La proposta di trattato russo Di: George Friedman

Qui sotto un importante articolo di George Friedman per tema la proposta di trattato russo offerta agli Stati Uniti e alla NATO e i due testi inviati il 15 dicembre dal Ministro degli Esteri Russo.

La proposta, apparentemente e semplicisticamente, può essere interpretata come un atto propagandistico, pur di rilievo; destinato in fondo nel peggiore dei casi a rimanere un episodio di quel confronto mediatico e propagandistico con scarse implicazioni dirette nella dinamica dei rapporti diplomatici e del confronto multipolare. Una impressione suffragata dall’accoglienza distratta offerta dai media italiani, dalla sufficienza che traspare dalle penne più o meno illustri, comunque scontatamente ossequiose e dall’assenza al momento di valutazioni da parte delle maggiori riviste di approfondimento di geopolitica del mondo occidentale; probabilmente un tentativo di lasciar scivolare nell’indifferenza il passo diplomatico.

In realtà è insolito, di fatto irrituale, il fatto che il testo di una proposta di trattato, specie di questa importanza strategica, sia pubblicizzato dalla parte proponente prima di essere quantomeno valutato e discusso, sondato nei normali canali diplomatici.

Rappresenta piuttosto l’indizio della drammaticità crescente dello stato delle relazioni diplomatiche tra due dei tre principali attori geopolitici, gli Stati Uniti e la Russia, in un contesto internazionale sempre più inquieto ed affollato di nuovi protagonisti. Un modo, probabilmente, di far uscire allo scoperto la controparte da una tattica strisciante di avvolgimento o di gettare il cuore oltre l’ostacolo.

Colpisce, pertanto, il diverso atteggiamento delle due parti in causa.

I primi impegnati da oltre trent’anni in una politica di accerchiamento e pericoloso avvicinamento al cuore della nazione russa una volta fallito il tentativo di destabilizzazione, disgregazione e predazione interna di quel paese, ma con una opinione pubblica ancora del tutto impreparata a sostenere i costi ed i rischi di una politica così espansiva ed aggressiva. Una condotta che ha fatto strame degli impegni e delle garanzie di neutralità dei paesi sganciatisi dal Patto di Varsavia concordate con Gorbaciov, del principio di integrità degli stati scaturiti dalla dissoluzione del blocco sovietico nel momento stesso in cui se ne chiede il rispetto per alcuni di essi, in particolare la Georgia e soprattutto l’Ucraina; un indirizzo, una condotta stridente con i proclami di rispetto dei diritti delle minoranze, tanto cari alla UE e agli Stati Uniti, tranne quando, nella fattispecie, queste siano costituite dalle popolazioni russe rimaste prigioniere, senza praticamente diritto di cittadinanza, degli stati sorti dalla divisione amministrativa della Unione Sovietica, disegnata per altri fini politici. Una condotta portata alle estreme conseguenze con il colpo di stato in Ucraina del 2014, lo smacco più cocente della presidenza di Putin. Un processo niente affatto lineare con diversi sgradevoli imprevisti nel carniere: lo smacco in Georgia, la relativa autonomia ed indipendenza acquisita dalla Turchia nei confronti della NATO ed il suo inedito rapporto di collaborazione conflittuale con la Russia, sancito dal recente avvicinamento con l’Armenia, sostitutivo di quello apertamente ostile del secolo passato. Un atteggiamento e una inerzia che impedisce, al momento, di giocare la carta dell’Ucraina per sganciare la Russia dalla Cina, ma con grave smacco dei centri euroorientali ed in parte tedeschi e scandinavi in grado di lucrare notevolmente sulla postura russofoba.

I secondi impegnati con maggior successo in una politica, comunque, ancora di contenimento, una volta superata definitivamente l’illusione della possibilità di integrazione nell’area occidentale su basi più paritarie e non di mera resa.

Difficile però interpretarne le motivazioni determinanti.

Potrebbe essere un gesto obbligato, al limite della disperazione, teso ad interrompere in qualche maniera il processo di logoramento e arretramento e a portare allo scontro in una situazione meno sfavorevole.

Potrebbe al contrario essere un gesto calcolato in un contesto molto più aperto ed incerto. Gli ultimi otto mesi sono stati ricchi di episodi salienti:

  • l’assemblea primaverile della NATO che ha sancito un dualismo di indirizzi, con i paesi dell’Europa Orientale impegnati sul fronte russo e quelli dell’Europa Centro-Occidentale adibiti a retrovia e dirottati verso il Pacifico e l’Africa Mediterranea
  • l’avvento di un governo tedesco più filoamericano che renderà più stridente la contradizione tra l’allineamento geopolitico e la relativa autonomia geoeconomica di quel paese; in trepidante attesa di quello che potrà avvenire l’anno prossimo in Francia. Non a caso l’acceso confronto elettorale  transalpino sia già finito sotto il mirino delle due fazioni americane
  • lo stallo diplomatico evidenziato dal colloquio tra Biden e Putin
  • il crescente sodalizio tra Russia e Cina, sancito dall’ultimo colloquio tra Putin e Xi Jin Ping, tenutosi appena prima della proposta russa di trattato e sempre più sostenuto dall’incapacità americana di scegliersi coerentemente l’avversario principale, pur avendolo individuato
  • l’emergere definitivo nello scacchiere asiatico di stati in grado non solo di partecipare a sistemi di alleanze preconfezionate, ma di condizionare pesantemente le azioni e gli indirizzi dei tre paesi più importanti dal punto di vista economico e militare
  • soprattutto l’esito dell’intervento americano in Afghanistan e in particolare le modalità di gestione del ritiro e del dopo-intervento in quell’area, con il corollario della crescente e profonda avversione all’interventismo nella popolazione, ma anche tra gli stessi militari statunitensi

Non sarà semplice affogare da parte americana l’iniziativa nelle tattiche dilatorie tese a procrastinare i comportamenti di questi ultimi trenta anni.

Il passo diplomatico russo è destinato dunque a mettere a nudo la reale consistenza di queste dinamiche. Ad evidenziare in particolare che la carta più importante in mano alla attuale gruppo dirigente di avventurieri statunitensi rimane la possibilità di fomentare conflitti con truppe di terzi sul terreno, in questo caso europee. Non solo! Potrebbe dare una grande spinta ad un chiarimento definitivo nello scontro politico in corso da anni negli Stati Uniti che ha per oggetto la natura dei rapporti con la Russia e le modalità di scontro e conflitto con la Cina. L’esito delle presidenziali americane di un anno fa parevano aver segnato l’epilogo definitivo di una guerra. Si è rivelato l’esito mal riuscito di una battaglia di un gruppo dirigente incapace di dare coerenza politica ai propri proclami e di creare la coesione interna necessaria e indispensabile all’esercizio di potenza e di influenza esterna, dibattuto com’è nel suo proposito insopprimibile di egemonia mondiale e di guida predestinata. Il terreno di coltura di colpi di mano incontrollati e dall’esito catastrofico del quale l’Ucraina è senz’altro uno dei focolai più pericolosi. Putin conta su una sola certezza: sa benissimo chi è l’interlocutore con il quale trattare dei problemi del continente europeo. Il rumore dei grandi assenti tra i destinatari del documento è nelle orecchie di chi vuol sentire. Dalla sua gioca il fatto che due punti caldi nel mondo (Taiwan e Ucraina) sono troppi anche per la più grande potenza militare, al netto di giochi di corridoio_Buona lettura, Giuseppe Germinario

La proposta di trattato russo

Di: George Friedman

Abbiamo operato con un modello della Russia. Avendo perso i suoi territori non russi con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, alla Russia mancano i cuscinetti che la proteggevano. Il suo imperativo nazionale è recuperare quegli stati di confine, formalmente o informalmente. Potrebbero essere occupati dalle forze russe o, per lo meno, governati da governi nativi che escludono la presenza delle potenze occidentali e si coordinano con Mosca. I russi hanno raggiunto questo obiettivo nel Caucaso meridionale attraverso la diplomazia e lo stazionamento di forze di pace russe nella regione. Hanno aumentato il loro potere in Asia centrale. Ma la regione critica per la Russia è a ovest, di fronte all’Europa occidentale, agli Stati Uniti e alla NATO. Lì, la perdita della Bielorussia e dell’Ucraina ha posto un problema critico. Il confine orientale dell’Ucraina è solo a circa 300 miglia (480 chilometri) da Mosca e l’Ucraina è alleata con gli Stati Uniti e le potenze europee, informalmente se non come parte della NATO.

La strategia della Russia fino a questo punto era stata quella di evitare l’intervento militare diretto contro le forze ostili e utilizzare misure ibride per costruire influenza e ottenere il controllo. Questo è quello che è successo nel Caucaso. Questo è anche quello che è successo in Bielorussia, dove un’elezione contestata ha lasciato il presidente Alexander Lukashenko in una posizione debole, e Mosca ha usato il suo potere per assicurare la posizione di Lukashenko e controllare gli eventi a Minsk. L’ ondata di rifugiati verso il confine polacco ha messo la Polonia sulla difensiva e ha creato un senso di crisi in Polonia. Per quanto riguarda la Bielorussia, è stata semplicemente l’arena scelta dalla Russia, un satellite preso a bassa voce.

Mentre la Russia stava reclamando i suoi cuscinetti, abbiamo rivolto la nostra attenzione all’Ucraina, che, come ho detto, è il cuscinetto chiave. È vasto, minaccia direttamente la Russia e dall’Ucraina la Russia potrebbe minacciare anche l’Occidente. In effetti, tra la Bielorussia nella pianura nordeuropea e il controllo dell’Ucraina sui Carpazi, la Russia non solo poteva difendersi, ma anche minacciare un attacco all’Europa dal Mar Baltico al Mar Nero.

I russi hanno mobilitato le forze lungo i confini dell’Ucraina – da est, nord e sud – e, senza fare minacce palesi, hanno creato una situazione in cui sembrava possibile un’invasione dell’Ucraina. Ho scritto la scorsa settimana dubitando che i russi avrebbero tentato una complessa occupazione di un paese ostile perché le possibilità di fallimento, anche contro una resistenza minima, erano reali e perché i russi non potevano prevedere le azioni americane. Se intervenisse, gli Stati Uniti probabilmente interverrebbero a terra, ma possiedono anche arsenali di missili anticarro lanciati da aerei o navi nel Mar Baltico e nel Mar Nero. Come si evolverebbe questo conflitto non è noto e gli Stati Uniti potrebbero non scegliere una controparte militare. Ma la Russia non poteva saperlo, né poteva rischiare di agire sull’intelligence, che spesso si sbaglia.

Per completare la ricostruzione dell’Unione Sovietica, i russi devono prima neutralizzare gli Stati Uniti senza un’azione militare. La migliore strategia per questo è neutralizzare la NATO, le cui forze militari sono limitate ma comunque significative. Ancora più importante, una risposta americana alla Russia senza la disponibilità del territorio della NATO e senza il sostegno politico degli alleati della NATO complicherebbe la dinamica militare e politica dell’azione degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti avevano già indicato la loro cautela minacciando il sistema bancario russo se ci fosse stata una guerra in Ucraina, piuttosto che minacciare un’azione militare.

Pertanto, prima ancora che la Russia prendesse in considerazione un’azione militare in Ucraina, doveva neutralizzare politicamente i (già cauti) Stati Uniti, e la chiave era paralizzare la NATO e in particolare la Germania. La Germania vede la Russia come una fonte cruciale di energia, un partner commerciale che potrebbe crescere di importanza e un problema da evitare. Ancora più importante per esso è l’Europa, di cui la NATO è un elemento cruciale, non tanto come forza militare, ma come un’altra forza che tiene insieme l’Europa. Come potenza dominante in Europa (al di fuori della Gran Bretagna), la Germania ha l’imperativo nazionale di mantenere la sua posizione economica dominante, che le conferisce una grande influenza sul comportamento degli europei in materia militare.

Per la Germania, quindi, una guerra non sarebbe adatta alle sue esigenze. Rischierebbe un conflitto che potrebbe indebolire gravemente l’economia europea in un momento delicato. La Germania vede la Polonia come un problema difficile poiché è nella NATO, ma la posizione della Polonia nei confronti della Russia non soddisfa gli interessi della Germania. La Germania vorrebbe ovviamente un cuscinetto contro la Russia in Bielorussia e Ucraina, ma non se ciò significa enormi costi economici e aumento del potere americano in Europa. Gli Stati Uniti dominano la NATO e un conflitto esteso massimizzerebbe le considerazioni militari americane e minimizzerebbe le preoccupazioni economiche tedesche. In breve, mentre potrebbe esserci una serie di posizioni sulle mosse della Russia in Europa, la Germania, la potenza leader, deve evitare la guerra e pagherà un prezzo per questo. La neutralizzazione degli Stati Uniti da parte della Russia passa attraverso la NATO, l’Europa e in particolare la Germania. Se hanno punti di vista divergenti, una difesa americana unilaterale contro la Russia diventa molto rischiosa.

Arriviamo così allo straordinario documento che la Russia ha consegnato la scorsa settimana. Il documento è mirato alla NATO. La clausola chiave è l’articolo 5: “Le Parti si astengono dallo schierare le proprie forze armate e armamenti, anche nel quadro di organizzazioni internazionali, alleanze o coalizioni militari, nelle aree in cui tale dispiegamento potrebbe essere percepito dall’altra Parte come una minaccia per sua sicurezza nazionale, ad eccezione di tale spiegamento all’interno dei territori nazionali delle Parti”.

In altre parole, la Russia chiede il diritto di limitare il dispiegamento delle truppe statunitensi nei paesi della NATO se i russi si sentono minacciati da tale dispiegamento. L’effetto immediato sarebbe che, mentre la Polonia potrebbe rafforzare la propria forza, gli Stati Uniti dovrebbero ritirarsi dalla Polonia se la Russia si sentisse minacciata, cosa che dice di fare. Naturalmente, se la Federazione Russa reintegrasse gli ex territori sovietici nel suo sistema politico, cosa che penso sia una possibilità, allora la Russia sarebbe liberata dall’articolo 5.

Ci sono altre clausole che garantiscono che gli Stati Uniti rifiuteranno il documento. È quindi una domanda interessante perché i russi l’abbiano creato. Potrebbe essere concepito come una piattaforma negoziale, ma è troppo distorta dall’interesse russo per essere una piattaforma praticabile per Washington. Un’altra possibilità è che sia per il consumo interno russo, a dimostrazione del fatto che la Russia parla agli Stati Uniti come un potente pari da rispettare. Oppure potrebbe essere che dopo la risposta iniziale degli americani alle minacce russe – che il loro sistema bancario sarebbe stato danneggiato – i russi leggessero gli Stati Uniti come riluttanti a rispondere in Ucraina.

La chiave dal mio punto di vista è che nessuno vuole una guerra in Ucraina perché sarebbe lunga e sanguinosa, e il vantaggio geografico andrebbe alla Russia. Una proposta sul tavolo, per quanto assurda, può dare alle nazioni caute l’opportunità di capitolare mentre sembrano preferire un corso diplomatico a risposte militari irrazionali. Gran parte dell’Europa non è disposta a combattere per l’indipendenza dell’Ucraina. Gli Stati Uniti, preoccupati per la libera diffusione del potere russo attraverso la forza militare, potrebbero scegliere un intervento. Questa proposta potrebbe essere vista in Europa come una “base di discussione”, limitando le opzioni americane.

Un’invasione dell’Ucraina sarebbe piena di rischi per la Russia. Il fallimento o la resistenza prolungata trasformerebbero la Russia da una potenza riemergente in una nazione da scartare. Il presidente russo Vladimir Putin ovviamente sa che questo documento sarà respinto, ma nel suo contesto, il rifiuto tornerà alle controproposte, ed è possibile che la NATO e gli Stati Uniti diano un po’ di terreno in cambio dell’eliminazione di alcune delle clamorose richieste russe. Oppure Putin vuole che tutti lo vedano in termini non menzionati – come un ultimatum – e nel panico.

In ogni caso, il pezzo chiave della ricostruzione russa – l’Ucraina – è sul tavolo, e il documento confonde così completamente le questioni, chiedendo cambiamenti fondamentali nel modo in cui operano gli Stati Uniti, che qualcosa può essere concesso sotto la pressione europea. Putin non ha nulla da perdere da questo documento e qualcosa da guadagnare. Presumo che la risposta americana sarà quella di rifiutare i colloqui basati sul documento.

https://geopoliticalfutures.com/the-russian-treaty-proposal/?tpa=YTIwZWNmYjhiYWU4M2YyZWY4M2VjMzE2NDA4Nzg0MzdiZjI1ZjY&utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_term=https://geopoliticalfutures.com/the-russian-treaty-proposal/?tpa=YTIwZWNmYjhiYWU4M2YyZWY4M2VjMzE2NDA4Nzg0MzdiZjI1ZjY&utm_content&utm_campaign=PAID%20-%20Everything%20as%20it%27s%20published

IL TESTO DEI DUE DOCUMENTI

17/12/2021 13:30

ACCORDO TRA LA FEDERAZIONE RUSSA E GLI STATI UNITI D’AMERICA SULLE GARANZIE DI SICUREZZA

 

 La Federazione Russa e gli Stati Uniti d’America, di seguito denominati le Parti,

Guidati dai principi contenuti nella Carta delle Nazioni Unite, nella Dichiarazione sui principi di diritto internazionale concernenti le relazioni amichevoli e la cooperazione tra gli Stati in conformità con la Carta delle Nazioni Unite 1970 anno, l’Atto finale di Helsinki del 1975 della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, nonché le disposizioni della Dichiarazione di Manila del 1982 sulla risoluzione pacifica delle controversie internazionali, la Carta per la sicurezza europea del 1999, l’Atto fondatore del 1997 sulle relazioni reciproche, la cooperazione e sicurezza tra la Russia e l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico;

Ricordando l’inammissibilità nelle loro reciproche, nonché in generale nelle relazioni internazionali, dell’uso della forza o della minaccia della forza in qualsiasi altro modo incompatibile con le finalità ei principi della Carta delle Nazioni Unite;

sostenere il ruolo del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che ha la responsabilità primaria del mantenimento della pace e della sicurezza internazionali;

Riconoscendo la necessità di unire gli sforzi per rispondere efficacemente alle sfide e alle minacce contemporanee alla sicurezza in un mondo globalizzato e interdipendente;

procedendo dalla stretta osservanza del principio di non ingerenza negli affari interni, compreso il rifiuto di sostenere organizzazioni, gruppi e individui che propugnano un cambio di governo incostituzionale, nonché qualsiasi azione volta a modificare il sistema politico o sociale di uno dei contraenti feste;

nel senso di migliorare l’esistente o creare ulteriori meccanismi di interazione efficaci e prontamente avviati per risolvere problemi e disaccordi problematici emergenti attraverso un dialogo costruttivo basato sul rispetto reciproco e sul riconoscimento degli interessi e delle preoccupazioni reciproche in materia di sicurezza, nonché per sviluppare una risposta adeguata alle sfide e minacce nel campo della sicurezza;

sforzandosi di evitare qualsiasi scontro militare e conflitto armato tra le Parti e rendendosi conto che uno scontro militare diretto tra di esse può portare all’uso di armi nucleari, che avrebbe conseguenze di vasta portata;

Riaffermando che non ci possono essere vincitori in una guerra nucleare e che non dovrebbe mai essere scatenata, oltre a riconoscere la necessità di compiere ogni sforzo per prevenire il pericolo di una tale guerra tra Stati nucleari;

Riaffermando i propri obblighi ai sensi dell’Accordo sulle misure per ridurre il rischio di una guerra nucleare tra l’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche e gli Stati Uniti d’America del 30 settembre 1971, l’Accordo tra il governo dell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche e il governo degli Stati Uniti d’America sulla prevenzione degli incidenti in alto mare e nello spazio aereo sovrastante del 25 maggio 1972, l’Accordo tra l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e gli Stati Uniti d’America sull’istituzione di centri di riduzione del rischio nucleare di 15 settembre 1987 e l’Accordo tra l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e gli Stati Uniti d’America sulla prevenzione delle attività militari pericolose del 12 giugno 1989 anno;

hanno convenuto quanto segue:

 

Articolo 1.

Le parti interagiscono sulla base dei principi di indivisibile ed eguale sicurezza, fatta salva la reciproca sicurezza, e per tali finalità:

non intraprendere azioni e non svolgere attività che incidono sulla sicurezza dell’altra Parte, non parteciparvi e non supportarla;

non attuare misure di sicurezza adottate da ciascuna Parte individualmente o nell’ambito di un’organizzazione internazionale, un’alleanza militare o una coalizione, che pregiudicherebbero gli interessi di sicurezza fondamentali dell’altra Parte.

 

Articolo 2.

Le Parti si adoperano per garantire che qualsiasi organizzazione internazionale, alleanza militare o coalizione a cui partecipa almeno una delle Parti, rispetti i principi contenuti nella Carta delle Nazioni Unite.

 

 

Articolo 3.

Le Parti non utilizzeranno il territorio di altri Stati allo scopo di preparare o eseguire un attacco armato contro l’altra Parte, o altre azioni che ledano gli interessi fondamentali di sicurezza dell’altra Parte.

 

Articolo 4.

Gli Stati Uniti d’America si impegnano a escludere un’ulteriore espansione dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico in direzione orientale, a rifiutare di ammettere all’alleanza Stati che in precedenza facevano parte dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.

Gli Stati Uniti d’America non stabiliranno basi militari sul territorio di stati che erano precedentemente membri dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e non sono membri dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico, non utilizzeranno le loro infrastrutture per alcuna attività militare o svilupperanno una cooperazione militare bilaterale con loro.

 

Articolo 5.

Le Parti si astengono dal dispiegare le proprie forze armate e armi, anche nell’ambito di organizzazioni internazionali, alleanze o coalizioni militari, in aree in cui tale dispiegamento sarebbe percepito dall’altra Parte come una minaccia alla propria sicurezza nazionale, ad eccezione di tali dispiegamento nei territori nazionali delle Parti.

Le parti si astengono dal pilotare bombardieri pesanti equipaggiati per armi nucleari o non nucleari e dal trovare navi da guerra di superficie di tutte le classi, anche all’interno di alleanze, coalizioni e organizzazioni, in aree, rispettivamente, al di fuori dello spazio aereo nazionale e al di fuori delle acque territoriali nazionali, da dove possono impegnare obiettivi nel territorio dell’altra Parte.

Le parti mantengono il dialogo e interagiscono per migliorare i meccanismi per prevenire pericolose attività militari in mare aperto e nello spazio aereo sopra di esso, compreso l’accordo sulla distanza massima di rendez-vous tra navi da guerra e aerei.

 

Articolo 6

Le Parti si impegnano a non dispiegare missili terrestri a medio e corto raggio al di fuori del proprio territorio nazionale, nonché in quelle aree del proprio territorio nazionale da cui tali armi sono in grado di colpire obiettivi sul territorio nazionale dell’altra Parte.

 

Articolo 7.

Le Parti escludono il dispiegamento di armi nucleari al di fuori del territorio nazionale e restituiscono tali armi già dispiegate al di fuori del territorio nazionale al momento dell’entrata in vigore del presente Trattato nel territorio nazionale. Le parti elimineranno tutte le infrastrutture esistenti per il dispiegamento di armi nucleari al di fuori del territorio nazionale.

Le Parti non addestreranno personale militare e civile di paesi non dotati di armi nucleari all’uso di tali armi. Le parti non conducono esercitazioni e addestramento di forze polivalenti, compreso lo sviluppo di scenari con l’uso di armi nucleari.

 

Articolo 8.

Il presente Accordo entra in vigore dalla data di ricezione dell’ultima notifica scritta dell’attuazione delle necessarie procedure nazionali da parte delle Parti.

Fatto in duplice esemplare, ciascuno in lingua russa e inglese, entrambi i testi facenti ugualmente fede.

 

 

Per la Federazione Russa

Per gli Stati Uniti d’America

17/12/2021 13:26

ACCORDO SULLE MISURE DI SICUREZZA DELLA FEDERAZIONE RUSSA E DEGLI STATI MEMBRI DELL’ORGANIZZAZIONE DEL TRATTATO DELL’ATLANTICO DEL NORD

Progetto

La Federazione Russa e gli Stati membri dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), di seguito denominati i Partecipanti,

riaffermando la volontà di migliorare le relazioni e approfondire la comprensione reciproca;

Riconoscendo che per rispondere efficacemente alle sfide moderne e alle minacce alla sicurezza in un mondo interdipendente, è necessario unire gli sforzi di tutti i Partecipanti;

Convinti della necessità di prevenire attività militari pericolose e ridurre così la probabilità che si verifichino incidenti tra le proprie forze armate;

rilevando che gli interessi di sicurezza di ciascun Partecipante richiedono di aumentare l’efficacia della cooperazione multilaterale, rafforzare la stabilità, la prevedibilità e la trasparenza in campo politico-militare;

riaffermando il loro impegno nei confronti degli scopi e dei principi della Carta delle Nazioni Unite, dell’Atto finale di Helsinki del 1975 della Conferenza sulla sicurezza e della cooperazione in Europa, dell’Atto istitutivo sulle relazioni reciproche, sulla cooperazione e sulla sicurezza tra la Federazione Russa e il Trattato Nord Atlantico Organizzazione del 1997, il Codice di condotta relativo agli aspetti di sicurezza politico-militare del 1994, la Carta per la sicurezza europea del 1999 e la Dichiarazione di Roma “Relazioni NATO-Russia: una nuova qualità” dei Capi di Stato e di governo della Federazione Russa del 2002 e Stati membri della NATO;

hanno convenuto quanto segue:

Articolo 1.

I partecipanti alle loro relazioni sono guidati dai principi di cooperazione, eguale e indivisibile sicurezza. Non rafforzano la loro sicurezza individualmente, nel quadro di un’organizzazione internazionale, un’alleanza militare o una coalizione a scapito della sicurezza degli altri.

I partecipanti alle reciproche relazioni si impegnano a risolvere pacificamente tutte le controversie internazionali, nonché ad astenersi da qualsiasi uso della forza o dalla minaccia di un suo uso in qualsiasi modo incompatibile con gli scopi delle Nazioni Unite.

I Partecipanti si impegnano a non creare condizioni o situazioni che possano rappresentare o essere considerate come una minaccia alla sicurezza nazionale degli altri Partecipanti.

I partecipanti eserciteranno moderazione nella pianificazione militare e durante le esercitazioni per ridurre i rischi di possibili situazioni pericolose, aderendo agli obblighi previsti dal diritto internazionale, compresi quelli contenuti negli accordi intergovernativi sulla prevenzione degli incidenti in mare al di fuori delle acque territoriali e nello spazio aereo sovrastante , nonché negli accordi intergovernativi sulla prevenzione di attività militari pericolose.

Articolo 2.

Per risolvere problemi e risolvere situazioni problematiche, i Partecipanti utilizzano meccanismi di consultazioni urgenti su base bilaterale e multilaterale, compreso il Consiglio Russia-NATO.

I partecipanti su base regolare e volontaria si scambiano valutazioni delle minacce moderne e delle sfide alla sicurezza, forniscono informazioni reciproche su esercitazioni e manovre militari, le principali disposizioni della dottrina militare. Al fine di garantire la trasparenza e la prevedibilità delle attività militari, vengono utilizzati tutti i meccanismi e gli strumenti esistenti di misure volte a rafforzare la fiducia.

Per mantenere i contatti di emergenza tra i Partecipanti, sono organizzate linee telefoniche “calde”.

Articolo 3.

I partecipanti confermano di non vedersi l’un l’altro come avversari.

I partecipanti mantengono un dialogo e interagiscono per migliorare i meccanismi di prevenzione degli incidenti in alto mare e nello spazio aereo sopra di esso (principalmente nel Baltico e nella regione del Mar Nero).

Articolo 4.

La Federazione Russa e tutti i partecipanti che dal 27 maggio 1997 erano stati membri dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico, di conseguenza, non dispiegano le loro forze armate e armi sul territorio di tutti gli altri stati europei, oltre alle forze di stanza in questo territorio dal 27 maggio 1997 anno. In casi eccezionali, quando si verificano situazioni legate alla necessità di neutralizzare la minaccia alla sicurezza di uno o più Partecipanti, tali collocamenti possono essere effettuati con il consenso di tutti i Partecipanti.

Articolo 5.

I Partecipanti escludono il dispiegamento di missili a terra a medio e corto raggio in aree da cui sono in grado di colpire bersagli sul territorio di altri Partecipanti.

Articolo 6

I partecipanti, che sono stati membri dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico, accettano obblighi che precludono un ulteriore allargamento della NATO, inclusa l’adesione dell’Ucraina, così come di altri stati.

Articolo 7.

I partecipanti, che sono stati membri dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico, si rifiutano di condurre qualsiasi attività militare sul territorio dell’Ucraina, così come in altri stati dell’Europa orientale, della Transcaucasia e dell’Asia centrale.

Al fine di escludere il verificarsi di incidenti, la Federazione Russa e i partecipanti che sono stati membri dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico non condurranno esercitazioni militari e altre attività militari al di sopra del livello di brigata in una striscia di larghezza e configurazione concordate su ciascun lato del la linea di confine della Federazione Russa e gli stati che sono con essa in un’alleanza militare, nonché i membri che sono stati membri dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico.

Articolo 8.

Il presente Accordo non pregiudica e non sarà interpretato come lesivo della responsabilità primaria del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali, nonché i diritti e gli obblighi dei membri derivanti dalla Carta delle Nazioni Unite.

Articolo 9.

Il presente Accordo entra in vigore dalla data in cui le notifiche di consenso ad essere vincolati da più della metà degli Stati firmatari sono depositate presso il depositario. Per quanto riguarda uno Stato che ha dato tale notifica in una data successiva, il presente Accordo entrerà in vigore alla data della sua trasmissione.

Ciascuna Parte del presente Accordo può recedere dallo stesso inviando l’apposita notifica al depositario. Il presente Accordo termina per tale Partecipante [30] giorni dopo il ricevimento di detta notifica da parte del depositario.

Il presente Accordo è stato redatto in russo, inglese e francese, i cui testi fanno ugualmente fede, ed è conservato negli archivi del depositario, che è il governo…

Fatto in [città …] [XX] giorno [XXX] mese [20XX].

Inerzia e punti di svolta_ di Giacomo Gabellini

Nell’ottica statunitense, l’Ucraina continua a rappresentare una pedina preziosa, sistematicamente impiegata per mettere alle corde la Russia nell’attuale fase ma potenzialmente riciclabile, in un’ottica di medio-lungo periodo, come merce di scambio in nome di un riavvicinamento tra Washington e Mosca funzionale al contenimento della Cina. Prospettiva apparentemente inconcepibile, alla luce del fervore anti-russo che anima gli ambienti neoconservatori fortemente sovrarappresentati all’interno dello “Stato profondo”, ma pur sempre presente nel novero delle opzioni strategiche e proprio per questo pro-fondamente temuta dai leader russofobi e ultra-atlantisti della “nuova Europa”. I quali non perdono occasione per trascinare l’imbelle Unione Europea verso una posizione di crescente ostilità nei confronti della Russia – dai risultati catastrofici dal punto di vista sia economico che strategico – proprio perché persuasi che il rango dei loro Paesi, e i relativi dividendi di natura economica e (geo)politica che ne derivano, risulti direttamente subordinato al grado di rilevanza che gli Stati Uniti attribuiscono all’accerchiamento della Russia.
Osservata dal punto di vista strettamente geopolitico, infatti, la dottrina del rollback applicata da Washington nei confronti della Federazione Russa denota una smaccata illogicità di fondo. Prima d’ora, gli Stati Uniti non si sono mai trovati nelle condizioni di affrontare un avversario come la Repubblica Popolare Cinese, che va ogni giorno di più attrezzandosi per soverchiare gli Usa sotto il profilo economico, tecnologico e militare. Attualmente, gli sforzi della Casa Bianca e del Congresso si concentrano sulla rottura del legame di dipendenza sviluppato dalle imprese multinazionali statunitensi nei confronti della manifattura cinese, attraverso la riorganizzazione delle catene di approvvigionamento, la rinazionalizzazione delle industrie strategiche e l’imposizione di nuovi standard produttivi concepiti appositamente per colpire l’ex Celeste Impero.
Ammesso – e non concesso – che l’ambiziosissimo progetto giunga effettivamente a realizzazione, occorreranno comunque decenni per riconfigurare le filiere, rimpatriare gli impianti delocalizzati a partire dai primi anni ’80 e rimodellare la globalizzazione in base ai propri interessi specifici. I numeri, d’altra parte, sono largamente favorevoli alla Cina, dal punto di vista sia demografico che economico. Per cui, insistono i più illustri esponenti della corrente di pensiero realista, è tempo di abbandonare le velleità di dominio maturate durante il breve periodo unipolare e prendere atto che gli Stati Uniti non dispongono più dei mezzi né dell’autorità sufficiente per piegare il resto del mondo alle proprie direttive. All’inizio degli anni ’70, quando gli Stati Uniti erano alle prese con la dispendiosissima e fallimentare Guerra del Vietnam, fu una constatazione di questo genere a spingere Nixon e Kissinger a superare le barriere di carattere ideologico consustanziali alla Guerra Fredda per aprire alla Repubblica Popolare Cinese e condannare l’Unione Sovietica a un fatale isolamento politico ed economico.
All’epoca, Washington conseguì il risultato capitalizzando politicamente i timori e le questioni aperte tra Mosca e Pechino, a coronamento di un meticoloso lavoro preparatorio che denotava una profonda consapevolezza circa le opportunità potenzialmente costruttive offerte dallo scenario multipolare in via di costituzione. Oggi, la logica della strategia imporrebbe ai decisori statunitensi l’adozione di un approccio altrettanto pragmatico, implicante cioè la predisposizione di una manovra di avvicinamento verso il Cremlino basata sul riconoscimento degli interessi nazionali russi e la strumentalizzazione delle non inesistenti divergenze tra Mosca e Pechino. In primo luogo perché la Russia «non ha la taglia per scalare la vetta del potere planetario. Ma è la quantità marginale che gettando il suo peso sull’uno o sull’altro piatto della bilancia può decidere della partita fra Stati Uniti e Cina»; un’alleanza tra Federazione Russa e Repubblica Popolare Cinese raggiungerebbe la massa critica per «squilibrare il parallelogramma delle forze a danno di Washington». Un’intesa con il Cremlino, viceversa, permetterebbe a Washington di riposizionare nell’area dell’Indo-Pacifico le risorse attualmente dedicate all’accerchiamento della Federazione Russa in Europa orientale, Caucaso e Medio Oriente, e focalizzare così l’attenzione sulla questione di gran lunga più cogente, costituita dall’ascesa della Cina e dalla rapidità con cui Pechino continua implacabilmente ad erodere i residui vantaggi di cui godono ancora gli Usa.
Non è un caso che il più convinto sostenitore della linea della normalizzazione dei rapporti con Mosca sia proprio Henry Kissinger, il principale architetto dell’intesa sino-statunitense del 1972. In un’intervista rilasciata a «The Atlantic» nel 2016, l’ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale e segretario di Stato di Nixon raccomandava di guardare alla Russia «non come a un avversario, ma come a un partner con cui trovare una soluzione».
Sulla strada che conduce all’attuazione delle direttive kissingeriane si ergono una serie di ostacoli formidabili, a partire dall’impellente necessità dell’apparato dirigenziale Usa di preservare un “nemico perfetto” attraverso cui (tentare) tenere insieme i pezzi di una società domestica frustrata, impoverita e pericolosamente avviata verso la disgregazione, e legittimare allo stesso la sopravvivenza di un’organizzazione obsoleta e sempre più contestata come la Nato. La quale costituisce a sua volta la migliore garanzia per la perpetuazione dell’occupazione militar-strategica statunitense di un teatro di primaria importanza come l’Europa, che nella visione profondamente influenzata dalle teorizzazioni di Mackinder e Brzezinski tuttora imperante nel mondo degli “apparati” di Washington risulta imprescindibile per prevenire qualsiasi forma di collaborazione tra Russia ed Europa (leggi: Germania) in grado di ridimensionare la supremazia Usa. Di qui la decisione statunitense di pianificare la sovversione degli equilibri politici interni all’Ucraina per trasformarla in un cuneo da frapporre tra Mitteleuropa e Russia votato all’isolamento dell’Heartland, e intensificare al contempo la pressione militare (espansione della Nato, moltiplicazione delle esercitazioni dell’Alleanza Atlantica in Europa orientale), economica (inasprimento delle sanzioni) e politica (strumentalizzazione del caso Naval’nyj e delle proteste in Bielorussia) sulla Russia.
Kissinger è stato tra i pochissimi – nell’intervista a «The Atlantic», è egli stesso a definire minoritaria” la sua scuola di pensiero – a cogliere la natura spiccatamente difensiva delle mosse compiute da Vladimir Putin a partire dal 2014, e a rendersi conto che nessun leader russo avrebbe mai potuto accettare la prospettiva, resa particolarmente concreta dal colpo di Stato di “Euro-Majdan”, di ritrovarsi la Nato saldamente impiantata in Crimea e alle porte dello stesso bassopiano sarmatico attraversato dalle armate di Napoleone ed Hitler. L’annessione della penisola, attuata con il consenso schiacciante della popolazione locale, ha preservato il controllo russo sull’importantissimo porto di Sebastopoli, mentre l’appoggio garantito alle repubbliche secessioniste di Luhans’k e Donec’k ha permesso alla Federazione Russa di frapporre un imprescindibile cuscinetto fra sé e la Nato. Le cui porte rimangono aperte non solo per l’Ucraina, ma anche per la Georgia, come dichiarato sia dal segretario di Stato Blinken che dal segretario generale dell’Alleanza Stoltenberg. Ai due Paesi, la possibilità era già stata prospettata durante il vertice della Nato di Bucarest dell’aprile 2008, pochi mesi prima che Saakashvili ordinasse l’attacco contro Abkhazia e Ossezia del Sud innescando l’escalation culminata con la sconfitta militare della Georgia ad opera della Russia. A dispetto di quanto prospettato da alcuni6, le intenzioni del Cremlino non vertono sull’annessione del Donbass sulla falsariga del precedente della Crimea, ma sulla stretta osservanza degli Accordi di Minsk, implicanti la concessione di uno statuto speciale alle regioni di Luhans’k e Donec’k (dove i russi etnici sono in maggioranza) che assicuri alla Russia una “quinta colonna” interna allo Stato ucraino di cui avvalersi per influenzare il processo decisionale di Kiev – per lo stesso, identico motivo, la leadership ucraina ostacola l’applicazione dell’intesa raggiunta in Bielorussia e ne invoca la revisione.
A ennesima riprova del fatto che, ristabilito l’equilibrio strategico grazie alla messa a punto di un formidabile arsenale nucleare, la priorità odierna della Russia consiste nel sigillare i propri confini occidentali, consolidando la propria influenza entro gli ex satelliti al fine di ricostituire legami politico-economico-commerciali con il proprio “estero vicino” confluito sotto l’ombrello militar-strategico statunitense e impedire un’ulteriore espansione della Nato verso est. Una logica pressoché analoga si riscontra nella sempre più spiccata propensione del Cremlino a raggiungere compromessi tattici con la Turchia dell’ambiguo e inaffidabile Erdoğan, e ad attingere alla vasta gamma di strumenti di guerra ibrida per intervenire in scenari critici quali quello libico e, soprattutto, siriano. Dove «sul campo i proiettili russi colpiscono i nemici di Assad, ma simbolicamente sono una sorta di “fuoco di interdizione” a un intervento occidentale, per evitare uno scontro diretto tra grandi potenze. In qualche modo, i russi stanno “segnando” il proprio spazio di influenza» nel tentativo di ricavarsi aree strategiche in cui operare per far fronte alla crescente aggressività degli Stati Uniti e della Nato. La cui ostinata renitenza a riconoscere a Mosca qualsiasi legittimità nell’esercizio di influenza nel proprio “estero vicino” ha portato alla formazione di una sorta di “vallo eurasiatico” che, nelle intenzioni di Washington, dovrebbe «interrompere arterie secolari, in grado di assicurare la circolazione di beni materiali, culture, costumi, tradizioni, religioni, dialogo interetnico che si era sviluppata dall’antichità all’età di mezzo, dall’era moderna a quella contemporanea fino ai nostri giorni».
differenza di quella originaria, per di più, la nuova “cortina di ferro” appare strutturalmente votata a produrre frizioni anziché (relativa) stabilità, soprattutto perché priva di una collocazione geografica fissa. Essa non corre più “da Stettino a Trieste”, ma da Murmansk a Sebastopoli, sfiorando la direttrice San Pietroburgo-Rostov. La “linea del fronte” si è quindi spostata 1.200 km più a est, a una distanza dal cuore storico, demografico ed economico della Russia mai così pericolosamente ridotta dai tempi di Ivan in Grande. La presenza della Nato a ridosso dei confini russi priva il Cremlino dello spazio necessario a qualsiasi forma di arretramento, costringendo Mosca a reagire a ogni iniziativa dello schieramento nemico con la durezza e l’imprevedibilità ravvisabili in qualsiasi soggetto che si ritrovi nelle condizioni di dover fronteggiare minacce di tipo esistenziale. Di qui l’inequivocabilità con cui Putin ha indicato nel mantenimento dell’Ucraina in uno stato di neutralità geopolitica e nella permanenza della Bielorussia entro la sfera d’influenza russa – con o senza Lukašenko – le due “linee rosse” di cui non verrà d’ora in poi tollerata in alcun modo la violazione.
Come ha osservato Stephen Cohen, eminente russologo statunitense recentemente scomparso, «l’epicentro politico della “nuova Guerra Fredda” non si trova più nella lontana Berlino, come accadeva nei tardi anni ’40, ma direttamente ai confini della Russia, all’altezza dei Paesi baltici, dell’Ucraina e di un’altra ex repubblica sovietica, la Georgia. Da ciascuno di questi fronti potrebbe scaturire la scintilla in grado di scatenare una guerra […], perché il blocco sovietico che un tempo fungeva da cuscinetto tra la Nato e la Russia non esiste più», grazie all’espansione dell’Alleanza Atlantica verso est avviata nella seconda metà degli anni ’90 per iniziativa di Washington. Un processo che George Kennan, massimo architetto della dottrina del containment, aveva caldamente sconsigliato di innescare già nel 1997; a suo avviso, l’allargamento della Nato avrebbe infatti «infiammato le tendenze nazionalistiche, anti-occidentali e militariste in seno all’opinione pubblica russa; prodotto un effetto negativo sullo sviluppo della democrazia russa; rigettato le relazioni tra est e ovest nel clima della Guerra Fredda e indirizzato la politica estera di Mosca verso direzioni a noi sfavorevoli».
I decisori di Washington hanno puntualmente ignorato il monito di Kennan, in nome di una hybris imperiale che continua ancora oggi a definire le direttrici strategiche statunitensi nonostante il palese declino politico, economico e sociale che attanaglia il Paese. Lo si evince dall’ostinazione con cui l’apparato dirigenziale Usa si prodiga per impedire che gli equilibri geopolitici mondiali assumano una configurazione multipolare, nell’ambito di una “fatica di Sisifo” intrapresa in base all’illusoria convinzione di poter invertire un processo storico ineluttabile. Anche a costo di spingere il pianeta sull’orlo del disastro.Tratto da facebook

COSTITUZIONE MATERIALE E ANTIFASCISMO LEGALE, di Teodoro Klitsche de la Grange

COSTITUZIONE MATERIALE E ANTIFASCISMO LEGALE

Una dozzina d’anni fa Berlusconi – o meglio i suoi seguaci – contrapposero alla Costituzione formale la Costituzione materiale, suscitando la consueta raffica di anatemi ed esorcismi degli intellos di sinistra, che della costituzionale formale, o meglio della loro interpretazione del testo normativo, avevano fatto il proprio shibboleth. E avvertivano che il richiamo a quella materiale rischiava di rovinargli il giocattolo.

È appena il caso di ricordare che il termine (non il concetto) di costituzione materiale era opera di un acuto giurista come Costantino Mortati, membro dell’assemblea costituente della Repubblica, in buona parte sviluppando quanto espresso quasi un secolo prima da Ferdinand Lasalle nella nota conferenza “Über Verfassungswesen”, ove il rivoluzionario riconduceva la costituzione agli “effettivi rapporti di potere che sussistono in una data società”, alla forza attiva “che determina le leggi e le istituzioni giuridiche”. Scriveva Lassalle che “Gli effettivi rapporti di potere che sussistono in ogni società sono quella forza effettivamente in vigore che determina tutte le leggi e le istituzioni giuridiche di questa società, cosicché queste ultime essenzialmente non possono essere diverse da come sono” (il corsivo è mio); ed elencava i relativi “pezzi di costituzione”: il potere del re, quello dell’aristocrazia, della borghesia che comunque assicuravano un ordine, effettivo e concreto, e con ciò la coesione sociale. Così la costituzione è l’insieme – dei rapporti di forza reali – ed organizzati – di una comunità politica. E cos’è la Costituzione formale? Rispondeva Lassalle “Questi effettivi rapporti di forza li si butta su un foglio di carta, si dà loro un’espressione scritta, e, se ora sono stati buttati giù, essi non solo sono rapporti di forza effettivi, ma sono anche diventati, ora, diritto, istituzioni giuridiche, e chi vi oppone resistenza viene punito”.

Riprendendo e sviluppando la concezione di Lassalle, Mortati scriveva “Rimanendo nell’ordine di idee per ultimo esposte di una raffigurazione della costituzione che colleghi strettamente in sé la società e lo stato, è da ribadire quanto si è detto sull’esigenza che la prima sia intesa come entità già in sé dotata di una propria struttura, in quanto ordinata secondo un particolare assetto in cui confluiscano, accanto ad un sistema di rapporti economici, fattori vari di rafforzamento, di indole culturale, religioso ecc., che trova espressione in una particolare visione politica, cioè in un certo modo d’intendere e di avvertire il bene comune e risulti sostenuta da un insieme di forze collettive che siano portatrici della visione stessa e riescano a farla prevalere dando vita a rapporti di sopra e sotto-ordinazione, cioè ad un vero assetto fondamentale che si può chiamare «costituzione materiale» per distinguerla da quella cui si dà nome di «formale»”. A questo è affidata una “funzione di rafforzamento delle garanzie di conservazione della sottostante compagine sociale, non è tuttavia da dimenticare che è in quest’ultima, nell’effettivo rapporto delle forze da cui è sostenuta che deve trovarsi il vero supporto dell’ordine legale”1 (il corsivo è mio).

La Costituzione materiale consiste essenzialmente nelle forze politiche e sociali che hanno voluto e sostengono l’assetto fondamentale di poteri delineato da quella formale in norme collocate “al sommo della gerarchia delle fonti”.

Ma cosa succede se l’assetto delle forze politiche e sociali (cioè la costituzione materiale) cambia (com’è naturale) e quella formale (cioè la regolamentazione normativa) rimane la stessa? Il problema è ricorrente, dato che, come scriveva Hauriou, un ordinamento giuridico è un agmen, un esercito in marcia che adatta sempre la propria formazione alla situazione storica, pur conservando un assetto ordinato. Se però il divario tra regole e assetto delle forze diverge, si apre un dualismo che, nei casi estremi, conduce alla guerra civile, cioè all’“appello a Dio” di Locke. Il quale così significava che non c’è potere (superiore) sulla terra in grado di decidere un tale conflitto. Nella tarda modernità, nostra contemporanea, è stato notato più volte – in tutt’altro contesto da quello giuridico – che il divario tra élite e popolo si è allargato (da Lasch a Laclau, a tanti altri). Così si costituisce una situazione che prelude ad un nuovo insieme di rapporti di potere, che riarmonizzi le due costituzioni: sostanziale e formale.

Qualcuno dirà che non è vero che lo iato si sta allargando, che tutti vogliono la costituzione più bella del mondo, e via salmodiando. Ma ad un pensiero realista occorre riscontrare non tanto se quello iato è frutto di manipolazione (potrebbe esserlo, almeno in parte) ma se esiste realmente un modo più sicuro o se preferite, meno insicuro per accertare se esiste in una democrazia il consenso soprattutto elettorale che aveva il sistema nel complesso e ancor più le “forze politiche e sociali” che sostenevano il vecchio ordine e quello che hanno coloro che sostengono il nuovo.

Applicando questo criterio occorre ricordare che la Costituzione formale fu approvata dei partiti del CLN, che avevano circa il 90% dei seggi alla costituente. Le successive elezioni politiche del 18/04/1948 diedero al complesso dei partiti ciellenisti oltre il 90% dei suffragi popolari. Con ciò la costituzione – e quello che sarebbe stato poi l’arco costituzionale – otteneva un consenso “bulgaro”. Bella o brutta che fosse il consenso c’era e non lo si può negare.

Fino agli anni 80 la situazione, pur nella divaricazione tra comunisti e non comunisti, confermava un consenso ampio ai partiti dell’“arco costituzionale”. Ma il crollo del comunismo incrinava prima e dissolveva poi il sistema dei partiti della “prima Repubblica” e con esso il maggior sostegno della costituzione formale. Uscivano dal Parlamento tutti i partiti laici, la DC si riduceva ad un quarto di quel che era e si spezzava in (almeno) due tronconi, i comunisti perdevano buona parte del loro elettorato ed erano costretti a cambiare nome. Diventavano forze maggioritarie partiti che non facevano parte del CLN o ne erano stati esclusi. Dal 1994 in poi quelli eredi dell’arco costituzionale ottengono suffragi di una minoranza, ma la Costituzione formale è rimasta sostanzialmente la stessa (tranne per le modifiche al titolo V e qualche altro ritocco, apparente).

Negli ultimi dieci anni poi, il divario si è allargato: crescita dei partiti anti-establishment ma che ha prima raggiunto e poi passato regolarmente la maggioranza dei suffragi (v. elezioni dal 2018 in poi).

La novità degli ultimi mesi è che i tre maggiori partiti italiani (Lega, FdI e PD, a leggere i sondaggi) sono in un testa a testa intorno al 20%, e pochi decimi di percentuale (al massimo un punto pieno), indicano quale primo partito FdI, ossia il partito erede degli esclusi dall’arco costituzionale, mentre il PD, il partito (residuo) dell’arco, è più o meno sullo stesso livello di consensi.

Quasi tutti i suffragi non attribuiti ai due partiti epigoni (dell’arco e non dell’arco) sono espressi a partiti che ne stavano fuori per l’ovvia ragione che non esistevano (Lega, 5Stelle, FI e vari minori); né sono credibili le dichiarazioni ad usum delphini di lealismo alla costituzione formale di qualche dirigente, e dall’altro perché spesso i partiti suddetti caldeggiano riforme costituzionali incisive, un po’ perché quelle professioni d’intenti sono strumentali ad obiettivi tattici (di lotta tra, ma ancor più, nei partiti).

Resta il fatto che da un consenso al 90%, l’ “arco costituzionale” è attualmente tra il 20 e, tutt’al più (con minori vari) il 30% dell’elettorato.

Oltretutto tra le forze non riconducibili all’arco/non arco, sono prevalenti quelle che includono nella futura maggioranza (a quanto risulta dai sondaggi) proprio gli eredi del ventennio; altri sono critici verso la Costituzione formale, al punto di aver proposto vasti rimaneggiamenti della medesima.

Da questo deriva che l’ “antifascismo” in particolare inteso come conventio ad excludendum dalla maggioranza elettorale ha un consenso di una minoranza, ragguardevole ma pur sempre minoranza. In conclusione abbiamo un dato reale (la Costituzione materiale) che non corrisponde da tempo a quella formale. Resta da capire quanto possa durare una Costituzione formale non sostenuta da “forze politiche e sociali” coerenti alla stessa.

Emerge così un conflitto tra legittimità e legalità che è la principale causa della debolezza, interna e ancor più internazionale, della Repubblica.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 E proseguiva sottolineando l’intrinseca giuridicità, onde realizzare “un sistema di rapporti gerarchizzati secondo criteri di dominio e di soggezione”, v. Istituzioni di diritto pubblico, Tomo I, Milano 1976, pp. 30-31

PROBLEMI DI SOCIOLOGIA POLITICA, di Pierluigi Fagan

PROBLEMI DI SOCIOLOGIA POLITICA. [Post di studio relativo a questioni di fotografia sociale per basi di teorie politiche. Non perdete tempo se non vi interessa, saltatelo] Qui riprendiamo i ragionamenti portati avanti nel post del 14.12 del nostro “ragionar con Gramsci”. Si faceva accenno al fatto che rispetto al panorama ideologico del suo tempo, a noi oggi mancano tre presupposti: 1) una chiara e conosciuta fotografia delle partizioni sociali, ma forse dovremmo dire le forme stesse della partizione sociale; 2) una ben confusa situazione nei concetti di partito e democrazia; 3) la mancanza di una teoria generale politica, una teoria mondo quale quella che al suo tempo rappresentava l’alternativa allo stato di cose ovvero il pensiero di Marx/marxismo. Vorrei riprendere ed approfondire un po’ il primo punto.
Sebbene centrale in quell’impianto di pensiero, il concetto di “classe sociale” e sue partizioni, non sono mai chiaramente espresse da Marx. Di base, l’intende come una classificazione in base alle condizioni economiche. Altresì, queste sezioni della piramide sociale, produrrebbero una loro precipua ideologia che ne riflette condizione ed aspettative. Gramsci aggiungerà che questo “riflettere” è però condizionato da egemonie per le quali non sempre vi è allineamento tra condizione sociale e condizione ideologica. Tant’è che, in effetti, sia Marx che Engels, che Lenin, non erano proletari, né avevano origini in tal senso. Quali sono dunque i rapporti tra condizione sociale ed ideologia?
Dieci anni fa, uno spontaneo movimento di opposizione sociale, negli Stati Uniti d’America, comincia l’occupazione del distretto finanziario di Wall Street, rivendicando il conflitto tra un presunto 99% della società ed un 1% che condenserebbe in sé una scandalosa concentrazione di ricchezza, quindi potere. Tale teoria non si sa bene dove nasca di preciso, chi indica la redazione del giornale di critica pubblicitaria canadese Adbusters, chi l’antropologo David Graeber, chi l’economista Joseph Stiglitz, chi un anonimo articolista sul web. Il concetto che, come tutti i concetti, presuppone una teoria di cui è sintesi, punta alla critica del risultato sociale della svolta finanziaria che inizia tra anni ’80 e ’90 ed ha un sapore più comunicativo (slogan) che analitico (analisi). Dato questo presupposto semplificante ed indignante, ha molto successo e diventa una sorta di nuovo consenso socio-politico, ci si convince davvero che si tratta di una questione tra una percentuale infinitesima ed una massa enorme. È possibile le cose stiano così?
Decisamente no, non è assolutamente credibile in termini di “fisica dei sistemi sociali” che qualcosa di così piccolo, domini del tutto un così grande, è una semplificazione. Del resto, tra pubblicitari (Adbusters) ed americani (Graeber-Stiglitz), che la semplificazione sia privilegiata rispetto alla complessità del reale, è fatto noto e proprio di quei tipi di immagini di mondo. Di contro, che ci sia un 1% che effettivamente condensa in sé una porzione scandalosamente asimmetrica di ricchezza e quindi potere, è un fatto. Fatto riverificato da decine di statistiche quantificanti e pure peggiorato in questi dieci anni.
Questa versione semplificatoria dell’indagine sociale (mai basarsi su principi di analisi sociale americani espressi dopo gli anni ’60, quindi da dopo C. W. Mills) però ha successo e la ritroviamo in background in una sorta di rinnovata “teoria delle élite”, teoria tra l’altro di origine italiana dei primi Novecento. Le nostre società quindi si sono semplificate quanto a partizioni sociali? Davvero è tutto così semplice per cui l’1% conduce il restante 99% dove vuole lui? Pare di no, ci sono almeno due problemi oltre la logica della fisica sociale, che complicano parecchio la faccenda.
Il primo problema deriva dal fatto che quel 1% beneficiato dall’imporsi del paradigma finanziario, non è solo. Né lui come composizione sociale, né in quanto paradigma. Come paradigma è assieme ad una costruzione paradigmatica fatta altresì di globalizzazione e informatizzazione dentro un più ampio paradigma di teoria economica detto “neo-liberista”. A sua volta questo costrutto non è di origine occidentale ma prettamente americana. Il tutto corrisponde ad una più ampia partizione sociale rispetto alla numerica dell’1%. Ha più a che fare con il concetto di “classe agiata” di T. Veblen, categoria sociologica del primo Novecento. La “classe agiata” è fatta da coloro che hanno tornaconti e benefici, primariamente dal fatto che le nostre società sono ordinate dai fatti economici e non politici, quindi dal mercato e non dalla democrazia, dall’assetto atlantista che struttura l’occidentalismo e dalla teoria neo-liberista che per quanto ritenuta di origine economica è in realtà di origine socio-economica, quindi politica ed infine più ampiamente “culturale”. La loro agiatezza è data dall’appartenere al cluster che beneficia direttamente della finanziarizzazione e/o della globalizzazione e/o dell’informatizzazione e se di origine europea, della funzionale connessione col centro motore del sistema che è in US o UK. Direttamente o indirettamente.
Per fare un esempio stupido dell’indirettamente, anche un ristorantino fast-lunch nei pressi di un distretto finanziario beneficia di quel flusso di ricchezza, anche il suo cameriere, piuttosto che il portuale di uno snodo di traffico merci, la segretaria di una azienda che produce container, il programmatore di algoritmo, se assunti e retribuiti di conseguenza. Certo, direttamente il beneficio è più intenso che indirettamente, ma è pur sempre una rete di cointeressenze formata da nodi (hub) di innovazione, logistica, scambio internazionale, favore del mercato quanto più libero ed incondizionato, lavoro sul denaro altrui. In più, non è che sparisca una classe agiata tale sorretta da redditi da attività più “tradizionali”, anche qui direttamente o indirettamente. Quanto si può quantificare questa classe che sta bene dentro lo stato di cose, lo sorregge, lo difende, lo amplia, lo promuove positivamente nel giudizio condiviso?
Prendendo la quantificazione a grana grossa, quindi senza formalizzarsi sulla sua precisione esatta, sociologi stimano in circa un 40% questa che non è “una” classe, ma una alleanza di classi o di tipi sociali, che ruotano intorno agli interessi di un certo funzionamento economico che poi si riflette nel politico e nel culturale sebbene divisi tra trainanti e trainati, classi attive o di servizio a queste. A me pare un po’ alta, forse. Con i benefici del potere economico, politico, sociale e soprattutto culturale, appare però più credibile questa fotografia in cui una minoranza coarta una maggioranza, piuttosto che quella semplificata dell’1% maligno e totalitario. Certo, questo ipotetico 40% ha gradi diversi di beneficio e quindi convinzione, nonché di potere, però ad “alone”, conta e pesa almeno per un terzo sociale. Se pure fosse un più prudente 30% la cosa cambierebbe non di molto e comunque è proprio queste sotto-analisi a grana meno grossa che andrebbero fatte. Questi beneficiati, li possiamo definire gli “integrati” ricorrendo ad una partizione data da Eco in una sua analisi culturale anni ’60. Essi sono sia oggetto che soggetti attivi di promozione dell’egemonia di una immagine di mondo, tanto quanto i più tradizionali soggetti attivi come i fatidici “media mainstream”.
Sin qui, quanto a definizioni di classe diciamo “tradizionale” ovvero reddito + ricchezza + prospettive su aspettative = stato sociale. Ma davvero l’ideologia individuale e di gruppo corrisponde sempre allo stato sociale? Decisamente direi di no. Non v’è un intellettuale che si esprima in libri, articoli, pamphlet o quant’altro anti-capitalistici o anti-neoliberalistici o anti-atlantisti o anti-economicisti che non sia in fondo e per lo più (quindi salvo eccezioni che ci sono sempre) socio-economicamente parte di quel 40% o lì vicino nei fatti, mentre guarda al 60% nel campo dei sistemi di idee politiche. E viceversa, una grande parte di quel 60% non si sogna minimamente di rifiutare l’attrazione verso il mondo degli integrati, vorrebbe solo esserne invitato o poter coltivare la speranza di poterlo essere. E non si tratta solo di mancanza di coscienza di classe, sono proprio tipi sociali le cui radici di immagine di mondo è del tutto integrata in quel sistema di valori e modi, convintamente.
Ci sono dunque defezioni di allineamento tra classe sociale ed ideologia, da una parte e dall’altra, che consiglierebbero indagini ed analisi più complesse per capire meglio, a grandi linee, la composizione del fatidico “blocco storico” che potrebbe sfidare lo stato di cose. Noto che gli schemi semplificati sono talmente egemonici che ad esempio, il problema politico Italia oggi è condensato in Draghi. Non sulle forze politiche che lo sorreggono. Ma soprattutto non su tutti coloro che quelle forze politiche le votano. Quindi ci si convince che il 65% di gradimento a Draghi censito da un sondaggio ancora a novembre è ovviamente falso, quando forse non lo è o non lo è del tutto. Capita quando la fotografia sociale è fatta “sentendo” le opinioni di qualche centinaio al massimo di contatti sui social media. Fa scandalo quando qualcuno ci ricorda che il 50% degli italiani ha dalla licenza media in giù, forse perché si pensa che questi siano tutti contro lo stato di cose quando forse, invece, è proprio l’esatto contrario, è proprio la mancanza di struttura mentale che ha socio-politicamente sorretto decenni e decenni di Democrazia Cristiana in Italia.
Infine, sfidare lo stato di cose può avere molte motivazioni. Si possono sommare in fase critica e di sfida, ma raggiunto eventualmente l’obiettivo di aprire ad un nuovo stato di cose, si dovranno dividere per tante quali sono le loro variate origini e ragioni. Un nazionalista non è un europeista per quanto critico verso l’attuale forma presa da questa istanza ed entrambi non sono degli euro-asiatisti. Un keynesiano non è un decrescista. Un tradizionalista non è un progressista. Un marxista non è un socio-destrista. Un perplesso verso la politica sanitaria in atto non è un no vax, che non è un no pass, che non è un no-covid-è-tutta-una-montatura-del-grande-reset, per quanto, scendendo assieme in piazza finiscono con l’esserlo. Se una alleanza tattica va pensata per ripristinare il valore dei pesi percentuali effettivi del sociale totale, occorre chiarirsi su cosa e questa cosa non potrà essere una forma di mondo che è obiettivamente pensata in modi assai diversi, ma forse solo sul modo con cui i pesi dei vari tipi sociali si riflettono nei processi decisionali politici. Qui, “tipi sociali” che sommano condizione sociale e condizione ideologica, sostituiscono il concetto di “classe”.
In fondo, il panorama sociale in cui pensava Marx, era effettivamente molto simile alla stilizzazione dell’1% degli Occupy Wall Street, ma oggi le cose, ahinoi, sono più complesse e se vogliamo politicamente chiarirci realisticamente le idee, con questa complessità tocca farci i conti. Se non miglioriamo la risoluzione delle nostre fotografie sociali, non sapremo mai in cosa dovremmo metter le mani.

Roberto Buffagni

Ottimo lavoro Pierluigi, grazie. Aggiungerei che non solo manca una teoria sociale dello stesso ordine di perspicuità del marxismo, manca una teoria filosofica dello stesso ordine di perspicuità dell’illuminismo (anche perché la critica anche sociale si deve rivolgere contro la forma attuale che ha preso l’illuminismo). Dovendo buttar lì qualche briciolina di pane, direi questo: come l’illuminismo storico ha revisionato e rieditato per via di astrazione e secolarizzazione i concetti socialmente più rilevanti del cristianesimo, così dovrebbe fare la teoria critica attuale per la forma odierna di questi concetti illuministi, revisionandoli e rieditandoli e “sostanziandoli”, ossia facendo il percorso inverso a quello di astrazione illuminista.

Filosofia e scienza, di Vincenzo Costa

Filosofia e scienza (tratto da Facebook)
La pandemia ha fatto emergere un enorme problema nel rapporto tra i saperi, e in particolare tra filosofia e scienza. Da un lato sembra esservi una filosofia che pretende di saperne più degli scienziati, dall’altro una scienza che tende a considerare la filosofia come mero discorso ideologico, da usare (quando conviene, tipo ciliegina che abbellisce la torta) o da irridere, quando non conviene, quando dice qualcosa che stona. I meccanismi mediatici diventano poi terribili, stritolano, diventano violenti verso le persone, le idee e verso un intero settore disciplinare. C’è un grosso rischio, che riguarda la razionalità, e bisogna iniziare ad affontarlo in maniera razionale e pacata.
Ora, senza entrare in un’analisi precisa della questione (che andrà fatta, ma non su FB) a me pare che si stiano confondendo molte cose. In particolare, la filosofia ha (deve avere) una funzione critica nei confronti della scienza, ma il termine “critica” va ben compreso.
“Critica” (Critica della ragione pura, per Kant, Critica dell’economia politica, per Marx) non significa che la filosofia critica asserzioni specifiche della scienza. Questo tipo di critica, per essere razionale, è interna alla scienza, è la scienza stessa che la sviluppa: Einstein critica Newton, Bohr critica Thomson. Ma Kant non critica Newton nello stesso senso in cui lo fa uno scienziato. Kant “critica” Newton nel senso che cerca di portare alla luce i presupposti (filosofici) che stanno alla base della fisica newtoniana. Hume critica la matematica nel senso di cercare di portare alla luce i presupposti della matematica, e quando invece prova a criticare la matematica in termini matematici un suo caro amico, a cui sottopone il manoscritto, gli consiglia di non pubblicarlo. E credo che quel manoscritto non ci sia neanche pervenuto, ma potrei sbagliarmi. Husserl critica la geometria, ma nel senso che si chiede: da dove derivano e che consistenza hanno i suoi concetti elementari. E pur essendo un matematico di professione non confonde mai la ricerca matematica con la filosofia della matematica.
Nel mio piccolo mi è capitato di occuparmi di filosofia della medicina, ci ho scritto un libro ed è uno dei miei ambiti di ricerca, ma filosofia della medicina significa chiedersi quali sono i presupposti ontologici della medicina moderna (lo fanno Foucault e Canguilhem tra molti altri, e gli altri sono molto meglio per la verità), quali sono le sue procedure di validificazione (per esempio la struttura dell’EBM, che cosa porta alla luce e che cosa oscura, oppure quale è la struttura epistemologica di una diagnosi, che tipo di causalità viene usata in medicina).
E tuttavia, se vi può essere una critica fenomenologica della medicina non vi può essere una medicina filosofica, che sarebbe altrettanto aberrante di una chimica fenomenologica. Né il fatto di effettuare una critica ontologica ed epistemologica della medicina abilita il filosofo a dire alcunchè sulla medicina, cioè a passare da una critica filosofica dei fondamenti a una critica interna, per esempio a dire che una certa teoria del glioblastoma è giusta o sbagliata. Occorrono due competenze del tutto differenti.
La medicina la devono fare i medici, e il filosofo deve solo (e non credo sia poco) produrre un surplus di consapevolezza relativo all’ambito concettuale entro cui lo scienziato si muove. Ma guai se il filosofo intendesse parlare di medicina. Per farlo deve avere una competenza medica, e magari un dottorato, e magari un dottorato specifico su quel campo specifico, altrimenti si espone a critiche giustificate.
SI DEVE APPOGGIARE SU DATI RACCOLTI IN GIRO MA CHE NON è IN GRADO DI VALUTARE.
Paradossalmente, in questo modo accetta proprio il principio di autorità, solo che si appella a una diversa autorità. Quale? Non all’autorità della comunità scientifica, ma all’autorità di singoli scienziati che scartano e deviano dalle linee seguite dalla comunità scientifica. E perché mai QUESTA autorità dovrebbe essere più attendibile di quella della comunità scientifica in quanto tale, che si esprime poi in istituti regolatori e di vigilanza? Alla fine ognuno si cerca gli scienziati che dicono quello che desidera sentire. E questo è irrazionalismo puro e semplice.
Un filosofo non può correggere un virologo e un epidemiologo sul suo terreno. La discussione tra punti di vista diversi deve avvenire entro un ambito di competenze determinate: due virologi che la pensano diversamente possono esporre i loro punti di vista alternativi, ed esporli non su FB, ma in primo luogo davanti alla comunità scientifica e poi di fronte all’opinione pubblica.
La scienza è democratica, è pubblica, ma questo non significa che ognuno può dire la sua: vuol dire che è basata sul dibattito, il quale presuppone conoscenze e competenze riconosciute (non la laurea su FB), e avviene in pubblico, davanti a tutti.
Questo è essenziale per ripristinare un rapporto di fiducia con la scienza, un rapporto dialettico ma di rispetto tra filosofia e scienza. Ho scritto un libro di filosofia della medicina, ma non mi curo da me, mi fido di più del mio semplice medico di base, a maggior ragione di uno specialista se c’è un problema. Mi guardo bene dal dare consigli ad altri su come curarsi, e sarebbe criminale se lo facessi: consiglio loro di recarsi da uno specialista.
Questo non è scientismo, e non è neanche mero buon senso: è il nucleo stesso del pensiero filosofico, è il modo in cui la filosofia si ritaglia un ambito di rigore, un suo campo specifico, che ha una sua dignità, una sua importanza, per me fondamentale. E’ il modo in cui dialoga con il sapere scientifico, senza confondersi con esso e senza pretendere di saperne più degli scienziati nel loro specifico campo di competenza.
Con alcuni neuroscienziati che mi onoro di avere tra i miei amici è capitato di dissentire, di fare lunghe discussioni, ma il mio dissenso era sui concetti filosofici che assumevano (per esempio, nel caso dei neuroni specchio, se adottare la nozione di empatia tratta da Lipps, da Scheler o da Husserl), ma quando parlavano del cervello, di quello che accade in esso, di come fanno i loro esperimenti, mi limitavo e mi limito ad ascoltare, ad imparare, a volte sono strabiliato dalla precisione o dall’inventività dei loro esperimenti. Sarebbe un errore se la filosofia pretendesse di insegnare loro qualcosa sulla struttura del cervello e sui nessi neurali. La filosofia si renderebbe ridicola.
Ecco, ultimamente abbiamo fatto tutti un po’ di confusione, e una discussione aperta e autocritica credo sia necessaria, in primo luogo per il bene della filosofia, e poi per la credibilità della scienza, e – perché no? – per non avvelenare la nostra sfera pubblica e la nostra vita democratica.
Comunque, domani c’è lo sciopero generale, e anche la filosofia scende in piazza con i lavoratori. Questa è un’evidenza apodittica, la roccia contro cui la vanga si piega, il punto in cui scienza e filosofia si danno la mano e convergono la dove il mondo del lavoro si mobilita
PS. Il post è il modo in cui vedo le cose, magari sbagliando. Si può non essere d’accordo, e ci sta. Non voglio essere trascinato in una di quella discussioni demenziali in cui tutti mi devono insegnare a pensare. E’ un punto di vista, se non vi piace pazienza. Nu ne famo un drama

LA MODIFICA DEL PANORAMA IDEOLOGICO DI UN’EPOCA, di Pierluigi Fagan

LA MODIFICA DEL PANORAMA IDEOLOGICO DI UN’EPOCA. [Post di teoria politica, quindi di interesse per pochi] In questo post ragioneremo con Gramsci, useremo cioè una struttura del suo pensato per pensare a nostra volta.
Questa fruttifera relazione tra strutture del pensiero venne resa immagine immortale da Giovanni di Salisbury (XII secolo), il quale però la riferiva come detto del suo maestro ovvero Bernardo di Chartres: “siamo come nani montati sulle spalle di giganti”.
L’immagine ha un implicito di “vedere più lontano” o “vedere da più in alto”. Ma al di là della formulazione che ne diede Bernardo, cattura una dinamica delle relazioni tra strutture del pensiero, una dinamica che, sempre in analogia, assomiglia a quella che in chimica si chiama “funzione catalitica”. La funzione catalica opera nelle trasformazioni chimiche (crea del nuovo dal vecchio) ed è svolta da una sostanza o complesso di sostanze che partecipano al processo, con ruolo necessario, senza però venire incluse nell’esito finale. Così, strutture di pensiero che aspirano al nuovo, usano quelle consolidate e più strutturate del vecchio, vi si appoggiano, le usano, per sottrazione o addizione o riformulazione. Il processo serve a produrre tentativi di nuovo pensato sotto due aspetti: quello della struttura del pensiero (riformulazione), quello della modifica della ricetta (addizione di nuovi elementi o sottrazione di vecchi elementi). Per addizione e/o sottrazione e/o riformulazione, si usa in modo catalitico la struttura di un pensiero consolidata, per produrne di nuove o comunque portare il processo cognitivo su altre strade da successivamente sviluppare. Chiaritaci la relazione di pensiero sottesa alla frase “ragioneremo con Gramsci”, accenniamo al suo contenuto.
Ci troviamo in quella area di pensiero dei Quaderni che somma diverse riflessioni sugli intellettuali, l’egemonia, la funzione del partito, l’ideologia, la filosofia della prassi, rapporti tra filosofia e senso comune che pare influenzò anche il Wittgenstein via Sraffa.
Far entrare questi argomenti in un post ha del temerario, ma forse ci serve come appunto del pensiero.
In forma scandalosamente ridotta, Gramsci pensa che alcune forme del pensiero di Marx vadano riformulate (al modo del nano che sale sulle spalle del gigante diventando a sua volta gigante che attrae nuovi nani scalatori), il tutto in un processo sociale dialettico ma anche gnoseologico tra “intellettuali e semplici”, seguendo partizioni di classe sociale, dentro una formazione sistemica che è il partito, al fine di promuovere l’affermazione di un nuovo panorama ideologico, che faccia da premessa ad una nuova affermazione politica.
Abbiamo qui alcuni assunti da precisare: 1) per quanto da modificare, Gramsci ha una “concezione del mondo” (IdM) di profondo riferimento, quella di Marx (non del marxismo, G. anticipa la distinzione “marxiano-marxista” usata variamente da dopo gli anni ’90 qui in Occidente); 2) G. non rinuncia alla partizione sociale di classe stante che quando pensava e scriveva, l’Italia degli anni ’20-’30 del secolo scorso, le classi erano nitide e consistenti (contadini, operai, classe media, classe alta, religiosi, industriali etc.); 3) presuppone come finalità perseguibile, il gioco politico delle democrazie occidentali, attraverso un sistema ritenuto potente quale il “partito”. L’intera storia del PCI ne discende. Dentro questi assunti perimetrali, organizza un pensiero davvero importante e dalle molteplici ricadute, relativamente ai fini che si dava con la sua filosofia della prassi, sostanzialmente la XI Tesi su Feuerbach (mai pubblicate fintanto Marx in vita).
Va notata la stranezza per la quale il G è attivamente studiato nell’accademia anglosassone (soprattutto gli USA), l’intero concetto di “soft power” vi deriva, mentre qui da noi è dimenticato nei polverosi archivi del pensato. Del resto, qui da noi, da almeno trenta anni, non si frequentano più gli archivi del pensato in quanto non si pensa, almeno a quel livello.
Prima di procedere oltre, una breve nota di commento su questo ultimo punto. Nel Q.XI il G. analizza i processi di formazione ed affermazione delle “concezioni del mondo” ovvero quelle che noi chiamiamo qui “immagini di mondo” (tutte riformulazioni del concetto di Weltanschauung che Dilthey trae in implicito dal Kant della KdRV). Come conclusioni brevi della sua analisi segna due punti. Il primo è “non stancarsi mai di ripetere i propri argomenti perché la ripetizione è il mezzo didattico più efficace” consiglio assunto da Goebbels ai pubblicitari fino alla politica da televisione recente e più in generale dalle forme egemoniche liberali-anglosassoni dominanti negli ultimi trenta anni. Il secondo era “lavorare incessantemente per elevare intellettualmente sempre più vasti strati popolari …”. In Italia, negli ultimi trenta anni, l’egemonia più importante l’ha esercitata un personaggio-fenomeno (ovvero un fenomeno che ha avuto vaste ragioni incarnato da un personaggio catalizzatore) che ha operato in osservanza del primo punto e nel ribaltamento simmetrico del secondo: “lavorare incessantemente per degradare intellettualmente sempre più vasti strati popolari, etc.”. Sicuramente, questa idea è stata formalizzata da quell’oscuro consigliere del Principe, palermitano, oggi in carcere e le cui vicende giudiziarie hanno oscurato la sua levatura intellettuale comunque presente e sottovalutata. Questo non spiega tutto della deprimente condizione del pensiero italiano, ma ne è comunque parte consistente.
Tornando al corso principale del nostro pensare con Gramsci, rileviamo alcuni punti critici, non critici del Gramsci ma dell’usabilità della sua ricetta. Il primo punto è il problema delle classi. Al di là del liquidismo baumaniano, abbiamo oggi una teoria sociologica chiara sullo stato delle partizioni e dinamiche sociali nelle nostre società contemporanee? No. Non avendola ci troviamo in un primo pasticcio, non riusciamo ad avere una idea chiara dell’oggetto sul quale vorremmo intervenire. Impossibile modificare il “panorama ideologico” di un’epoca se non si ha conoscenza chiara dell’oggetto sociale (e quindi sul soggetto e/o soggetti promotori di un nuovo programma ideologico).
Il secondo problema è che non abbiamo possibile ricorso all’idea del partito perché l’intero sistema che chiamiamo “democrazia occidentale” si basa su un disguido concettuale: noi continuiamo a chiamare “democrazia” un sistema che non vi corrisponde. Attenzione, chi scrive, non dice che “non vi corrisponde più” come dicono alcuni “risvegliati” recenti, non vi ha mai corrisposto, è un chiaro, longevo e doloroso caso di schizofrenia tra parola e cosa. Pochi o nessuno ha posto attenzione a questo “doloroso caso” per tempo perché il “panorama ideologico” delle teorie politiche era ingombrato da una tesi che usa apposta questa falsa nominazione per confondere ed una antitesi che invece che contestargli l’abuso, farfugliava di elementi misti confusi nell’espressione “dittatura del proletariato”, accluse romanticherie rivoluzionarie, che aveva statuto teorico inconsistente, almeno qui in Occidente.
Il terzo problema chiude e riassume anche gli altri due. Al di là dei mille-ed-uno problemi inerenti la “modifica del panorama ideologico di un’epoca” (sempre Q XI) da analizzare a parte oltre quelli appena accennati, abbiamo noi una “teoria mondo” di riferimento, quale Gramsci l’aveva rispetto a Marx? No. Noi abbiamo molte tesi contro ma nessuna tesi alternativa, quantomeno non in forma di “teoria mondo”. Possiamo avere vaghe immagini di mondo critiche ma nessuna tesi sul mondo che dia alternativa egemonica a quella dominante.
Il post non conclude, è “appunto per il pensiero”. Personalmente, ho la convinzione che i tre punti siano collegati e che risolvendo il secondo (una teoria politica forte della democrazia), applicato al primo (il paesaggio sociale delle società europee occidentali al XXI secolo, a partire dalla nostra), si avrebbe soluzione del terzo. Ma è solo un’ipotesi, un appunto per i “compiti del pensiero” che però volevo condividere con chi è interessato, per provare a “pensare assieme”.

Energia, come l’Italia ha scelto di ridursi alla canna del gas, di Andrea Muratore

Le conseguenze di un paese preda di fondamentalismi e di condizionamenti esterni. Il caro bollette e la crisi energetica non sono conseguenze di un fato avverso, ma di scelte politiche nefaste nella loro continuità e perseveranza_Giuseppe Germinario

Energia, come l’Italia ha scelto di ridursi alla canna del gas

La scelta dell’Italia di castrare il gas nazionale fa sentire i suoi effetti nei giorni della grande paura per i prezzi energetici

Un danno economico, un errore politico, un errore strategico: la scelta dell’Italia di castrare il gas nazionale fa sentire i suoi effetti nei giorni della grande paura per i prezzi energetici. Gli errori del Conte I non sono stati sanati dai giallorossi e dal governo Draghi, almeno fino ad ora. E da Ravenna un attento consigliere regionale avverte sugli effetti a cascata per l’economia nazionale.

Un Paese in bolletta

Al cavallo tra l’estate e l’inverno, tra settembre e ottobre del 2021, l’Italia è la nazione che ha sperimentato i maggiori aumenti nella spesa dei cittadini e delle imprese per le bollette energetiche,   sulla scia della convergenza tra crisi dei rifornimenti e pressioni inflazionistiche. I dati di Energy Live, infatti, segnalano che Roma, già in testa alla classifica del costo in termini di euro per megawatt/ora nel mese di settembre, ha accelerato la sua spirale a ottobre, passando in meda da 158,59 €/MWh a 217,63 €/MWh (+37,22%), un aumento che batte quelli di Spagna (a ottobre 199,90 €/MWh, +28%), Francia (172,58 €/MWh, +27%) e Germania (139,59 €/MWh, +8,74%).

L’Italia alla canna del gas

La crisi dell’energia colpisce i cittadini, le imprese e i consumatori a più livelli in un Paese che è importatore netto di materie prime come il nostro: nel consumo privato, alla pompa di benzina, nelle filiere produttive dalla generazione al consumo finale, sulla scia delle tensioni finanziarie e borsistiche. Ed è a dir poco tafazziano il fatto che nel nostro Paese l’avvicinarsi di quello che potrebbe essere un inverno dello scontento sul fronte energetico vada di pari passo con la paralisi di ogni discussione sullo sfruttamento a pieno regime dell’energia che potrebbe essere il vero e proprio volano di una, almeno moderata, riduzione del fardello: il gas naturale.

Riserve di gas ai minimi già dallo scorso inverno

Martedì 30 novembre il prezzo del gas ha subito una nuova impennata: i future sul metano contrattati alla Borsa di Amsterdam, punto di riferimento per il gas europeo, hanno toccato un massimo di 101 euro. Come riporta Panorama, infatti, “l’’Europa nord-occidentale è stata colpita da ripetute ondate anomale di freddo. Di conseguenza, il volume di gas in stoccaggio nei 27 paesi dell’Unione europea e in Gran Bretagna è sceso dell’equivalente di 58 terawattora (TWh) rispetto all’inizio di ottobre, uno dei più grandi prelievi dell’ultimo decennio. Il problema è che le scorte di gas erano già ai minimi lo scorso inverno, con volumi al livello più basso dal 2013, secondo Gas Infrastructure Europe. E la situazione delle scorte non è migliorata nei mesi successivi”, creando un effetto-valanga che si è ripercosso sui prezzi.

Danni autoinferti con la ripresa della domanda

L’Italia, in questo contesto, è come un ciclista esposto al vento in discesa. Nel 2020, i consumi di gas naturale in Italia sono diminuiti del 4,2% rispetto al 2019, per un totale di 70.651 milioni di metri cubi standard (Smc), rispetto ai 73.770 milioni di Smc dello scorso anno), ma se da un lato nel 2020 le importazioni totali sono state del 6,4% inferiori a quelle del 2019 (pari a 65.855 milioni di Smc, contro 70.356 milioni nel 2019), dall’altro la produzione nazionale è scesa del 15% circa (per un totale di 3.842 milioni di Smc). La ripresa della domanda nel 2021 e la crisi energetica hanno rimesso in campo la questione della necessità di sfruttare la generazione nazionale.

Il Pitesai ostacola lo sfruttamento dei giacimenti nazionali

Dal 2018, quando con il governo Conte I il Movimento Cinque Stelle e la Lega decretarono il rallentamento delle trivellazioni, il problema dell’estrazione nazionale, soprattutto offshore, è diventato annoso. Il Pitesai, «Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee», il piano introdotto nel 2018 ufficialmente come piano regolatore delle trivelle è diventato nella realtà uno strumento per impedire in modo discreto lo sfruttamento dei giacimenti nazionali. Nel gennaio 2019, in particolare, su iniziativa grillina i gialloverdi introdussero una norma che vincolava esplicitamente le ricerche di nuovi giacimenti all’approvazione del Pitesai. Essa sarebbe dovuto arrivare dopo 18 mesi, ma ancora non se ne sa nulla: l’ultima scadenza, dopo alcune proroghe, era fissata al 30 settembre ma il documento non risulta ancora approvato. Anzi, quel giorno prendeva le strade di un ennesimo giro per la Conferenza Stato-Regioni in attesa di essere ulteriormente affinato.

L’import costa dieci volte tanto

“Quello italiano”, nota Il Sole 24 Ore“è metano il cui costo di estrazione si aggira sui 5 centesimi al metro cubo. È una stima indicativa, una media avicola trilussiana, citata da Marco Falcinelli segretario della Filctem Cgil e dall’economista Davide Tabarelli di Nomisma Energia. Ecco invece il prezzo di mercato del gas che l’Italia importa da Paesi remotissimi: fra i 50 e i 70 centesimi al metro cubo, più di 10 volte tanto”, con picchi nel quadro del gas naturale liquefatto importato da Paesi come il Qatar. Nel 2000 l’Italia, per fare un paragone con il presente, estraeva 17 miliardi di metri cubi l’anno principalmente in Adriatico, ove oggi la produzione è ridotta a 800 milioni di metri cubi. Nessun operatore si impegna a mettere un singolo euro sul gas italiano fino a non avere la certezza del via libera del Pitesai. Secondo Assorisorse bisognerebbe investire 322 milioni per raddoppiare a 1,6 miliardi di metri cubi l’anno l’ormai stanca produzione, e un risultato di 10 miliardi di metri cubi l’anno, meno del 60% di inizio millennio, sarebbe ad oggi un trionfo e un toccasana per le tasche dei cittadini.

E in quest’ottica le ricadute economiche per le tasche dei cittadini si uniscono ai problemi per la crescita nazionale. L’energia pesa enormemente in negativo sulla bilancia commerciale italiano e solo nel 2019 ha comportato extra costi per 40 miliardi di euro. E in questo contesto l’Eni, che è per il 30% di proprietà dello Stato, realizza in Italia il 7% della sua produzione, dunque dell’attività operativa che contribuisce a generare flussi di cassa per lo Stato italiano.

La necessità di un cambio di passo: il gas italiano come chiave di volta per la transizione energetica

“Perché invece non programmare la produzione di gas naturale nei giacimenti italiani per i quali Eni possiede già le concessioni e pochi anni fa ha presentato un piano di investimenti consistente di oltre 2 miliardi, che produrrebbe ricchezza per i territori. Il piano porterebbe ad un aumento della produzione delle piattaforme nell’Adriatico, da meno di 40.000 barili equivalenti al giorno a oltre 100.000”, ovvero da meno di 6,2 a 15,5 milioni di metri cubi al giorno, ha dichiarato a Pandora Gianni Bessi.  Consigliere regionale del PD in Emilia-Romagna e analista geopolitico esperto in questioni energetiche, Bessi è da tempo in prima linea per difendere la produzione energetica nazionale sia in un’ottica di rilevanza strategica degli asset italiani sia nella consapevolezza che il gas italiano sia la chiave di volta per abilitare la transizione energetica. Destinata ad essere castrata, piuttosto che aiutata, dalle politiche ideologiche dei gialloverdi.

L’equazione di Mattei: l’energia nazionale è energia a buon mercato

Per Bessi “si potrebbe fare di più, specie nell’estrazione del gas naturale a km zero, incrementando un’attività che va avanti da oltre cinquant’anni”, e che includendo anche l’entroterra richiama all’epoca eroica dell’energia italiana, quella di Enrico Mattei. L’equazione che animava l’azione di Mattei vale ancora oggi: energia nazionale significa energia a buon mercato; energia a buon mercato significa sviluppo e sicurezza economica per i cittadini; sviluppo e sicurezza economica contribuiscono alla sicurezza nazionale.

“Inoltre”, come ha fatto notare Bessi,  l’attività “italiana” di Eni e degli altri player energetici non si limita alla mera estrazione ma “coinvolge le componenti tecnologiche dell’oil&gas made in Italy. Lo scorso autunno dal porto di Ravenna”, città natale del consigliere e capitale dell’energia italiana, “è stata spedita una piattaforma Tolmount destinata al Regno Unito, un manufatto da 5.500 tonnellate progettato e realizzato dalla Rosetti Marino, una commessa di 125 milioni di euro che ha richiesto oltre un milione di ore lavoro di migliaia di tecnici specializzati. È un esempio di come l’oil&gas produca ricchezza non solo economica, ma anche di occupazione di qualità”.

Quell’occupazione di qualità che, aggiungiamo noi, serve come l’aria al Paese per lo sviluppo post-pandemico. Lasciare l’Italia alla canna del gas non è solo un errore politico, ma anche un potenziale suicidio economico che non aiuta affatto a conseguire alcun vantaggio per l’ambiente. E dal Conte I a Draghi ben poco, di fatto, sembra essere cambiato: in tempi di crisi energetica tutto questo dovrebbe ricordarci che la prima transizione di cui necessitiamo è quella verso il buon senso economico.

https://www.true-news.it/economy/energia-come-litalia-ha-scelto-di-ridursi-alla-canna-del-gas

FEDERALISMO E UNITÁ POLITICA, di Teodoro Klitsche de la Grange

FEDERALISMO E UNITÁ POLITICA (pubblicato nel 2008)

1. Nella prima metà del XIX secolo due grandi pensatori europei, Hegel e Tocqueville si posero il problema di come potesse conservarsi uno Stato federale, come gli Stati Uniti d’America, senza che l’Unione godesse di tutti quei poteri che il “centro” delle monarchie europee – cioè il governo monarchico – aveva nel proprio territorio,

Scriveva Hegel:

“Se paragoniamo poi l’America del nord con l’Europa, troviamo laggiù l’esempio costante di una costituzione repubblicana. Cioè l’unità soggettiva, perché vi è un presidente a capo dello Stato, eletto, per prevenire ogni possibile ambizione monarchica, solo per quattro anni. La protezione universale della proprietà e la quasi totale assenza d’imposte sono fatti che vengono continuamente elogiati. Ma con questo è già determinata anche la caratteristica fondamentale di questi Stati. Essa consiste nella tendenza del privato all’acquisto e al guadagno, nella prevalenza dell’interesse particolare, che si volge all’universale solo in servigio del proprio godimento. Vi sono, naturalmente, rapporti di diritto, ed una formale organizzazione giuridica: ma questa conformità al diritto è senza dirittura, e così i commercianti americani hanno la cattiva riputazione di ingannare sotto la protezone del diritto”, e prosegue “l’America del nord non va considerata come uno Stato già formato e maturo ma come uno Stato tuttora in divenire: esso non è ancora tanto progredito, da aver bisogno della monarchia. E’ uno Stato federativo: ma questi, per quel che concerne i loro rapporti con l’estero, sono gli stati peggiori. Solo la sua particolare posizione ha impedito che questa circostanza non causasse la sua totale rovina. Ciò si è visto nell’ultima guerra con l’Inghilterra. I Nord-americani non poterono conquistare il Canadà, e gli Inglesi poterono bombardare Washington, perché la tensione fra le provincie impedì ogni vigorosa azione. Inoltre, gli stati liberi nordamericani non hanno nessuno stato confinante, rispetto a cui siano nella situazione in cui gli stati europei sono reciprocamente, uno stato cioè che debbano considerare con sospetto e contro cui debbano mantenere un esercito stanziale. Il Canadà e il Messico non incutono loro timore, e l’Inghilterra ha fatto ormai esperienza da cinquant’anni che l’America le è più utile libera che dipendente”i.

Quindi da un lato Hegel connetteva la forma istituzionale dello Stato federale alla prevalenza, negli USA, del “privato” sul “pubblico” dall’altro, e più ancora, all’assenza di nemici “credibili” ai confini che consentiva di mantenere un governo debole. Considerazioni simili, e nello stesso periodo di tempo, faceva Tocqueville nella “Démocratie en Amérique”.

Sosteneva Tocqueville: “La più importante di tutte le azioni che possono far riconoscere la vita di un popolo è la guerra. Nella guerra un popolo agisce come un solo individuo di fronte a popoli stranieri: esso lotta per la sua stessa esistenza… Di qui deriva che tutti i popoli, che hanno dovuto sostenere grandi guerre, sono stati condotti, quasi loro malgrado, ad accrescere le forze del governo. Quelli che non sono riusciti a farlo, sono stati conquistati. Una lunga guerra pone quasi sempre le nazioni in questa triste alternativa, che la loro disfatta li consegna alla distruzione, e la loro vittoria al dispotismo.

Perciò, in genere, è in guerra che si rivela, nel modo più visibile e pericoloso, la debolezza di un governo; e ho mostrato come il difetto inerente ai governi federali sia appunto quello di essere molto deboli.

Nel sistema federale, non solo non c’è affatto accentramento amministrativo o qualcosa di simile, ma lo stesso accentramento politico esiste solo in modo incompleto; e questo è sempre una grave causa di debolezza, quando ci si deve difendere contro popoli nei quali è completo”. E ad esempio ricorda lo stesso episodio storico: la guerra con l’Inghilterra bel 1812ii.

Ambedue i pensatori si sono (forse) ispirati a quanto pochi anni prima, aveva cennato De Maistre sulle istituzioni europee ed inglesi in particolareiii.

Per cui la particolare conformazione della Costituzione e del diritto pubblico inglese era ricondotto, in gran parte, alla situazione geo-politica dell’Inghilterra: in analogia con Hegel e Tocqueville per l’America.

D’altro canto il rapporto tra sovranità all’esterno ed all’interno era considerato da Hegel anche nei Grundilinieniv.

2. Peraltro Hegel sottolineava il carattere politico – in quel senso . – del rapporto tra assetto interno e esterno (nemico e guerra), e lo distingueva da un mero decentramento amministrativo. Nell’opera giovanile Verfassung Deutschlands già lo scriveva, in relazione alla “costituzione” dell’Impero tedesco. Sosteneva a dimostrazione della tesi iniziale “La Germania non è più uno Stato” che “Il potere legislativo, quello giudiziario, quello spirituale, quello militare, mescolati nella maniera più disordinata e in parti le più disuguali, sono separati e congiunti, proprio variamente come la proprietà dei privati.

Attraverso dimissioni della Dieta, trattati di pace, capitolazioni elettorali, contratti domestici, deliberazioni della Corte suprema, ecc. la proprietà politica di ciascun membro del corpo statale tedesco è determinata nel modo più accurato”v, per questo ha il diritto di andare in rovinavi. Sosteneva peraltro che l’unità dello Stato non è data dall’uniformità del dirittovii né della religioneviii; ma l’essenziale per aversi uno Stato è che “una moltitudine di uomini si può chiamare uno Stato soltanto se è unita per la comune difesa della sua proprietà in generale” e “L’allestimento di questa effettiva difesa è la potenza dello Stato; esso deve da un lato essere sufficiente a difendere lo Stato contro i nemici interni ed esterni, dall’altro a mantenere se stesso contro l’impeto universale dei singoliix.

Le argomentazioni di Hegel e Tocqueville, comuni ad altri pensatori, si possono riassumere nei seguenti punti:

Che l’assetto dei rapporti o poteri pubblici – cioè la forma politica – è condizionata dalla situazione geo-politica, e, in particolare, dai nemici e dalle guerre possibili.

Che a costituire l’unità politica non è la comune religione, la lingua, e neanche le leggi ed i costumi o i commerci (cioè fattori in se non riconducibili al politico, anche se rilevanti, e spesso assai rilevanti, sul politico), ma è l’unità del popolo sotto un governo.

Che, quindi, ciò che rende debole il governo non è tanto la diversità di legge o di religione, costumi – spesso, si può aggiungere, “superata” grazie al federalismo o al decentramento – ma la divisione del potere politico. Per definire il quale occorre distinguerlo da quello non politico, ancorché pubblico: e in entrambi il criterio di distinzione è, per l’appunto, la guerra, cioè il rapporto estremo con l’hostis. È questo che può porre in gioco l’esistenza della comunità organizzata in Stato, così costituire l’extremus necessitatis casus ed essere la cartina di tornasole della vitalità di uno Stato.

Che, potenzialmente – le diversità ed i gruppi di interesse che sussistono in ogni comunità umana possono, nelle situazioni di crisi, se prevalenti, mettere in forse l’unità politica (e la capacità di difendersi). Se queste così diventano decisive, passano dal privato al pubblico – o meglio al politico (come gli interessi dei mercanti del Massachussets e del Connecticut nella guerra con l’Inghilterra).

3. La progressiva “tecnicizzazione” del diritto pubblico, cui probabilmente ha contribuito non solo il clima generale – di “onnipotenza normativa” – ma anche la specializzazione accademica, ha fatto si che quei rapporti, sopra elencati, tra situazione concreta e forma politica, fossero smarriti e, quel che più conta espunti dalle concezioni (e trattazioni) del diritto pubblico.

Ciò è stato l’effetto di due idola theatri diffusisi negli ultimi secoli.

In primo luogo l’onnipotenza del legislatore o (meglio ancora), del potere costituente. La frase di Sieyès, ricalcata da Rousseau, che la Nazione è “tutto ciò che può essere per il solo fatto di esistere” è stata, a dir poco, mal interpretata. Un sottile politico come Sieyès, oltretutto largamente tributario nelle sue concezioni della teologia cristianax non avrebbe mai pensato di poter prescindere nella fase “costituente” da ogni riferimento concreto e reale, a partire dalla situazione geopolitica, passando per i condizionamenti (e le determinanti) storici e naturali, per finire, in certi casi, alle leggi di “natura”, intendendole se non nel senso dell’ironia di Spinozaxi, come quelle della storia.

Ancora nell’insegnamento di Montesquieu lo “spirito” delle leggi (e a maggior ragione delle costituzioni) erano quei “rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose”xii, e capire le leggi, penetrarne lo “spirito”, era capire quei rapporti concreti e reali; onde, tra l’altro, scriveva che le leggi sono adatte al popolo che le ha “sviluppate” e non ad un altro.xiii Tutto il contrario quello che avvenne dopo, a partire dal tardo illuminismo fino all’età post-rivoluzionaria.

Ironizzava de Maistre che nel secolo XVIII ogni giovane acculturato, appena diplomato, aveva scritto almeno un trattato sull’educazione, una costituzione e un mondo. Incominciò a diffondersi non solo l’immagine del legislateur provvido e onnipotente, ma pure che all’onnipotenza (in diritto) del sovrano corrispondesse, in qualche misura, quella di fatto: la comunità politica era così considerata la materia da plasmare a piacimento dal legislateur. Tradizioni, costumi, condizionamenti politici, culturali e sociali erano conformabili a discrezione: la retta ragione e la bontà dei fini avrebbero creato istituzioni razionali, condivise e legittimate dal consenso generale di esseri razionali (nel senso dell’illuminismo). Gli sviluppi successivi, dalla Vandea agli insorgenti italiani ai guerrilleros spagnoli dimostrarono che la questione non era così semplice, ma il sogno utopico di costruire una società senza rispondenza alle situazioni (e ai problemi) concreti continuò; in particolare inverandosi nell’utopia radicale del marxismo collassato in pochi decennixiv.

Pertanto l’idea di poter elaborare costituzioni a tavolino (diversamente da quanto pensava Cicerone che fondava la superiorità politica di Roma sulla sua costituzione perché frutto delle esperienze e del lavoro di tante generazioni) sopravviveva e si sviluppava, anche per ragioni scientifiche, anche in un ambiente diverso: quello dei giuristi. Levatrice di ciò è stato, in gran parte, l’ideale “avalutativo” della scienza e, del pari, l’idea che, per il giurista interpretare tenendosi distante da tutto ciò che è politico (anche quando, come nel caso, l’oggetto – da studiare – è politico) è la via migliore per essere scientificamente “oggettivi”.

A leggere un manuale di diritto costituzionale o internazionale del periodo del positivismo affermato (cioè da metà del XIX secolo) i presupposti e i condizionamenti politici dell’assetto costituzionale sono di solito appena cennati; ciò che assume rilievo, pressoché esclusivo, è il dato positivo dell’elaborazione della costituzione in (un) atto organico, che il giurista può interpretare a guisa di un super codice. Come se le costituzioni fossero parti dei giuristi che contribuivano a stenderle (su carta). In questo orizzonte, largamente se non totalmente prevalente, la nota forse più stonata fu quella di Lassalle – non a caso un politico e non un giurista – che in una celebre conferenza formulava il concetto (moderno) di costituzione materiale, contrapponendolo a quel “pezzo di carta” (cioè i testi considerati dai giuristi) la cui funzione principale è, secondo Lassalle, di formulare e confermare i rapporti di forze realixv.

L’altro fatto rivelatore del mutato spirito è che se, ancora nel ‘700, si cercava lo “spirito” delle leggi, e la “forma” (in senso aristotelico-tomista, e non procedurale) dello Stato, col positivismo dalla forma – come oggetto d’interesse prevalente – si passa alle norme. Funzione del giurista è d’indagare sulle norme e su come si possa ricostruire l’unità di un sistema partendo dalle norme. Invece nel ‘700 un giurista come Vattel costruiva un sistema di diritto (interno ed internazionale) basandosi sulla forma: guerre in forma, soggetti (del diritto internazionale) in forma, rapporti formali.

Nel rapporto tra diritto interno ed internazionale il raccordo tra le due sfere (interna ed esterna) non si regge più sulla forma della struttura statale pubblica, ma si ricorre ad armamentario ed a principi e concetti propriamente giuridici. Scrive Triepel in un’opera “classica” sulle relazioni tra diritto interno e diritto internazionale: “La natura delle relazioni intercedenti fra questo diritto ed il diritto internazionale può essere molto varia. Vi possono essere norme di diritto interno la cui esistenza ovvero il cui contenuto dipende da norme di diritto internazionale; può darsi che le prime tutelino anche dalle seconde; le dette norme talora operano con concetti che si possono chiamare “di diritto internazionale”; di tutto ciò non mi è dato far qui che un semplice cenno, poiché sono appunto queste relazioni che dovremo esaminare minutamente nelle pagine che seguono”xvi. Per ricostruire queste relazioni tra norme è centrale il concetto d’ “impenetrabilità” dello Stato ( e cioè il monopolio territoriale della decisione su ciò che debba essere diritto – un elemento della forma-Stato) come di “recezione” o di “rinvio”. E’ chiaro tuttavia che impenetrabilità, rinvio, recezione presuppongono una struttura – una forma – dello Stato in grado in fatto prima che in diritto di “chiudere” il proprio territorio ad ogni potere esterno. Cioè (in primo luogo) eserciti stanziali e permanenti, flotte, efficienti difese delle frontiere e delle coste: strumenti per assicurare il monopolio della decisione politica e della forza legittima (e di conseguenza, anche se meno rilevante, del diritto applicato).

Ed è tale forma che garantisce non solo l’impenetrabilità, ma anche l’osservanza, ad esempio del diritto internazionale (cioè del diritto esterno): una tribù o anche uno Stato feudale ha probabilità assai minore di assicurare l’applicazione delle norme di un trattato internazionale di quanto ne abbia uno Stato moderno, anche un po’ malmesso come la Repubblica italiana. In uno Stato “fallito” (come ad es. la Somalia) la possibilità di far osservare il diritto internazionale (ed anche quello “interno”) è minima. Il tutto conferma l’immagine con cui Santi Romano sintetizzava il rapporto tra ordinamento e norme paragonando il primo al giocatore di scacchi, le seconde alle pedine mosse dallo stesso.

Ciò che è evidente è che quel rapporto tra norme è possibile solo se i soggetti tenuti ad applicarle hanno una forma ed esercitano un potere effettivo senza i quali il rapporto tra interno ed esterno può anche essere giuridicamente regolato e valido, ma è del tutto inutile. All’inizio del secolo scorso Schmitt, Hauriou e Santi Romano invertirono i termini del problema: è l’unità dell’ordinamento (l’istituzione) a dare unità al sistema normativo e non l’inverso.

4. Ad applicare alla situazione del mondo (contemporanea) le tesi desunte da Hegel e Tocqueville ne derivano conseguenze interessanti.

In primo luogo che a costituire una federazione, non è tanto necessaria l’omogeneità culturale delle comunità federate, ma l’unità politica. Ne deriva che la costituzione di super-Stati (differenti su tutto) sarebbe possibile ove vi fosse una effettiva unità politica. Dato che il criterio di quell’unità sono per l’appunto il monopolio della decisione sul nemico e la guerra (e la competenza a identificare il primo e dichiarare la seconda), ne consegue che occorre che la federazione per essere tale e non una mera unione di Stati anche se molto vicini culturalmente (come l’Unione europea), deve avere il monopolio dell’una e dell’altraxvii.

Pensare di realizzare un’unità di Stati, senza politico, è fermarsi all’anticamera dell’unità, senza raggiungerla mai.

Del pari l’entusiasmo politicamente corretto che accompagna ogni nuova istituzione, Ente, Tribunale purchè internazionale (Sabino Cassese ne ha contati oltre duemila) è mal speso e non vale a promuovere l’unità politica. Fin quando lo jus belli e le forze armate apparterranno agli Stati (e, in certi casi, ai movimenti di guerriglia) che vi siano Tribunali, agenzie (e monete) internazionali potrà essere edificante e spesso anche utile, ma non costituisce un fatto politico decisivo e tantomeno impedirà la guerra.

Neppure l’unità del diritto serve a produrre l’unità politica. A parte che per unificazione del diritto per lo più s’intende quello privato (o comunque non politico), è indubbio che una omogeneizzazione della normativa applicabile può essere d’aiuto agli scambi internazionali. Ciò che viene meno notato è come il diritto pubblico, e in particolare quello per essenza politico, non è oggetto di quasi nessun intervento. Si emanano norme e sottoscrivono trattati per i titoli di credito, società, strumenti finanziari e così via, ma non ci risulta che l’U.E. (ad esempio) abbia mai dato direttive sui poteri dei parlamenti, sulle competenze delle regioni degli Stati membri, sulle leggi elettorali, tanto meno sulla competenza a dichiarare la guerra. L’unico ambito del diritto pubblico su cui vi sia qualche normazione “internazionale” (oltre a quello amministrativo) è quello penale. Ma è troppo poco – e troppo evanescente – perché possa inficiare la regola che si omogeneizza il diritto privato ma non quello pubblico. Proprio perciò politicamente l’ “omogeneizzazione” giuridica è poco (o del tutto) irrilevante; per il suo carattere non-politico investe quello che Hauriou chiamava il diritto comune (Dike), contrapponendolo al diritto disciplinare (Thémis)xviii: il primo esterno ai gruppi (sociali), ai clan e alle famiglie e aggiunge “noi diremmo, oggigiorno, internazionalexix,il secondo interno a quelli.

Per cui la (comune) Dike non serve a mutarla in Themis e tantomeno a farla trasformare in qualcosa di politicamente decisivo. Piuttosto il confondere gli indubbi vantaggi che sul piano economico (degli scambi) e anche per altri ambiti dell’esistenza umana (aventi carattere privato) può avere l’omogeneità giuridica significa non percepire la peculiarità del politico e la distinzione tra pubblico e privato.

5. Un’altra considerazione occorre dedicare al problema in che modo i principi sopra ripetuti possano operare in un contesto che non è più quello “classico” degli Stati moderni (o dei di essi “tipi” come quello federale).

I “tipi” di relazioni con cui le unità politiche possono limitare la sovranità e/o l’indipendenza nella produzione ed applicazione del diritto sono diversi.

In particolare, se, come scrive Schmittxx “la federazione è un’associazione permanente, che serve al comune fine di autoconservazione politica di tutti i membri della federazione”, occorre considerare anche quei tipi di rapporti non riconducibili ad una federazione (o ad uno Stato federale).

Fatta questa premessa, occorre distinguere tra limitazioni alla sovranità, e limitazioni all’indipendenza.

Tra le limitazioni alla sovranità, tra la fine della seconda guerra mondiale a oggi, ve ne sono state (frequenti), anche a quella interna non riconducibili a quei rapporti e modelli già conosciuti e “classici” (ad esempio il protettorato). Caso clamoroso quello del quale fu “esternata” la dottrina della “sovranità limitata” degli Stati aderenti al “Patto di Varsavia”. Ma una menzione particolare (anche per gli effetti) compete alla Dichiarazione di Yalta sull’Europa liberata dove, tra le molte limitazioni enunciate v’è la seguente “Nel momento in cui, secondo l’opinione congiunta dei tre Governi, le condizioni di uno degli Stati Europei liberati o di quelli satelliti dell’Asse Europeo imponessero di intervenire, i suddetti tre Governi si consulteranno immediatamente tra loro per stabilire le misure necessarie da adottare e adempiere così agli obblighi previsti da questa dichiarazione”.

Il senso e gli effetti di tale dichiarazione sono chiari: i vincitori si riservavano il diritto d’intervento all’interno dei singoli Stati occupati, diritto ovviamente indefinito nei presupposti e nel contenuto (delle misure) e quindi determinabile a discrezione degli Stati vittoriosi : tale affermazione costituisce una limitazione alla sovranità interna, quella cioè che in molti Stati membri di una federazione, compete di solito ai medesimi e non alla federazionexxi.

Diversamente da una federazione le limitazioni alla sovranità come quelle sopra ricordate non comportano la garanzia dell’esistenza politica e della sicurezza degli Stati (federati), che Schmitt ritiene una delle conseguenze del “contratto federale”xxii.

Mentre nel patto costitutivo della federazione c’è ancora un “sinallagma” come garanzia di protezione (e obbedienza) che giustifica anche la forma “pattizia” o “contrattuale”, nelle dichiarazioni di Yalta tutto si risolve nella volontà dei vincitori (quindi egemoni in forza della vittoria e della conseguente occupazione militare) i quali dettano le condizioni di sviluppo politico degli Stati occupati, si riservano la facoltà di interpretarle/applicarle e di intervenire di conseguenza.

Non meraviglia che con la firma dei trattati di pace alcune limitazioni alla sovranità (interna) divenissero clausole del trattato stesso, come notò Vittorio Emanuele Orlando nel discorso alla Costituente contro l’approvazione del trattatoxxiii. Ciò non esclude che con un Trattato possano accordarsi quelle garanzie: tuttavia mentre nel caso della federazione ineriscono alla natura dello stesso e sono, come scrive Schmitt, la conseguenza dell’esistenza associata sia degli Stati membri che dello Stato federalexxiv, nel caso del trattato dipendono totalmente dalla volontà degli Stati contraenti (e sono soggette alle riserve comuni a tutti i trattati).

Spesso connesse alle limitazioni alla sovranità vi sono quelle all’indipendenza nell’esercizio del potere normativo o in quello di “polizia” e giudiziario. La recente normativa internazionale finalizzata alla lotta al terrorismo ce ne offre diversi esempi in cui taluno, non senza fondamento, ravvisa la formazione di una sorta di controllo degli Stati Uniti sugli altri Stati del pianeta, sviluppantesi – e questo è il carattere “originale” – non tramite eserciti e occupazioni militari ma con forme di dipendenza delle burocrazie giudiziarie e amministrative degli Stati “soggetti” al potere “imperiale”xxv dello Stato-guida.

Il che costituirebbe una forma di egemonia esercitata in un’epoca in cui si fa un gran parlare di governance, termine che difetta di quella chiarezza e distinzione di solito comune alla terminologia del periodo statale “classico”.

6. È difficile definire un’impero. Il termine è stato applicato a tante diverse forme politiche, dall’impero persiano achemenide a quello romano, dal Sacro romano Impero a quelli coloniali degli Stati europei dalla Rinascenza al secolo scorso, solo per citare quelli più familiari alla nostra cultura.

Trovare forme e tratti comuni tra Dario e Carlo Magno non è facile: tuttavia un primo tentativo di delinearne i caratteri si può iniziare partendo dai connotati tipici e salienti dello Stato moderno e notare le differenze: delimitando cioè l’Impero, in modo negativo, da ciò che è Stato.

In primo luogo nell’Impero non vi è il monopolio della decisione politica e della violenza legittima, invece connotati fondamentali dello Stato moderno, come sostenuto da Max Weber e Carl Schmitt. L’individuazione/designazione del nemico e l’esercizio dello jus belli è distribuito tra il centro e le periferie dell’Impero.

L’Anabasi offre una rappresentazione di ciò che avveniva nell’Impero achemenide: Artaserse non percepisce come ostili i preparativi del fratello Ciro di muovergli guerra perché crede che lo stesso volesse far guerra a (un altro satrapo) Tissaferne e ciò oltre a sembrargli normale non gli dispiaceva “affatto che si facessero guerra tra loro”xxvi (probabilmente perché così erano troppo impegnati per farla a lui). Ciro, per raggiungere il centro dell’impero e combattere col fratello attraversa territori, ottenendo aiuti da una parte e combattendo dall’altra; lo stesso aveva giustificato la spedizione militare come rivolta contro i Pisidi, altri sudditi dell’impero Persiano; tutta la posizione e la politica di Tissaferne nei confronti dei mercenari greci in ritirata è dominata dalla preoccupazione che possano fargli guerra nei suoi domini di satrapo.

In altre parole né monopolio dello jus belli né una situazione di pace all’interno e guerra all’esterno (l’aspirazione/situazione “statale”) facevano parte della normalità dell’Impero persiano. Lo stesso per altri imperi, segnatamente per il Sacro Romano Impero e in genere la società feudale, dove le guerre tra vassalli, comuni, e di questi (e del Papa) contro l’Imperatore costituivano la situazione normale. Contrariamente a quanto accade anche negli Stati federali, lo jus belli non è monopolizzato dal centro; si ha una situazione simile a quella descritta da Grozio, quando distingue le guerre pubbliche da quelle privatexxvii.

La seconda distinzione, tipica dello Stato moderno, è quella “spaziale” tra interno ed esterno, che ha un connotato del tutto specifico il quale delinea due “status” o situazioni differenti e, in molti casi, opposti: quello tra ordinamento (e quindi diritto) interno ed esterno.

Quello interno si basa sul potere-dovere (e le correlative responsabilità, interna ed internazionale) di mantenere la pace (e l’ordine) all’interno dello Stato; a tale scopo la sovranità è irresistibile (c’è una volontà prevalente) dai poteri “interni” e ha quindi il potere (e il dovere) per mantenere la pace. All’esterno coesistono più unità politiche, in principio uguali (non c’è una volontà prevalente) e il mezzo per far valere, realizzare far riconoscere (e regolare) i propri diritti ed interessi è il trattato e, in caso di disaccordo, la guerra. Questa, che all’interno è in linea di principio vietata e considerata attività criminale, all’esterno dell’unità politica è, in linea di principio, legittima se esercitata tra Stati sovrani. In molti imperi non è così: il legame pace-interno e guerra-esterno non è netto: non c’è uno spazio pacificato, qualitativamente opposto a quello d’oltre confine. La distinzione è, al massimo, quantitativa: le guerre interne sono, per le forze relative dei contendenti, meno pericolose e dannose (ma non è sempre sicuro) di quelle esterne. Il confine tra interno ed esterno consegue a questa separazione netta: diversamente dalle società feudali (dove i rapporti di vassallaggio e i conseguenti diritti e doveri attraversavano i confini per cui il Re d’Inghilterra era vassallo – ed aveva propri vassalli – nel Regno di Francia), nello Stato moderno il confine significa l’esclusività e l’irresistibilità (all’interno) del potere sovrano che ne esclude ogni altro della stessa natura.

In terzo luogo il rapporto tra comando/obbedienza e il connesso dovere di protezione (quest’ultimo costituente, secondo Hobbes, il fondamento dell’obbligazione politica)xxviii: nello Stato la sovranità esclude che vi sia un rapporto comando/obbedienza tra i sudditi ed altri poteri che possa prevalere sullo stesso rapporto con lo Stato. Nell’impero ciò non appare definito, onde vi possono essere diversi rapporti, potenzialmente (e spesso in atto) conflittuali tra loro.

Nella società feudale si poteva essere vassalli di più signori e quindi obbligati alla fedeltà ad entrambi: in caso di conflitto politico, o di guerra tra i seniores, la situazione che ne derivava era, a dir poco, confusa. Anche il rapporto di protezione/obbedienza conseguentemente ne veniva incrinato.

Quanto alla sovranità, chiave dello Stato moderno, in conseguenza di quanto sopra, negli imperi non appare dotata dei connotati costruiti da alcuni secoli di dottrina dello Stato moderno. Dei quali, i più importanti sono: l’illimitatezza (o irresistibilità)xxix e la generalità nel senso che il sovrano è competente a provvedere su tutto e “giudice” di tutto, anche della propria competenza.

Il primo peraltro, come scriveva Romagnosi, è un carattere essenziale che distingue nettamente e qualitativamente la sovranità da ogni altro potere di comando (tutti in qualche modo limitati e resistibili); mentre il potere “imperiale” appare differire dagli altri poteri pubblici essenzialmente per dimensioni (spaziali) e per collocazione (sta “sopra” agli altri, ma essenzialmente è un primus inter pares), cioè per differenze “quantitative” (è più potente, non è illimitatamente potente).

Del pari il potere imperiale, nato generalmente come sovrapposizione a precedenti poteri e organizzazioni politiche, ha una competenza non generale, né è giudice della propria competenza (come nella società feudale).

Raymond Aron distingue di conseguenza tre tipi di pacexxx, e, correlativamente tre tipi di guerrexxxi, anche in relazione alla esistenza di imperi.

7. La lezione desumibile da Hegel e Tocqueville è quindi utilmente applicabile alla situazione contemporanea.

In primo luogo né il diritto, né l’economia (e neppure altri “ambiti” dell’esistenza umana, come la morale o l’arte) possono costituire ex se il fondamento per l’unità politica. Anzi nel pensiero di Hegel il privato (nei passi sopra citati rapportato all’attività economica) è una causa di dissoluzione dell’unità politica: è l’ordinamento privatistico (e patrimonialistico) dell’Impero germanico a determinarne la rovina, sì da soccombere a Napoleone. La stessa tendenza del privato “all’acquisto ed al guadagno, nella prevalenza dell’interesse particolare” è l’attitudine spirituale meno idonea a costituire e consolidare uno Stato; nei Grundinien des philosophie des Rechts il concetto viene ribaditoxxxii.

Neppure l’esistenza di un’amministrazione nè di una burocrazia (e di regole per il funzionamento dell’una e dell’altra) è, di per sé, decisivo per l’unità politica: l’utopia di Saint-Simon di sostituire al governo degli uomini l’amministrazione delle cose si rivela fallace anche in ambito “internazionale”. Il moltiplicarsi di Enti, istituti, funzionari internazionali non ha fatto progredire affatto la pace, né eliminato e forse neppure ridotto le guerre. La spiegazione l’aveva già data Tocqueville quando nel passo sopra citato parla di debolezza dello Stato federale in relazione all’accentramento amministrativo (non all’amministrazione in genere, men che mai “autonoma”, come va di moda).

È l’amministrazione accentrata cioè l’apparato burocratico gerarchicamente organizzato e dipendente dal vertice politico a costituire fattore e garanzia di unità. In altre parole è un’amministrazione organizzata intorno al “presupposto” del politicoxxxiii del rapporto di comando/obbedienza, (cioè a servizio di un potere politico), a poter realizzare lo scopo, e non una qualsiasi amministrazione, solo perché dotata di bolli, timbri e registri. Senza “governo” la burocrazia (di un potere razionale-legale) porta in se solo l’idea di “regola”, ma non quella, necessaria, di “coazione”.

E del pari sia Hegel che Tocqueville attribuiscono carattere decisivo alla guerra (ed all’esistenza – ed alla scelta – del nemico). E’ questo, se ne desume, anticipando Schmitt (o seguendo Hobbes) a rivestire carattere decisivo per l’unità politica – e per l’esistenza della medesima. E’ il rapporto tra interno ed esterno, forma istituzionale e situazione concreta, in particolare geo-politica, a modellarla come vitale; ciò fino a determinare, in molti casi, la scelta tra rafforzamento del governo (per esistere come unità politica) e perdita (o compressione) delle libertà sociali ed individuali, con ricaduta nel dispotismo.

Ove si costruisca un’unità politica superiore non si sfugge al “criterio del politico”, il quale è decisivo: federazioni o unioni di Stati costruiti su burocrazie zelanti e regolamentazioni economiche (e sociali) non sono unità politiche, proprio perché mille funzionari non fanno un buon esercito.

Quanto all’altro aspetto – dell’impero o meglio degli imperi prossimi venturi – appare sicuro che, per esistere politicamente, devono avere anch’essi quel carattere anche se – a differenza dello Stato – distribuito tra centro e periferia, e perciò non monopolizzato.

Le conseguenze della “costituzione” di un potere imperiale, cioè di un potere non esclusivo ma prevalente, oscillante tra mera superiorità ed egemonia, si intravedono già nelle “nuove forme” di guerra, site al confine (concettuale) tra operazioni di polizia e guerra (vera e propria), e spesso caratterizzate da un confronto tra una potenza enorme e proprio perché tale molto vulnerabile e potenze minime e di conseguenza quasi invulnerabili: costituenti il tipo ideale (ed estremo) della guerra asimmetrica.

Il tutto non lascia intravedere uno sviluppo sicuramente pacifico: se lo jus publicum europeaum aveva ridotto le occasioni di justum bellum privandone gran parte dei soggetti “legittimati” alla guerra (dai grandi feudatari ai Comuni, alle compagnie di ventura), e costruendo lo Stato moderno come produttore di pace, non appare confortante l’idea di una “redistribuzione” dello jus belli tra diversi soggetti “regolari”e “irregolari”: una situazione neo-feudale.

Augusto dispose tre volte la chiusura del Tempio di Giano come simbolo della conseguita pax imperiale. Difficilmente in un’età imperiale, come quella che si profila nel futuro, si potrà procedere ad un atto analogo.

Teodoro Klitsche de la Grange

i V. LFS trad. it. Firenze 1941, p. 229-231 (i corsivi sono nostri).

ii “La costituzione dà al Congresso il diritto di chiamare in servizio attivo la milizia dei diversi Stati, quando si tratta di reprimere un’insurrezione o di respingere un’invasione; un altro articolo dice che, in questo caso, il Presidente degli Stati Uniti è il comandante in capo dell’esercito.

All’epoca della guerra del 1812, il Presidente ordinò alle forze militari del Nord di portarsi verso le frontiere; il Connecticut e il Massachussets, i cui interessi erano danneggiati dalla guerra, rifiutarono di inviare il loro contingente.

La costituzione, essi dissero, autorizza il governo federale a servirsi delle milizie territoriali in caso di insurrezione o di invasione; ora, nel caso presente, non c’è né insurrezione né invasione. Aggiunsero poi che la stessa costituzione, che dava all’Unione il diritto di chiamare le milizie in servizio attivo, lasciava agli Stati il diritto di nominare gli ufficiali; ne deriva, secondo loro, che in guerra nessun ufficiale dell’Unione aveva il diritto di comandare le milizie, eccetto il Presidente in persona. Ora, si trattava di servire in un esercito comandato da un altro.

Queste teorie assurde e distruttrici ricevettero non solo la sanzione dei Governatori e del corpo legislativo, ma anche quella delle Corti di giustizia di questi due Stati” e prosegue “Per quale ragione, dunque, l’Unione americana, per quanto protetta dalla relativa perfezione delle sue leggi, non si dissolve in mezzo a una grande guerra? Per la semplice ragione che non ha grandi guerre da temere.

Posta al centro di un continente immenso, in cui l’industria umana può estendersi senza limiti, l’Unione è isolata dal mondo quasi come se fosse circondata da ogni parte dall’Oceano.

Il Canada non conta che un milione d’abitanti: la sua popolazione è divisa in due nazioni nemiche. I rigori del clima limitano l’estensione del suo territorio e chiudono per sei mesi i suoi porti.

Al sud l’Unione tocca l’Impero del Messico; probabilmente è di qui che, un giorno, potranno venire grandi guerre. Ma, per lungo tempo ancora, il grado poco avanzato di civiltà, la corruzione dei costumi e la miseria impediranno al Messico di occupare un posto elevato tra le nazioni. Quanto alle potenze europee, la loro lontananza le rende poco temibili” concludendo “La grande fortuna degli Stati Uniti non è, dunque, quella d’aver trovato una costituzione federale, che permetta loro di sostenere grandi guerre, ma quella di avere una posizione geografica tale da non dover temere grandi conflitti.

Nessuno saprebbe apprezzare più di me i vantaggi del sistema federale. Vi vedo una delle più valide combinazioni in favore della prosperità e della libertà umane. Invidio la sorte idi quelle nazioni alle quali è stato permesso d’adottarlo. Ma, nondimeno, mi rifiuto di credere che dei popoli confederati possano lottare a lungo, a parità di forze, contro una nazione, dove il potere di governo è centralizzato” (i corsivi sono nostri) – v. La Démocratie en Amérique, libro I, parte I, trad. it. Torino, p. 200 ss.

iii “…il più grosso problema europeo è di sapere come si possa ridurre il potere sovrano senza distruggerlo.

Si fa presto a dire: «Ci vogliono delle leggi fondamentali, ci vuole una costituzione». Ma chi istituirà queste leggi fondamentali, e chi le farà attuare? Il gruppo o l’individuo che ne avesse la forza sarebbe sovrano, poiché sarebbe più forte del sovrano, di modo che, per l’atto stesso dell’istituzione, lo detronizzerebbe. Se la legge costituzionale è una concessione del sovrano, il problema si ripresenta. Chi impedirà che uno dei suoi successori la violi?… D’altra parte, si sa che i numerosi tentativi fatti per ridurre il potere sovrano non sono mai riusciti a far venire la voglia di imitarli. L’Inghilterra sola, favorita dall’Oceano che la circonda e da una carattere nazionale che si presta a queste esperienze, ha potuto fare qualcosa del genereDu pape, Lib. II, cap. II, trad. it. di A. Pasquali, Milano 1995, p. 158 (i corsivi sono nostri).

ivL’idealità che fa la sua comparsa nella guerra, venendosi così a trovare come in un rapporto accidentale con l’esterno, è in realtà identica all’idealità secondo cui i poteri statuali interni sono momenti organici del Tutto.

Sul piano dei fenomeni storici, questa identità si presenta, tra l’altro, nella figura per cui guerre fortunate hanno impedito irrequietudini interne e hanno consolidato la forza interna dello Stato.

Un fenomeno che rientra appunto in questo ordine è quello dei popoli che, non volendo oppure paventando sopportare una sovranità all’interno, sono stati soggiogati da altri popoli, e che si sono impegnati per la loro indipendenza con tanto minore successo e onore quanto meno si è potuto produrre al loro interno un primo serio assetto del potere statuale – popoli la cui libertà è morta per la paura di morire” (i corsivi sono nostri) LFD § 325 di V. Cicero, Milano 1996, p. 545.

v E proseguiva “da un lato questa legalità di mantenere ogni parte nella sua separazione dallo Stato, dall’altro le necessarie pretese dello Stato sul singolo membro di esso stanno nel più completo contrasto. Lo Stato richiede un centro comune, un monarca e degli stati in cui si riuniscano i diversi poteri, i rapporti con potenze straniere, le potenze militari, le finanze che hanno con esso relazione ecc.; un centro che avrebbe anche per la direzione, la necessaria potenza di affermare se stesso e le sue decisioni e di mantenere le singole parti in dipendenza da se. Atraverso il diritto invece è assicurato ai singoli Stati un’indipendenza quasi totale o addirittura totale… L’edificio statale tedesco non è null’altro che la somma dei diritti che le singole parti hanno sottratto al tutto; e questa legalità che veglia sollecitamente a che allo Stato non rimanga più alcun potere è l’essenza della costituzione” Op. cit. pag. 19.

vi E così prosegue “la Germania può essere saccheggiata e ingiuriata: il teorico del diritto statale saprà mostrare che tutto ciò è del tutto conforme ai diritti e alla prassi e che tutti i casi di infelicità sono piccolezze nei confronti dell’uso di questa legalità. Se il modo infelice in cui la guerra è stata condotta risiede nella condotta dei singoli stati, dei quali l’uno non inviò alcun contingente, moltissimi inviarono, invece che dei soldati, delle reclute arruolate appena ora, l’altro non pagò nessuna «mensilità romana», un terzo al tempo del più grande bisogno ritirò il suo contingente, molti conclusero trattati di pace e contratti di neutralità, la maggior parte ognuno alla sua maniera, annullò la difesa della Germania: allora il diritto statale dimostra che gli Stati hanno il diritto di una siffatta condotta, hanno il diritto di portare il tutto al più grande pericolo danno e sventura; e poiché questi sono diritti, i singoli e le comunità devono salvaguardare e difendere rigorosissimamente questi diritti di essere mandati in rovina. Per questo edificio giuridico dello Stato tedesco forse non esiste dunque nessuna insegna più adatta di questa: Fiat justitia, pereat Germania!”op. cit. trad it. in Scritti politici, Bari 1961 pp. 21.

vii Riguardo alle leggi propriamente civili e alla amministrazione della giustizia, né l’uguaglianza delle leggi e della procedura giuridica potrebbero rendere l’Europa uno Stato (tanto poco quanto l’uguaglianza dei pesi, delle misure e della moneta), né la loro diversità impedisce l’unità di uno Stato” perché “ i più potenti degli Stati effettivi hanno leggi assolutamente non uniformi. La Francia aveva prima della Rivoluzione una tale molteplicità di leggi che, oltre al diritto romano che valeva in molte province, in altre dominava quello burgundisco, quello britannico, ecc. e quasi ogni provincia, anzi quasi ogni città aveva una particolare legge tradizionale; uno scrittore francese disse a ragione che chi viaggiasse lungo la Francia doveva cambiare leggi tanto frequentemente quanto i cavalli dei servizi postali.

Non meno fuori dal concetto dello Stato giace la circostanza dello stabilire da quale particolare potenza, o secondo quale rapporto di partecipazione dei diversi stati o dei cittadini in generale devono essere date le leggi; Op. cit. pp. 32-22 (i corsivi sono nostri).

viii Quanto poco, prima e in sguito, la somiglianza delle religioni nella separazione in popoli potè impedire le guerre e riunirli in uno Stato, altrettanto poco nei nostri tempi la diversità della religione sgretola uno Stato. Op. cit. p. 36

ix Op. cit. p. 44 (i corsivi sono nostri)

x Mi si consenta di rinviare a quanto da me scritto in Diritto divino provvidenziale e dottrina dello Stato borghese in Behemoth n. 41, p. 25 ss.

xi v. Trattato politico, trad. it. Torino 1958, p. 205.

xii Montesquieu, Esprit des lois I, 1, 1

xiii Montesquieu, Esprit des lois, 1. I, 3: le leggi «doivent être tellement propres au peuple pour lequel elles sont faites, que c’est un trés grand hasard si celles d’une nation peuvent convenir à une autre».

xiv Era cioè proprio il contrario di quanto sosteneva Montesquieu. Ovvero che le leggi “devono essere in armonia con la natura e col principio del governo costituito, o che si vuol costituire, sia che lo formino, come fanno le leggi politiche; oppure che lo mantengano, come fanno le leggi civili.

Queste leggi debbono essere in relazione col carattere fisico del paese, col suo clima gelato, ardente o temperato; con la qualità del terreno, con la sua situazione, con la sua estensione, col genere di vita dei popoli che vi abitano, siano essi coltivatori, cacciatori o pastori: esse debbono essere in armonia col grado di libertà che la costituzione è capace di sopportare, con la religione degli abitanti, le loro disposizioni, la loro ricchezza, il loro numero, i loro commerci, costumi, maniere. Finalmente, esse hanno relazioni reciproche; con la loro origine, col fine del legislatore, con l’ordine delle cose sulle quali esse sono state costituite. Noi le dobbiamo considerare sotto tutti questi vari aspetti, ed è appunto ciò che intendo fare nella mia opera. Esaminerò tutte queste relazioni: esse, nel loro insieme, formano ciò che viene chiamato lo spirito delle leggi”. Lo spirito delle leggi deriva quindi dalle relazioni con i condizionamenti concreti e reali (tra cui i nemici e le guerre possibili) che erano considerati nei libri IX e X, che costituicono una vera miniera di intuizioni sul rapporto tra fattori geo-politici e istituzionali.

xv V. Über verfassungswesen, trad. it. in Behemoth n. 20, p. 5 ss.. E’ da notare che Lassalle muoveva una critica penetrante ai giuristi suoi contemporanei “tutte queste definizioni giuridiche formalmente simili aono altrettanto lontane quanto la precedente risposta in ordine alla costruzione di una risposta effettiva alla mia domanda. Perché tutte queste risposte contengono sempre e solo una descrizione esterna del come una costituzione viene ad esistenza e di ciò che una costituzione fa, ma non l’informazione: cosa una costituzione è. Esse indicano criteri, segni di riconoscimento, da cui si riconosce una costituzione dall’esterno e sul piano giuridico” per cui concludeva “ Gli effettivi rapporti di potere che sussistono in ogmi società sono quella forza effettivamente in vigore che determina tutte le leggi e le istituzioni giuridiche di questa società, cosicchè queste ultime essenzialmente non possono essere diverse da come sono” i corsivi sono nostri. V. op. cit. p. 5-6.

xvi H. Triepel Völkerrecht und Laudesrechts, trad. it. Torino 1913 pp. 4-5. (i corsivi sono nostri)

xvii Montesquieu considerava con favore le repubbliche federate perché federarsi è l’unico modo per dei piccoli Stati, di difendersi. “Furono queste associazioni a render fiorente per così lungo tempo la Grecia. Grazie ad esse i Romani attaccarono il mondo intero, e grazie ad esse sole il mondo intero si difese contro di loro. Quando Roma raggiunse il massimo della propria grandezza, fu per mezzo di simili associazioni poste oltre il Danubio ed il Reno, e sorte per effetto della paura, che i barbari poterono resistere… Le associazioni tra città erano in altri tempi più necessaria di quanto non lo siano oggi. Una città mal difesa correva rischi gravissimi. Essere conquistata significava la perdita non soltanto del potere esecutivo e legislativo, come avviene oggi, ma anche di tutte le proprietà individuali”. Poco dopo specificava che il non poter contrarre alleanza significa per l’appunto di non poter condurre una politica estera diversa dalla federazione Esprit des lois, Lib. IX, cap. 1-3.

xviii “Tutte le istituzioni generano un diritto disciplinare che resta al loro interno, si caratterizza per essere gerarchico e perché, davanti ai Tribunali che lo applicano, le parti non sono in posizione d’eguaglianza” Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, p. 98.

xix Hauriou op.loc. cit., e aggiunge “Mentre Thémis ha la propria fonte nell’organizzazione sociale, Dike trova la propria nella socievolezza umana che non perde i propri diritti neppure di fronte agli stranieri, e del pari di fronte ai nemici”.

xx Verfassungslehre trad. it. di A. Caracciolo, p. 477, Milano 1984.

xxi v. sul punto C. Schmitt op.cit.p. 493: “Ma poiché le questioni dell’esistenza politica possono presentarsi diversamente nei diversi ambiti, specialmente in politica estera ed interna, allora è possibile che la decisione su una specie determinata di siffatte questioni, per esempio le questioni dell’esistenza in politica estera, abbia luogo nella federazione, mentre la decisione di altre questioni, per esempio il mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica all’interno di uno Stato membro, rimanga nello Stato membro. Questa non è una divisione della sovranità, ma deriva dalla coesistenza della federazione con i suoi membri: non si verifica una divisione, perché il caso di un conflitto, che determina la questione della sovranità, riguarda l’esistenza politica in quanto tale e la decisione nel caso singolo spetta sempre interamente all’uno o all’altro”

xxii v. op. cit., p. 480.

xxiii V. in Palomar n. 18, pp. 49 ss.

xxiv Op. cit., p. 480-481.

xxv v. gli articoli di Jean Claude Paye in Behemoth nn. 35, 37, 38.

xxvi Anabasi, I, 2.

xxvii In effetti in tali guerre, essendo “distribuito” lo jus belli, non c’è il criterio distintivo delle auctoritas cioè il diritto di dichiarare e muovere guerra, indicato da S. Tommaso e dai teologi-giuristi della Tarda Scolastica come una delle condizioni dello justum bellum.

xxviii V. Leviathan (conclusione); scrive Hobbes “E così sono giunto alla fine del mio trattato sul governo civile ed ecclesiastico, al quale hanno data occasione i disordini del tempo presente, e che è stato composto senza parzialità, senza prevenzione e senza altro scopo che di porre davanti agli occhi degli uomini la mutua relazione tra protezione ed obbedienza; alle quali la condizione della natura umana e le leggi divine – tanto naturali che positive – richiedono un’osservaznza inviolabile”, (il corsivo è nostro) trad. it. di Mario Vinciguerraq, vol. II, Bari 1974, p. 661.

xxix V. la definizione di G. D. Romagnosi in Scienza delle costituzioni, Firenze 1850 (tra i tanti che l’hanno ripetuto) v. V.E. Orlando nel discorso sopra citato alla Costituente.

xxx “Distinguo tre tipi di pace, equilibrio, egemonia, impero: in un dato spazio storico, le forze delle unità politiche o si controbilanciano o sono dominate da quelle di una di esse, oppure infine sono superate da quelle di una di esse in modo che tutte le unità, salvo una, perdono la loro autonomia e tendono a sparire in quanto centri di decisioni politiche” Paix et guerre entre les nations, trad. it. F. Airoldi Namer, Milano 1970, p. 188 (i corsivi sono nostri).

xxxi “La classificazione ternaria delle paci ci fornisce nello stesso tempo una classificazione, la più formale e la più generica, delle guerre: le guerre «perfette», conformi alla nozione politica della guerra, sono interstatali: in esse si affrontano unità politiche che si riconoscono reciprocamente esistenza e legittimità. Chiameremo soprastatali o imperiali le guerre il cui oggetto, o rigine o conseguenza, sia l’eliminazione di certi belligeranti e la formazione di un’unità al livello superiore. Chiameremo infrastatali o infraimperiali le guerre la cui posta è il mantenimento o la decomposizione di un’unità politica, nazionale o imperiale” op. cit., p. 191; si noti che Aron attribuisce allo Stato imperiale il monopolio della violenza legittima. Si può concordare a patto di chiarire che quando c’è uno Stato imperiale, questo è più Stato che Impero, e che l’essenza “statale” può essere prevalente in certe aree, e più sfumata in altre (come in molte colonie extraeuropee degli Stati europei).

xxxii Op. cit., v. (tra gli altri) §258 “Se lo Stato viene scambiato per la società civile, e se quindi la sua destinazione viene posta nella sicurezza e nella protezione della proprietà e della libertà personale, allora l’interesse dei singoli in quanto tali diviene il fine ultimo per cui essi sono uniti, e, a un tempo, il fatto di essere membro dello Stato finisce col dipendere dal capriccio individuale”, mentre “L’unione in quanto tale [degli individui nello Stato] è essa stessa l’autentico contenuto e fine, e la destinazione degli individui consiste nel condurre una vita universale: ogni loro ulteriore appagamento, attività, modo di comportarsi, ha per suo punto di partenza e risultato questo elemento sostanziale e universalmente valido”, trad. it. di V. Cicero, Milano 1996, p. 417-419.

xxxiii V. Julien Freund L’essence du politique, Paris 1965, p. 94 ss.

Transizione energetica e dogmatismo, di Alessandro Visalli

Si parla di leggi inesorabili del mercato; in realtà la condizione di sofferenza dei paesi europei nelle forniture energetiche è il frutto della sudditanza geopolitica e di scelte scellerate sulle modalità di fornitura e sulla gestione delle scelte di conversione ecologica. Buona lettura, Giuseppe Germinario
Dati ed informazioni.
Transizione energetica.
Settore fotovoltaico.
——————————————
Nel 2021 a livello mondiale si prevedono 180.000.000 di kW di nuova potenza installata (3 kW sono la potenza media installabile per i consumi di una famiglia) e nel 2022 se ne prevedono pochi di più. Equivalente quindi alla capacità per i consumi domestici di 60.000.000 di famiglie, una nazione come l’Italia o la Corea del Sud.
La spinta ad installare viene dagli Usa e Australia, in misura minore dall’Europa, ma soprattutto dalla Cina, nel paese asiatico si installano 25.000.000 di kW con una crescita del 60% sul 2020.
Ma molti progetti in questo momento sono rinviati per la dinamica dei prezzi delle componenti. I moduli sono cresciuti di prezzo del 15% negli Usa, ma, soprattutto, c’è molta incertezza nella catena logistica che si traduce in difficoltà a rispettare tempi e qualità delle consegne. Chiaramente per i grandi cantieri questo è un problema enorme ed un fattore di costo molto rilevante. In un impianto il costo della manodopera incide almeno al 30%.
Il prezzo dei moduli dipende da un vertiginoso incremento del costo del polisilicio con cui sono costruiti, che è aumentato da 6,3$/kg del 2020 a 37 $/kg del 2021. Si spera che comincino a scendere dal 2023-24, in concomitanza con l’aumento della produzione cinese (fuori dello Xinjiang) e la riapertura degli stabilimenti americani e tedeschi o malesi che erano stati chiusi per la concorrenza cinese.
Altri fattori di rallentamento ed incertezza sono le difficoltà di spedizione ed i relativi costi. Nel 2020 e 2021 sono aumentati del 500%, arrivando a 0,03 $/Wp (ovvero 17,5 $ per un pannello da 585 Wp), prima erano circa 3 $.
Quindi l’incremento dei costi delle altre materie prime (argento, rame, alluminio, vetro) che in alcuni casi sono letteralmente fuori controllo.
D’altra parte la stessa congiuntura mondiale (che non sono convinto essere passeggera, potendo essere invece un punto di svolta di sistema) determina alti costi dell’energia in tutto il mondo. Quindi la riattivazione di investimenti potrebbe avvenire anche rinegoziando i precontratti di vendita (per lo più gli impianti di grande taglia sono ‘bancati’ avendo in pancia un contratto di vendita di lungo periodo a sconto sul prezzo medio atteso, che con i prezzi in vertiginosa crescita di questi mesi è diventato estremamente svantaggioso per loro).
II
Mi dicono che nel libro (che non ho letto) di Diego Zanetti “Adam Smith a Mosca”, nel quale è analizzata la politica russa degli ultimi venti anni la tesi sia che nel sistema del grande paese euroasiatico sia stato sviluppato un modello a-capitalistico nel quale la salda presa dello Stato si esprime nella predominanza delle imprese statali (70% del Pil), con il monopolio della produzione ed esportazione energetica che è stata la grande battaglia di Putin al suo esordio (ricordare la lotta senza esclusione di colpi ai satrapi energetici privati) altamente tassato, e la presenza complementare di piccole e medie imprese che operano in mercati tenuti in stato molto concorrenziale (per cui i profitti sono bassi, la composizione organica del capitale non supera certi livelli e l’occupazione è alta). La conclusione sarebbe, appunto, che questo modello assomiglia a quello cinese e allo ‘sviluppo naturale’ smithiano (su questo torniamo leggendo “La ricchezza delle nazioni” prossimamente). E quindi sarebbe propriamente ‘non capitalista’ (se con questo termine si intende il dominio del capitale mobile, ovvero dell’alleanza tra alta finanza e grande industria internazionalizzata).
La politica della nazione russa sarebbe quindi rivolta essenzialmente a garantirsi un sentiero di sviluppo autonomo dal grande capitale internazionale e dalle intromissioni dell’imperialismo occidentale.
In questa direzione assume qualche interesse la vicenda che ci sta colpendo (e ci colpirà) ogni mese quando paghiamo e pagheremo le nostre bollette elettriche (e del gas). Il prezzo del gas, dopo mesi di tensione causati dalle strozzature distributive frutto dello shock pandemico mondiale, è andato in sofferenza per la ripresa delle produzioni e dei consumi in questo rimbalzo mondiale nel ’21. Alla ripresa post estiva (quando i prezzi calano per effetto della chiusura delle fabbriche) Gazprom (società monopolista pubblica russa) ha ridotto in una misura che per alcune fonti è del 70% le forniture di gas all’Europa. In parte perché le ha aumentate alla Cina e perché i contratti di lungo periodo, che garantivano la fornitura, erano stati sostituiti da contratti “spot” durante la crisi. Ciò è accaduto sui gasodotti che passano per la Bielorussia tra settembre ed ottobre, quando sono scese da 112 milioni di mc a 30. Ma anche quelle attraverso l’Ucraina sono scese da 110 ml a 85. Infine le forniture tramite l’oleodotto Yamal, che sbocca in Polonia, sono scese della metà. Quindi i prezzi ‘future’ sul mercato TTF olandese sono saliti del 100%.
La Russia si è dichiarata pronta ad aumentarle e, nello stesso momento, ha assicurato che le forniture a lungo termine sono state sempre rispettate (ma, appunto, ormai erano ridotte ad una frazione del necessario perché la Commissione uscente aveva deciso di comprare “spot” il necessario di volta in volta, per lucrare sul basso prezzo di mercato nella fase di debolezza).
Che succede?
Se ricordiamo l’analisi prima condotta, sulla centralità delle grandi aziende estrattive e distributive di Stato nella strategia di assunzione di controllo del proprio percorso di sviluppo (e, quindi, in ottica chiaramente geopolitica), si apre una chiave.
Ma, prima, ci vuole un altro tassello: la Russia ha appena completato l’allaccio del gasodotto North Stream che ha provocato negli scorsi anni le più fiere battaglie con gli Usa e i suoi alleati e le tensioni degli stessi con la Germania (terminale e quindi principale beneficiario della infrastruttura).
Il gasodotto fornisce energia direttamente dalla Russia alla Germania senza passare per la delicata regione bielorussa o ucraina. E ha la potenzialità di fornire 1/3 del fabbisogno europeo, risolvendo d’un sol colpo qualsiasi problema di forniture e, quindi, riportando i prezzi del gas (e quindi dell’energia elettrica) sotto controllo. Ciò mentre arriva l’inverno.
Facile, no?
Non proprio, perché la Ue tiene ferma la cosa in quanto vuole imporre ai Russi “l’accesso non discriminatorio alla rete” per tutti i concorrenti. Ovvero imporre che il proprietario dell’infrastruttura non possa praticare prezzi diversi ai diversi clienti, inibirne l’accesso, (il gas si può comprare, ad esempio, da un operatore o distributore italiano, anche alla fonte e far passare sui tubi pagando il servizio, se viene consentito). Ma la Russia vuole gestire il gasodotto come un proprio monopolio, avendolo costruito. La Bundesnetzagentur all’inizio del mese ha quindi minacciato multe.
La battaglia vede quindi, semplificando, la Russia che tiene sulla corda l’Europa con le forniture di gas per ottenere una piena capacità di vendita discrezionale sulla infrastruttura del North Stream. La Ue, probabilmente d’accordo con il Dipartimento di Stato, che vuole imporre allo Stato estero il rispetto della normativa europea sulla concorrenza, e quindi disattivare il potenziale geopolitico della fornitura.
Noi che, per ora, siamo in mezzo paghiamo i rincari del 40% delle
bollette.
In ogni piccola cosa non si capisce niente del mondo se non si considera quanto è interdipendente, e quanto sono grandi i conflitti per diminuire la dipendenza (ed imporla agli altri).

Concorrenza globale: la supremazia americana con un altro nome, di Alastair Crooke

Casa

11 dicembre 2021 // Le crisi

Concorrenza globale: la supremazia americana con un altro nome

L’equilibrio globale è cambiato qualitativamente, e non solo quantitativamente, scrive Alastair Crooke

Fonte: Strategic Culture Foundation, Alastair Crooke
Tradotto dai lettori del sito Les-Crises

© Foto: REUTERS / Kevin Lamarque

Parlando all’Aspen Security Forum due settimane fa, il generale Milley ha ammesso che il secolo americano è finito, una consapevolezza che avrebbe dovuto essere presa molto tempo fa, si potrebbe dire. Eppure, che sia tardi o meno, questa dichiarazione sembra segnalare un importante cambiamento strategico: “Stiamo entrando in un mondo tripolare, con Stati Uniti, Russia e Cina come grandi potenze. [e] Solo mettendo tre su due aumenta la complessità “, ha detto Milley.

Più recentemente, in un’intervista alla CNN, Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza di Biden, ha affermato che è stato un errore cercare di cambiare la Cina: “L’America non sta cercando di contenere la Cina: non è una nuova guerra fredda. Le osservazioni di Sullivan arrivano una settimana dopo che il presidente Biden ha affermato che gli Stati Uniti non stavano cercando un “conflitto fisico” con la Cina, nonostante le crescenti tensioni. “Questa è una competizione”, ha detto Biden.

Questo in effetti sembrava segnalare qualcosa di importante. Ma è davvero così? L’uso della parola “competizione” è una terminologia un po’ strana e richiede un po’ di decrittazione.

L’intervistatore della CNN Fareed Zakaria ha chiesto a Sullivan: cosa è stato ottenuto dalla Cina dopo tutto il tuo duro discorso, cosa è stato negoziato? Si potrebbe immaginare una risposta che descriva come Biden pensa di gestire al meglio questi interessi in competizione in un complesso mondo tripolare. Beh, quella non era la linea di Sullivan. “Brutta domanda”, ha detto senza mezzi termini: non chiedere informazioni sugli accordi bilaterali, chiedi cos’altro abbiamo.

Il modo corretto di guardare a questo, ha detto Sullivan, è: “Abbiamo stabilito i termini per una concorrenza effettiva in cui gli Stati Uniti siano in grado di difendere i propri valori e promuovere i propri interessi, non solo nella regione indo-pacifica, ma anche Intorno al mondo. Quando si tratta dei nostri alleati in tutto il mondo, gli Stati Uniti e l’Europa sono allineati su questioni commerciali e tecnologiche per garantire che la Cina non possa “abusare dei nostri mercati”; e poi sul fronte indo-pacifico, siamo andati avanti in modo da poter ritenere la Cina responsabile delle sue azioni. “

“Vogliamo creare la situazione in cui due grandi potenze opereranno all’interno di un sistema internazionale per il prossimo futuro – e vogliamo che i termini di quel sistema siano favorevoli agli interessi e ai valori americani: è più di una disposizione favorevole in cui il Gli Stati Uniti e i suoi alleati possono modellare le regole di condotta internazionali sui tipi di questioni che saranno fondamentalmente importanti per il popolo del nostro paese [America] e per i popoli del mondo “, ha affermato. -aggiunge.

L’obiettivo dell’amministrazione Biden non era cercare una trasformazione politica in Cina, ha detto Sullivan, ma modellare l’ordine internazionale in un modo che servisse i suoi interessi e quelli di altre democrazie che la pensano allo stesso modo: “Vogliamo le condizioni per questa coesistenza in il sistema internazionale favorevole agli interessi e ai valori americani. Vogliamo che le regole del gioco riflettano una regione indo-pacifica aperta, equa e libera, un sistema economico internazionale aperto e il rispetto dei valori e degli standard fondamentali sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani nelle istituzioni internazionali, ha dichiarato. . Sarà una competizione mentre andiamo avanti. “

Sullivan propone molto chiaramente un ordine mondiale basato su “regole di condotta internazionali” che si svilupperebbe attorno ad un interesse strategico centrale (quello dell’America), senza preoccuparsi delle conseguenze che potrebbero derivarne per gli altri. Questo “sistema internazionale aperto, equo e libero” è solo uno strumento per la globalizzazione del sistema neoliberista occidentale finanziarizzato. Josh Rogin ha scritto questa settimana: “L’internazionalismo a guida americana, nonostante i suoi difetti e i suoi passi falsi, rimane l’ultima, la migliore speranza per l’umanità. “

E per intenderci, quando sentiamo parlare di un sistema economico aperto e libero favorevole agli interessi americani, non sono gli “interessi del 99%” a essere sanciti nel sistema, ma quelli della classe finanziaria dell’1%. , che pretendono il diritto di spostare denaro e beni ovunque, in qualsiasi momento, senza restrizioni.

Il riferimento di Sullivan ai diritti umani riflette lo “spirito” dell’UE, dove la dottrina dello stato di diritto europeo è servita come dispositivo pratico per estendere l’autorità centrale dell’Unione senza riscrivere i trattati. O, in questo caso simile, che gli Stati Uniti espandano la propria autorità e procedano senza dover concludere accordi bilaterali con la Cina (o la Russia) o chiunque altro. Sullivan è stato molto chiaro su questo punto: gli accordi negoziati con la Cina non erano il “parametro di riferimento” giusto per giudicare il successo della politica statunitense.

Inizialmente, nessuno in Europa si è preoccupato molto quando la Corte europea ha “scoperto” che nei trattati dell’UE era nascosta una supremazia generale dei valori e del diritto dell’UE (sebbene a prima vista non fosse così evidente). Questa tranquilla reazione, tuttavia, è in gran parte dovuta al fatto che la competenza dell’UE era ancora piuttosto limitata all’epoca.

Successivamente, il trasferimento graduale della sovranità nazionale a un interesse strategico centralizzato (Bruxelles) divenne il principale motore di quella che è stata definita “integrazione attraverso il diritto”. Nel tempo, una lettura approfondita dei trattati (per i trattati europei, leggi la “consacrazione” di Sullivan della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo) ha offerto nuove ragioni per sottoporre le politiche nazionali democratiche a una lettura sovranazionale. “

Allo stesso modo, la Dichiarazione universale dei diritti umani offrirà probabilmente a Sullivan nuove ragioni e possibilità per armare il testo e piegare alleati e “avversari” alla disciplina di interesse strategico centrale (altrimenti nota come Washington).

Quindi, quello che sembrava segnalare un cambiamento significativo nel pensiero americano, dopo un po’ di decrittazione, si è rivelato nulla del genere. La competizione tra le grandi potenze non è altro che l’ordine globale globalista, incentrato sugli Stati Uniti e basato su regole. Gli Stati Uniti si astengono dal “trasformare” (cioè fomentare una rivoluzione colorata) il Partito Comunista Cinese, perché non possono; questo strumento si applica ancora ai piccoli pesci (es. Nicaragua).

Da un lato, abbiamo visto le conseguenze di questo approccio centralizzato alle “regole” – praticato a Bruxelles oa Washington: ne deriva una sorta di torpore soporifero. Tutte le energie sono dedicate a mantenere a galla il fragile sistema (che si tratti delle regole del gioco dell’UE o degli Stati Uniti), piuttosto che trovare soluzioni reali. Si aprono divisioni che politicamente è impossibile contenere; il risentimento aumenta; le crisi sono gestite e non risolte; giochiamo con il tempo; le riforme sono graduali e poi improvvisamente unilaterali; e, alla fine, regna l’immobilità. In Europa si chiama Merkelismo (dal nome del Cancelliere tedesco).

Dopo il tranquillo vertice del G20 a Roma e la COP26 a Glasgow, sembra che stiamo iniziando a vedere la Merkelizzazione del mondo. La sensazione che rimane è quella di un meccanismo (due in realtà se includiamo l’UE), che produce suoni convincenti di macchine ruggenti e che fa sperare in qualche risultato, ma che non porta alla fine a poco o nulla – ad eccezione di un crescente deficit democratico, con il trasferimento a una tecnocrazia sovranazionale di decisioni che prima erano di competenza dei parlamenti.

D’altra parte, per quanto grave sia (date le crisi economiche che affrontiamo), il suo più grande ” peccato ” (come ha detto Sullivan) è la sua richiesta di ” regole ” globali, il cui fondamento è semplicemente “Gli interessi e i valori degli Stati Uniti e dei suoi alleati e partner”. Sullivan sostiene che gli Stati Uniti non cercano più di trasformare il sistema cinese (il che è positivo), ma insiste sul fatto che la Cina operi all’interno di un “ordine” costruito attorno agli interessi e ai valori degli Stati Uniti – in breve[in francese nel testo, ndr]. E come ha sottolineato Sullivan, lo sforzo diplomatico americano deve mirare a costringere la Cina a conformarsi a questo sistema. Da nessuna parte si parla dei costi per gli alleati, che dovrebbero rinunciare ai rapporti con la Cina o la Russia, per compiacere Biden.

Il peccato più grande , molto semplicemente, è che il tempo di queste ambizioni arroganti sia passato. L’equilibrio globale è cambiato qualitativamente, e non solo quantitativamente. Cina e Russia – le altre due componenti del mondo tripartito del generale Milley – lo hanno detto abbastanza chiaramente: rifiutano le lezioni dell’Occidente.

Fonte: Strategic Culture Foundation, Alastair Crooke, 15-11-2021

1 218 219 220 221 222 291