare, dalle trattative sul recovery fund correzioni delle politiche d’austerità (sostanzialmente dannose per l’Italia), è in corso. Ma non si sa quanto efficaci, almeno nel medio periodo, per il nostro paese.

In questo saggio c’è molto, onde non è facile sintetizzarlo. I profili più evidenti ne sono: a) il contrasto tra quanto si sostiene – dagli euro dipendenti – che da un lato si atteggiano a numi tutelari della Costituzione “più bella del mondo”, dall’altra nelle politiche euroasservite ne tradiscono il modello economico sociale, nei suoi caratteri fondamentali, a cominciare dalla tutela del lavoro, che è, secondo l’art. 1 il fondamento (reale prima che normativo) della Repubblica.

Ma questo si comprende bene: élite in decadenza si affidano all’astuzia più che alla forza (Pareto). Come scriveva il segretario fiorentino, il principe deve badare a parere più che ad essere. E il metodo più seguito per farlo è predicare in modo opposto al praticare. La sconnessione tra detto e fatto, tra intenzioni esternate e risultati conseguiti è voluta e tutt’altro che casuale.

La seconda – connessa alla precedente – è la sostanziale assenza (od oscuramento) del dibattito su crisi, cause e responsabilità della stessa. Silenzio assordante fino a qualche anno orsono, un po’ meno dopo che i successi  elettorali dei partiti sovranpopulidentitari hanno certificato che la consapevolezza popolare di cause e responsabilità della crisi, malgrado tutto, determina crisi politiche di livello globale, con sempre più Stati retti e condizionati da maggioranze (o quasi-maggioranze) elettorali sovran-populiste. Economisti di regime, giuristi di palazzo, mass media asserviti l’hanno solo ritardata. Come scrive Barra Caracciolo “tutta la problematica (della crisi)… è completamente assente dalle dichiarazioni programmatiche e dal dibattito politico attuale… Si ha come l’impressione di essere in una realtà parallela, fatta di miopi polemiche di parte e di slogan ripetuti senza comprenderne appieno il significato… E l’Italia non può permettersi di essere raccontata e guidata ignorando la sua natura, la sua vocazione, ben collocata in questa terra, interconnessa con i problemi di una globalizzazione che è stata concepita dai progettisti di Elysium, da spietati Malthusiani, e che ora, nella sua fase discendente, rischia di trascinarsi nel suo “cupio dissolvi”… Parliamone: non lasciamo che discorsi “lunari”, ipostatizzati su un pensiero unico e irresponsabile verso il popolo sovrano, ci facciano suonare, come comprimari, nell’orchestra del Titanic…”. E questo libro è un’ottima occasione per cambiare musica (e orchestra).

Teodoro Klitsche de la Grange

TORNARE INDIETRO PER ANDARE AVANTI, di Pierluigi Fagan

TORNARE INDIETRO PER ANDARE AVANTI. Nel 1486, il filosofo autodidatta Pico della Mirandola, scrive l’Oratio de homini dignitate, ritenuto da molti il “manifesto” di quel Umanesimo fiorentino che prelude al Rinascimento. Nell’Oratio, Pico sostiene che mentre ogni altro ente di natura è stato creato da Dio in forma determinata, l’uomo è condensato di potenzialità di potersi liberamente dare definizione da sé: “Tu determinerai la tua natura secondo il tuo arbitrio al cui potere io ti ho consegnato. […] …affinché tu stesso quasi come un libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avevi prescelto”. L’Umanesimo faceva perno su questa nuova antropologia in cui lo scarto dalla precedente convinzione stava tutta in questa sottrazione dalla determinazione che dava all’uomo libertà e responsabilità. L’operazione intellettuale era quella di sottrarre l’Uomo dalle rigide determinazioni del Dio artefice di ogni cosa, sostenendo che proprio Dio aveva donato all’Uomo la libertà dalla determinazioni donandogli la sovranità su se stesso. Ma allora, cosa fare di questa libertà all’autodeterminazione?

In questo scorcio di seconda metà del XV secolo in Italia, si combatte la riforma del pensiero che vuole emanciparsi dal totalitarismo della Chiesa recuperando gli Antichi, testimoni di un “pensiero altro”e per altro, molto più esteso e sofisticato di quello tipicamente medioevale. Il XV col XVI e XVII secolo sono il periodo di lunga dissolvenza incrociata nel quale il Medioevo lentamente dissolve mentre assolve il Moderno, sia nel mondo dei fatti che in quello dei pensieri.

Nel mondo dei fatti, è questo il periodo in cui dissolve un certo tipo di società ed assolve un’altra. Questa seconda sarà poi quella che oggi sta finendo ponendo di nuovo la domanda: … cosa fare di questa libertà all’autodeterminazione? In breve, l’Uomo occidentale, si è liberato da una gabbia mentale riflessa poi in una precisa struttura del sociale in cui gli intermediari della credenza in Dio usavano tale diffusa e profondamente introiettata credenza per garantirsi il ruolo di primi tra pari. Nel farlo, ha liberato la sua potenza intenzionale e produttrice facendo del lavoro e del suo profitto, il senso del suo stare al mondo. La nuova struttura del potere sociale perdeva il concetto di “primi tra pari” in quanto eclissando Dio come vertice della piramide dell’Essere si perdeva la parità umana, si perdeva quindi il ruolo e la funzione di intermediario, si apriva ad una nuova credenza in cui il mondo umano era fatto dall’uomo stesso. Questo “uomo produttore di mondo” s’ingaggiava sempre più a “risolvere problemi”, che lo facesse col lavoro, col commercio, con la tecnica, con le prime esplorazioni scientifiche o nautiche. Prima di giudicare idealmente il senso di questa svolta, il giudicante dovrebbe esser ben consapevole dell’aspettativa di vita, del tasso di mortalità per fame o malattie, del tasso medio di ingiustizia di allora comparati a quelli di oggi.

Il grande studioso dell’economia antica Moses Finley, raccontava di un signore dell’antica Atene che finanziava diverse navi commerciali del Pireo che riempiva di merci e beni. Le navi, periodicamente, andavano sulle coste libiche e lasciavano merci e beni sulla spiaggia al limitare della foresta. Poi tornavano un po’ al largo, aspettavano ed infine riattraccavano. Il “popolo della foresta” aveva preso merci e beni ed aveva lasciato in controvalore schiavi secondo proprio giudizio di equivalenza. Gli schiavi venivano portati al signore di Atene finanziatore della spedizione. Il signore aveva così accumulato circa duecento schiavi che però non vendeva, affittava. Li affittava ai possessori miniere o di campi da coltivare fuori Atene, piuttosto che come servi casalinghi o addirittura affittandoli alla città come opliti. Il signore possedeva quindi i mezzi di produzione essendo questi, al tempo, lavoro umano ed aveva realizzato il ciclo marxiano del denaro (per finanziare la spedizione) che serviva a comprare merce (gli schiavi) che producevano più denaro (profitto) di quanto erano costati (investimento), il fatidico D-M-D1. Il signore era quindi un “capitalista”.

Se questa è la formula di un fare economico capitalista, sarà bene sapere che di questo fare economico, la storia ne è piena e da molti più secoli che non quelli che chiamiamo propriamente “capitalistici”. Ma con due differenze tra gli esempi reperibili nella storia lunga ed il sistema imperante nei secoli propriamente detti moderni o “capitalistici”. La prima differenza è che questi modi -in passato- erano frammisti a molti altri, non erano l’unico modo. La seconda è che nessuna società si ordinava esclusivamente col fare economico che a sua volta si ordinava con solo questo modo. L’epoca in cui inizia la transizione ad una “società capitalistica” è proprio il XV secolo dove precedenti modi economici già lungamente basati sul ciclo “investimento-trasformazione-profitto” sin dal XII secolo diventano sempre più diffusi e perfezionati, per poi dalla fine del XVII secolo, diventare l’unico modo del fare economico e con la Gloriosa rivoluzione inglese, il modo stesso in cui si ordina l’intera società nonché quello che esprime il potere politico riunito nel “parlamento dei produttori e dei dotati di capitale”.

Cosa intendiamo quindi con “capitalismo”? Un modo economico tra gli altri, passibile quindi di diversa forma o il sistema sociale in cui la società è ordinata dal fare economico e questo dall’unica versione basata sul ciclo “investimento-trasformazione-profitto”? Nel primo caso c’è chi ipotizzò che imponendo una diversa forma economica previa conquista del potere politico e giuridico (come?) si giungerà ad una nuova forma sociale. Nel secondo caso si nota che non è tanto la forma del ciclo “I-T-P” che è antica quanto l’uomo, ma la sua presunta unicità e soprattutto la sua pretesa di ordinare l’intera società ed il suo potere ultimo che è sempre politico-giuridico.

Eccovi quindi gli “accelerazionisti”. Costoro sono convinti che piuttosto che resistere alle dinamiche evolutive (o involutive) del capitalismo contemporaneo, tanto vale accelerarle fino alle estreme conseguenze di una società liberata dal mito del lavoro. Non del lavoro in quanto tale che sarà sempre necessario entro certi limiti, ma del suo mito come essenza della società umana e realizzazione stessa dell’uomo. La chiave di volta è il progresso tecnologico che tende a sostituire lavoro umano con lavoro macchina o algoritmo. Alle sue estreme conseguenze, se il lavoro non sarà più il perno del fare umano e sociale, la società si cercherà un nuovo ordinatore. E potrà liberamente farlo laddove s’imporrà (come?) il principio di dare sussistenza minima garantita a tutti, liberando tempo ed energie intellettuali e sociali, infine politiche, per discutere e decidere assieme quale altro ordinatore darsi. Tornare cioè alla domanda di Pico su cosa fare di questa libertà all’autodeterminazione e provare a dare un’altra risposta da quella che poi venne storicamente data. Non solo provare a dare un’altra risposta rispetto a quella data, ma anche rispetto alla contro-risposta data da coloro che volevano superare nel XIX secolo questo stato di cose e che poi, purtroppo, non sono riusciti ad alimentare un vero e sostanziale cambiamento.

E’ un argomento complesso da discutere quindi ve lo sottopongo a libera discussione.

nb tratto da facebook

Prove tecniche di sovranità tecnologica europea?_di Giuseppe Gagliano

Prove tecniche di sovranità tecnologica europea?

Il precedente articolo su Edward Snowden ha posto l’attenzione del lettore sulla pervasività del sistema di sorveglianza americano – nello specifico dell’NSA – ma soprattutto sull’egemonia americana nel campo della sovranità digitale. Proprio per questa ragione riteniamo opportuno, seppure in breve, sottolineare l’importanza geopolitica del progetto Gaia X nato anche con lo scopo di contrastare l’egemonia americana .

Il progetto Gaia X è stato avviato dalla Francia e dalla Germania con lo scopo di tutelare anche la sovranità dei dati. Questo progetto prende il nome di Gaia-X ed è supportato da 22 aziende franco-tedesche come ad esempio Orange, OVHcloud, Edf, Atos, Safram, Outscale, Deutsche Telekom, Siemens, Bosch e BMW. Per quanto riguarda i settori coinvolti nel progetto sono numerosi perché sono relativi all’industria 4.0/PME, alla sanità, alla finanza, al settore pubblico, a quello energetico, alla mobilità e all’agricoltura. La genesi di questo progetto è da individuarsi nel vertice di Dortmund che si tenne nell’ottobre del 2019 durante il quale Angela Merkel si pronunciò a favore della sovranità dei dati e di una soluzione europea per la costruzione di una infrastruttura digitale. Inoltre questo progetto fa parte di una più ampia strategia europea di governance dei dati già esplicitamente formalizzata dalla commissione europea il 19 febbraio del 2020. Il principio da cui parte questo progetto è molto semplice: l’Europa allo scopo di essere un player geopolitico rilevante deve essere in grado di garantire la propria sovranità tecnologica. Tutto ciò consentirebbe, per esempio, di evitare che i dati sanitari dei pazienti siano venduti, come successo con il National Health System britannico, ad aziende farmaceutiche americane come rivelato dalla periodico The Guardian nel dicembre 2019.

È evidente che questo progetto è volto anche a fornire un’alternativa europea ai leader mondiale del cloud Computing come Amazon, Microsoft, Google e Alibaba che allo stato attuale detengono oltre il 70% del mercato mondiale. Naturalmente questo progetto rientra in un contesto molto più ampio che consiste nel tentare di costruire un’infrastruttura europea dalla quale dovrebbe nascere un ‘ecosistema europeo di dati per consentire all’Europa di riconquistare la sua sovranità digitale. Sia la Francia che la Germania ritengono opportuno incoraggiare anche altri paesi europei – come Italia e Spagna ad esempio- che dovrebbero partecipare a questo progetto di sovranità ed autodeterminazione. La rilevanza di questo progetto a livello globale è tale che l’amministrazione americana interpreta i piani di Bruxelles sulla sovranità digitale come una minaccia alla libertà economica e all’espansione delle sue industrie tecnologiche. Per quanto riguarda la Francia è significativo il fatto che tutte le principali scuole di pensiero relative all’intelligence economica – e fra queste certamente la Scuola di Guerra economica parigina di Christian Harbulot – abbiano nel corso di questi ultimi anni posto l’enfasi sulla necessità di conseguire in tempi relativamente brevi la sovranità e l’autodeterminazione digitale in un’ottica di patriottismo economico allo scopo di emanciparsi dalla egemonia americana. Come abbiamo già avuto modo di osservare in un articolo su Vision-Gt l’Europa non ha scelta: se infatti vuole proteggere i suoi cittadini, deve cambiare la sua strategia geoeconomica. Deve, per esempio, investire nella ricerca più ampia e trasversale possibile al fine di comprendere la natura della guerra economica. Insomma Bruxelles dovrebbe formulare una vera dottrina di difesa economica per affrontare sia gli Usa che la Cina.

http://osservatorioglobalizzazione.it/osservatorio/prove-tecniche-di-sovranita-tecnologica-europea/?fbclid=IwAR1wp5ZZ9a3H_8SOejmjS5Iu-dHmTGHh_QzYNlCUVdbBBsk4veXgreKTz7c

Il bene riflesso, di Giuseppe Masala

Riflettevo un po’ sull’Euro. Dico, indipendentemente da come andrà a finire questa epopea destinata ad entrare nella Storia. Il mio è stato un ragionamento utilitaristico che è partito dalla constatazione empirica che nulla a questo mondo viene nella vita senza lasciare qualcosa. Qualunque cosa, prende un po’ di noi e lascia qualcos’altro. L’Euro dal punto di vista italiano è stato senza dubbio una catastrofe economica, politica e sociale (certo, non abbiamo la controprova di cosa sarebbe accaduto se non fossimo entrati). Ma cosa ci lascia questa esperienza che non esito a definire tragica?

L’Euro ci lascia due cose fondamentali. Ci lascia innanzitutto un enorme patrimonio culturale. Quanto abbiamo studiato – ciascuno a modo suo – per comprendere i meccanismi economici, politici, sociali, culturali, storici che ci hanno portato come popoli europei a questa scelta. Pagine e pagine sulla storia tedesca; dalla loro unificazione, alle guerre, alle dispute politiche, giuridiche e filosofiche. Non parliamo poi del loro carattere nazionale, magari appreso nelle pagine di Mann, di Dostoevskij (che li descrive benissimo pur non essendo tedesco), di Junger e qualche temerario anche attraverso le letture di Oswald Spengler. Il loro spirito di Ribellione, la tensione perenne tra Kultur e Zivilisation; nel mio caso personale anche l’intima convinzione che questa tensione si risolve sempre con la vittoria della Kultur; anche quando apparentemente scelgono la Zivilisation. Abbiamo imparato che la Grandeur francese porta gli ottimi governanti di quel popolo ad essere stupidi. Avete notato? Nella trattativa del Recovery Fund si sono comportati come non li riguardasse. Loro son signori, mica s’abbassano. Poi la perfidia britannica, ma anche la loro tenacia ferrea. E poi il cinismo, l’arrivismo, la stupidità delle nostre classi dirigenti. Ci hanno mandato a combattere con le scarpe di cartone. Come i fanti dell’Armir spediti in Unione Sovietica.

Abbiamo in definitiva imparato – e questa è la seconda grande lezione – che la Storia non è lo studio del passato. La Storia è lo studio del Presente e del Futuro. Tutto si ripete in una incredibile coazione.

Ecco, l’Euro ci lascia un enorme patrimonio di esperienza e di cultura. Probabilmente inutile. Se tra venti anni provassimo a spiegare alle nuove generazioni, fatalmente saremmo presi per vecchi rincoglioniti. Già, la Storia insegna ma non ha scolari. O meglio, la si impara solo sulla propria pelle.

L’ALTRO POLO

Arriva dalla Gran Bretagna, attraverso il Financial Times, la notizia che fa capire quanto sia vitale la battaglia sull’Euro. Secondo il quotidiano londinese la Bank of England starebbe pensando di istituire una Banca d’Investimenti di sua proprietà. Si, avete capito bene, la banca centrale inglese sta pensando di istituire una banca d’investimento per intervenire direttamente nell’economia reale. Facile capire come andrebbe a funzionare: la banca d’investimento emanazione della BoE emetterebbe obbligazioni per finanziare opere pubbliche che verrebbero acquistate integralmente dalla banca centrale tramite emissione di nuova moneta. In realtà si tratterebbe di una mera partita di giro considerando poi che il 100% dell’azionariato sarebbe di proprietà della banca centrale stessa. In sostanza sarebbe un altro step nel Quantitative Easing con l’intervento diretto della banca centrale negli investimenti sull’economia reale.

Tenete anche conto che la Banca d’Inghilterra ha posto in essere un quantitative easing infinitamente più forte di quello della Bce, pari a ben 750 mld di sterline per una nazione di 65 milioni di abitanti mentre a Francoforte ci si è fermati a 1350 mld di euro ma per 350 milioni di persone (tanti sono gli abitanti della Eurozone). E ora questo nuovo strumento della banca d’investimento che qualsiasi neokeynesiano o postkeynesiano europeo non oserebbe neanche immaginare.

Ecco, mentre in Uk, ma anche in Usa e in Giappone, ci si lancia in operazioni temerarie ma adatte alla situazione drammatica che stiamo vivendo, in Europa si insiste sul Teorema di Haavelmo e sulla sbagliatissima teoria della neutralità della moneta. Rifletteteci un po’ e valutate da soli quanto sia importante o cambiare totalmente la mentalità della Bce oppure separarsi dai tedeschi e dalla Lega Anseatica.

LA CARICA DEI MONATTI, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA CARICA DEI MONATTI

Sarà, ma non riesco a vedere del tutto negativo che i quattrini dell’U.E. arrivino, come dicono, nei prossimi anni.

Non sono un economista, e molti mi rimprovereranno di non tener conto dell’effetto shock che un’iniezione massiccia di liquidità ha su un’economia in recessione; ma credo di avere qualche esperienza della politica, di quella nazionale in particolare e questo mi induce a bilanciare, almeno parzialmente gli effetti positivi e quelli negativi del ritardo.

Molti pensano che il governo Conte sia prossimo al capolinea, probabilmente sostituito, entro l’anno, da un nuovo esecutivo, sorretto da una “scissione” di Forza Italia; altri (meno) pensano che si vada ad elezioni anticipate nel prossimo inverno (con altre probabilità di alternativa). Se è vero ciò, il vantaggio del ritardo è evidente: non sarà questo governo a spendere la massa di moneta – oltre 200 miliardi di euro – in arrivo dall’U.E.. Vantaggio che sarebbe modesto, ove il governo fosse comunque espressione del PD (e appendici), superiore se lo escludesse e fosse formato dall’attuale opposizione.

Il perché è semplice: il PD (nelle varie trasformazioni) è il maggiore (anche se non l’unico) responsabile della venticinquennale stagnazione economica italiana, che ne ha fatto l’economia più ferma sia dell’U.E. che dell’area euro (dopo essere stata, prima del 1993, una delle più dinamiche).Non c’è passaggio economico decisivo della “seconda repubblica” che non porti la firma di un boiardo di centrosinistra: dall’entrata nell’euro alle privatizzazioni, spesso farlocche e altrettanto spesso profittevoli per i privati, ma non per il pubblico (tra le tante – Autostrade); dal rigore a senso unico (quello sbagliato) alla tassazione a gogò. I protagonisti di questo quarto di secolo (abbondante) sono stati i vari Prodi, Ciampi, Amato, Padoa Schioppa, Monti, nessuno dei quali ha governato senza la fiducia del centrosinistra.

Con i risultati che abbiamo visto prima della pandemia. Per cui chiedersi perché gli italiani abbiano ridotto il PD (e connessi) da quasi la metà dei voti a poco più di un quinto dell’elettorato è sorprendente: a sorprendere – di fronte a tanto sfascio – sarebbe il contrario. Che poi a spendere i quattrini che l’U.E., (bisogna riconoscere, stavolta meno rigorosa del solito), mette a disposizione, debbano essere sempre coloro i quali da decenni ci hanno messo in questa situazione realizzando politiche “rigorose” (si fa per dire) è circostanza assai poco rassicurante. Da risultati passati così negativi non c’è da attendersi un futuro radioso.

E lo si vede già nelle normative per il rilancio: mentre tra le misure per il rilancio dell’economia post-Covid la “cattivissima” Merkel in Germania ha abbassato l’IVA di 3 punti (dal 19 al 16 per l’aliquota ordinaria), seguita dalla piccola Cipro, il governo PD-M5S ha inventato bonus, alcuni giustificati, altri surreali – quelli per bici elettriche e monopattini – , ma – a parte qualche breve rinvio di pagamento – nessuna riduzione d’imposta, tanto meno per quelle generali, gravanti su tutta la popolazione (come, tra l’altro, IRPEF, IVA, IMU). In realtà come al solito emerge la differenza sostanziale tra l’Italia e la maggior parte dell’Europa: che non è tanto il “rigore” ma il modo di governare (e governarlo).

Lì si prendono misure emergenziali che incidono per lo più a danno o a favore di tutti: hanno la stessa caratteristica positiva della legge di Rousseau: che viene da tutti e si applica a tutti.

In Italia viene da un governo di minoranza nella Nazione, nato per impedire alla maggioranza (Salvini e connessi) d’andare al governo e serve, in larga parte a fare favori a pochi, se non pochissimi. Quelli che stanno a cuore ai governanti minoritari. I quali hanno un consenso radicato tra i tax-consommers, ossia tra coloro che, sul bilancio dello Stato, ci campano, E non è solo la burocrazia; come scriveva un secolo fa circa Giustino Fortunato, il bilancio dello Stato è “la lista civile della borghesia parassitaria”. Quella che prospera grazie alle imposte, alle tasse, alle tariffe pagate da tutti. E che nutre grandi attese dalle conseguenze della pandemia. Ridurre le imposte (a tutti), profittando dei fondi europei significa ridurre i favori (a qualcuno); cosa improponibile a un governo che si “regge” sul consenso di quelli.

Tempo fa notavo che Manzoni narra come l’esclamazione dei monatti nella Milano appestata era “viva la moria”, perché i lutti di tutti erano occasione per i monatti di vivere (neppure tanto onestamente): e c’erano segnali in Italia che la situazione (e l’augurio) si stesse ripetendo con i monatti post-moderni.

Ne abbiamo avuto la conferma pochi giorni fa; il brindisi (completo) dei monatti nei Promessi sposi in effetti era: “Viva la moria. Moia la marmaglia”; un ministro l’ha completato dicendo che se i ristoratori non riescono ad adeguarsi, meglio che cambino mestiere. Il che vuol dire la morte economica di non poche imprese. Delle quali non molte (forse) propendevano per il partito del ministro e quindi lo “meritavano”. Ma chi spiegherà al ministro che se cessano di produrre le imprese, pochi pagheranno le tasse? E che se non pagano le tasse non solo i suoi elettori, ma persino lui sarà costretto a lavorare?

Teodoro Klitsche de la Grange

La malattia del mondo, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Francesco Borgonovo, La malattia del mondo, Milano 2020, pp. 207, € 15,00

Questo libro è una riflessione sulla pandemia da coronavirus, che dall’evento risale alle condizioni ideali e materiali da cui è stato incentivato, in un’epoca in cui eventi del genere, che hanno funestato l’umanità per millenni, sembravano chiusi nell’archivio della storia. Archivio che a dispetto dei progressisti – e purtroppo non solo loro – si è riaperto.

La pandemia è stata frutto di due fattori fondamentali, ambo ideali: il primo è la ybris, il secondo è (la pretesa/aspirata) assenza di limiti (non solo fisici) che caratterizzano il pensiero della globalizzazione (e dei globalizzatori). Quanto alla prima scrive l’autore, la ybris è “prima di tutto superamento del limite, del confine. E se ci pensate, l’intera storia dell’epidemia di Covid-19 (esattamente come la storia della globalizzazione) è una faccenda di confini varcati e limiti infranti”. Il limite infranto è quello della natura “Della natura noi uomini siamo, al massimo, i custodi, come rivela il libro della Genesi. Quando veniamo meno al nostro ruolo, o quando tentiamo di farci creatori sostituendoci al Creatore, allora scateniamo l’epidemia, la pestilenza biblica”. Secondo gli scienziati il Coronavirus è nato – come altri agenti patogeni – da uno spillover da un “salto” tra specie (da animali selvatici all’uomo). Varcato il limite della specie è stato assai più agevole, dato il progresso tecnico e la permeabilità delle frontiere, diffondersi nel pianeta a velocità impressionante “Prigionieri come siamo dell’ideologia della dismisura, non abbiamo saputo chiudere tempestivamente i confini, non abbiamo voluto fermare il vortice della circolazione globale: la malattia, dalla Cina, è approdata in Germania, e da lì è giunta in Italia. Poi, il disastro. Quando il Covid-19 è calato nella nostra nazione, tutti i nostri limiti sono tornati prepotentemente a galla: quelli delle nostre strutture sanitarie, della nostra potenza industriale, della nostra indipendenza economica… Il confine, il limite, le barriere salvifiche che avrebbero potuto arginare l’avanzata del nemico occulto sono stati sbriciolati dal capitalismo selvaggio e dall’ideologia che impone: nessuna frontiera”.

Ricordando quanto scriveva Schmitt della contrapposizione tra terra e mare e le conseguenze che comporta sull’ordine, sul diritto e sull’economia, Borgonovo sostiene che non erra Zigmunt Bauman quando definisce la società post-moderna “società liquida” contrapposta alla solida terra che fonda società basate sul limite (confine delle proprietà, dei territori delle sintesi politiche, almeno di quelle stanziali, ossia, nella modernità, tutte). Per espandersi la “società liquida” necessita di superare se non di abolire i limiti.

Hegel lo aveva notato per l’industria nel paragrafo 247 dei Lineamenti di filosofia del diritto: “come per il principio della vita familiare è condizione la terra, cioè il fondo e il terreno stabile, così per l’industria l’elemento naturale che la anima verso l’esterno è il mare.

Nella brama di guadagno, esponendo al pericolo il guadagno stesso, l’industria si eleva a un tempo al di sopra di esso, e soppianta il radicarsi nella zolla e nella cerchia limitata della vita civile, i suoi godimenti e desideri, con l’elemento della fluidità, del pericolo e del naufragio…”; il mare pertanto era l’ “ambiente” più favorevole al commercio e all’industria. Ancor più quando, venuta meno la scoperta di nuove terre (e mercati) l’espansione deve basarsi sull’abolizione dei residui confini.

Il libro è colmo di idee. Per restare nei limiti di una recensione, la sintesi – purtroppo limitata come tutte le sintesi – è che la post-modernità si fonda sulla ybris, ossia la superbia di superare i limiti della natura. Borgonovo ricorda come i greci notassero ciò: Erodoto ed Omero, cui occorre aggiungere Sofocle, in particolare nell’Antigone e nell’Edipo re. Come condanna della ybris come distruttrice dell’ordine terreno e divino è particolarmente significativo il canto del coro nell’Edipo rePossa io avere destino di serbare santa purezza di parole e di azioni, a cui sono preposte leggi sublimi, procreate nell’etere celeste, e l’Olimpo solo è loro padre; non natura mortale di uomini le generò, né mai l’oblio le sopirà: un dio potente è in esse, e non invecchia. La dismisura genera tiranni”. O nella profezia di Tiresia a Creonte nell’Antigone, nella quale l’indovino prevede la rovina del re per aver violato le leggi di natura “questo non è un potere tuo, né degli dei supremi, anzi essi soffrono questa violenza da te”. Indubbiamente una civiltà come quella greco-romana che Spengler riteneva basarsi sul senso del finito, cioè del limite è particolarmente utile per capire la degenerazione faustiana della post-modernità.

La quale trova la propria caratteristica fondamentale nel ritenere superabili realtà e leggi naturali. Lo stesso comunismo reale, rapidamente espanso e conclusosi, si fondava sull’illusione del giovane Marx di cambiare la natura umana, mutando i rapporti di produzione; alla fine della dittatura si sarebbe costruita la società comunista, senza comando né obbedienza, pubblico e privato, amico e nemico. Cioè senza i presupposti del politico – le costanti che connotano ogni comunità politica umana. Risultato smentito dalla breve storia del comunismo. Il quale si è retto solo perché ha mantenuto anzi potenziato le costanti del politico nella dittatura sovrana del partito. Cessata la fede nella quale è imploso. Nella post-modernità questa ybris ha preso altre forme, immaginato altri idola: tutti accomunati dalla credenza di poter oltrepassare leggi e limiti naturali. Illusione sempre smentita e fondante, come cantava Sofocle, nuove tirannie.

Teodoro Klitsche de la Grange

FORSE NON LA STIAMO PRENDENDO PER IL VERSO GIUSTO, Pierluigi Fagan

FORSE NON LA STIAMO PRENDENDO PER IL VERSO GIUSTO. L’altro ieri, la missione di analisti dell’IMF, di ritorno dal suo soggiorno americano, ha pubblicato questo rapporto su stato e prospettive dell’economia americana che da sola vale un quarto di quella planetaria.

Nel secondo trimestre (A-M-G), il Pil USA ha fatto -37% (lo ripeto per i distratti e coloro che saltano i dati di quantità a priori perché preferiscono le parole: “meno trentasette per cento”). Si prevede che l’economia USA tornerà ai livelli di Pil fine 2019, solo a metà 2022, forse. IMF segnala che gli USA erano già un sistema con una forte componente di povertà interna, la crisi è destinata ad allargare e sprofondare questa parte addensata nelle etnie afro-americana ed ispanica. Al momento sono 15 milioni i disoccupati ed è appena iniziata la catena di fallimenti di esercizi commerciali ed imprese che accompagnerà la lenta ma costante caduta. Ed aggiunge: “il rischio che ci attende è che una grande parte della popolazione americana dovrà affrontare un importante deterioramento degli standard di vita e significative difficoltà economiche per molti anni a venire.”.

“Molti anni a venire” , come riportato in post precedenti, viene da Nouriel Roubini e dai “miliardari invocanti tasse”, quotato sulla prospettiva del decennio, magari non saranno proprio dieci anni, ma al momento le prospettive sono di crisi profonda e lunga. “Larga parte della popolazione” significa più che la maggioranza. Il “deterioramento dello standard di vita” è l’esatto opposto del contratto sociale americano basato sull’espansione continuata, ciò che tiene in piedi un sistema assai variegato e pieno di contraddizioni e pluralità problematiche. Tutto questo, nonostante gli eccezionali sforzi di pronto intervento messi in campo dall’Amministrazione e dal FED (che noi in Europa ci sogniamo) e nonostante lo sbandierato +8% dei consumi a maggio. Si stima un rapporto debito/Pil al 160% nel 2030 (reggerà la credibilità dell’unità di conto, scambio e valore internazionale di un paese che ha il 160% di debito pubblico/Pil?) , ma si teme che poiché grande parte dei costi di assistenza sanitaria, educazione e disoccupazione sono nei bilanci degli stati federati già per altro al limite o oltre il limite, l’intera situazione possa ulteriormente peggiorare. Ne segue una lunga ricetta di interventi che però è politicamente improbabile per via delle diverse priorità che le élite americana in genere hanno (o l’una o l’altra poco importa) e soprattutto di cui non si vede né la sostenibilità finanziaria, né il certo effetto ristoratore. Ironia della sorte, giusto il giorno prima, il governo cinese annunciava un +3,2% su aspettative del +2,5% per la crescita del proprio Pil nello stesso periodo.

Tutto ciò, mentre gli USA continuano a macinare record di contagi. Gli USA hanno tre volte i contagiati che abbiamo avuto noi (a parità di popolazione) ma per via del fatto che hanno iniziato dopo e si sono potuti avvalere di qualche parziale miglioramento nelle cure e nei trattamenti, nonché una popolazione decisamente più giovane della nostra, la mortalità è al momento a 430 per milione di abitanti, contro i 580 nostri. Sono però al limite di capienza alcune strutture sanitarie tra cui la Florida ed il Texas, ma non sono i soli. Il conflitto capitale-salute-libertà continua a dilaniare gli americani stante che quando si sceglie il capitale, peggiora la salute ma sopratutto non sembra neanche migliorare il capitale. C’è infatti la psicologia umana in mezzo che valuta il rischio non secondo pura logica statistica.

Tutto ciò potrebbe avere una svolta col vaccino ma al momento non si sa bene quando potrà esser operativo, a che condizioni, come verrà preso dalla popolazione, quanto sarà efficace. Non si è mai trovato un vaccino per i coronavirus che pure si conoscono da decenni. Questi tipi di virus hanno una strategia adattativa molto basica: grande semplicità (è un filo di RNA corto) e grande cambiamento (molte mutazioni per darsi più condizioni di possibilità), cambia molto ed in fretta per ingannare i sistemi immunitari. I virus sono qui sulla Terra da forse 3,5 miliardi di anni e sono le entità biologiche più diffuse sul pianeta, evidentemente la strategia ha i suoi perché. Noi invece non solo geneticamente ma soprattutto socialmente, siamo molto complessi e cambiamo poco e molto, molto lentamente.

Credo che noi non si stia capendo bene in che tipo di problema siamo capitati, un problema che non è italiano o americano ma quantomeno occidentale prima e mondiale poi. Molti si impegnano ad interpretare il virus, la sua genesi, gli interessi in gioco, le pratiche sanitarie, il rumore dei media, criticare il governo, l’Unione europea. Ognuno di questi punti è interessante ma perde il quadro d’insieme ed il quadro d’insieme è un lento armageddon economico e quindi sociale cui saremo soggetti, forse, per anni. E’ desolante il fatto che tra le tante analisi che si leggono, quelle mainstream non meno di quelle alternative, sembra non comprendersi la profondità della crisi cui siamo condannati. Poco o nulla importa se il virus è così o colà, come e da dove è venuto, se i suoi effetti sono esagerati e da chi e perché, poco importa prevedere catastrofi biopolitiche o incolpare i cinesi o Big Pharma. Questi sono intrattenimenti info-culturali. Il fatto crudo e duro è che nella misura in cui la gente teme di ammalarsi e forse morire, i suoi comportamenti sociali abituali o tali ritenuti, cioè i precedenti, non torneranno a sostenere la vita associata per lungo tempo. In tutto il mondo. Con questo avremo a che fare e per questo non sembra esserci medicina di pronto intervento. Questo minerà il funzionamento della società radicalmente. Molto ma molto più radicalmente di qualsiasi Recovery fund o MES, Trump o Biden, ricetta economica a base di interventi generici e consueti. Manca cioè, a mio avviso, consapevolezza dell’eccezionalità e radicalità del problema.

Per adattarsi a questo quadro d’insieme mancano tre cose essenziali. Una è il tempo, il tempo semplicemente non c’è, siamo in ritardo cronico. Qualsiasi intervento risulterà parziale, ci vorrà molto tempo a metterlo in essere e impiegherà molto tempo a dare gli effetti sperati, se li darà. Il secondo è la comprensione del fatto che dovrebbe portare ad una comprensione dell’intervento. Da tempo posto articoli su tassazioni ridistributive straordinarie e diminuzioni immediata dell’orario di lavoro con ridistribuzione dello stesso. Non son le uniche ricette possibili, forse neanche le migliori, ma danno il tono di quanto dovrebbero esser fuori norma gli interventi necessari. Non si può pensare normale in tempi eccezionali. Il terzo è la sistematica rimozione della realtà. Ci vuole un massa critica importante per spingere una società ad una mossa adattiva così importante e seria, qualcosa intorno ad un 60% del corpo sociale, non certo meno. Soprattutto, faccio notare quel “una grande parte della popolazione […] dovrà affrontare un importante deterioramento degli standard di vita e significative difficoltà economiche per molti anni a venire”. C’è da riformulare il contratto sociale, cosa di non poco conto in tutta evidenza, cosa necessaria e di attualità già da tempo prima, ora con una specifica urgenza conclamata. Siamo molto lontano ed in ritardo dall’affermarsi tale consapevolezza nei grandi numeri ma, mi pare, anche nei piccoli.

Scusate per quello che a voi, una domenica di fine luglio, apparirà pessimismo ma che per me è semplice realismo consapevole. Mi sentivo di allarmare sul fatto che forse non la stiamo prendendo per il verso giusto. Anche a livello teorico, penso si dovrebbe mettere in campo più pensiero radicale concreto, non narrativo o contro-narrativo e neanche critico, la critica non cambia il reale. C’è da modificare la realtà il prima possibile in quanti più è possibile, con idee semplici e forti. Forse non ci si riuscirebbe comunque, ma sarebbe sano vederne almeno il tentativo, la discussione, ci sarebbe da provar ad imporre un dibattito pubblico più serio e tra adulti non compromessi da rimozione nevrotica della realtà. Nella misura in cui la gente pensa che questa sia la realtà, questa sarà la realtà e se questa sarà la realtà come sembra, a lungo, gli effetti saranno quelli annunciati. Toccherebbe darsi una regolata …

https://www.imf.org/en/News/Articles/2020/07/17/mcs-071720-united-states-of-america-staff-concluding-statement-of-the-2020-article-iv-mission?fbclid=IwAR2Q0TOBoyweogopmS4Sy4ZTXWbzyqW7tKM9PF3CMB7FA3dgVTmGu6AlnfA

United States of America: Staff Concluding Statement of the 2020 Article IV Mission July 17, 2020 A Concluding Statement describes the preliminary findings of IMF staff at the end of an official staff visit (or ‘mission’), in most cases to a member country. Missions are undertaken as part of reg…
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