un ministro alla sbarra, una nave in cerca di approdo_ intervista ad Augusto Sinagra

Il duello in corso tra un pool di magistrati siciliani e il Ministro dell’Interno ha segnato un altro colpo: il deferimento di Matteo Salvini per una serie di reati a partire dal sequestro di persona. Nel frattempo continua le ONG, con il loro corredo di naviglio, con uno stillicidio accurato e mirato cercano di imporre la loro rappresentazione di accoglienza. Una ulteriore occasione di sconfinamento di competenze di ambienti giudiziari negli spazi propri di azione politica di un governo. Augusti Sinagra ci offre ancora una volta il suo acuto punto di vista. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

 

Antonio Maria Rinaldi La Sovranità appartiene al popolo o allo spread?_una recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Antonio Maria Rinaldi La Sovranità appartiene al popolo o allo spread?

www.aliberticompagniaeditoriale.it, Reggio Emilia, pp. 143, € 9,90

 

Questo libro è scritto da Rinaldi in collaborazione con gli altri autori di “Scenari Economici”. Una cospicua parte del libro consiste in contributi (2015-2018) di Paolo Savona sull’euro e sulla nomina dello stesso a ministro del governo Conte. Rinaldi ricorda che “Le scuole economiche italiane, oggi, sono quasi tutte egemonizzate dai bocconiani. Mediocri e ridicoli apprendisti stregoni nel neoliberismo e del rigore. Non dimentichiamoci che questi signori ci hanno regalato Monti e il montismo”; di converso “Questo è un libro al disperato inseguimento della realtà. Disperato, perché in questo Paese sostenere temi economici e politici controcorrente rispetto al main-stream porta a essere bollati con i più svariati epiteti, nessuno dei quali lusinghiero”; malgrado ciò l’obiettivo principale degli autori “è sempre stato quello di vedere veramente attuata la Costituzione in particolare la costituzione economica … Purtroppo l’adesione “distratta” ai Trattati europei da parte di una classe politica che non ha mai compreso in pieno gli effetti di cosa stava facendo in Europa, non ha consentito che quella parte così importante e fondamentale della Carta venisse rispettata”. Poi tutto è cambiato: il pensiero conformista, prono alle élite xenodipendenti (Monti e successori) è stato ridimensionato radicalmente dalle elezioni del 4 marzo. E tesi come quella sostenuta dagli autori sono state sdoganate per decisione popolare.

Sarebbe lungo seguire gli autori nei loro brillanti articoli sui vari aspetti della questione: rinviamo il lettore al libro.

Ma su un paio di temi, generali, occorre intrattenersi.

 

Il primo è la sovranità: che appartenga al popolo è scritto nella Costituzione, tanto sbandierata quanto interpretata ad usum delphini dall’élite e dai giuristi di regime. E quindi la domanda – titolo del saggio è retorica e provocatoria. Aggiungiamo noi che un patriota (a cominciare dagli uomini del Risorgimento) l’avrebbe giudicata un raggiro dello straniero e di italiani abituati a servirlo. Ma c’è di più: dalla cultura dell’ancien regime non è stata messa da parte solo la sovranità del popolo italiano, ma lo stesso concetto di sovranità.

Quanto al primo aspetto non potendosi negare il principio dell’art. 1 (la sovranità appartiene al popolo) se ne sono implementati (dalle élite)  limiti, deroghe ed eccezioni, a cominciare dall’art. 1 stesso con l’esaltare “forme e limiti” costituzionali entro i quali il popolo esercita la sovranità, proseguendo con l’obbligo di conformarsi “alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute” (art. 10), alle limitazioni di sovranità necessarie ad una giusta pace tra le nazioni (di solito si omette di ricordare “in parità con gli altri Stati” – art. 11) e così via. Nel pensiero moderno invece, la sovranità ha il carattere di essere assoluta, cioè di non conoscere limiti, al contrario di tutti gli altri poteri pubblici (tra i tanti V. E. Orlando e Romagnosi); di consistere in un volere sopra lo Stato e il diritto (Sieyès e Von Seydel), onde Stato e diritto (comprese forme, limiti ecc. ecc.) sono tali finchè il Sovrano non esercita il potere morfopoietico abolendo, riformando, abrogando, ecc.; il diritto internazionale si regge sul principio di parità giuridica tra gli Stati par in parem non habet jurisdictionem (v. A. Gentile e Vattel tra i tanti) e così via. Tutte concezioni alla base dello jus publicum europaeum, e gelosamente occultate e ridimensionate dalle élite e dai loro giuristi.

Quanto al secondo aspetto eliminare la sovranità è come pensare di abolire la legge di gravità, o comunque una qualsivoglia legge (o fatto) di natura.

Perché significa cancellare dal mondo il presupposto del comando-obbedienza, fondamento di ogni comunità politica. Ideologie moderne (dal marxismo collassato al pluralismo all’economicismo radicale) lo credono. Ma non risulta al mondo chi vi siano comunità senza comando e senza che alcuni (o pochi) esercitino il potere su tanti. Quando non è all’interno, la sovranità, il cui nocciolo duro consiste nell’unione di un potere di fatto e di un potere di diritto, c’è dall’esterno. Il sovrano c’è (sempre), ma non è il popolo, ma qualcun altro che popolo non è (Stati, multinazionali, poteri forti, chiese): e perfino lo Spread di cui al titolo. E che teme la sovranità del popolo perché è alternativa alla propria. Come scrive Rinaldi il gruppo degli autori “ha solo sostenuto che è la Terra che gira intorno al Sole e non viceversa. Come Galileo Galilei”; hanno demolito gli idola (le derivazioni paretiane) al servizio di precisi interessi.

E se un libro come questo porterà ad un crescere della consapevolezza del dovere dei governanti di fare gli interessi della comunità politica; che la politica serve a questo e che, come scriveva Friederich List l’economia politica è quella che li persegue mentre quella di A. Smith e Say era economia cosmopolitica, il popolo italiano avrà tanto da guadagnare.

Teodoro Klitsche de la Grange

“I conquistatori”, recensione a cura di Teodoro Klitsche de la Grange_A proposito di privatizzazioni e interesse nazionale

  1. Lannutti – T. Alterio – F. Fracassi, I conquistatori, Roma, 2018, p. 176, € 15,00.

Questo è il terzo libro che gli autori dedicano alle vicende economiche del recente passato; tratta delle privatizzazioni che hanno connotato le politiche economiche di molti paesi occidentali, con riguardo – quasi esclusivo – a quelle italiane. Il giudizio è negativo; parte della tragedia del ponte Morandi, che rivelò all’opinione pubblica come la vendita di Autostrade abbia generato enormi profitti per l’acquirente-concessionario, dovuti – anche – ai risparmi sulla manutenzione delle opere.

Analizzando buona parte delle privatizzazioni la costante principale che ne ricava è che sono state assai profittevoli per gli acquirenti, ma, di conseguenza, assai poco per il venditore (lo Stato italiano nelle sue varie articolazioni).

Le notizie che si scorrono nella lettura sono in larga misura già note: il pregio del libro è averle organizzate in un tutto organico che ne rende manifesta la logica generale come i rapporti tra i protagonisti pubblici (creditori) e privati (acquirenti). Curiosamente  in Italia il maggior privatizzatore è stato il centro-sinistra (altrove sono stati i partiti di destra).

Il motivo esternato di tante (e imponenti) svendite era non tanto d’opportunità economica, ma ideologica: si voleva ridurre la presenza pubblica nell’economia perché si riteneva la mano invisibile del mercato migliore e più razionale produttrice di ricchezza.

Solo che a riprendere la teoria di un economista come Friederich List ciò che è valido per l’economia globale, può non esserlo per l’economia nazionale, ossia per le comunità umane organizzate in Stati; del pari ciò che è economicamente vantaggioso può non esserlo per l’interesse nazionale (il bonum commune) che è il fine della politica.

É il caso di ricordare che è legittimo e prevedibile che il privato operi per il proprio profitto, cioè l’interesse individuale (anzi e proprio questo il presupposto della “mano invisibile”); ma, del pari – è – o meglio dovrebbe essere – che il pubblico operi per quello pubblico. La conseguenza è che nella generalità delle situazioni c’è la necessità di bilanciare (e regolare) interesse pubblico e interessi privati, senza enfatizzare l’ “appartenenza” al settore d’attività. L’esempio di “scuola” è quello del monopolista: il quale di solito manovrando per il proprio interesse privato spesso danneggia quello pubblico, quello dei consumatori e, ovviamente la stessa dinamica concorrenziale. Non è detto quindi che, specie nell’assenza o nell’insufficienza di una regolazione appropriata e di procedure trasparenti, la mano invisibile non finisca per impinguare sempre gli stessi portafogli. Proprio quello che purtroppo è spesso capitato nelle privatizzazioni-maccheroni realizzate in Italia.

Queste sono state frequentemente caratterizzate da condizioni di grande favore per gli acquirenti. Gli autori, pagina dopo pagina mostrano che i corrispettivi di cessione erano modesti rispetto al valore delle aziende e dei beni ceduti; che spesso quanto comprato è stato rivenduto a terzi a prezzi enormemente superiori; che privatizzatori pubblici e acquirenti privati erano legati da interessi, frequentazioni, affari; frequentemente lo erano quanto meno i primi con i consulenti che avrebbero dovuto assisterli (a pagamento) nelle procedure. Inoltre “Era il 1992. Il cartello finanziario internazionale aveva messo gli occhi e le mani sul nostro Paese con la complicità e la sudditanza di una nuova classe politica imposta dal cartello stesso. Il suo compito era quello di cedere le banche e i gioielli di Stato italiani ai potentati finanziari internazionali anche attraverso il filtro di imprenditori nostrani”.

La stessa “tangentopoli” è quindi vista dagli autori in quest’ottica: occorreva delegittimare e detronizzare la vecchia classe dirigente della prima repubblica, meno incline a realizzare il piano. Manovra reiterata nel 2011, col governo Monti, dato che Berlusconi era meno disponibile a favorire gli interessi stranieri a scapito di quello nazionale, come fatto dal “governo tecnico” xenodipendente.

Nel complesso un libro interessante, documentato e che si spera, possa contribuire a un common sense del popolo italiano più consapevole dei propri interessi e meno influenzato dalle derivazioni del terzo millennio. Ossia dell’occultamento di interessi sotto la copertura di obiettivi esternati che coniugano idola a carattere economico (tecnocrazia, progresso) con  idola a carattere morale-legalitario. Quelli, come diceva Craxi, dei moralisti “un tanto al chilo”.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

 

SALVINI E I NAUFRAGI, di Augusto Sinagra

 

SALVINI E I NAUFRAGI

 

La morte di circa 120 persone al largo delle coste libiche rattrista profondamente. Il naufragio è avvenuto in zona marittima di vigilanza libica. Parlare di omissione di vigilanza e soccorso da parte italiana equivale a dire che l’Italia sarebbe responsabile di ogni naufragio nel mare Mediterraneo. O significherebbe pretendere che la Guardia Costiera italiana debba vigilare le coste di altri Stati e non quelle italiane. E senza dire che la Guardia Costiera italiana continua a portare in Italia “sedicenti” naufraghi. Con questo intendo dire che “naufrago” non è colui il quale si pone nelle intenzionali condizioni di naufragare per poi costringere altri all’obbligo di soccorrere.

Il problema è alla radice e cioè bisogna impedire le partenze. In questo senso continua ad avere pienamente ragione l’assunto del Ministro Matteo Salvini secondo il quale “meno partono e meno muoiono”. E i numeri, infatti, gli danno ragione.

Chi contesta la posizione del Ministro Matteo Salvini è chiaramente in mala fede ed è complice di scafisti e “soccorritori” ben pagati. Oltre che complice di chi sostiene l’immigrazione illimitata e illegale che ha già distrutto lo Stato italiano in tutti i sensi. Questo con la complicità del pampero argentino Giorgio Mario Bergoglio che continua a “mettere le scarpe” negli affari dello Stato italiano, oltre che a stravolgere la religione cattolica.

Non si capisce cosa aspetta un certo Moavero Milanesi (messo lì assieme a Tria e a Trenta dal figlio di Bernardo Mattarella) a convocare il Nunzio apostolico presso lo Stato italiano e consegnargli una nota di protesta per il Capo dello Stato Città del Vaticano con la quale lo si diffida a non interferire negli affari interni dello Stato italiano in violazione degli Accordi lateranensi del 1929 e del 1985.

Quanto alle vittime dei naufragi, se si vuole che cessino è ormai evidente che vi è un solo modo per impedirlo: il blocco navale delle coste libiche.

Si dirà che questo è formalmente un “atto di guerra”, ma l’Italia è in guerra contro scafisti, “soccorritori”, gestori di centri di accoglienza (compresa la Caritas), contro la finanza internazionale e contro l’Unione europea che vuole annichilire politicamente, economicamente, militarmente e, soprattutto, moralmente, il Popolo italiano privandolo di dignità, identità, storia e futuro.

Coudenhove-Kalergi, Rothschild, Rockefeller e tutta la feccia del monetarismo mondialista, non hanno vinto e non devono vincere!

AVEVA RAGIONE MARX?, di Teodoro Klitsche de la Grange

AVEVA RAGIONE MARX?

Capita di leggere che, a seguito del crollo del comunismo e del crescere del turbo-capitalismo trionfante, il divario tra ricchi e poveri, in particolare nelle democrazie “occidentali”, è aumentato: a meno ricchissimi corrispondono molti più poveri. Ciò sembra una conferma tardiva della “legge” dell’immiserimento crescente, connaturale al modo di produzione capitalistico, che Marx formula nel Capitale[1].

Come è noto tale tesi era successivamente contestata da Eduard Bernstein, il quale fece notare che le predizioni di Marx (e ancora più, dei marxisti) sull’imminente e inevitabile crollo del capitalismo non solo non si erano realizzate, ma vi erano prove evidenti che negli ultimi decenni le condizioni della classe operaia erano notevolmente migliorate sul piano (politico ed) economico.

Al contrario dell’immiserimento di masse sempre più numerose il capitalismo aveva arricchito un numero sempre maggiore di individui. Da qui la necessità non di abbattere, ma di riformare il sistema. Le tesi di Bernstein, come noto, influenzarono e furono seguite dalla prassi della maggior parte dei partiti della Seconda Internazionale.

Il teorico socialista basava le proprie tesi sull’evoluzione del capitalismo ottocentesco: la concentrazione delle aziende non aveva provocato una analoga concentrazione del capitale, ma anzi aumentava il numero dei capitalisti, cioè degli azionisti dell’impresa, dato che queste erano gestite – almeno le più grandi – quasi tutte da società per azioni, così sempre più diffondendo il capitale. L’accrescimento della ricchezza aveva, contrariamente alla tesi di Marx, non diminuito il numero dei magnati, ma aumentato quello dei capitalisti[2].

La correlativa, annunciata, scomparsa dei ceti medi non si era realizzata. A fronte di un incremento della popolazione di un terzo – nei paesi industrialmente più avanzati all’epoca – i ceti medi erano cresciuti di circa tre volte[3]. Le stesse imprese, peraltro  non erano spesso facilmente concentrabili per cui quelle di piccola o media dimensione aumentavano a dispetto delle previsioni del filosofo di Treviri.

Per cui Bernstein ne concludeva che lungi dal provocare la polarizzazione della società in due campi: capitalisti – pochissimi – e proletari – quasi tutti – destinati alla lotta (di classe e politica), la situazione reale che si configurava non era riconducibile ad uno scenario pre-rivoluzionario. Né era possibile prevedere il crollo del sistema capitalistico[4]

Col XX secolo, almeno fino al collasso del comunismo, la tesi di Bernstein, anche grazie all’influenza del movimento socialista, al “compromesso fordista”, allo Stato sociale, era confortata. Invece dell’incremento dei sempre più poveri e della riduzione degli straricchi, a crescere erano le posizioni sociali intermedie.

Col turbo-capitalismo o, come molti preferiscono chiamarlo, col neo-liberismo globalizzatore, pare sia cambiato tutto. La profezia di Marx riprende vigore e Bernstein va in soffitta. È il caso di rifletterci un po’.

  1. Prima di Marx, un acuto pensatore come de Bonald aveva intuito quanto poteva succedere. Scriveva, infatti, a proposito della funzione della nobiltà e della borghesia “È una contraddizione di cui è toccato a noi dare l’esempio, veder gli stessi uomini che chiedono a gran voce lo spezzettamento illimitato della proprietà immobiliare, favorire con tutti i mezzi la concentrazione senza freni della proprietà mobiliare o dei capitali. L’appropriazione di terre ha per forza termine. Quella del capitale mobiliare non ce l’ha, e lo stesso affarista può far commercio di tutto il mondo” (il corsivo è mio)[5].

Quindi l’alternativa che poneva il pensatore francese è netta: il proprietario di beni immobiliari trova nella natura delle cose stesse e nelle condizioni (culturali e) sociali dei limiti; quello di beni mobili, no. Sul piano semantico se ci sono limiti (per natura o per volontà) l’accrescimento non può essere, ovviamente, illimitato. La possibilità di appropriazione quindi del secondo è enormemente superiore a quella del primo. E così il potere che ne consegue. Aggiungeva de Bonald di non voler valutare il patriziato auspicato dalla de Staël “come istituzione politica, in relazione cioè alla forza e alla stabilità dello Stato; ma sotto il profilo della libertà e dell’eguaglianza, che è quello che la signora de Staël considera, e per cui la preferisce alle antiche istituzioni della monarchia francese”[6].

Anche Fichte notava che, ordinariamente, sono le costituzioni politiche a separare gli uomini [7] e che gli Stati moderni sono le “parti staccate di un tutto anteriore” (le società feudale)[8]. “L’Europa cristiana era come un tutto unico, doveva perciò il commercio degli Europei tra loro esser libero. L’applicazione allo stato presente delle cose è facile a farsi. Se tutta l’Europa cristiana con tutte le colonie aggiunte e le piazze commerciali in altre parti del mondo, è ancora un tutto unico, il commercio tra le varie parti deve restar libero come era una volta. Ma se, al contrario, essa è divisa in stati soggetti a governi diversi, essa deve parimenti esser divisa in più stati commerciali rispettivamente chiusi”. E ne concludeva “Tutti gli ordinamenti che permettono o suppongono il commercio immediato di un cittadino con quello di altro stato … sono avanzi e risultati di una costituzione da lungo tempo distrutta, elementi di un mondo passato, che più non convengono al mondo nostro”[9].

Con questo il filosofo constatava un fatto (la divisione in più Stati) e una necessità (ed auspicio): che la politica dovesse prevalere sull’economia. Ed è questa la sostanza della concezione di Fichte[10].

Come scrive Fusaro la concettualizzazione dello Stato commerciale chiuso di Fichte è “coerente reazione all’egemonia dell’utile (economico) e alla correlata soppressione dello spazio veritativo della filosofia…. Per Fichte, fedele ai principi della Rivoluzione e, ipso facto, nemico del mondo che ne è scaturito, si tratta di contrastare l’egemonia dell’utile e dell’egoismo sfrenato che ad esso si accompagna”[11].

È inutile ricordare che tra i più accaniti sostenitori della distinzione tra economia cosmopolitica (attribuita a A. Smith, J. B. Say) e economia politica (o nazionale) si trova Friedrich List[12].

La concezione del quale è ispirata alla prevalenza del bene comune delle comunità politiche su quello dell’economia globale nel suo complesso.

  1. Se è vero che le economie delle società più sviluppate hanno sofferto della globalizzazione, già prima della crisi, è anche vero che, di converso, quelle dei paesi emergenti ne hanno beneficiato.

Da una statistica – graduatoria degli Stati in base dell’incremento del PIL nel 2017 tra i primi venti (per percentuale d’incremento nell’anno) non c’è un solo paese “sviluppato”, ma ovviamente ci sono India e Cina. A parte l’Islanda e la Romania (comunque al 25° e 26° posto), i primi paesi “sviluppati” li si trova dopo il 55° posto in classifica. Tutti i primi 50, tranne Islanda e Romania, sono “paesi in via di sviluppo”. E se si va a vedere le altre annate, a partire dal crollo del comunismo, la tendenza è quella.

La conclusione è che, se all’economia globale la globalizzazione ha fatto bene, alle economie nazionali talvolta ha arrecato modesti vantaggi, talaltra no. Onde a ragionare secondo il criterio di List (e non solo), occorre conformare la politica economica all’esigenza del benessere (e alla potenza) della comunità nazionale; “mercati”, intesi nel senso corrente, non sono sempre sinonimo di ricchezza crescente. Scriveva List che l’economia cosmopolitica (quella di Smith) “guardando all’umanità e all’individuo, aveva dimenticato la nazione. Mi convinsi di due cose: la prima che era per due nazioni, entrambe sviluppate culturalmente, la libera concorrenza poteva essere benefica soltanto se ambedue si fossero trovate allo stesso grado di sviluppo industriale; la seconda che una nazione, arretrata nel campo industriale,  commerciale e della navigazione, ammesso che avesse i mezzi intellettuali e naturali per sviluppare questi rami, dovrebbe cercare da sola di mettersi in grado di sostenere la libera concorrenza con le altre più progredite. In breve: trovai la differenza tra l’economia cosmopolitica e l’economia politica”[13].

Ovviamente i tempi sono mutati dall’epoca di List, Bonald e Fichte, ma le esigenze alla base dalle concezioni dei tre – pur nelle differenze determinate dai diversi “campi” da questi esplorati  – sono uguali: e che la politica e il bene comune della comunità che questa deve perseguire – deve prevalere sul bene “globale”; e che sia funzione del potere politico quanto meno, introdurre dei correttivi – dei  temperamenti – che concilino gli interessi nazionali con quelli internazionali: le nazioni con l’umanità. La nazione non è l’umanità; i diritti dell’uomo non sono quelli del cittadino; il modo d’esistenza delle comunità è il proprium di ciascuna con i valori cui si ispira (e non è, in larga parte, misurabile).

  1. Tornando alla profezia di Marx, questa è stata falsificata perché comunque l’immiserimento crescente non si è verificato. Tuttavia a ridimensionarla, non è totalmente errata. Ciò per due ragioni: la prima perché contribuisce a una valutazione (realistica); non è detto che ad un’economia (senza limiti e) globalizzata corrisponda una ricchezza crescente per tutti (o quasi tutti). Come in altri tempi la prosperità della Gran Bretagna era (anche) l’altra faccia della miseria dei coolies indiani e cinesi, così oggigiorno al crescente benessere di certi popoli corrisponde un diminuito (o stagnante) benessere di altri. La seconda è che la politica ha corretto l’economia, frenandone (spesso ma non sempre) le conseguenze meno desiderabili. In fondo allo straordinario sviluppo economico del XX secolo ha contribuito in modo determinante il compromesso fordista e le (varie) “terze vie” con le quali si è cercato – riuscendoci – non solo di relativizzare e neutralizzare politicamente il conflitto borghesia/proletariato ma anche di aumentare il benessere e diffonderlo tra masse sempre più numerose. Così integrandole nello “stato sociale”, ovvero nel “secondo tempo” delle democrazie liberali.

Infine appare teoricamente – e praticamente, almeno in parte, realizzato – che la ricchezza mobiliare, in particolare quella (dell’intermediazione) finanziaria e commerciale può crescere in misura enormemente superiore sia a quella del settore primario che, ancorché meno intensamente, anche a quella dell’imprenditoria industriale. E le ragioni per limitare l’accrescimento di potere – e anche la diminuzione di libertà – di quella e i pericoli che comporta per lo Stato borghese – e per i principi di libertà ed uguaglianza, sono evidenti.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] “Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce la massa della miseria, dell’asservimento, della degenerazione, dello sfruttamento, ma cresce anche la ribellione della classe operaia che sempre più s’ingrossa ed è disciplinata, unita e organizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzione capitalistico” Marx, il capitale, Libro I, “Tendenza storica dell’accumulazione capitalistica”

 

[2] v. “La forma della società per azioni agisce, in larga misura, in senso contrario alla tendenza alla centralizzazione dei capitali attraverso la centralizzazione delle aziende. Essa permette un vasto frazionamento di capitali già concentrati, e rende superflua l’appropriazione di capitali da parte di singoli magnati allo scopo di concentrare le imprese industriali”. I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, (trad. it. Bari 1974 p. 87.

[3] V. per i dati precisi Bernstein op. cit. p. 89; per cui concludeva “È dunque assolutamente falso ritenere che l’attuale sviluppo indichi una relativa o addirittura assoluta diminuzione  del numero dei possidenti. Il numero dei possidenti aumenta non «più o meno», ma semplicemente più, ossia in senso assoluto e in senso relativo” (il corsivo è mio).

[4] V. “Se la società fosse costituita o si fosse sviluppata secondo le ipotesi tradizionali della dottrina socialista, il crollo economico sarebbe soltanto una questione di breve periodo. Ma come vediamo non è così. Ben lungi dall’essersi semplificata rispetto a quella precdente, la struttura della società si è in larga misura graduata e differenziata, sia per quanto concerne il livello dei redditi sia per quanto concerne le attività professionali” (op. cit. p. 91.

[5] E proseguiva “Ma il lusso segue dappresso la ricchezza, il mercante arricchito poco pressato a vendere, alza il prezzo della propria merce, e costringe così il consumatore a pagare i lussi della Signora e del Signore. Questa è una delle ragioni del rialzo dei prezzi delle derrate in Inghilterra, nei Paesi Bassi e anche in Francia, e dovunque il commercio non ha altro fine che il commercio e dove i milioni chiamano e producono altri milioni.

I grandi patrimoni immobiliari fanno inclinare lo Stato verso l’aristocrazia, ma le grandi ricchezze mobiliari lo portano alla democrazia; e gli arricchiti, divenuti padroni dello stato, comprano il potere a buon mercato da coloro cui vendono assai cari zucchero e caffè” V. Observations sur l’ouvrage de M.me la Barone de Staël …” trad. it. La Costituzione come esistenza, Roma 1985, pp. 43 – 44.

[6] V. op. loc. cit. p. 45.

[7] v. Lo Stato secondo ragione, trad. it. Milano 1909 p. 68.

[8] e prosegue “Durante l’unità dell’Europa cristiana si è formato, tra le altre cose, anche il sistema commerciale, che dura, almeno ne’ suoi tratti fondamentali, fino ad oggi” op. cit., p. 69.

[9] Op. cit. p.71

[10] “… è in questo: che lo stato si chiuda completamente ad ogni commercio coll’estero, e formi d’ora in poi un corpo commerciale così separato, come finora ha formato un separato corpo giuridico e politico”, op. cit. p. 98.

[11] e, poco dopo, afferma “in un’epoca di “compiuta peccaminosità” e di egoismo universale, diventa necessario l’intervento massiccio di uno Stato “commerciale chiuso” che sappia opporsi al cosmopolitismo utilitaristico del mercato e al codice individualistico su cui esso si regge, per far valere l’istanza morale di un comunitarismo solidale nell’epoca della “compiuta peccaminosità” v. L’aporia dello Stato in Fichte, GCSI – Anno 3, numero 5, pp. 122-123.

[12] Il quale, tra l’altro, riteneva che “Tutti gli esempi che la storia ci può presentare dimostrano che l’unione politica ha preceduto l’unione commerciale. Non si conosce nessun esempio dove sia avvenuto il contrario. Ci sono però dei motivi molto forti, e secondo la nostra opinione incontestabili, per far presumere che, nelle attuali condizioni mondiali, la libertà commerciale universale non porterebbe ad una repubblica universale, ma alla universale soggezione delle nazioni meno progredite alla supremazia della potenza preponderante nell’industria, nel commercio e nella navigazione…  l’economia nazionale si presenta come quella scienza che, tenendo conto degli interessi esistenti e delle condizioni particolari delle nazioni, insegna in che modo ogni singola nazione possa essere elevata a quel grado di sviluppo economico giunta al quale l’unione con le altre nazioni ugualmente progredite, – e quindi la libertà di commercio – le risulterà possibile e vantaggiosa. La scuola, però, ha confuso fra di loro le due idee; ha commesso il grave errore di giudicare le condizioni delle nazioni secondo i principi cosmopolitici e di disconoscere, per ragioni politiche, la tendenza cosmopolitica delle forze produttive”, v. F. List Il sistema nazionale di economia politica 8° cura di G. Mori) trad. it. Milano 1972

[13] Op. cit., Prefazione, p. 4.

L’EPICENTRO DELL’EUROPA, di Pierluigi Fagan

tratto da Facebook https://www.facebook.com/pierluigi.fagan/posts/10216883739541348

TRATTATO DI AQUISGRANA. Il prossimo 22, Merkel e Macron, firmeranno il trattato di Aquisgrana che aggiorna e rilancia l’asse stabilito con il trattato dell’Eliseo del 1963, a suo tempo firmato da De Gaulle ed Adenauer, già riconfermato e rinforzato dall’accordo Mitterand e Kohl del 1988 da cui l’UE e l’euro.

Questa sottile linea rossa nel tempo, verrà intersecata dalla sottile linea rossa dello spazio. Aquisgrana, infatti, è città di confine tra i due Paesi, oltre ad essere stata in passato capitale dei Merovingi, sede principale dell’inquieto Carlo Magno e sede di incoronazione di ben 37 imperatori del Sacro Romano Impero. In realtà, Aquisgrana non è proprio al confine con la Francia ma perfettamente incastonata alla giunzione tra Belgio, Olanda e Germania, poco sopra il Lussemburgo e a 40 km da Maastricht. Siamo dunque nel cuore del cuore del motore storico dei tentativi di superare lo stato-nazionalismo europeo che aveva portato al doppio conflitto bellico della prima metà del Novecento. Quella CECA (1951) promossa da belgi, olandesi, lussemburghesi che, terrorizzati di trovarsi in mezzo ai due giganti che si erano fatti ben sette guerre nel precedente secolo e mezzo, convinsero i francesi a tender la mano ai rivali germanici stremati e paralizzati dal peso della tremenda e mefistofelica eredità prussiano-nazista. L’Italia di De Gasperi venne invitata ad aggiungersi per ragioni cosmetiche, come far sembrare continentale un processo che riguardava specificatamente solo questa problematica parte dello spazio geo-storico che si chiama Europa.

Nel tanto vociare che si fa sull’Unione europea, fa specie proprio la mancanza di storici che ricordino le radici lunghe dei processi di cui vediamo il finale affioramento. Seppelliti da analisi monetariste, econometriche, ricostruzioni sul pensiero neoliberale, riviscenza della teoria delle élite ed altre letture last minute in cui si riflettono su i fatti i presupposti che fondano singoli sguardi conoscitivi trovando magicamente corrispondenza tra questi ed i fatti stessi, la ragione geo-storica non trova posto. Non essendo di moda, rimane inutilizzata. Peccato perché invece si mostra palesemente come sia questa ad ordinare il processo: gli interessi dei popoli (gli interessi di quei popoli nella specifica interpretazione che ne hanno dato le loro élite, ovvio) che da più di 15 secoli abitano quella zona, popoli poi formalizzati in nazioni ma di origine, abitanti quello che è un continuum geografico. Ciò che deriva da questa storia di lunga durata, arriva infine a spiegare l’essenza dell’Unione europea e dell’euro stesso, il sospettoso darsi la mano tra i due storici rivali mentre le ancelle che stanno in mezzo spargono essenze di gelsomino per celebrare.

Per questo chi scrive, si ostina periodicamente a riproporre l’idea di una Unione latino-mediterranea (idea nata da un francese, per quanto di origine russa), strappare la Francia a quell’abbraccio e metterla nel suo altro contesto antropo-storico, opponendo alle origine franche quelle gallo-celtiche-cattolico romane. Doppia identità che è intrinseca all’identità francese, contraddizione da sfruttare per noi italiani altrimenti condannati a vivere accanto ad un sistema che ancorché oggi frazionato in stati diversi, in prospettiva potrà contare su 180 milioni di individui per un Pil teorico oggi di 7mila mld di US$, terzo soggetto economico planetario. Ma è predicare nel deserto, logica aliena, ragionamento incomprensibile per chi ragione in termini monetari, economici, di fatti politici evenemenziali.

A gli italiani val bene invece scoprire il “sovranismo” o sbavare alla finestra per esser invitati come valletti a questa partouze agghindata da premessa dei finti ed impossibili Stati Uniti d’Europa. Ci ritroveremo o servi loro o servi dei loro nemici, britannici, americani, russi. Ad Arlecchino del resto, si pone sempre e solo la scelta di quale padrone servire, dal tempo dei Romani, per “noi” non si rinviene altra alternativa.

“Approfondire e sviluppare ulteriormente la collaborazione economica, sociale, politica, culturale e tecnologica, climatico ed ambientale” il contenuto del trattato secondo il portavoce del governo tedesco S. Seibert. Siamo all’inseminazione in vitro dei reciproci DNA stato-nazionali. C’è da dire che i due più recenti interpreti del decennale processo, Merkel e Macron, non sono certo all’apice della loro forza e legittimità, ma qui gli interpreti contano fino ad un certo punto, contano di più le élite alle loro fondamenta. E quelle élite che fanno il cuore della ricchezza europea, ben sanno dei loro interessi e ben sanno che navigare nei procellosi mari dell’era complessa senza una strategia di lungo corso, equivale ad andare a schiantarsi. Strategia, quella forma di pensiero ad idee incatenate tra loro che fonda la filosofia politica proprio qui da noi con Machiavelli. Avremmo potuto e dovuto rivendicare nei fatti questa ben più nobile discendenza, abbiamo invece preferito quella della Commedia dell’Arte che nacque proprio alla morte del fiorentino.

[Evitate i rimbrotti sulla coazione auto-denigratoria che offende l’italico orgoglio. Sottolineare la mancanza di statura strategica del pensiero italiano non è lesa maestà, è realistica auto-critica. Del resto se i giganti del nostro pensiero politico attuale sul tema sono i Calenda ed i Bagnai, i Borghi e le Bonino, abbiamo ben poco da offenderci.]

nuovi paradigmi della sinistra del socialismo, con Andrea Zhok

Italia e il mondo continua ad offrire il proprio spazio a quelle forze e personalità che puntano a superare l’impostazione economicistica dell’azione politica; che cercano quindi di valorizzare la funzione della cooperazione, confronto e del conflitto tra centri politici nei vari ambiti della società. Attraverso questo percorso diventa essenziale la ricollocazione nella società e nell’agone politico del ruolo dello stato , l’analisi delle sue dinamiche interne e la funzione che svolgono i processi identitari  nelle forme particolari di coesione delle formazioni sociali. Con questa intervista Andrea Zhok ci offre il suo punto di vista partendo da un’area politica che sino a non molto tempo fa sembrava avulsa da questi contenuti. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

Sulla “globalizzazione”: una recensione di Teodoro Klitsche de la Grange al libro di Carlo Calenda

Sulla “globalizzazione”: una recensione di Teodoro Klitsche de la Grange al libro di Carlo Calenda

Carlo CalendaOrizzonti selvaggi, Feltrinelli, Milano 2018, pp. 216, € 16,00.

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Il saggio di Calenda è una riflessione sulla globalizzazione e sull’antagonista da esso generato, ossia il populismo. Al contrario di altri, critica gli eccessi della globalizzazione, con la conseguenza che ha indotto. Scrive l’autore che nel ventennio tra il 1989 (caduta del muro di Berlino) e il 2008 (inizio della crisi) si è avuta una separazione tra politica e potere “La separazione tra politica e potere deriva da errori interni alla politica, ma è anche un frutto guasto della prima fase della globalizzazione e dell’ideologia che l’ha ispirata. La politica deve tornare ad avere il potere di indirizzare gli eventi a partire dall’oggi… La ricerca della rappresentanza è stata sostituita dalla retorica della competenza. La tecnica ha sostituito il pensiero politico e poi la politica stessa”. Si è rotta la relazione di fiducia tra i cittadini e la classe dirigente “Questa frattura si è allargata rapidamente, poi nel 2008 la prima fase della globalizzazione si è chiusa, traumaticamente e i suoi dogmi sono crollati, insieme al progetto egemonico dell’Occidente iniziato nell’89”.

L’ “ideologia del potere”, cioè il progresso non è più creduta dalle masse. È la paura del presente su cui insistono le forze populiste a determinare la loro ascesa “I populisti prevalgono, pur rimanendo inconsistenti sul piano delle proposte, perché riconoscono le paure contemporanee, mentre i progressisti hanno venduto e continuano a vendere le meraviglie di un futuro lontano”.

A differenza di altri, pregio di questo libro è di fare l’autocritica (dei favorevoli alla globalizzazione) e di riflettere sulle cause di una decadenza, specie in Italia assai accelerata dalla vecchia élite e dal sistema politico da essa costituito.

L’autore ricorda i dieci fallimenti del “progetto egemonico dell’Occidente” indotto dalla globalizzazione: il lavoro che è diventato una commodity, l’iniquità della distribuzione del carico fiscale, la sregolarizzazione della finanza, l’insostenibilità del modello di sviluppo (ed altri). Ma anche i successi: il progresso economico dei paesi in via di sviluppo (è il dato più favorevole) la diminuzione dei prezzi nei paesi sviluppati (sul che ci sarebbe da discutere) le istituzioni digovernance internazionale.

Il populismo, di converso rifiuta l’ipotesi tecnocratica e “ha ridato centralità all’oggi ma soprattutto alla rappresentanza contro la retorica della competenza”, mentre “le classi dirigenti liberali hanno pensato di poter sostituire la rappresentanza con la competenza per un trentennio, in forza del fatto che il pensiero liberale era l’unica “narrazione globale” sopravvissuta, compito della politica era esclusivamente applicare tecnicamente i principi di questo pensiero”. Ma “la democrazia non si fonda sul cv, ma sulla rappresentanza, e le elezioni non sono un colloquio di lavoro. La rappresentanza non dipende dalla competenza tecnica ma dalla capacità di essere in contatto con la società”. Peraltro il tutto, nella migliore delle ipotesi, ha provocato uno iato tra efficienza e giustizia; ma “la mancanza di etica nel capitalismo contemporaneo è una delle cause fondamentali della sua crisi di reputazione”. L’ideologia della globalizzazione ha favorito ildumping da parte della Cina “L’industria dell’acciaio è stata distrutta dalla competizione scorretta cinese dovuta a una sovrapproduzione largamente incentivata dallo Stato in barba a ogni norma del Wto”. L’antagonista sovran-populista ha soprattutto sfruttato la paura provocata dalla crisi, dalla migrazione e dalla “revisione” dello Stato sociale; d’altra parte, scrive – a ragione – Calenda, la sinistra ha perso il contatto con la propria base “Un caso esemplificativo della mancanza di qualsiasi riflessione sulle ragioni della sconfitta è quello della manifestazione che il Pd ha deciso di dedicare “all’Italia che non ha paura”. Vale a dire ai vincenti, gli unici che infatti continuano a votarlo. Non sono un appassionato di distinzioni tra destra e sinistra ma una cosa mi è chiara: la sinistra nasce per difendere chi ha paura, non per allontanarlo. Qualsiasi nuovo progetto politico che abbia l’ambizione di diventare maggioranza deve partire da qui: dare rappresentanza all’Italia che ha paura”. Il progetto politico proposto è “aperto”: “Le linee di demarcazione tra destra e sinistra si sono spostate. La vera discriminante oggi è tra chi vuole rinnovare la democrazia liberale mantenendone i valori di fondo e chi invece vuole sostituirla con una democrazia illiberale, infetta e manipolata”. In altri termini il nascente “partito globalista”.

Questo libro ha due pregi, che sono anche due difetti: tiene conto che è cambiato il contenuto dell’opposizione amico/nemico, per cui riproporre la vecchia scriminante del secolo breve, ossia borghese/proletario è inutile e politicamente debole. Se il comunismo dal 1991 è stato collocato nell’archivio della Storia, è inutile combatterci contro. Tuttavia, specie in Italia, la lentezza delle classi dirigenti, ma quella di centrosinistra ancor più che quella di centrodestra, nel valutare la nuova situazione, rende problematico recuperare il (troppo) tempo perduto.

Dall’altra la seconda componente fondamentale del successo del populismo, già sottolineato negli anni ’90 del XX secolo, tra gli altri, da Lasch e Paul Piccone, e cioè la frattura tra popolo ed élite che non condividono più l’ethos delle masse, così che “si sono estraniate totalmente dalla vita comune” (Lasch), appare altrettanto forse più difficile da superare. Il rigetto dell’elettorato nei confronti dell’ “ancien régime”, specie in Italia e così esteso e diffuso che anche una radicale rottamazione potrebbe non bastare.

Anche perché molti delle “nuove leve” condividono (gran parte degli) errori e degli idola delle vecchie volpi, almeno di quelle della “seconda Repubblica”. Comunque, malgrado la strada in salita, il percorso di Calenda è nella direzione giusta. Auguri.

Teodoro Klitsche de la Grange

Lo spionaggio economico: un’antica arte nata in Italia, di Giuseppe Gagliano

https://www.ilprimatonazionale.it/cultura/spionaggio-economico-antica-arte-nata-in-italia-100119/

Roma, 6 gen – Dal punto di vista storico nel corso del medioevo spetta certamente ai paesi mediterranei, ed in particolare all’Italia, il merito di avere travalicato gli avamposti asiatici sulle sponde del Mar Nero, in Siria e in Terrasanta. L’opera di predicazione dei mis.sionari non impedì loro di osservare e di svolgere una collaterale azione diplomatica e di spionaggio economico ragguagliando i propri committenti – ora papi ora sovrani – sulla presenza di determinati prodotti nelle piazze mercantili, sulle condizioni delle strade e sulle città lungo le piste carovaniere. Alle spalle dei più avventurosi viaggi di mercatura durante il medioevo ci furono spesso importanti compagnie commerciali e talora cancellerie degli Stati che avevano bisogno di informazioni strategiche sia in ambito strettamente economico che in ambito militare.

A questo proposito pensiamo al viaggio commissionato da Papa Innocenzo IV nel 1245 al francescano Giovanni del Carpine allo scopo di studiare – fra l’ altro – la strategia e la tattica militare dei mongoli (viaggio che si concretizzerà in un’opera composta nel 1247 dal titolo Storia dei mongoli). Oppure pensiamo al viaggio fatto dal francescano Odorico da Pordenone, attorno al 1318, in direzione di Costantinopoli – partendo da Venezia – grazie al quale sarà in grado di fornire un prezioso quanto preciso elenco di merci, di prodotti esotici e di spezie che troverà nei paesi orientali (dalla manna della Caldea al pepe di Malabar, dallo zenzero di Ceylon alla canfora e alla noce moscata dell’isola di Giava). Un’altra fonte preziosa di informazioni sia economiche che di natura politica furono quelle date dal mercante Nicolò de’ Conti a Papa Eugenio IV nel 1400 relative ai suoi 25 anni di viaggio tra Damasco, India e Sumatra.

Un altro illuminante esempio di “spionaggio medievale” ci viene offerto dal mercante di pietre preziose veneziano Cesare Federici che, intorno alla seconda metà del 1500, avrà modo di viaggiare a Baghdad e in India. In particolar modo descriverà, con estrema accuratezza, i movimenti commerciali dei porti indiani e degli empori sia di Ceylon che dell’arcipelago malese. Inoltre, dato l’interesse specifico per le pietre preziose, sarà in grado di redigere un vera e propria carta geografica delle pietre presenti sia a Delhi sia a Giava.

Tuttavia, a partire dal 1500, la presenza italiana ed in particolare quella veneziana, genovese e fiorentina, verrà profondamente ridimensionata a causa del dominio delle grandi potenze nazionali come la Spagna e il Portogallo in un primo momento e in un secondo momento a causa della spietata guerra economica tra le compagnie olandesi ed inglesi come d’altronde avranno modo di testimoniare sia il mercante Filippo Sassetti verso il 1578 che il mercante fiorentino Francesco Carletti nel 1602.

Ieri – come oggi – cercando di semplificare l’assenza di una politica statale di lungo respiro (quando non addirittura l’assenza dello stato in quanto tale), di una politica di potenza e l’assenza di una sinergia (certo contraddittoria e complessa) tra soggetti statali e attori economici privati saranno alcune delle cause che determineranno il tramonto delle potenze marinare italiane più propense a farsi guerra tra di loro che ad avere una politica comune come accade oggi nel contesto europeo.

Giuseppe Gagliano

INTERVISTA A MACHIAVELLI SUL POPULISMO, di Teodoro Klitsche de la Grange

INTERVISTA A MACHIAVELLI SUL POPULISMO

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L’Italia è tornata ad essere laboratorio politico. Media, giornalisti, insegnanti d’università e di liceo, blogger, filosofi, banchieri, scienziati ed altri s’interrogano sul populismo e sul perché il nostro sia il primo paese europeo occidentale ad essere governato da un bicolore popul-sovran-identitario. Certezze scosse e novità impreviste rendono inutili strumenti (ed autori) usuali fino a pochi anni fa. Dato il carattere di svolta e novità epocale, abbiamo provato a chiedere lumi a Niccolò Machiavelli. Il quale ci ha gentilmente concesso questo colloquio.

Qual è la principale causa del successo populista?

Gli è che tutti i reggimenti politici sono come gli uomini: nascono, crescono, decadono e muoiono.

Il vostro reggimento, nato da una sconfitta militare, e con una classe divenuta dirigente “per grazia di chi lo concede” (il potere) è durato tanto: segno che quei governanti, divenuti tali per fortuna, non erano scarsi d’ “ingegno e virtù”. Ma col passare dei decenni l’uno e l’altro si sono consunti. I nipoti di quei vecchi, ossia i governanti di quella che chiamate la seconda repubblica, non potevano ereditare “ingegno e virtù” né comprarli al mercato.

Quindi i populisti vincono per demerito degli altri?

Non so se quanto per demerito o per il decorso del ciclo politico (nascita, crescita, decadenza, fine). Sicuramente un po’ per assenza di ingegno e virtù, un po’ per tale “regolarità” politica.

E perché nessuno ne parla?

Non sia ingenuo. Parlare della propria assenza di virtù è come ammettere di essere inadatto a governare da una parte; dall’altra sminuire i propri meriti di vincitori. Quanto al ciclo politico, tale idea è contraria a quella di progresso sulla quale le vecchie elite avevano costruito la propria fortuna. Ammettere che non avevano la ricetta per realizzarle le “magnifiche sorti e progressive”, è confessarsi dei Dulcamara, ricchi di parole e poveri d’ingegno. Per gli altri vale sempre il discorso sui loro meriti; che non sono gli stessi se dipendono da quella regolarità. Seneca scriveva volentem ducunt fata, nolentem trahunt: ma se è il fato a decidere, loro di che possono vantarsi?

Gli sfrattati dal governo dicono che quello populista durerà poco. Che ci può dire?

Che questi ragazzi (Salvini, Di Maio) non sono grulli! Forse non mi hanno letto ma hanno capito. Come ho scritto, quando qualcuno conquista il potere “con il favore degli altri suoi cittadini” e questi quel favore ce l’hanno perché hanno vinto le elezioni, l’essenziale è non inimicarsi il popolo: non hanno ottenuto il potere col “favore dei grandi” ma con quello del popolo e “debbe pertanto uno che diventi principe”, “mantenerselo amico”.

Ciò è facile, perché gli basta non opprimerlo. E così sarà sostenuto dal popolo anche nelle avversità, come quelle in cui vi trovate. Avendolo i loro predecessori oppresso, caricato di tasse e privato di risorse, non gli è difficile, con poco, far capire che la musica è cambiata.

Che ne pensa a proposito delle tasse degli italiani?

I predecessori non avevano capito che i cittadini possono perdonare o meglio sopportare governanti che gli hanno ammazzato il padre o il fratello, ma non perdonano né dimenticano chi gli ha tolto la roba. Quelli credevano di imbrogliarli con discorsi commoventi, ma alla lunga non hanno retto.

Ma i vecchi governanti distribuivano quanto prelevato. Non è così?

Se anche lo fosse – e non lo è o non lo è del tutto – hanno trascurato che un principe può essere liberale quando spende denaro d’altri, ma non quando distribuisce quello proprio o dei propri sudditi. Chi lo vota non lo dimentica. E c’è altro.

Che cosa?

I vecchi governanti contavano troppo di tenersi su col favore dei grandi più che del popolo. Grandi che sono alemani, francesi ed altro. Hanno persino dato la fiducia – loro eletti dal popolo – ad un governo di persone mai elette neanche in un condominio, ma graditi ai grandi. I quali hanno governato di guisa da non scontentare quelli (dal cui favore dipendevano), ma dispiacendo il popolo. Hanno dimenticato che quando si governa con i grandi, che sono – almeno – pari a loro, questi non si possono “comandare né maneggiare a suo modo”. E infatti, i grandi li hanno aiutati poco o punto, quando ne avevano necessità.

Non è che i vecchi pensavano di poter persuadere il popolo della bontà della loro politica?

Si può governare con due mezzi: la forza del leone o l’astuzia della volpe. Ma non si può credere che, ripetendo le stesse cose per anni, e con risultati coì modesti tutti potessero essere abbindolati per sempre credendo a quei ritornelli. A volte capita, come a Messer Nicia “Quanto felice sia ciascun sel vede/chi nasce sciocco ed ogni cosa crede”. Ma si trattava di uno e non di tutti. E lo stesso Messer Nicia era vittima dei raggiri di Ligurio in quell’occasione specifica. Questi pretendevano di andare avanti per sempre e con tutti, con le loro azioni buoniste.

E se le cose fossero andate bene, forse queste astuzie sarebbero state utili. Orazioni e cerimonie lo sono, quando c’è tempo buono “ma non sia alcun dì sì poco cervello/ che creda, se la cosa sua ruina che Dio lo salvi senz’altro puntello/ perché morrà sotto quella ruina”. Cosa, per l’appunto, loro capitato con la crisi.

In definitiva cosa consiglia ai nuovi governanti?

Di tenersi stretto il popolo, perché non possono contare – o possono poco – sul favore dei grandi.

Non pensa che alemani ed altri possono profittare della divisione degli italiani? E far cadere il governo?

Di sicuro: e dividere i nemici è la prima regola per il successo della lotta. Ma attenzione: “la cagione della disunione delle repubbliche … è l’ozio o la pace, la cagione della unione è la paura e la guerra”. A minacciare sempre spread, sanzioni ed altro, il consenso del popolo al governo viene ad essere rafforzato. Come capitato nella guerra tra Roma e Veio.

La ringrazio. Mi concederà un’altra intervista?

Certo. Sa qui sto bene come a S. Casciano tra una briscola e una scopetta con i beati. Ma son tutti così buoni! E io mi annoio un po’. Meglio così tornare di quando in quando con i viventi, tutti intenti a sporcarsi le mani con la politica.

Teodoro Klitsche de la Grange

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