PER UNA AUTONOMIA NAZIONALE, a cura di Luigi Longo

PER UNA AUTONOMIA NAZIONALE BISOGNA ROMPERE LA SERVITÙ VOLONTARIA VERSO GLI STATI UNITI D’AMERICA

a cura di Luigi Longo

Propongo la lettura dello scritto Conflitti tra stati e autonomia nazionale. Perchè? di Gianfranco La Grassa apparso su www.conflittiestrategie.it il 12/11/2021.

Premetto che riprenderò il costruendo paradigma del conflitto strategico di Gianfranco La Grassa in un altro scritto complessivo e sistematico. Il conflitto strategico, visto in una logica multidisciplinare, rappresenta una lettura approfondita, originale ed altra della conoscenza, dell’interpretazione e della progettualità della coda della realtà. E’ chiaro che occorre avere acutezza nell’individuare il sapere che illumina e avvolge gli altri saperi assumendo a base dell’analisi i rapporti sociali reali e il loro sistematico insieme nazionale e mondiale, soprattutto in questo periodo di decisivo sviluppo della fase multicentrica che la cesura storica della guerra batteriologica da Covid-19 ha accelerato. Il conflitto strategico apre nuove strade teoriche e pratiche.

Vengo, ora, allo scritto proposto. E’ una riflessione stimolante che inizia a fare chiarezza sulle seguenti questioni principali: 1) la distinzione tra lo stato (gli strumenti degli agenti strategici dominanti articolati sull’intero territorio nazionale, la robusta catena di fortezza e di casematte di Antonio Gramsci) e la nazione (il territorio della comunità con la sua storia, il suo rapporto sociale, la sua cultura, la sua lingua, il suo paesaggio, il suo costume, la sua natura, eccetera); 2) il conflitto tra gli agenti strategici delle varie nazioni europee non si gioca intorno ad una idea di sviluppo autonomo dell’Europa (qualunque sia la forma dello stare insieme che le diverse nazioni si vorranno dare) ma si consuma nella corsa di posizione privilegiata verso la servitù statunitense. Preciso che divido gli agenti strategici in: quelli che pensano le strategie, quelli che gestiscono le strategie e quelli che eseguono le strategie; 3) la necessità di rompere con la servitù volontaria verso gli USA (potenza dominante in declino che è per un mondo monocentrico a sua immagine e somiglianza) e la possibilità della costruzione di relazioni con l’Oriente (Russia e Cina, potenze in ascesa che sono per un mondo multicentrico); 4) l’autonomia nazionale per la costruzione di un modello di sviluppo che renda possibile stabilire nuove relazioni interne e mondiali a partire da una nuova idea di Europa (bisogna andare oltre il progetto statunitense dell’Unione Europea che è sempre più sostituito dalla nuova NATO come strumento degli Usa nel conflitto strategico della fase multicentrica); 5) le riflessioni critiche dell’esperienza rivoluzionaria del secolo scorso (soprattutto quella russa e quella cinese) e sul tipo di società che sono diventate oggi (a prescindere dall’eterogenesi dei fini che è un concetto a me poco simpatico) che nulla hanno a che fare né con il socialismo né tantomeno con il comunismo; 6) il conflitto per scalzare gli agenti strategici esecutori e servili (per esempio, Mario Draghi è un esecutore e per questo è un pericolo per gli interessi nazionali con le sue articolazioni sociali: la sua storia a partire dagli anni Novanta del secolo scorso è illuminante per le funzioni svolte) per costruire una vera autonomia nazionale in grado di guardare a Oriente per il consolidamento della fase multicentrica (nell’attesa della costruzione di una Europa in grado di essere un soggetto politico autonomo capace di costruire relazioni altre nel rispetto della diversità tra l’Occidente e l’Oriente?); 7) lo stabilizzarsi della fase multicentrica aprirebbe il conflitto all’interno delle singole potenze per la messa in discussione delle relazioni di potere e di dominio che dominano i rapporti sociali, storicamente determinati, a vantaggio di una esigua minoranza delle popolazioni.

Credo che si possa ragionevolmente affermare che la questione fondamentale si sposta nella Politica, intesa come azioni strategiche per l’acquisizione del potere e del dominio nel senso che il potere degli agenti strategici delle diverse sfere sociali (economica, politica, culturale, eccetera) si indirizza, nel conflitto, verso la costruzione di un blocco egemone per il dominio dell’intera società. Tale dominio non è mai definitivo ma temporalmente dinamico proprio a causa del continuo e ineliminabile conflitto per conquistare il potere e il dominio sociale (rimanendo nell’ambito dell’ordine simbolico maschile). E’ nel suddetto blocco egemone che si gioca l’egemonia degli agenti strategici espressione della potenza di fuoco rappresentata simbolicamente dal denaro accumulato con tutti i mezzi legali e illegali (Vincenzo Ruggiero). Le relazioni nelle diverse sfere sociali hanno un comune denominatore che è dato dal rapporto di potere che nelle diverse sfere (economica, politica, eccetera) si configura in maniera diversa tra chi ha gli strumenti (che variano da fase a fase della storia umana sessuata) per conquistare il potere (la minoranza) e chi non ha niente (la maggioranza).

Chi si deve far carico, nel breve-medio-lungo periodo, di queste questioni: una forza nuova, un nuovo principe sessuato o altro?

L’importante è non scordare la lezione attuale di Karl Marx quando afferma: << È né più né meno che un inganno sobillare il popolo senza offrirgli nessun fondamento solido e meditato per la sua azione. Risvegliare speranze fantastiche […] lungi dal favorire la salvezza di coloro che soffrono, porterebbe inevitabilmente alla loro rovina: rivolgersi ai lavoratori senza possedere idee rigorosamente scientifiche e teorie ben concrete (corsivo mio, LL) significa giocare in modo vuoto e incosciente con la propaganda, creando una situazione in cui da un lato un apostolo predica, dall’altro un gregge di somari lo sta a sentire a bocca aperta: apostoli assurdi e assurdi discepoli.

In un paese civilizzato non si può realizzare nulla senza teorie ben solide e concrete; e finora, infatti, nulla è stato realizzato se non fracasso ed esplosioni improvvise e dannose, se non iniziative che condurranno alla completa rovina la causa per la quale ci battiamo. L’ignoranza non ha mai giovato a nessuno! (Hans Magnus Enzensberger, a cura di, Colloqui con Marx e Engels, Einaudi, Torino, 1977, pag. 53).

CONFLITTI TRA STATI E AUTONOMIANAZIONALE. PERCHE’?

di Gianfranco La Grassa

1. Tratto normalmente Stato, paese o anche nazione quasi si trattasse di sinonimi. So che non è così, ma per quanto riguarda quanto devo dire in merito al problema dell’autonomia nazionale, credo si capisca comunque il discorso. Ammetto di non sapere mai con precisione che cosa debbo intendere con la parola Stato. Mi sembra che se ne parli sempre in modo metafisico o quasi; e in ogni caso come ci si riferisse ad un vero e proprio soggetto, di cui si possa disquisire quasi avesse volontà, desideri, intendimenti, finalità, ecc. propri, esattamente come quando si parla di un singolo individuo umano o di un determinato gruppo sociale, insieme di individui espletanti funzioni specifiche o che assuma decisioni in comune. Diciamo pure che per Stato si potrebbe intendere un grande raggruppamento di individui, in genere con ben preciso insediamento territoriale definito da confini, spesso (ma non sempre) unito da una sola lingua, che accetta un dato complesso di regole di comportamento fissate da leggi e il cui non rispetto viene sanzionato mediante un sistema di perseguimenti e di punizioni posto in atto da organi unanimemente accettati nel loro funzionamento a tali fini.

Preferirei tuttavia che si specificasse meglio il complesso, strutturato, di apparati che costituisce quello che chiamiamo Stato, sia nell’esercizio dei compiti relativi all’intero territorio posto sotto la sua potestà sia in quello decentrato nelle diverse parti in cui è suddiviso quest’ultimo. In particolare, darei la massima rilevanza a quegli apparati addetti all’esercizio della Politica, intesa quale insieme organico di mosse – che possiamo definire strategia – compiute per raggiungere determinate finalità all’interno di un dato paese così come all’esterno d’esso, nei confronti degli altri paesi. Un conto è quella che potremmo definire l’amministrazione di determinati affari riguardanti il coordinamento d’insieme di una data comunità territoriale (suddivisa in diversi gruppi sociali); un altro è il vero potere di esplicare la Politica diretta all’interno o all’esterno di quel paese. Il controllo degli apparati dotati di tale potere è il vero oggetto della lotta che si svolge tra diverse associazioni di individui (partiti o altri organismi di vario genere).

Di questi apparati (di potere) si dovrebbe soprattutto discettare per meglio definire i compiti che si pone chi intende perseguire l’autonomia del proprio paese. In questi ultimi anni si era diffusa una particolare concezione, che tuttavia mi sembra oggi un po’ in decadenza. Si sosteneva la fine della funzione degli Stati nazionali. Con ciò s’intendeva sostenere precisamente che quegli apparati di potere (interno ed esterno), di cui ho appena detto, non avevano più alcun reale compito in quanto ormai il potere in questione spetterebbe ad organismi sovranazionali, in particolare di carattere finanziario; vere massonerie che ormai comanderebbero in tutto il mondo o quasi. A tali organismi dovrebbero ribellarsi tutti i cittadini (le “moltitudini”), senza più distinzione di questo o quel paese (di tutto il mondo appunto). Tale tesi, che sembra voler essere una sorta di versione aggiornata e moderna dell’antico “internazionalismo proletario” (essa è in genere propagandata da vecchi arnesi della pseudo rivoluzione sessantottarda e sue propaggini ulteriori), mira di fatto a salvaguardare il potere di quei gruppi che, all’interno di ogni paese, controllano gli apparati statali in questione (sia rivolto all’interno che verso l’estero). I “vecchi arnesi” sono ormai parte integrante, e subordinata, dei gruppi dominanti.

In realtà, in ogni paese (o nazione, se si preferisce) vi sono gruppi dominanti dotati di potere (decisionale), che controllano gli apparati statali di cui stiamo parlando; questi sono costantemente in funzione, per nulla superati e riposti in un qualche museo. Il problema è diverso. Esistono complessi (e spesso ben mascherati) legami internazionali tra i vari gruppi decisionali nei diversi paesi. E tali legami assicurano a quelli attivi nei paesi preminenti – oggi sopra tutti stanno gli Stati Uniti – un particolare potere di “influsso” (chiamiamolo così) sui gruppi decisionali di paesi che si pongono in una determinata filiera di potere via via discendente; per cui abbiamo gruppi che potremmo definire subdominanti, subsubdominanti, ecc. fino a quelli via via sempre più subordinati. I gruppi di potere nei vari paesi, anche i più subordinati, hanno pur sempre capacità decisionali nell’ambito degli apparati statali appositamente addetti alla Politica, alla strategia, alle mosse da compiere per giungere a certe finalità interne ed esterne. Semplicemente, i loro poteri decisionali si subordinano a quelli dei gruppi dominanti di altri paesi, secondo una gerarchia che muta di fase storica in fase storica; e ha gradazioni differenti anche nell’ambito di ognuna di queste fasi.

Tanto per fare un “banale” esempio, i gruppi decisori italiani sono sempre stati subordinati a quelli statunitensi dalla fine della seconda guerra mondiale. E oggi siamo sempre in quella fase storica iniziata nel 1945, in cui sono stati creati vari organismi per sanzionare la supremazia Usa, fra cui la NATO e poi le varie organizzazioni intereuropee, fino a questa indecorosa UE. Tuttavia, il grado di subordinazione dei gruppi decisori italiani ha avuto un netto scatto in crescita con la fine della prima Repubblica, con la sporca operazione di falsa “giustizia” denominata “mani pulite” e tutto ciò che ne è seguito. E oggi appare in ulteriore continuo accrescimento.

Bene, una volta chiarito questo punto, e dichiarata pura mistificazione la tesi della fine degli Stati nazionali, passerò ad un altro ordine di considerazioni. In effetti, la nostra attuale attenzione ai problemi dell’autonomia nazionale potrebbe sembrare un semplice cambiamento di impostazione teorica. In quanto marxisti, eravamo interessati un tempo alla lotta di classe e al problema dell’abbattimento e trasformazione della società capitalistica; ci siamo oggi innamorati della geopolitica, dell’interazione tra Stati? Oppure siamo stati folgorati da una visione nazionalistica e quindi abbandoniamo ogni discorso di conflitto (in verticale) tra classi per abbracciare quello (in orizzontale) tra comunità nazionali? Non è affatto questa la nostra effettiva posizione.

2. Personalmente, continuo a ritenere importante, in linea di principio, la struttura dei rapporti sociali (rapporti tra diversi gruppi in cui è suddivisa la società). Proprio per questo, malgrado la mia critica non marginale al marxismo, continuo tuttavia ad avere grande attenzione per tale teoria della società. E, sempre in linea di principio, la ritengo più avanzata rispetto all’individualismo tipico delle teorie liberali. Tuttavia, in Marx è fondamentale, nella costituzione di società, la sfera produttiva. In una sua lettera a Kugelman (mi sembra del 1864) si afferma che anche i bambini sanno che, se non si producesse nulla per un breve periodo di tempo, ogni società verrebbe a dissolversi. E’ quindi logico che i rapporti sociali per questo pensatore decisivi sono quelli di produzione. E simili rapporti si annodano intorno al problema della proprietà (potere effettivo di disposizione) o meno dei mezzi produttivi. In base a quest’ultima, Marx distinse, nella società capitalistica, la classe borghese (i proprietari) e quella proletaria (o operaia) solo in possesso della propria capacità lavorativa da vendere in qualità di merce come ogni altro bene circolante nella società in questione. Da qui – corro perché ho scritto in proposito ormai centinaia di pagine – deriva l’ipotesi della dinamica capitalistica che avrebbe condotto infine ad una borghesia assenteista rispetto alla direzione dei processi produttivi, mentre in questa sfera sociale si sarebbe andato consolidando un corpo di produttori associati; dal massimo gradino dirigente fino all’ultimo di carattere esecutivo. Già nel grembo del capitalismo, quindi, si sarebbe formata la condizione base della nuova società socialista, primo gradino di quella comunista.

Nulla di tutto questo si è storicamente verificato; in nessuna delle società a capitalismo avanzato si è mai andato costituendo il “lavoratore collettivo cooperativo” (i produttori associati) così come previsto da Marx. E, soprattutto, le rivoluzioni più radicali si sono avute in società a prevalenza contadina e non operaia. Il cosiddetto socialismo del XX secolo – o quanto meno la “costruzione” (solo presunta purtroppo) dello stesso – si è rivelato essere una società estremamente verticistica, in cui la sfera produttiva era completamente sottomessa alla direzione di quella degli apparati del potere strettamente politico. Non intendo qui diffondermi su che cosa è stata questa particolare formazione sociale venuta a crearsi con le rivoluzioni guidate da partiti comunisti in paesi sostanzialmente precapitalistici. Mi sembra comunque evidente che non si è creata alcuna società socialista nel senso marxiano del termine. Lascio perdere i tentativi di diffondere l’idea (del resto tarda, ultimo sbiadito tentativo di difendere l’indifendibile) che si trattava di un “socialismo di mercato” (questa la definizione data della Cina odierna da alcuni “ritardati”).

Di fronte al fallimento storico di un movimento rivoluzionario guidato da una specifica teoria – del resto ormai molto modificata rispetto all’originale e ridotta a pura agitazione di tipo ideologico con presa sempre minore fino al suo azzeramento – ho proposto già da tempo l’abbandono del principio guida della proprietà o meno dei mezzi produttivi, andando invece nella direzione della Politica intesa appunto quale conflitto tra le strategie di più gruppi sociali in cerca di una supremazia nel controllo dei vari apparati funzionanti nelle diverse sfere sociali: produttiva, politica, ideologico-culturale. Credo che questo mutamento abbia effetti abbastanza positivi nella considerazione realistica delle lotte sociali sussistenti all’interno della società in cui viviamo; anche perché fa vedere come gli “attori” in conflitto non siano, prevalentemente, quelli attivi nella sfera produttiva, ma vi siano invece svariati rapporti, e spesso piuttosto stretti, tra agenti in opera nelle diverse sfere per la conquista di una supremazia sociale complessiva. Tuttavia, è ovvio che la teoria del conflitto tra strategie non consente alcuna divisione netta tra le classi in lotta, riducendole a due soltanto. E non pone in luce alcuna dinamica, intrinseca all’attuale formazione sociale di tipologia capitalistica, diretta alla sua trasformazione in altra nettamente differente che possa pensarsi quale fase di transizione ad una qualsiasi forma di socialismo o comunismo.

I gruppi sociali, insomma, non possono essere definiti classi nel senso in cui queste erano intese nel marxismo in base al criterio, rivelatosi piuttosto semplicistico, della proprietà o meno dei mezzi produttivi. Inoltre, tali gruppi non possono mai ridursi a due; a meno che il conflitto diventi tanto acuto da spingere vari gruppi ad allearsi tra loro in modo che, alla fine, si trovano a confrontarsi due schieramenti contrapposti, che non saranno mai comunque due classi in lotta, ma due coacervi di gruppi riunitisi per le concrete esigenze “di combattimento” in quella particolare fase storica e in quella determinata formazione sociale, in cui si è prodotto un contrasto così netto e ormai irrisolvibile con semplici mediazioni. Vi è di più. Si possono verificare – per contingenze non riconducibili all’intenzione consapevole di trasformare quella data formazione sociale in un’altra considerata superiore – dei cosiddetti “sollevamenti di masse”, causati dal malcontento e disagio sociale particolarmente acuti, in genere susseguenti all’incapacità ormai manifesta di coloro, che hanno in mano gli apparati del potere, di saperli gestire in modo minimamente appropriato ai bisogni complessivi di quella società. Questi sollevamenti non produrranno mai effetti stabili e di reale trasformazione, se nel loro ambito non agiscono dati nuclei dirigenti dei “malcontenti”, che possono allearsi, in genere solo temporaneamente, per dare risposta alla gravità della crisi provocata dalla suddetta incapacità dei vecchi nuclei al potere.

In ogni caso, sia se si producono, abbastanza raramente, situazioni così estreme sia se ci si trova in una situazione di più “normale” e non sconvolgente conflitto tra strategie per ottenere la supremazia (in base ad esigenze di lungo periodo o invece per risolvere problemi di portata momentanea e d’ambito ristretto), non si è in presenza del semplificato scontro tra dominanti e dominati di cui troppo spesso si blatera. In un certo senso esiste un confronto, più o meno serrato, tra gruppi sociali con maggiori o minori (in certi casi magari nulle) prerogative decisionali. Tuttavia, nel reale conflitto, sempre condotto in base alla Politica (cioè secondo varie linee strategiche), si enucleano alcune élites dirigenti, che tendono a rappresentare più gruppi sociali. E anche quando si tratti di gruppi formati principalmente da “non decisori”, le loro dirigenze partecipano comunque, con maggiore o minore forza, alle decisioni sociali di maggiore portata. Esempio tipico ne è la lotta sindacale. I nuclei dirigenti di quei gruppi situati alla base della piramide sociale (i cosiddetti ceti lavoratori) non sono certo privi di qualsiasi potere decisionale in merito a questioni interessanti l’intera collettività di quel dato paese.

3. Giungiamo adesso al problema centrale che ci interessa. E che ci interessa – almeno per quanto mi riguarda e riguarda, credo, anche coloro che con me hanno dato vita a “Conflitti e Strategie” – proprio in quanto abbiamo dovuto prendere atto del fallimento delle finalità poste al movimento delle cosiddette “masse popolari” da una data concezione dello sviluppo sociale, quella concezione che è appunto il marxismo. Si è dovuto prendere atto che non c’è stata finora alcuna effettiva possibilità di evoluzione dell’attuale società verso strutture di rapporti da definire oltre-capitalistiche. Quello che abbiamo sempre chiamato capitalismo (e così continuiamo a denominarlo) si è andato indubbiamente trasformando profondamente rispetto al suo punto di partenza; o anche semplicemente considerando l’ultimo secolo. Tuttavia, alcuni suoi moduli non si sono modificati; non si è certo giunti al rivolgimento della sua configurazione piramidale caratterizzata dalle concentrazioni imprenditoriali e dal correlato assetto degli apparati politici, fortemente verticistico anche nei paesi dove si ciancia sempre di “democrazia parlamentare” e si esaltano le periodiche “chiamate al voto”, che si fanno passare per espressione genuina della “volontà popolare” in grado di governare gli affari del paese, sempre invece nella sostanza affidati a contrapposizioni tra date élites.

Intendiamoci bene. Nessuno di noi svaluta quelle lotte sociali che mirino a migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle più vaste “masse” situate nei gradini medi e bassi della piramide sociale. E dobbiamo ammettere che oggi, anzi, quelle lotte stentano perfino a mantenere vecchie “conquiste” in tema di benessere. Di conseguenza, un rilancio di queste lotte sarebbe senz’altro visto da tutti noi con estremo favore. Tuttavia, dobbiamo rilevare alcuni semplici fatti. Simili lotte diventano sempre più difficili, sono viepiù spezzettate e condotte spesso in modo da lasciare largo spazio a quella divisione tra strati sociali medio-bassi che favorisce i vertici della società (il ben noto “dividere per imperare”). E’ però un caso che ciò avvenga? E soprattutto nella presente fase storica (che dura da due-tre decenni)? Non posso dilungarmi nella considerazione delle condizioni storiche che avevano consentito un qualche elevamento della posizione degli strati sociali in questione. Noto solo che l’attuale peggioramento di tale posizione dimostra a iosa come non si fosse compiuto alcun decisivo passo in direzione dell’indebolimento di quella società denominata capitalismo.

Si è dovuto constatare un fatto ancora più rilevante per le nostre convinzioni ideologiche (e anche teoriche). Sia l’iniziale successo (relativo) di certe lotte sociali, sia la loro crescente irrilevanza attuale, sono fondamentalmente dipesi dalla predominanza di fatto che sempre hanno mantenuto gli Stati Uniti dalla seconda guerra mondiale in poi. Credevamo che il mondo bipolare fosse un contrasto tra capitalismo e socialismo. Siamo stati messi in crisi dalla rottura tra Urss e Cina, ma non abbiamo interpretato correttamente (e non sappiamo farlo ancora adesso) che cosa in realtà fosse accaduto. Abbiamo preso il successo di certe lotte anticoloniali (vedi Vietnam) come si trattasse di un allargamento del campo “socialista”; un allargamento durato l’espace d’un matin, con conflitto tra Vietnam e Cina e poi il progressivo spostarsi di quel paese verso l’orbita statunitense (sia pure dopo il crollo dell’Urss, che comunque non è stato un caso “sfortunato”). Oggi dobbiamo prendere atto – in una considerazione di più lungo periodo; ed è su questo che la storia deve essere “misurata” nei suoi effettivi andamenti – che gli Stati Uniti sono stati sempre il perno più solido dell’andamento degli affari mondiali.

In definitiva, è ora di ammettere infine che non esiste più da molto tempo (ammesso che sia mai esistita nei termini pensati dai marxisti) la lotta di classe su cui tante speranze erano un tempo riposte. Non esiste soprattutto un antagonismo tra due grandi blocchi sociali alternativi, foriero di trasformazioni anticapitalistiche. Nei paesi a capitalismo sviluppato – che ha conosciuto varie trasformazioni da giudicarsi interne a quel certo “modulo” sociale – si sono verificati contrasti, anche assai forti a volte, che sono sempre stati di tipo redistributivo; soprattutto di reddito, in parte anche di potere. E’ tuttavia mancato proprio l’effetto che alcuni attribuivano a tale conflitto, la trasformazione in senso anticapitalistico. Chiunque ancora ne parli – ormai alcuni rimasugli di dementi – va proprio ignorato. Ripeto che questo tipo di lotte va appoggiato proprio per quello che può al massimo conseguire: la difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei ceti medio-bassi, oggi in deciso peggioramento. E sempre con la precisa consapevolezza che simili conflitti sono diretti da determinati gruppi dirigenti politici e sindacali, i maggiori beneficiari degli eventuali risultati positivi dello scontro, oggi piuttosto rari.

Cosa invece si nota nettamente nell’attuale fase storica? I conflitti più acuti e più significativi sono quelli tra Stati. Di conseguenza, diventa in un certo senso scopo preminente seguire gli eventi di quella che è la politica internazionale, l’interrelazione tra i diversi Stati, lo stabilirsi di determinati rapporti di forza tra essi, il loro eventuale modificarsi i cui effetti ricadono immediatamente anche sull’andamento dei sistemi economici. Tuttavia, abbiamo già ricordato come gli Stati siano un insieme organico di svariati apparati, di cui alcuni sono quelli adibiti all’effettivo uso del potere (mentre altri hanno un carattere più propriamente amministrativo, diciamo così). E’ allora rilevante la comprensione dei contrasti in atto tra quei gruppi d’élite che si battono per il controllo e l’uso di tali apparati. Poiché questo “battersi” è appunto la Politica, è un intreccio tra differenti strategie svolte per conquistare la supremazia, i gruppi d’élite (se tali sono effettivamente) debbono essere strettamente correlati con dati nuclei in cui si elaborano le strategie. E poiché le mosse della Politica mirano al successo nell’ambito di uno scontro tra le varie élites, la segretezza è d’obbligo; e ogni venir meno della stessa o è una di queste mosse o è lo sgretolamento della “copertura” (lo sbucciarsi della “corteccia”) dovuto ad un acuirsi del combattimento tra due o più “attori”.

Del resto ho già ricordato un fatto ben noto a chiunque segua minimamente le vicende politiche. Non esistono élites dirigenti dei gruppi sociali nei diversi paesi, che non siano variamente interrelate tra loro in senso economico, politico, culturale. E certamente nel nostro paese, e più generalmente in tutti i paesi europei, in misura maggiore o minore queste élites sono strettamente collegate con quelle statunitensi, ponendosi nei loro confronti in una situazione di maggiore o minore subordinazione. In questo senso, gli Stati Uniti sono ancor oggi il centro di un ampio sistema mondiale di paesi; in particolare, hanno la guida, per quanto a volte appena mascherata, dell’intera UE che, come già detto, è in definitiva un’organizzazione parallela a quella della NATO. E’ impossibile seguire le vicende politiche interne di un qualsiasi paese europeo senza tener conto dei rapporti di subordinazione rispetto al paese predominante. Questo è particolarmente valido per l’Italia, paese la cui subordinazione è di alto livello e va crescendo. E continuerà a crescere per quanto diremo subito appresso.

4. Con quanto appena sostenuto, sia pure succintamente, abbiamo svelato il “segreto” della nostra pretesa preferenza – soltanto temporanea e secondo me obbligata dai “fatti” – per la politica internazionale e per il tema dell’indipendenza o autonomia di singoli paesi; ma non certo per spirito nazionalistico, ci mancherebbe altro! Abbiamo semplicemente preso atto della fine della ormai “mitica” lotta di classe; e constatiamo che attualmente sono in ribasso perfino le lotte sindacali per la semplice “redistribuzione”, pur anche soltanto nel tentativo di evitare l’arretramento delle cosiddette “conquiste sociali” di alcuni decenni fa. Dopo circa mezzo secolo di mondo bipolare e con i pericoli, spesso esagerati e montati a bella posta, relativi alla “guerra fredda”, si è avuto il “crollo” del campo sedicente socialista ed è sembrato che ci si avviasse verso una sorta di monocentrismo Usa. La sensazione è durata poco e ormai, malgrado sia ancora predominante quel paese, pare assai probabile che ci si avvii intanto verso un multipolarismo per quanto ancora imperfetto. Il caos nel mondo va accentuandosi come sempre avviene in epoche del genere; più volte ho fatto il paragone con la fine del secolo XIX.

In una situazione simile, è del tutto evidente un crescente impegno degli Stati Uniti per accentuare la presa sull’Europa e scongiurare quanto indubbiamente sembra serpeggiare al suo interno con il rafforzarsi di movimenti detti “euroscettici”; per quanto essi sembrino ancora abbastanza deboli e del tutto confusionari. Il “Trattato transatlantico” (TTIP) dal punto di vista economico (che ha sempre riflessi politici), gli sconvolgimenti, più o meno ben riusciti, suscitati nel Nord Africa e in Medioriente, la crisi ucraina (dopo il primo approccio in Georgia), l’impulso dato alle organizzazioni islamiche “estremiste” poi ovviamente combattute (con forti ambiguità e senza ancora una conclusiva decisione), le situazioni estremamente confuse e di sostanziale stallo (pur assai sanguinoso) in Libia e Siria, così come altre egualmente poco chiare (in Egitto come in Turchia o Iran, ecc.),sono operazioni che avranno certo motivazioni legate ai rapporti di forza nelle aree interessate; e tuttavia non vi è dubbio che il principale obiettivo degli Stati Uniti è, in ultima analisi, il mantenimento della presa in Europa e l’isolamento massimo possibile della Russia.

Se veniamo al nostro paese, credo che esso sia abbastanza importante per le suddette finalità perseguite dagli Stati Uniti. La posizione geografica dell’Italia è in tutta evidenza significativa per le operazioni nelle aree investite, non sempre direttamente, dagli Usa (con l’Amministrazione Obama ci si è largamente serviti di “sicari”). Tuttavia, con l’operazione “giudiziaria” che mise fine alla prima Repubblica (solo dopo il crollo del campo “socialista”) si è reso del tutto manifesta la funzione che a noi spetta nelle intenzioni americane di tenere strettamente agganciata l’Europa. Dobbiamo essere decisamente affermativi in proposito. L’Europa è l’area in cui ancora si giocheranno i destini del probabile prossimo scontro policentrico per conquistare una nuova centralità preminente (uno scontro non temporalmente vicino, meglio essere espliciti in proposito). E l’Italia è paese fondamentale per il controllo europeo. Ci sono forti tendenze – a mio avviso tutte ben finanziate da chi di dovere – a sostenere l’ormai irreversibile decadenza europea e la crescente dipendenza italiana. Sia chiaro che l’ultimo premier (il ben noto sedicente tecnico sempre in linea da dove soffia il vento) è in realtà un commissario di poteri stranieri e soprattutto americani.

Mai si era visto in quest’area e in questo paese un degrado sociale (e culturale) come quello odierno. Tutto questo avviene però proprio perché l’Europa (e, al suo interno, l’Italia) sono aree di importanza decisiva per gli Usa nel loro tentativo di restare preminenti; anzi di arrivare un giorno a porsi in una situazione di sostanziale monocentrismo, magari attraverso un futuro regolamento generale di conti. In questa fase, la pressione Usa sul nostro paese è massima, anche se non viene solitamente rilevata perché ovviamente non si esprime con le vecchie modalità. Di conseguenza, nella presente fase storica di non breve momento, chiunque straparli di lotta anticapitalistica, inganna scientemente quelle minoranze che cominciano a rendersi conto della situazione di degrado e sfascio sociale (e anche istituzionale), in cui ci hanno condotto le forze politiche padrone  dell’andamento degli “affari” nel nostro paese.

Non ci sono per nulla prospettive di superamento del capitalismo in Italia (e in Europa); e nemmeno si saprebbe in che direzione si dovrebbe andare in una simile fantasiosa prospettiva. Ripeto che nessuno (di noi) si oppone a che i ceti medio-bassi difendano le proprie condizioni di vita aggredite dal potere esistente. Questo però non significa avere la forza (e le idee) in grado di abbattere il capitalismo (e di quale si sta parlando, del resto, se non a vanvera?). E non c’è nessuna difesa possibile se restiamo un paese governato da élites che si pongono nella relazione di subordinazione rispetto a quelle del paese predominante. E’ di una evidenza palmare che il primo passo da compiere è (diciamo sarebbe) togliere il governo ai servi del potere statunitense. E vorrei essere preciso. Quando parlo in questo contesto di governo non mi riferisco soltanto a quelle forze politiche che hanno in mano la direzione dell’Italia. Tutte quelle oggi in campo sono invischiate in quel gioco elettorale che fa dimenticare ogni problema di reale potere, con il mero scopo di conquistare favori nell’“opinione pubblica” onde migliorare la propria posizione all’interno dell’attuale struttura politica, comunque sempre subordinata alla predominanza degli Stati Uniti.

Ecco allora spiegato perché è indispensabile battersi oggi per un minimo di autonomia nazionale (lo ripeto: senza ideologie nazionalistiche!). E per porsi in quest’ottica, è necessario dedicare i nostri sforzi soprattutto all’analisi degli intrecci internazionali tra i vari paesi; nelle loro filiere di predominanti, subdominanti, subsubdominanti….ecc. fino alle ultime propaggini della subordinazione, laddove siamo tutto sommato situati noi italiani. E mi sembra lampante che passi in avanti di questa autonomia sarebbero favoriti dall’affermarsi crescente della tendenza al multipolarismo. Quindi ci si deve battere per il rafforzamento delle relazioni – non solo economiche, bensì proprio politiche e di collegamento tecnico-scientifico e di “Informazione” e magari anche militari – con i paesi che hanno maggiori prospettive “oggettive” di ergersi quali antagonisti degli Stati Uniti; e fra questi, a mio avviso, il principale è la Russia (senza per questo trascurare la Cina). Nessuna particolare simpatia per questo paese e nessuna particolare antipatia per gli Stati Uniti. Semplicemente, è necessario battersi per l’accentuarsi del multipolarismo e, dunque, per la nostra autonomia. Multipolarismo e indipendenza sono in relazione biunivoca. E sono il primo compito per la fase attuale.

5. C’è poco da aggiungere, io credo. Ritengo auspicabile – nella fase storica che viviamo e che non sarà di breve momento – una politica tesa all’autonomia dei paesi europei rispetto a quello ancora oggi preminente, pur se a mio avviso procediamo, in modo certo non lineare e continuo, verso una situazione multipolare. Qualcuno potrebbe obiettare che sarebbe bene allora battersi per una profonda revisione dell’attuale organizzazione dell’Europa Unita in modo da ottenere l’effetto voluto. Credo che ci si avvierebbe lungo una strada fallimentare. La UE non mi sembra affatto riformabile per come è nata e si è andata configurando sulla base dell’accettazione di una chiara subordinazione – sia pure con accenti diversi nei vari paesi – agli Stati Uniti. Mi sembra anche non molto chiara l’agitazione di alcuni movimenti per l’uscita del proprio paese dalla UE e dall’euro.

Il problema centrale è la lunga subordinazione che, soprattutto i più sviluppati paesi europei (quelli “occidentali”), hanno dovuto subire rispetto agli Usa. Bisogna invertire questo processo – economico, politico, culturale – di dipendenza. Per far questo, nei vari paesi europei devono crescere movimenti consapevoli della difficoltà e complessità di tale compito, che comporterà infine la necessità di abbattere con energia i governi del servilismo. E’ un processo che va sviluppato all’interno dei vari paesi; e che, se avrà successo, lo avrà in modi e tempi specifici per ognuno d’essi. Ogni movimento dovrà rispettare le caratteristiche del proprio paese, delle proprie popolazioni (e, in questo senso, tornerà utile anche l’analisi delle differenti strutture dei rapporti sociali).

I movimenti di autonomia devono senza dubbio ricercare il reciproco collegamento nel contesto europeo, ma senza mai dimenticare le differenze del proprio paese rispetto agli altri; pena il diffondersi di una nuova “mistica” europeista che ha già prodotto in passato i guasti che vediamo oggi sotto i nostri occhi. E’ stata proprio la propaganda di questa idea di una generica Europa unita a consentire il prevalere nella nostra area di élites dirigenti che – oggi finalmente è venuto in chiara luce – si sono piegate, spesso con pingui finanziamenti, agli intendimenti e voleri degli Stati Uniti. Alcuni si saranno anche “venduti”, ma altri hanno superficialmente creduto che, come si erano fatti gli Stati Uniti d’America, si potessero fare quelli d’Europa, i cui paesi hanno ben più complessa e “antica” storia. E sono sempre stati in costante antagonismo d’interessi; per molto tempo perfino bellico, oggi con altre modalità. Pur sempre politiche, lo si tenga presente. Chi insiste sui problemi del dominio della finanza e altre superficialità consimili, è al servizio – consapevole o meno – degli interessi dei gruppi subdominanti europei legati ai dominanti statunitensi.

Ulteriore problema. Malgrado molti paesi europei siano economicamente piuttosto avanzati, è altrettanto evidente la loro debolezza politica e – perché voler essere pacifisti ad oltranza – bellica. Ogni movimento che si batta per l’autonomia del proprio paese – lo ripeto ossessivamente, autonomia soprattutto in direzione degli Usa – dovrà non soltanto cercare i collegamenti con i propri simili europei, bensì sviluppare precise politiche verso est; in particolare nei confronti della Russia. Inutile nascondersi che simili politiche potrebbero un giorno provocare il passaggio dalla tendenza multipolare all’affermarsi di un reale policentrismo conflittuale, con tutti i rischi che ben conosciamo dal XX secolo. Se si teme questo, è inutile mettersi sulla strada dell’autonomia; si resti subordinati come lo si è adesso.

E veniamo così all’ultimo punto. Ci sono molti sciocchi che credono ad un’Italia di benessere diffuso sulla base del turismo, sfruttando i suoi mari blu, i cieli azzurri, le cosiddette bellezze paesaggistiche (come se altrove mancassero), i suoi cibi (che nemmeno gli italiani più giovani sanno ormai apprezzare); e altre litanie del genere. Se l’Italia rimane a questo livello, resterà pure tranquillamente subordinata; e avvizziranno progressivamente in essa tutti quei settori che consentono il maggiore sviluppo di un qualsiasi paese nell’epoca moderna (a meno che non si tratti di quei paeselli, magari isole, che sono piccole oasi per i “ricchi del mondo”). E mancando l’autonomia e il tipo di sviluppo ad essa connesso, inutile anche pensare a chissà quali possibilità di lotta sociale per difendere le proprie condizioni di vita, soprattutto da parte dei già più volte ricordati ceti medio-bassi.

Lasciamo perdere per favore la lotta anticapitalistica; abbiamo una concezione arretratissima di capitalismo, ancora primonovecentesca se va bene. Non abbiamo assolutamente l’idea di quel che dovrebbe essere una società non più capitalistica (a parte le ubbie anti-grande finanza diffuse oggi). Ho però sostenuto che è approvabile la resistenza dei ceti meno abbienti di fronte ad un chiaro peggioramento delle prospettive nei nostri paesi detti avanzati. E’ bene mettersi in testa che in un periodo di multipolarismo in accentuazione, si amplifica il “caos” nelle relazioni internazionali; e non solo politicamente, ma pure economicamente. In poche parole, quella che chiamiamo crescita (aumento del Pil) non conoscerà andamenti travolgenti per molto tempo. Molti finalmente cominciano ad arrivare a simili conclusioni. Tuttavia, la debole (o nulla) crescita non impedisce uno sviluppo, cioè un miglioramento di certe strutture sociali e

l’arresto del progressivo smantellamento delle “conquiste” ottenute già da tempo.

Tuttavia, non vi sarà nulla di tutto questo se si cede sul punto dell’autonomia propria, dello sviluppo di settori innovativi che la subordinazione invece sacrificherà sempre più. Cari “amici delle lotte sociali”, volete che possano essere ancora condotte almeno in un certo grado? Ebbene, battetevi per l’autonomia del paese rispetto all’attuale piatta subordinazione agli Stati Uniti. Battetevi per una diversa politica internazionale. Invece di fissarvi sul superamento del capitalismo (che si supera da solo in sempre nuove forme che vi lasciano poi a mani, e testa, vuote), concentratevi sull’attuale evoluzione dei rapporti di forza tra Stati (paesi), in modo da giocare nel suo ambito con opportune politiche di “nuove alleanze” al fine di non veder peggiorare gravemente le condizioni del vostro paese e, dunque, dei ceti sociali in esso meno favoriti.

E con questo fervorino finale, veramente Amen.

http://www.conflittiestrategie.it/conflitti-tra-stati-e-autonomia-nazionale-perche

Fertilizzanti e insicurezza alimentare, di Allison Fedirka

In calce un interessante articolo tratto da Geopolitical Future sul problema della sicurezza alimentare negli Stati Uniti. Sicurezza intesa ormai non solo in rapporto all’ambiente fisico del territorio, ma anche al contesto geopolitico sempre più dinamico e conflittuale che rende sempre più problematica la gestione politico-economica di catene di produzione e consumo troppo indipendenti dal controllo politico. Un tema che rientra a pieno titolo nell’ambito delle tematiche cosiddette “sovraniste”, esorcizzate a parole, ma che ultimamente cominciano a fare capolino anche in istituzioni, come l’Unione Europea che si presentano costitutivamente in antitesi alle prerogative sovrane di uno stato nazionale. Si presentano, ma di fatto non lo sono almeno per quegli stati nazionali che riescono a controllarne e muovere le leve ai danni degli altri. La sicurezza alimentare, come pure quella energetica, è ulteriormente e pesantemente condizionata anche dalla tematica ambientale, specie quando quest’ultima assume una postura teologica e dogmatica tale da ignorare tempi e modi delle fasi di transizione e da rimuovere dal dibattito le possibili alternative. Il tutto dietro il comodo scudo del catastrofismo antropomorfico. Le conseguenze di tale approccio cominciano a manifestarsi, nella crisi degli approvvigionamenti, nell’effetto dei divieti immediati, in assenza di alternative, di uso di prodotti inquinanti in agricoltura sia in termini di crollo di produzioni strategiche, sia paradossalmente in termini di alterazione degli equilibri ecologici, come avvenuto nella fattispecie in Francia. Un controcanto rispetto al problema, altrettanto drammatico, della progressiva sterilizzazione dei suoli sfruttati troppo intensivamente presente ormai in numerosi territori; segno che le soluzioni, il più delle volte, (ri)propongono nuovi problemi a volte più gravi e su scala maggiore. Non è solo il dogmatismo a indirizzare queste dinamiche, ma anche gioco di interessi prosaici e dinamiche geopolitiche in corso; giochi di potere e predominio quindi, sottesi ai contenziosi regolamentari e agli anatemi moralistici; quando addirittura maschera per nascondere beffardamente la mancanza di interventi dell’uomo sul territorio e sulla natura. Una rappresentazione olistica che dovrebbe permettere una lettura più attenta e disincantata di eventi mediatici come quelli recenti del COP26. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Fertilizzanti e insicurezza alimentare

Gli americani stanno facendo i conti con l’aumento dei prezzi del cibo.

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La prossima settimana è il Ringraziamento, una festa statunitense che celebra e viene celebrata con il cibo. Quest’anno, tuttavia, gli americani stanno facendo i conti con l’aumento dei prezzi dei generi alimentari. Le notizie abbondano di storie di lunghe file alle banche alimentari, carenza di pollame e prodotti lattiero-caseari più costosi del previsto. Anche i costi energetici elevati e le interruzioni dei trasporti sono abbastanza ben documentati. Meno attenzione è stata data all’aumento del prezzo dei fertilizzanti, un input fondamentale per l’approvvigionamento alimentare che minaccia di mantenere alti i prezzi del cibo fino al 2022.

I prezzi elevati dei fertilizzanti (per non parlare delle potenziali carenze) sono preoccupanti per alcuni motivi. Per uno, il fertilizzante è onnipresente; metà delle colture alimentari del mondo sono coltivate con fertilizzanti minerali. Dall’altro, la fornitura è estremamente sensibile al fattore tempo. Le colture generalmente beneficiano maggiormente dei trattamenti fertilizzanti nelle prime fasi della stagione di semina e nel loro periodo di crescita iniziale. L’applicazione ritardata o mancata durante il ciclo si tradurrà quasi sicuramente in rendimenti inferiori, il che restringe l’offerta alimentare e fa salire i prezzi. Anche la durata è un fattore. Per molti cereali e semi oleosi, il tempo dalla stagione della semina al raccolto può durare dai quattro ai sei mesi, dopodiché il terreno ha bisogno di tempo per riprendersi o per essere preparato per il prossimo ciclo di colture. Tutto sommato, possono volerci mesi per avere un’altra opportunità di ricostituire le colture alimentari.

Prezzi fertilizzanti Illinois 2014 - 2021
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L’impatto dei prezzi dei fertilizzanti sui prezzi degli alimenti dipende da alcune variabili. Innanzitutto, la quantità di fertilizzante necessaria dipende dal raccolto. Alcuni cereali come il mais costano di più per acro per fertilizzare rispetto al grano o ai semi oleosi come i semi di soia. Il secondo è il tipo di fertilizzante utilizzato. I fertilizzanti possono essere suddivisi in tre categorie generali in base alle esigenze di macronutrienti di una pianta: azoto, fosfato e potassio. Il fertilizzante globale utilizzato durante la stagione 2020-21 ha totalizzato 198,2 tonnellate; l’azoto rappresentava circa il 55 percento, mentre il fosfato e il potassio rappresentavano rispettivamente il 25 percento e il 20 percento. Di questi, l’azoto è il più critico. Il suo prezzo tende ad essere più volatile a causa del suo legame diretto con i prezzi del gas naturale ed è un costo quasi inevitabile per gli agricoltori. Un nuovo lotto di fertilizzante azotato deve essere applicato all’inizio di ogni stagione del raccolto poiché non indugia nel terreno. I prezzi di fosfato e potassio, tuttavia, si muovono indipendentemente da altre materie prime come il gas naturale. Gli agricoltori hanno anche una maggiore flessibilità nell’utilizzo di questi due tipi di fertilizzanti, poiché porzioni inutilizzate di questi macronutrienti possono rimanere nel terreno di stagione in stagione.

I mercati dei fertilizzanti sono entrati quest’anno in una posizione ristretta che è diventata solo più stretta. Nel 2019, l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura ha pubblicato un rapporto che descrive in dettaglio le prospettive della domanda e dell’offerta di fertilizzanti fino al 2022. Secondo le sue stime, l’offerta globale totale sarebbe leggermente superiore alla domanda e si verificherebbero carenze in determinate regioni. Queste stime, tuttavia, non tengono conto di “fattori imprevedibili” come problemi logistici o una pandemia. Una conseguenza immediata nel 2020, il primo anno della pandemia di COVID-19, è stata la riduzione delle scorte di fertilizzanti e delle condutture. Le fabbriche produttrici di fertilizzanti hanno chiuso per contenere il virus e poi hanno faticato a riprendere la piena capacità a causa di altre carenze e sfide logistiche. Gli agricoltori, sostenuti dalle misure governative di emergenza, hanno continuato a produrre e, quindi, a chiedere fertilizzanti.

Prospettive regionali sui fertilizzanti | 2022
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Quest’anno, gli effetti a cascata dei problemi della catena di approvvigionamento e la ripresa della domanda hanno esercitato una pressione al rialzo sui prezzi dei fertilizzanti. Le guerre commerciali, i porti congestionati, i prodotti chimici non disponibili e gli alti costi di trasporto hanno reso i fertilizzanti più difficili da produrre e consegnare. Nel frattempo, altri fattori hanno ridotto la produzione di fertilizzanti. La produzione di fertilizzanti azotati nel delta del Mississippi, ad esempio, è stata temporaneamente interrotta a causa di un uragano. La produzione cinese è stata interrotta nel 2021 a causa di interruzioni elettriche negli stabilimenti. Quando l’economia cinese ha iniziato a rimettersi in marcia, ha causato un picco nel suo consumo di energia che, di concerto con altre cose, ha portato a prezzi più alti del gas naturale. I conseguenti costi operativi furono così alti che alcuni stabilimenti di fertilizzanti europei chiusero temporaneamente.

Anche l’intervento del governo ha avuto un ruolo. La Russia (il secondo esportatore di fertilizzanti azotati e il terzo esportatore di fertilizzante potassico) e la Cina (principale esportatore mondiale di fertilizzanti azotati e fosfatici) hanno annunciato misure per vietare o limitare le esportazioni di fertilizzanti fino a giugno 2022, ben oltre la semina primaverile stagione. Si prevede inoltre che le sanzioni dell’UE alla Bielorussia, il secondo esportatore di potassio, ridurranno l’offerta. La ridotta disponibilità sul mercato di esportazione farà salire il prezzo di tutti i fertilizzanti, indipendentemente dalla fonte, mentre le aziende e i paesi fanno offerte l’uno contro l’altro per ciò che rimane sul mercato.

Questo è certamente vero negli Stati Uniti, che non si affidano a Russia e Cina per i propri fertilizzanti, ma sono uno dei principali produttori e consumatori di ammoniaca al mondo. Le scoperte di gas naturale negli Stati Uniti hanno reso conveniente per le aziende aggiornare gli impianti di ammoniaca esistenti e costruire nuovi impianti di azoto. Ciò ha ridotto la dipendenza netta delle importazioni del paese dall’azoto-ammoniaca come percentuale del consumo apparente dal 27% nel 2016 a solo il 10% nel 2020, secondo i calcoli effettuati dall’US Geological Survey. Gli Stati Uniti hanno una percentuale di dipendenza netta dalle importazioni simile con la roccia fosfatica. Cinque società negli Stati Uniti hanno estratto minerale di roccia fosfatica in 10 località diverse e lavorato circa 24 milioni di tonnellate di prodotto commerciabile. Quasi tutto questo è stato utilizzato per produrre acidi fosforici necessari per i fertilizzanti, integratori per mangimi e pesticidi. Tuttavia, gli Stati Uniti importano circa il 90 percento delle loro forniture di potassio e potassio, la maggior parte delle quali proviene dal Canada.

Gli agricoltori statunitensi, quindi, hanno poche buone opzioni in vista della stagione della semina primaverile. Non avere abbastanza fertilizzanti, o semplicemente non essere in grado di permettersi ciò di cui hanno bisogno, li costringerà a determinare quanta area coltivare e quali colture piantare. Con il fertilizzante azotato, gli agricoltori possono utilizzare meno fertilizzante sulla stessa superficie o ridurre la superficie delle colture piantate e mantenere la quantità di fertilizzante a livelli più pieni. Entrambe le opzioni porterebbero a rese inferiori, anche se la qualità del raccolto sarebbe probabilmente migliore nel secondo scenario . Chi ha livelli residui di potassio e fosfato nel proprio terreno può ridurre o rinunciare agli acquisti per una sola stagione.

Aspettative sui prezzi di input dell'azienda agricola
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Eppure il momento di decidere si avvicina rapidamente. I rivenditori di fertilizzanti hanno già avvertito gli agricoltori di testare il loro terreno in anticipo e pianificare acquisti anticipati di fertilizzanti poiché i prezzi sono così volatili. Mentre le vendite hanno iniziato ad accelerare, non è chiaro quanti agricoltori abbiano iniziato ad acquistare ora. Il senso prevalente tra gli esperti del settore è che gli agricoltori aumenteranno i loro acquisti di fronte a forniture più limitate, continui ritardi logistici e pura necessità. Ciò aumenta il rischio di guerre di offerte e accaparramento tra gli acquirenti, il che non fa che aumentare ulteriormente i prezzi.

Gli agricoltori statunitensi sembrano pessimisti. Il sentimento dei produttori agricoli ha iniziato a diminuire negli ultimi mesi. Il sentimento per le condizioni future è ora quasi quanto lo era nel picco di chiusura economica della pandemia del 2020. Gli agricoltori hanno espresso preoccupazione per i costi elevati dei fattori di produzione, ovvero i prezzi dei fertilizzanti, che indeboliscono i loro margini operativi. Hanno anche indicato che non si aspettano molto sollievo nei prezzi dei fattori di produzione nell’anno a venire.

Sentimento degli agricoltori 2015 - 2021
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Oltre ai costi dei fertilizzanti, gli agricoltori statunitensi hanno anche identificato ulteriori fattori interni che danneggeranno la produzione. La carenza di manodopera, ad esempio, persiste in tutti i punti della filiera alimentare. In particolare, gli agricoltori hanno espresso preoccupazione per la carenza di esaminatori alimentari federali il cui sigillo di approvazione è necessario per le importazioni, le esportazioni e le vendite in fabbrica. Esistono ancora colli di bottiglia nei porti (la carenza di chiatte sul fiume Mississippi è la più preoccupante). C’è anche preoccupazione per la diminuzione della disponibilità di pesticidi come il glifosato e la carenza di attrezzature agricole. Le nuove attrezzature agricole hanno un inventario molto basso, ma più preoccupante è la crescente scarsità di pezzi di ricambio che hanno ritardato di mesi le riparazioni delle macchine. Il guasto meccanico durante il periodo del raccolto è catastrofico per un agricoltore,

Come tutti i governi, Washington è sensibile all’insicurezza alimentare, ma è vincolata a come può prevenirla. Non può risolvere unilateralmente i problemi della catena di approvvigionamento globale dall’oggi al domani, e non può sistemare magicamente i programmi delle colture, che non si allineano con i programmi del governo. Le soluzioni necessarie per affrontare i problemi dell’agricoltura vanno oltre quanto necessario per mitigare l’impatto sui raccolti della prossima stagione.

Gli Stati Uniti hanno adottato una strategia a doppio binario per affrontare le cause alla base dell’aumento dei prezzi dei generi alimentari. La prima traccia affronta i problemi generali che interessano l’intera economia degli Stati Uniti – cose come ritardi nei porti, carenza di manodopera, ecc. La seconda traccia mira a soddisfare le esigenze specifiche dell’agricoltura a breve termine, principalmente attraverso finanziamenti e finanziamenti per gli agricoltori, anche mentre continua a pompare denaro in altre aree dell’industria agricola. A giugno, l’USDA ha annunciato 4 miliardi di dollari di investimenti previsti per rafforzare il sistema alimentare. Di questo, 1 miliardo di dollari è stato stanziato per sostenere ed espandere le reti di assistenza alimentare di emergenza. L’ultimo disegno di legge sulle infrastrutture fornisce anche una riduzione diretta del debito agli agricoltori economicamente in difficoltà, sebbene si concentri maggiormente su investimenti a lungo termine per rivitalizzare le comunità rurali. Questa strategia significa che gran parte dei costi dei fattori di produzione continueranno a essere trasferiti agli agricoltori, il che si tradurrà in prezzi alimentari più elevati per i consumatori. Il finanziamento del governo servirà a prevenire il fallimento degli agricoltori e fornirà assistenza a coloro che vengono sopravvalutati. È una soluzione a breve termine con costi politici potenzialmente elevati.

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Murray N. Rothbard, L’etica della libertà, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Murray N. Rothbard, L’etica della libertà, Liberilibri editore, Macerata 2021, pp.468, € 14,00.

Pubblicata dall’editore Liberilibri oltre vent’anni fa, ora è ristampata dallo stesso editore, in un momento in cui il “liberalismo” (come inteso dai media mainstream) è colpevolizzato di tutto: dalla globalizzazione fino all’inadeguatezza della risposta alla crisi pandemica. Non riportiamo quanto già scritto in molte recensioni, tra cui una apparsa sull’Opinione circa un mese orsono. Ci limitiamo alla critica che un liberale “archico”, come chi scrive può muovere ad un libertario (o liberale anarchico).

Rothbard propone una società in cui sia abolito il monopolio statale della violenza (legittima) e tutti i servizi pubblici siano offerti (ed acquistati) sul mercato. L’etica di tale società senza Stato si basa sul carattere pre-statale e naturale (giusnaturalistico) dei diritti dell’individuo; sviluppa (in particolare) il pensiero di John Locke. La contrarietà dello Stato all’etica è costituita dal fatto che obbliga i sudditi senza il consenso (individuale e volontario) degli stessi.

Così sintetizzando al massimo quello che Rothbard sviluppa in centinaia di pagine di Etica della libertà.

A questo un liberale archico può svolgere due critiche fondamentali.

La prima che l’uomo è sia homo aeconomicus che zoon politikon; ma politico ed economico sono essenze non dipendenti – anche se interferiscono l’una sull’altra – e tantomeno la scelta per una può eliminare ragioni, presupposti e regolarità dell’altra. Come scriveva tra i tanti e da ultimo Miglio, vi sono contratti-scambio e obbligazioni politiche. Quest’ultime intese hobbesiamente, volte a barattare protezione con obbedienza. Prima di Miglio, Hauriou riteneva che ci sono (sempre) due diritti (e due giustizie): quella comune tra soggetti pari e quella disciplinare (istituzionale) tra soggetti non in condizione di parità. Pretendere di eliminare uno dei due è, in sostanza, voler cambiare la natura umana. Cioè proprio quello che non solo preti e teologi, ma anche i giusnaturalismi non credono.

L’altra è che, anche perciò il liberalismo ha costruito lo Stato borghese di diritto, al quale accanto alla tutela dei diritti fondamentali è essenziale la distinzione dei poteri (Montesquieu); come mezzo e organizzazione di uno Stato attento alle libertà politica, sociale ed economica. Il potere statale non è così eliminato, ma limitato e controllato. In fondo, vale quanto scritto nel Federalista sul rapporto tra natura umana e governi: che se gli uomini fossero angeli, i governi non sarebbero necessari; e se fossero angeli i governanti, non servirebbero i controlli sui governi. Ma dato che gli uomini (tutti) non sono angeli, sono necessari sia i governi che i controlli sui medesimi.

Una concezione realistica della natura umana conduce necessariamente, coniugata all’aspirazione alla libertà, alla forma dello Stato di diritto, allo Stato liberale. Il quale è una species del genus “Stato”. Vi appartengono altre species, lo Stato assoluto che l’ha preceduto, gli Stati comunisti del XX secolo (meteore spente), gli Stati nazi-fascisti, e così via.

Lo Stato liberale è uno Status mixtus, mescolanza di principio politico (in genere, prevalentemente democratico) e dei principi dello Stato borghese di diritto. In questa fusione testimonia l’impossibilità di prescindere dal politico (e da uno o più principi politici) per realizzare una sintesi che sia “la realtà della libertà concreta” (Hegel).

Rothbard trascura perciò la realtà storica dalla forma che ha assunto il liberalismo, man mano che si realizzava, divenendo ordine ed istituzione. La polemica sull’immoralità dello Stato del filosofo nordamericano è serrata, radicale e a giro d’orizzonte: la tassazione è “obbligatoria e perciò indistinguibile dal furto, segue che lo Stato, che prospera grazie ad essa, è una vasta organizzazione criminale, di gran lunga più fortunata e formidabile di qualsiasi mafia privata”; essendo un’istituzione permanente, ha bisogno al contrario di un bandito di strada, di assicurarsi almeno l’acquiescenza dei governati attraverso una pletora di tirapiedi ideologici la cui funzione è “di spiegare alla popolazione che in realtà il re indossa bellissime vesti. In sintesi gli ideologi devono spiegare che, mentre il furto commesso da una persona o più persone o gruppi è un male, se è lo Stato a compiere tali azioni, allora non si tratta più di un furto, bensì dell’atto legittimo, e persino consacrato, detto tassazione” e anche “quando è lo Stato a uccidere, allora non si deve parlare di omicidio, ma di una pratica glorificata detta “guerra” o “repressione della sovversione interna””, onde “Il successo consolidato nel tempo degli ideologi dello Stato è probabilmente la più colossale frode nella storia dell’umanità”. Dato però che lo Stato è necessariamente fondato sul furto e l’omicidio, è costretto a servirsi di intellettuali che giustifichino queste pratiche giudicate da Rothbard immorali.

E qui troviamo un problema di etica politica che va da Platone a Croce (ed oltre), passando per la teologia cristiana: per il governante (lo “stato”) vale la stessa etica che per i governati? La risposta dei teologi e dei filosofi (molti) è che non è la stessa: sostenuta dai teologi con l’argomento che difendere la vita e la proprietà dei sudditi è opera “preziosa e divina”, come sosteneva (tra i tanti) Lutero. Deducendolo dall’antropologia negativa (l’esistenza del male e dei malvagi) cui il potere politico, istituito dalla Provvidenza divina, deve porre rimedio.

Malgrado il mio (parziale ma esteso) dissenso, il libro di Rothbard è comunque una lettura quanto mai salutare, soprattutto perché contraddice in modo radicale quegli idola propinati con dovizia e costanza da governanti e dai loro intellos, con argomenti che il filosofo nordamericano demolisce con acume e vis polemica. Una terapia di cui, in tempi di decadenza, non si può fare a meno.

Teodoro Klitsche de la Grange

COPERNICANESIMI, di Pierluigi Fagan

COPERNICANESIMI. La cultura delle immagini di mondo ha una sua credenza fondativa. La credenza è quella che, data una struttura di pensiero gerarchica che da uno o più assunti di vertice produce discorso complesso a cascata secondo l’operatore logico “se … allora”, “se” si mette in discussione il punto iniziale, “allora” cambia l’intera struttura di pensiero. Classicamente, si è presa l’ipotesi di Copernico del porre la Terra in periferia ed il Sole al centro, al contrario di quanto faceva l’ideologia dominante cristiana di derivazione tolemaica, per chiamare questo processo “rivoluzione copernicana”.
Kant dichiara di esser stato soggetto ad una rivoluzione copernicana quando venne svegliato dal “sonno dogmatico” grazie alla lettura di Hume. Marx sarà ancor più copernicano nel voler rimettere la dialettica a testa in su dopo che Hegel l’aveva messa a testa in giù. Darwin fece altrettanto con l’idea che le specie nascevano, cambiavano e sparivano in un ciclo di esistenza adattiva e quindi non erano fisse, immobili, create perfette ex ante dal Perfetto Assoluto. Freud fece qualcosa di simile con la pretesa razionalista, in parte anche Nietzsche, come riconobbe Paul Ricoeur nel confezionare la definizione di “scuola del sospetto” (Marx-Freud-Nietzsche). Einstein infine fece qualcosa di simile con Newton o meglio con la pretesa epistemologica che la gravità newtoniana fosse l’unica dimensione valida per comprendere il funzionamento macro dell’Universo. Per non parlare della distruzione paradigmatica della meccanica quantistica rispetto alle nostre pretese di uniformare il mondo macro al micro.
Insomma, da dopo Copernico, si nota quello che solo negli anni ’60 per merito di un epistemologo americano (Thomas Khun) verrà razionalizzato come un sistema di pensiero che discende da un paradigma, messo in dubbio la pretesa ordinativa del paradigma, si muove tutto il sistema di pensiero fino a trovare un nuovo paradigma che sembra più adatto al cumulo delle conoscenze sviluppate.
Si noti il fattore tempo. Un paradigma è sempre figlio di un’epoca storica. Passando il tempo si accumulano evidenze a favore ma anche molte non a favore di quel paradigma, da cui l’idea di metterlo in discussione per cercarne un altro che faccia i conti con tutto ciò che si sapeva al tempo in cui è stato formulato, ma anche con tutto ciò che s’è scoperto dopo.
Sottoponiamo allora a verifica il paradigma del materialismo storico. Classicamente il paradigma, che era a sua volta un copernicanesimo anti-hegeliano, invertiva i rapporti tra struttura materiale produttiva e sociale con la sovrastruttura ideologica sovrastante. Così funzionava l’ordine delle cose e quindi così doveva funzionare l’anti-ordine delle cose. Fare “politica” per trasformare lo stato delle cose in atto, ordinava di cambiare le strutture. In effetti poiché lo ordinava in base ad una analisi e prognosi, cioè a seguito di una costruzione di pensiero, aveva in sé una contraddizione in quanto esso stesso negava il suo presupposto. C’era una idea prima dell’azione. In effetti, già prima nella sequenza storica del suo pensiero, Marx non aveva affatto escluso il ruolo delle idee, aveva solo raccomandato di tenerle in contatto col mondo reale delle cose, di pensare mentre si agisce, creando quello che noi oggi possiamo chiamare un “circolo ricorsivo” tra pensiero-azione-nuovo pensiero-nuova azione etc.
Dopo un secolo e mezzo di progresso conoscitivo operato da molte discipline, oggi si è per lo più convinti che, coscienti e non sempre del tutto coscienti, gli esseri umani agiscono in base a ciò che pensano. L’uomo è l’animale con il più sfolgorante successo adattativo della storia recente del vivente, proprio perché pur non dotato di alcuna specialità fenotipica, pensa prima di agire. Financo pensa che è meglio non agire, talvolta, cosa che lo ha -in parte- emancipato da certi meccanismi istintuali non sempre adatti a tutte le circostanze. Il complesso sistema che sovraintende alla funzionalità mentale, noi qui lo chiamiamo “immagine di mondo”, logiche, memorie, informazioni, teorie, conoscenze, giudizi, attraverso i quali pensiamo prima di agire. Ci teniamo talmente tanto (in effetti lo potremmo dire la nostra “identità”) che spesso che ce freghiamo se i risultati delle nostre azioni sono in contraddizione con il sistema di verità dell’attività pensante, facciamo prima a dar la colpa al mondo, piuttosto che alla nostra immagine.
A questo punto potremmo fare una contro-storia culturale del dominio dell’uomo sull’uomo, evidenziando quanto problematica sia l’idea che tale dominio si sia creato nelle condizioni materiali e solo dopo sia stato “giustificato” da quelle ideali. Fino a giungere all’Origine di questa asimmetria che secondo alcuni (tra cui chi scrive) data all’inizio delle società complesse, cinquemila anni fa. Origine che alla sua origine, si è affermata al contrario, prima distruggendo l’immagine di mondo condivisa naturalmente nei piccoli gruppi umani, per poi sviluppare un doppio processo ideale e materiale che ha portato progressivamente alla forma gerarchica della società. Ma non abbiamo spazio e tempo per poter esser più precisi a riguardo.
Saltiamo allora direttamente ad oggi. Come forse saprete, c’è una “discorso delle idee” che si dipana con grande coerenza ed intensità dalla fine della Seconda guerra mondiale, soprattutto in ambito statunitense. E’ un discorso complesso fatto di psicologia diretta allo sviluppo prima del comportamentismo e poi del cognitivismo, che poi si interseca con la rivoluzione informatica, lo sviluppo dei mass-media, che poi arriva ad Internet che nasce da una rete militare, che poi si sviluppa progressivamente nella cultura digitale, nel più ampio movimento della informazione, della cultura e dell’intrattenimento in direzione di certi precisi canoni conformi all’ordinatore economico mediato dal marketing. Fino ad arrivare ai primi del nuovo millennio, ad una nuova strategia lanciata dal governo americano detta NBIC, appunto la convergenza e sinergia tra le ricerche su nanotecnologie-biotecnologie-informazione-sviluppi della “cognitive science” che porterà al Internet of Things, al Metaverso, alla Realtà aumentata e molto altro per altro da tempo anticipato dalla letteratura fantascientifica distopica.
Ci si domanda quindi: quanto della battaglia politica condotta dalle élite oggi si basa su strutture piuttosto che sovrastrutture? Quanto materiale e sociale condizionamento sono esercitati, quanto controllo biopolitico, ma a questo punto quanto controllo psicopolitico come intuito da Byung-chul Han? Siamo sicuri che il dominio dell’uomo sull’uomo è operato dal piano materiale e solo dopo si confezionano ideologie? E come spieghiamo allora la vasta e storica servitù volontaria dei Molti se non con l’introiezione che è giusto sia così e non altrimenti possibile ancorché desiderabile? Se l’uomo è l’animale che pensa prima di agire, il controllo dell’uomo sull’uomo non parte dal controllo di questa facoltà di pensiero per poi raccogliere i frutti nel dominio materiale? Cosa hanno fatto le religioni per milioni di anni?
Sino a giungere alla nostra domanda finale: non è che convinti ancora che la battaglia politica debba partire dalle forme materiali, ci siamo persi l’opportunità di agire invece sul piano mentale? Perché invece di fondare partiti materiali, non proviamo a fondare un partito mentale? Che faccia conflitto organizzato mentale? Avremo dei vantaggi a fare un nostro copernicanesimo che riconosca la necessità di agire in forme organizzate il conflitto sociale e politico sul piano mentale? Non è che ci serve un partito culturale, un movimento culturale organizzato prima di quello sociale e politico?
O crediamo che basti la nostra confusa e scoordinata, vociante ed inconcludente “guerriglia critica” per combattere le potenti forze messe in campo dall’ ordinatore dominante e relativa élite con codazzo funzionariale sempre più dedita a capire e controllare come riannodare i fili dei nostri dendriti disciplinando i flussi elettrici e chimici che da neurone vanno a neurone?
E’ forse questa la risposta che non troviamo per la versione attuale dell’eterna domanda politica: che fare?
NB_Tratto da facebook

Imposta globale o imposta statunitense?_di Victor Fouquet

“Una svolta storica! Così è stata presentata la firma da parte di 130 dei 139 membri del quadro inclusivo dell’Ocse, il 1° luglio a Venezia, dell’accordo sull’applicazione dal 2023 di un’aliquota minima alle imprese del 15% nel mondo.

Per la stragrande maggioranza dei commentatori, questo testo, costringendo le multinazionali a versare con i loro profitti il ​​loro equo contributo alle finanze pubbliche, rappresenterebbe un grande passo avanti verso una maggiore “giustizia fiscale” internazionale, oltre a simboleggiare la vittoria di multilateralismo sugli “egoismi nazionali”. Tale analisi è doppiamente sbagliata. Da un lato ignora i fenomeni di equità spaziale e di incidenza fiscale, la cui conoscenza è tuttavia indispensabile se si vuole valutare correttamente la giustizia – interstatale e interindividuale – di una riforma tributaria di questo tipo. D’altro canto, ignora il reale equilibrio internazionale di forze alla base dell’accordo del 1 luglio, che è meno cooperativo di quanto si vorrebbe dire.

Giusto, la tassa minima globale? Per le piccole nazioni sovrane scarsamente dotate di fattori di produzione, l’assenza di un tax floor e la fissazione gratuita di aliquote appaiono normalmente i mezzi per attrarre loro il capitale finanziario e umano necessario al loro sviluppo ea quello della loro popolazione. Questo è ciò che i nove recalcitranti avidi di tasse hanno capito e rivendicano, più o meno direttamente: Irlanda, Ungheria, Estonia., Kenya, Nigeria, Barbados, Saint Vincent e Grenadine, Perù e Sri Lanka. Pertanto, l’attuazione di un’aliquota minima globale dell’imposta sulle società riflette più la volontà dei grandi Stati (“il più freddo dei mostri freddi”) di preservare il loro vantaggio competitivo e il loro guadagno fiscale, che riflette una genuina preoccupazione per la giustizia in la direzione dei piccoli paesi con spazi di mercato più deboli. La legge delle ripercussioni fiscali ci insegna anche che i contribuenti designati come imposti dalla normativa sono raramente coloro che contribuiranno, di fatto, al finanziamento della spesa pubblica. I più forti economicamente con ripercussioni sui più deboli, vi sono tutte le ragioni per pensare che l’eccedenza attesa di entrate fiscali (150 miliardi di dollari l’anno a livello mondiale;

Le menti più acute avranno capito qui che la tassazione, come ogni questione politica, ha prima di tutto una dimensione geopolitica. La prova migliore: Janet Yellen, Segretario del Tesoro degli Stati Uniti, ha convinto gli europei che volevano continuare a tassare unilateralmente i Gafam americani a rinunciare obbedientemente al loro diritto alla tassazione. La richiesta di giustizia fiscale è diventata improvvisamente più tranquilla da parte di Washington quando si è trattato di proteggere le ammiraglie industriali americane. L’ingenuità di molti osservatori francesi e più in generale europei, che elogiano Biden dopo aver maledetto Trump, confonde ancora una volta. Lo scambio è sicuramente più cortese con Joe, e il potere di ritorsione meno evidente che con Donald. Ma lo scopo rimane lo stesso: America First!Non è nemmeno un caso che la riforma dell’imposta globale sulle società, dopo aver naufragato per molti anni, sembri sul punto di completarsi proprio mentre gli Stati Uniti decidono di aumentare la propria aliquota. L’amministrazione statunitense si assicura così entrate fiscali aggiuntive limitando significativamente i rischi di delocalizzazione e di clamore per le proprie multinazionali. Vincere su tutti i fronti!

https://www.revueconflits.com/impot-mondial-ou-impot-americain/

Sapelli: la crisi energetica è un colossale fallimento manageriale e del green “forzato” dalla Ue

Si contempla il traguardo, ma non la strada da percorrere_Giuseppe Germinario

Sapelli: la crisi energetica è un colossale fallimento manageriale e del green “forzato” dalla Ue. Se ne esce rallentando la corsa alla transizione forzata e inverando l’economia circolare

di Marco de’ Francesco ♦︎ Intervista allo storico ed economista sull’enorme aumento dei prezzi dell’energia, che danneggerà seriamente molte industrie (automotive, plastica, chimica, acciaio…). «Il diesel, alla fine dei conti, era assai più verde dell’elettrico. Ma non c’è dubbio che una certa narrazione sia prevalente»

«La crisi energetica? Un colossale fallimento manageriale da parte degli strateghi e dei responsabili degli acquisti delle società energetiche europee». I primi hanno smesso di investire nelle ricerche minerarie, i secondi non hanno capito che il just in time, con l’interruzione delle filiere in corso di pandemia non funzionava più, e che bisognava far scorte di idrocarburi. E ora il Vecchio Continente è in guai seri, perché il prezzo del Brent viaggia a quota 80 dollari, e il gas naturale è passato in un anno da 2,5 dollari al metro cubo a circa 6 dollari, e anche il carbone ha rialzato la testa, da 50 a circa 220 dollari a tonnellata. E i livelli di stoccaggio sono paurosamente bassi. Ci aspettano momenti terribili, con possibili gravi ripercussioni sull’automotive, il vero motore dell’industria continentale, «che si sta smantellando da sola». Lo pensa Giulio Sapelli, economista, storico e accademico torinese (ma con cattedra a Milano), uno dei pochi ad avere sempre un punto di vista originale sulle vicende industriali ed economiche in Italia.

C’è di più. Secondo Sapelli, la dabbenaggine non c’entra. Non si tratta, cioè di errori di valutazione dovuti al fato o all’incompetenza. Il fatto è che i manager sanno bene che la Borsa premia il green. La Finanza sovvenziona l’ideologia verde con denari a palate: secondo Morningstar, sui 139,2 miliardi di dollari che nel secondo trimestre di quest’anno sono affluiti sulle società che producono energia rinnovabile o che investono nella transizione energetica, l’81%, e cioè 112,4 miliardi, provengono dal Vecchio Continente. Il mondo green valeva a giugno 2.243 miliardi di dollari, più del Pil dell’Italia; di questi soldi, l’82% era in mano all’Europa. È oggettivamente difficile, per qualsiasi manager, non tenere conto di queste dinamiche. D’altra parte, le scelte green degli amministratori, dice Sapelli, sono “ricompensate” dalle società di appartenenza con laute concessioni di stock option.

Tutto ciò si fa perché Strasburgo ha posto in essere un proprio piano sulle politiche energetiche (ma anche climatiche e dei trasporti), il Green Deal, che si fonda largamente sul ricorso alle fonti rinnovabili e sulla compressione di quelle fossili. Ma secondo l’economista non è chiaro se sia stata l’Unione Europea a condizionare la finanza, o il contrario, visto che la seconda «ha un piede nell’Unione Europea». Come se ne esce? Da una parte l’Unione Europea dovrebbe per lo meno rallentare la corsa alla transizione forzata, dall’altra il governo Draghi dovrebbe «inverare l’economia circolare», che riduce la produzione di emissioni senza annientare l’industria. Secondo me questa è una strada credibile, e realizzabile. È già in parte operativa: si tratterebbe soltanto di estendere il sistema. Tutto questo secondo Sapelli, che abbiamo intervistato.

 

D: Con il Covid la domanda di energia era calata, e pure i prezzi. Si era detto che era un calo strutturale e non casuale. Oggi questi discorsi sembrano destituiti di qualsiasi fondamento: abbiamo ancora bisogno di petrolio e gas?

Giulio Sapelli, economista e accademico

R: Sì, non c’era nulla di strutturale nella riduzione dei prezzi durante il Covid-19. Il calo era momentaneo, ed era legato al blocco delle attività produttive, al alla disarticolazione delle filiere e alla difficoltà degli approvvigionamenti. Molto si era fermato, e quindi c’era meno bisogno di energia. Poi, quanto sta accadendo da qualche mese, è invece frutto di un insieme di fattori. Anzitutto l’aumento è legato ad una transizione green troppo rapida, guidata dall’alto, e cioè dalle politiche europee sull’energia e sui trasporti, che sono frutto della tecnocrazia di Strasburgo, sempre più lontana dalla realtà dell’industria. Inoltre stanno pesando anche le condizioni climatiche, l’inverno freddo e l’estate calda, e soprattutto il default manageriale delle imprese energetiche del Vecchio Continente.

 

D: Quale default manageriale?

R: Ciò che si osserva è anche un colossale fallimento manageriale: i responsabili degli acquisti delle società energetiche europee avrebbero dovuto capire che centinaia di navi alla rada (cariche di idrocarburi) avrebbero creato colli di bottiglia. Avrebbero dovuto comprendere che il just in time che aveva regolato il loro mondo negli ultimi anni non avrebbe più funzionato e che bisognava fare scorte. Invece, gli esperti che si occupavano di strategia avrebbero dovuto continuare a fare investimenti nel fossile, nella ricerca mineraria. Non c’è niente da fare: senza queste attività si resta a secco. Comunque sia, ora ci troviamo senza riserve.

La missione 2 del Pnrr: la transizione ecologica

D: In effetti nel 2014 si investivano 800 miliardi nella mineraria, quest’anno di stima sui 250 miliardi. E i livelli di stoccaggio sono tra i più bassi mai registrati. Ma come mai i manager delle aziende energetiche non hanno interpretato correttamente la situazione?

R: Diversi fattori hanno inciso sul comportamento dei manager. La Borsa premia il green, che le stock option vengono assegnate a chi fa operazioni verdi: si assiste ad una discrasia sempre più profonda tra la finanza e la realtà. E le scelte dei manager sembrano guidate dalla logica dei bonus.

Gas naturale. L’incremento dei prezzi delle materie prime non è di certo una novità, ma piuttosto un fenomeno che ciclicamente coinvolge l’economia mondiale. Ma questa volta, alle dinamiche fisiologiche si sono sommate quelle straordinarie dettate dalla pandemia, su tutte le politiche di stimolo messe in campo dai governi

D: Non è che l’Europa, con il Green Deal, ha fatto il passo più lungo della gamba?

R: Ha imposto dall’alto una politica sull’energia e sui trasporti largamente fondata sulle rinnovabili, caratterizzate da una produzione intermittente e insostenibile dal punto di vista industriale. Bisogna tornare alla raffinazione del petrolio. È essenziale in termini energetici; e con i suoi derivati non si fa soltanto la plastica, il cui prezzo è peraltro raddoppiato in un anno, ma anche i prodotti farmaceutici, che sono basati sull’urea. Vorrei sapere come avremmo fatto a sviluppare i vaccini, altrimenti. L’aspetto grottesco del momento attuale è che, dopo tutta questa guerra ai combustibili fossili, alcuni Paesi paladini di questa ideologia (come il Regno Unito) stanno riattivando le centrali a carbone – che è senz’altro la fonte più inquinante.

Brent petrolio. Dopo un calo dei prezzi di materie prime come rame, petrolio e acciaio a cavallo di Ferragosto, ora si assiste a una nuova inversione di tendenza. Anche gli analisti si trovano in difficoltà: è difficile stabilire se si tratti di una normalizzazione della curva o di una nuova ondata di incrementi.

D: Quali settori industriali rischiano di più? E quanto rischiano?

Linea di produzione nella fabbrica Fca di Torino

R: La crisi energetica sta colpendo duramente le industrie ad alto consumo di elettricità, e quindi la siderurgia, la chimica, la ceramica, le cartiere. Ma non trascurerei l’automotive, che è centrale per il sistema Paese. Al di là dei componentisti, molti settori dipendono dalla domanda dei carmaker: si pensi alle materie prime: plastica, vetro, metallo, compositi. Ora, l’automotive è di nuovo sotto scacco, perché, dopo i guai e l’indebitamento per la transizione all’elettrico, si trova a fronteggiare sia la crisi energetica che quella dell’aumento dei costi e della difficoltà di reperire componenti essenziali, come i micro-chip, che dei raw material. Come si è arrivati a tutto questo? Si torna al discorso di prima: la colpa è dei tecnocrati di Bruxelles e Strasburgo, che subiscono le pressioni delle lobby ambientaliste, che a loro volta hanno un piede nella finanza. Quello che sta accadendo è strano e forse non è mai successo: l’industria europea si sta smantellando da sola.

 

D: L’Opec e la Russia non sembrano avere alcun interesse ad aumentare l’offerta. Anzi, pare che Gazprom abbia diminuito le forniture.

R: L’Opec e la Russia fanno i loro interessi. Per quale motivo dovrebbero agire per diminuire i prezzi, dopo un periodo, quello della pandemia, in cui questi sono diminuiti? Fa parte della dialettica fra gli Stati. L’Opec in particolare è sempre stata molto attenta a gestire la dinamica dei costi del petrolio. Questo si sapeva già. La colpa è dell’Europa, che si è cacciata nei guai da sola, e che ora non sa esattamente cosa fare.

Dopo un calo dei prezzi di materie prime come rame, petrolio e acciaio a cavallo di Ferragosto, ora si assiste a una nuova inversione di tendenza. Anche gli analisti si trovano in difficoltà: è difficile stabilire se si tratti di una normalizzazione della curva o di una nuova ondata di incrementi

D: Come si esce da questa situazione?

Maire Tecnimont Impianto di trattamento Oil & Gas Tempa Rossa

R: Ritornando alla ragione, e quindi abbandonando le sirene e i cantori della transizione forzata. Certo, bisogna agire anzitutto in Europa, per porre i tecnocrati di fronte alla realtà: non è mai stato inventato un sistema per contrastare l’emissione di Co2. Il green sposta il problema altrove, ma si vive sotto lo stesso cielo, nella stessa atmosfera. Se movimento e tratto in Cina centinaia di tonnellate di terra per ottenere un centimetro cubo di materiali da inserire in una batteria o nel fotovoltaico, qual è il vantaggio? Il diesel, alla fine dei conti, era assai più verde dell’elettrico. Ma non c’è dubbio che una certa narrazione sia prevalente. Poi c’è il governo. Se fossi Draghi, cercherei di inverare l’economia circolare, che riduce la produzione di emissioni senza annientare l’industria. Secondo me questa è una strada credibile, e realizzabile. È già in parte operativa: si tratterebbe soltanto di estendere il sistema. Quanto a Confindustria, non so neanche cosa dire. All’interno, non è difficile scorgere una lotta di potere, dove la politica ha un peso importante. D’altra parte, gran parte del finanziamento all’associazione dipende dalle imprese pubbliche. Questo influisce molto sulle dinamiche di Viale dell’Astronomia.

https://www.industriaitaliana.it/sapelli-crisi-energia-economia-circolare-industria-gas-petrolio/

Che cosa penso delle tesi di Rutelli su Pnrr e rinnovabili. Parla Sapelli

Draghi Sapelli

Lo storico ed economista, Giulio Sapelli, commenta in una conversazione con Start Magazine le tesi di Francesco Rutelli che a Draghi sulla transizione energetica ha consigliato di…

“Draghi ha ottenuto la fiducia sulla promessa di una “rivoluzione verde”, ma l’attuale agenda è inadeguata. Se ci faremo trovare impreparati, il Paese perderà anche competitività: compreremo dalla Cina le batterie e dalla Germania gli elettrolizzatori”. Non usa mezzi termini l’ex ministro dell’Ambiente Francesco Rutelli, ora presidente della fondazione Centro per un futuro sostenibile e presidente di Anica, associazione delle industrie cinematografiche, audiovisive e multimediali, in una intervista a Repubblica chiede che il dossier sul clima passi a Draghi.

Per Giulio Sapelli, economista, però il Pnrr più che essere fuori strada sul clima lo è sulla politica industriale. “Gli obiettivi climatici al 2030 non dovrebbero esistere”, dice Sapelli, sentito da Start Magazine.

Andiamo per gradi.

RUTELLI: SUL CLIMA SIAMO FUORI STRADA

Partiamo dalle tesi di Francesco Rutelli.

“Sul clima siamo completamente fuori strada”, afferma l’ex Ssndaco di Roma, che negli ultimi anni è uscito dalla scena politica in una intervista a Repubblica. “L’agenda politica italiana è totalmente inadeguata ad affrontare l’emergenza. Ma una soluzione c’è e si chiama lavoro”.

SPROPORZIONE TRA IMPEGNI E FATTI

“C’è una colossale sproporzione tra quello che ci siamo impegnati a fare e quello che stiamo realizzando davvero. La comunità internazionale, quindi anche l’Europa e l’Italia, è concorde nel dimezzare le emissioni di CO2 entro il 2030 e azzerarle entro il 2050”, ha aggiunto Rutelli.

IL DOSSIER PASSI A DRAGHI, DICE RUTELLI

Per il presidente di Anica, a prendere in mano il dossier dovrebbe essere direttamente il Premier: “Draghi ha ottenuto la fiducia sulla promessa di una “rivoluzione verde”, ma l’attuale agenda è totalmente inadeguata. Non basta cambiare nome a un ministero e affidarlo a un persona competente come Cingolani, di cui mi fido e che stimo, ma che è l’ottavo ministro del governo in termini gerarchici. Se ne deve far carico il premier in prima persona”, aggiunge Rutelli.

A RISCHIO COMPETITIVITA’ PAESE

Per l’ex sindaco di Roma, in gioco c’è il futuro imprenditoriale del Paese. Bisognerebbe, spiega Rutelli, riscrivere “totalmente l’agenda politica del Paese”, mettendo “al centro la lotta all’emergenza climatica. Se ci faremo trovare impreparati, il Paese perderà anche competitività: compreremo dalla Cina le batterie e dalla Germania gli elettrolizzatori (i dispositivi che estraggono idrogeno dall’acqua, ndr)”.

OBIETTIVO: CREARE LAVORO

Ma come convincere la popolazione che la strada verso il green sia quella giusta?

“L’unica chiave per convincere le persone a sposare la transizione ecologica – spiega Rutelli – è il lavoro. Vanno coinvolti tutti gli attori pubblici perché gli investimenti green siano finalizzati alla creazione di nuova occupazione. Chi perderà il lavoro per il passaggio dai fossili alle rinnovabili dovrà poter contare su una struttura di formazione permanente che lo prepari alle nuove professioni. E ai ragazzi va prospettata una filiera di formazione e occupazione compatibile con la transizione verde. È il solo argomento convincente nel breve termine per avere il consenso delle persone”.

SAPELLI: LA TRANSIZIONE E’ SOCIALE E A LUNGO TERMINE

Ma davvero, come dice l’ex ministro dell’Ambiente, nella lotta al cambiamento climatico siamo fuori strada? “L’affermazione di Francesco Rutelli è apolitica. Il problema sollevato è giusto, ma non possiamo trovare soluzioni solo superficiali. Bisogna capire cosa e come si interpreta la lotta al cambiamento climatico”, afferma Giulio Sapelli, storico ed economista, a Start Magazine.

“Per controbilanciare, realmente, la devastazione fatta negli anni passati del clima, della natura e della Terra, è necessaria una transizione di lungo termine. Guardiamo al passato e al tempo che è stato necessario per passare dal feudalesimo al capitalismo”.

CON MODELLO CAPITALISTA LA TRANSIZIONE ENERGETICA E’ LONTANA

E proprio il capitalismo, per Sapelli, è un impedimento alla lotta al cambiamento climatico. “Sarà difficile risolvere il problema climatico all’interno del nostro sistema capitalista, serve prima una transizione sociale ed economica. La necessità di presentare i conti economici ogni tre mesi dirotterà le politiche aziendali alla creazione di plus valore”.

OBIETTIVI 2030? MODELLO SBAGLIATO

Anche la modalità dell’imposizione degli obiettivi, per Sapelli, è fallibile. “Il problema non è essere in linea o meno con gli obiettivi al 2030, come sostiene Rutelli, il problema è l’imposizione di quelli obiettivi. Questa politica risponde ad un modello sovietico, già fallito”, spiega l’economista: “Con il Pnrr abbiamo resuscitato il modello URSS”.

SAPELLI SU RUTELLI

E allora qual è la strada che il governo Draghi dovrebbe perseguire? “Quella che dovremmo seguire tutti: puntare al risparmio energetico, nel senso di non accendere luci non necessarie, per esempio, e a nuovi modelli di estrazione delle risorse naturali. Mi spiego: l’acqua dovrebbe essere amministrata dalla comunità, come bene comune di cui prendere consapevolezza. Un altro esempio? La pesca: il fermo pesca non dovrebbe essere imposto dall’alto, ma deciso da una cooperativa di pescatori. É la società che si deve anche fare carico dell’economia”.

PNRR: NON RISPECCHIA STRUTTURA INDUSTRIALE

E quindi il Pnrr, così come impostato, potrebbe avere effetti controproducenti per la struttura imprenditoriale italiana? “Sì”, secondo Sapelli, ma non per gli stessi motivi di Rutelli. Secondo l’economista, infatti, “il Piano non è modulato sulla struttura industriale italiana, che è composta principalmente da piccole e medie imprese. Noi siamo una potenza grazie a queste: se guardiamo alla siderurgia, oltre all’Ilva, noi siamo leader grazie alle imprese medie e piccole di settore”.

UN PNRR TROPPO BUROCRATICO

Ma Sapelli che cosa rimprovera a questo Pnrr? “E’ troppo burocratico e centralizzato. Il Piano nazionale di Ripresa e Resilienza è un elenco di spese, una teoria. Sembra essere l’ultimo tentativo sovietico. I neoliberisti vogliono fare i liberisti con lo Stato. Il Pnrr manca di una visione industriale per il nostro Paese, è frutto delle idee dei 10.000 burocrati di Bruxelles”.

IL FOSSILE TORNERA’ DI MODA

Ma burocrati ed ideologie momentanee a parte, per Sapelli i fossili non passeranno mai di moda. “Del fossile ce ne sarà sempre bisogno. Ci accorgeremo presto che con le rinnovabili produrremo più anidride carbonica di quanto immaginiamo. L’idrogeno, invece, richiede l’utilizzo di materiali cancerogeni. Il litio non riusciamo a smaltirlo. Quanto prima torneremo alle fossili e al gas, soprattutto”, secondo lo storico ed economista.

“Rutelli è mosso da pensieri positivi, ma bisogna conoscere bene la materia. Io ho anche letto il libro “Tutte le strade portano a Roma”, è molto bello, ma consiglio a Rutelli di leggere quanto è accaduto in Texas, dove sono stati senza luce per il crollo del sistema elettrico, che si regge sulle sole rinnovabili. Ci sono già elementi che valorizzano la mia tesi”.

https://www.startmag.it/energia/che-cosa-penso-delle-tesi-di-rutelli-su-pnrr-e-rinnovabili-parla-sapelli/

Fight or flight (una parabola psicologica), di Andrea Zhok

Fight or flight (una parabola psicologica)

Pubblicato il 9 novembre 2021 alle 08:32

Capita di incrociare persone, tra quelle fermamente favorevoli al pacchetto governativo Vaccinazione Universale + Green Pass, che manifestano un autentico stupore per la persistenza della protesta. Sembra che non si capacitino. Spesso si affaticano persino ad escogitare esotiche psichiatrizzazioni di quella che a loro appare come un’incomprensibile ‘deviazione’. Perché ai loro occhi nulla di razionale potrebbe giustificare un tale testardo comportamento ostativo.

Quando questi incontri capitano a me l’unica opzione rimasta è un rapido allontanamento. Questo perché comprendo di avere una reazione simmetrica ed opposta: ho l’impressione di essere in qualcosa come la taverna di Star Wars, tra bizzarri alieni polimorfi, o tra Visitors, gente che tra un sorriso e l’altro potrebbe ingollare un ratto vivo pulendosi col tovagliolo e proseguire come nulla fosse. Il senso di completa incomprensione è straniante, il senso di potenziale conflitto è inquietante e alienante.

Ora, però per amore dell’ottimismo della volontà, voglio provar a superare questa reazione epidermica e tentar di fornire un lato da cui, forse, avvicinare alla controparte almeno l’aspetto psicologico di quella resistenza così incomprensibile. (Sull’aspetto concreto, argomentativo, credo non ci sia più niente da aggiungere: chi era disposto a capire ha capito.)

Mi interessa in particolare far capire una cosa, che temo non sia compresa, e che se non compresa condurrà in un vicolo cieco dai risvolti drammatici: Chi fa resistenza ora alla strategia governativa Vaccinazione Indiscriminata + Green Pass non mollerà mai. Non mollerà mai non per simpatia con qualche slogan, ma per ragioni psicologiche fondamentali. Non mollerà neppure se dovesse essere costretto con un fucile spianato ad obbedire. Continuerà con tutte le proprie risorse e in ogni modo a resistere a questa spinta.

Perché? Non per ragioni “psichiatriche”, ma per ragioni psicologiche cruciali.

Provo a spiegarmi con una storiella, una sorta di parabola o similitudine.

Immaginiamo che stiate passeggiando in solitudine per una strada urbana sconosciuta: carcavate la piazza centrale del paese e vi siete persi.

Vi si fa incontro un poliziotto che vi sorride, vi dice di non preoccuparvi e vi chiede di seguirlo.

Il poliziotto vi indica un vicolo laterale e vi dice di entrare. Garantisce che la piazza è vicinissima, proprio lì dietro, e che neanche immaginate quanto sia bella.

Abituati a dare fiducia all’autorità costituita, girate l’angolo.

Però dietro l’angolo c’è un lungo vicolo buio, pieno di pozzanghere, mefitico. Sulla destra compare un cartello arrugginito con una freccia e la scritta: “Alla vecchia discarica”.

Vi girate con aria interrogativa.

Il poliziotto svelle il cartello lanciandolo a terra, sorride e vi rassicura: “Non si faccia scoraggiare. Sono vecchi segnali senza valore. La piazza non è subito visibile, bisogna andare in fondo e girare l’angolo.”

Voi cominciate a sentirvi un po’ a disagio, ma in fondo siete nelle mani della forza pubblica, e a cos’altro di più autorevole vi potreste appellare? E perciò date fiducia e proseguite.

Alla prima svolta il vicolo appare ancora più tetro, la stradina si stringe, compare qualche sorcio e si intravede un tunnel. Sopra il tunnel c’è un cartello che segnala “Zona pericolante.”

Vi girate di nuovo chiedendo se è proprio sicuro che sia questa la strada. Il poliziotto vi guarda con aria rassicurante e bonaria, stacca dal muro il cartello, lo mette sotto i piedi, e vi garantisce che è così, basta entrare nel tunnel e arrivare alla prossima svolta. Mica vorrete credere a queste scritte, che chissà chi le ha messe? E non vorrete mica mettere in dubbio la sua parola?

E così entrate nel tunnel e camminate ancora, inzaccherandovi e turandovi il naso, fino ad arrivare alla successiva svolta.

Ora il tunnel si restringe, e si abbassa fino a costringervi ad abbassare il capo, venite accolti da una zaffata di odore di muffa, buio pesto, fanghiglia, lamiere cigolanti e in primo piano campeggia il cadavere di un gatto.

A questo punto puntate i piedi, dicendo di non essere più sicuri di voler continuare.

Ma ora la mano del poliziotto vi prende per il braccio e comincia a spingervi; non ride più: “Beh? Guardi, mica ho tutto il giorno da perdere! Perché si ferma? Non siamo arrivati. Guardi, sono stato gentile finora, però veda di continuare perché altrimenti mi costringe a smettere con le buone maniere.”

Ecco, a questo punto voi non sapete davvero cosa sta succedendo.

Potete fare congetture, ma non lo sapete.

Però, sicuro come la morte, siete tesi come una corda di violino e non credete più ad una parola del poliziotto. Non sapete che intenzioni abbia, ma non volete aspettare a scoprirlo. Non siete neppure più certi che sia davvero un poliziotto. Quel che sapete è che avete alle spalle un energumeno armato, che ha usato il credito della divisa per portarvi in un luogo dove non volevate andare, che vi ha messo in condizioni di non poter chiedere aiuto, che vi ha raccontato storie prive di riscontro, che ha sminuito qualunque segnale di allarme, e che di fronte alla vostra resistenza è passato a spingervi e a minacciare l’uso della forza.

E a questo punto, in quanto esseri umani eredi di istinti cui si deve l’essere arrivati fino ad oggi, entrate in modalità bellica: “Qualunque cosa questo tomo voglia, ora l’unica cosa che conta è sfuggirgli e trovare il modo di tornare indietro.” Da questo momento in poi ogni cosa che il poliziotto dirà saranno suoni vuoti, in cui risiede un inganno latente; ogni movimento che farà, sarà solo parte di una minaccia incombente, minaccia di qualcosa di tanto più spaventoso in quanto ignoto. E ad una pressione ulteriore non sapete come potreste reagire, perché ora tutto è permesso.

—–

Ecco, la similitudine spero risulti esplicativa.

Il poliziotto è il governo. Dall’inizio della vicenda ha tutti i mezzi e tutta l’autorità per condurvi dove vuole. Vi promette di condurvi in salvo, purché facciate come dice. E voi inizialmente gli date fiducia e lo seguite, perché dopo tutto è lì che risiede l’autorità.

Però svolta dopo svolta, tunnel dopo tunnel, cominciate prima a chiedervi se sappia quello che fa; e poi a temere che sappia quello che fa, e che non sia neanche di striscio nel vostro interesse. Ad ogni menzogna, ad ogni mancata meta, ad ogni inganno “a fin di bene”, la fiducia in quel che viene affermato si assottiglia. E nel momento in cui ai sorrisi e alla persuasione subentra la coazione e la minaccia, a questo punto, il dubbio sulle buone intenzioni è diventato certezza di cattive intenzioni.

Che non si sappia dare un chiaro volto a quelle cattive intenzioni non ha nessuna importanza: in passato i nostri antenati non hanno aspettato di vedere se il leone avesse davvero fame per scappare; e se avessero avuto quello scrupolo non saremmo qui a raccontarlo.

E così, il governo e il CTS hanno raccontato corbellerie o fandonie, ripetutamente.

Hanno sbagliato nel determinare quel che serviva per contenere la pandemia (dalle mascherine all’aperto, al divieto di uscire di casa, alle multe ai runner, al protocollo “tachipirina e vigile attesa”, ecc.).

Ma si era all’inizio. Esistono gli errori in buona fede.

Poi però hanno manipolato le comunicazioni sui decessi a seconda della bisogna, minimizzando quando serviva minimizzare, esacerbando il terrore quando serviva altro.

E qui un po’ la diffidenza cresce, però, chissà, magari erano “distorsioni a fin di bene”.

Ma poi hanno detto il falso sull’immunità di gregge (su cosa serviva per raggiungerla, e se era possibile raggiungerla). Hanno detto il falso sulla sicurezza dei preparati da inoculare, dando garanzie assolute che non erano in grado di dare e che sono state smentite al prezzo di lesioni personali e vite umane. Hanno detto il falso sull’efficacia e durata dei medesimi preparati, cambiando versioni almeno quattro volte. Hanno detto il falso su chi sarebbe stato contagioso e chi no. Hanno detto il falso sull’inesistenza di terapie disponibili, ecc. ecc.

E al tempo stesso hanno bloccato e rimosso tutti i “cartelli di ammonimento”: hanno fatto di radio e tv un’unica voce con una stessa narrazione, hanno bloccato, censurato o negato tutte le fonti di informazione alternative, anche le più autorevoli; quando non è stato possibile bloccarle, le hanno screditate, attaccate, minacciate di radiazione, ecc.

E poi hanno cominciato a premere e ricattare, in un crescendo, estendendo per categorie, e per fasce di età la richiesta di sottoporsi all’inoculazione, ed ampliando la portata dei divieti e dunque l’area del ricatto fino a mettere in discussione le fonti di sostentamento.

L’immagine complessiva che riassume il processo è ora quella di un’autorità monolitica che nel corso di quasi due anni, con un continuo crescendo, ha mentito e manipolato, vietato e censurato, costretto e ricattato, e che è disposta sempre di più ad usare anche la repressione più schietta, pur di fare in modo di inoculare il maggiore numero di persone, e di farlo specificamente con alcuni preparati (gli altri internazionalmente approvati non sono riconosciuti), mentre ha ridotto ai minimi termini le funzioni terapeutiche.

La mancanza di un chiaro quadro delle intenzioni a questo punto non basta a disunire la resistenza, per quanto composita. Qui si va dall’estremo di chi ha una netta propensione a teorie del complotto e crede che si tratti di uno sterminio di massa a finalità di abbattimento demografico, all’estremo opposto di chi pensa si tratti del mero casuale concorso di sciatteria, corruzione, interessi economici e senso di impunità di una classe dirigente allo sbando, senza alcun piano; con molti livelli e ipotesi intermedie.

Però che sia stato per incapacità o per dolo, oramai non importa più nulla – hanno creato una situazione in cui la loro parola non conta più niente, si dà per scontato che qualunque cosa venga detta o dichiarata sarà una menzogna o una manipolazione: ogni credibilità è scomparsa. L’unica cosa chiara è che sono disposti a dire e fare “whatever it takes” per portare tutti, con motivazioni farlocche, ad accettare un intervento sanitario indesiderato e una certificazione di avvenuta subordinazione. E a questo punto non possono più fare niente per convincere delle loro buone intenzioni, anche laddove fossero mai esistite. Ora sono la minaccia, il nemico e l’unico primordiale imperativo è fuggire o combattere.

 

[E infine, tra le varie ipotesi disponibili c’è anche quella, machiavellica ma non troppo, che questa reazione psicologica sia proprio il fine perseguito, per incrementare il livello dello scontro fino a giustificare strette autoritarie.

Il buio fa paura perché non sai qual è la forma della minaccia e non puoi prepararti.]

https://sfero.me/article/fight-or-fllight-parabola-psicologica?fbclid=IwAR3MlA_o_7E0LwJ2-Z_vDXdDuJWMp1uONwWO_hbTtB_erIt00GZXZfkfSlA

 Zhok II
Ieri sono incocciato in una accesa discussione in rete a livello locale (FVG) in cui si discuteva del dramma dell’apparente saturazione delle terapie intensive in regione. La discussione ha preso subito toni accesissimi (e per inciso straordinariamente violenti e volgari) paventando il blocco delle operazioni programmate, e chiedendo durissime repressioni per i reprobi.
Spaventato sono andato a cercare i dati ufficiali aggiornati (beninteso, manipolabili anch’essi) sull’occupazione delle T.I., nazionali e regionali per casi di Covid:
5% di occupazione media nazionale,
11% in FVG
(link nei commenti).
Dunque:
1) dopo aver dato un lasciapassare esclusivo alla frequentazione di luoghi chiusi ad una maggioranza di popolazione che a 4 mesi dall’inoculazione contagiano esattamente come i non inoculati (e accusando gente che fa un tampone ogni 48 ore di essere untori),
2) dopo aver inventato un virus politicamente selettivo che evita di manifestarsi in 10 giorni di assembramenti per una regata velica, dando il meglio di sé solo sotto gli idranti rivolti ai reprobi,
3) ora l’ultimo passo è l’invenzione di una saturazione ospedaliera con incombente catastrofe (che se si manifesta coll’11% di occupazioni Covid a livello regionale, allora è stata creata ad arte in una singola sede ospedaliera.)
In sostanza siamo in un sistema dominato da un castello di fake news, fake di matrice governativa e pompate dei media, con la specifica funzione di aizzare gli animi.
Spero che quanto prima qualcuno capisca che questa gestione irresponsabile del paese ci porta diritti nei pressi di qualcosa come una guerra civile – e a chi pensa solo col portafoglio, lascio immaginare cosa significherebbe questo per l’economia.
Comincio a temere che proprio questo sia l’intento.
Roberto Buffagni

Penso che lo scopo principale, perseguito in parte per forza d’inerzia e in parte consapevolmente dai powers that be, sia la creazione delle due catene psicologiche: demoralizzazione-rassegnazione/apatia/ribellismo/paranoia (per i dissenzienti, da indurre nell’esilio-ghetto interno o nelle lunatic fringes psichiatriche) + adesione alla versione validata dall’autorità politico-scientifica del conformismo sociale – boost all’autostima nel confronto con i pazzoidi socialmente riprovati, spregevoli, soprattutto vinti e vinti forever – boost alla fiducia nell’autorità politico-scientifica che ti fa sentire forte e dalla parte della Ragione con la maiuscola – partecipazione politica che prende la forma di un assegno in bianco all’ufficialità (per i consenzienti). Siccome i consenzienti sono maggioranza, l’induzione delle due catene psicologiche consente all’autorità politico-scientifica: a) la legittimazione dell’ordine sociale in quanto “scientifico” (“La Scienza” nella sua ermeneutica ufficiale diviene il Libro Sacro, surrogando l’autorità spirituale delle Sacre Scritture canoniche b) la legittimazione dell’ordine politico (anche se l’astensione raggiunge livelli record come è già avvenuto e probabilmente continuerà ad avvenire) c) la disponibilità degli strumenti giuridici emergenziali fino alla possibilità di introdurre un vero e proprio stato d’eccezione senza reazioni significative d) in buona sostanza il game over della “democrazia” per quanto ha di sostanziale, perché non ha senso parlare di “democrazia” se non ci sono cittadini in grado di criticarla e confliggere politicamente in modo organizzato su tutte le questioni rilevanti. Della “democrazia” restano in vita gli aspetti procedurali e la sua caratteristica fondante, ossia il mercato (la democrazia è un mercato e non può non esserlo).

Mali e Libia: “Meno elezioni, più etnografia e ciascuno troverà il proprio rendiconto”, di Bernard Lugan

Considerazioni illuminanti, per altro già ribadite, di Bernard Lugan a proposito di Mali e Libia. A maggior ragione per l’Italia, visto il suo crescente coinvolgimento in posizione gregaria in questa area così prossima e strategica, sia dal punto di vista geografico che da quello dell’approvvigionamento energetico e dei flussi migratori. Lasciamo perdere, per il momento l’intreccio di relazioni economiche, altrettanto importanti, ma improponibili in condizione di guerra endemica. Un coinvolgimento in particolare al fianco della Francia, in chiara difficoltà in tutta l’area, con l’aggiunta clamorosa dell’Algeria. La Francia, appunto, un paese “fratello-coltello” che non ha esitato a sferrare un colpo distruttivo, ai danni dell’Italia in Libia, pensando di subentrarvi, in realtà aprendo ulteriori varchi a Turchia e Russia. Si ritorna sul luogo del delitto riproponendo la visione manichea di imposizione della “democrazia” in un contesto che richiede altre modalità di ricomposizione delle fratture; in caso di temporaneo e formale successo non farà che rendere endemica la condizione di guerra civile. Dobbiamo rassegnarci ai “successi” dei profeti dell’Occidente? Buona lettura_Giuseppe Germinario
Un breve comunicato stampa riassuntivo per fissare un punto fermo. Dal 2011 nel caso della Libia, e dal 2013 in quello del Mali – vedi i resoconti dei numeri di Afrique Réelle e i miei comunicati stampa – , lavorando solo sull’unico reale, annuncio ciò che accadrà a livello globale in entrambi i paesi. In tutta umiltà, i fatti sembravano darmi ragione:
1) In Mali siamo in presenza di due guerre, quella dei Tuareg al nord e quella dei Peul al sud. In entrambi i casi, la questione non è primariamente religiosa perché l’islamismo è solo la superinfezione di ferite etno-razziali millenarie. Nel nord la chiave del problema è detenuta da Iyad Ag Ghali, storico leader delle precedenti ribellioni tuareg. Quest’ultimo è però da tempo sostenuto dall’Algeria, come lo confermano i recenti incontri che ha appena avuto con i servizi algerini.
Fin dall’inizio, non dovremmo, come ho costantemente suggerito, arrivare a un’intesa con questo leader Ifora con cui abbiamo avuto contatti, interessi comuni, e la cui lotta è identitaria prima di essere islamista? Per ideologia, rifiutando di prendere in considerazione le costanti etniche secolari, coloro che fanno la politica franco-africana consideravano al contrario che fosse lui l’uomo da massacrare… Molto recentemente, il presidente Macron ha ordinato ancora una volta alle forze di Barkhane di eliminarlo. E questo proprio nel momento in cui, sotto il patrocinio algerino, le autorità di Bamako stanno negoziando con lui una pace regionale…
Anche il conflitto nel sud (Macina, Liptako e la cosiddetta regione dei “Tre Confini”) ha radici etno-storiche. Tuttavia, lì si svolgono due guerre. Uno è l’emanazione di grandi frazioni dei Fulani e il suo insediamento avverrà parallelamente a quello del nord, attraverso un negoziato globale. L’altro, su base religiosa, è guidato dallo Stato Islamico.
L’errore francese è stato quello di globalizzare la situazione quando era imperativo regionalizzarla. In tal modo :
1) Parigi non ha voluto vedere che l’EIGS ( Stato Islamico nel Grande Sahara ) e l’AQIM ( Al-Quaïda per il Maghreb islamico ) hanno obiettivi diversi. L’EIGS, che è attaccato a Daesh, mira a creare in tutta la BSS (Sahelo-Saharan Band), un vasto califfato transetnico che sostituisca e includa gli attuali Stati. Dal canto suo AQIM essendo l’emanazione locale di grandi frazioni dei due grandi popoli all’origine del conflitto, ovvero i Tuareg a nord e i Peul a sud, i suoi capi locali, i Tuareg Iyad Ag Ghali e i Peul Ahmadou Koufa, hanno principalmente obiettivi locali e non sostengono la distruzione degli stati del Sahel.
2) Parigi non ha voluto vedere che, il 3 giugno 2020, la morte dell’algerino Abdelmalek Droukdal, leader di Al-Quaïda per tutto il Nord Africa e per il BSS, ucciso dalle forze francesi, ha cambiato radicalmente i dati del problema. La sua eliminazione diede autonomia al Tuareg Iyad ag Ghali e al Peul Ahmadou Koufa. Dopo quelle degli “emiri algerini” che avevano a lungo guidato Al-Qaeda nella SSB, quella di Abdelmalek Droukdal ha segnato la fine di un periodo, al-Qaeda non più governata da stranieri, da “arabi”, ma da “regionali”. “. Tuttavia, questi capi regionali hanno obiettivi etnoregionali radicati in un problema millenario nel caso dei Tuareg, laico in quello dei Peul. La mancanza di cultura dei leader francesi ha impedito loro di vederlo. Da qui l’attuale impasse. Tuttavia, avrebbero potuto pensare a ciò che scrisse il Governatore Generale dell’AOF nel 1953: “Meno elezioni e più etnografia, e ognuno troverà qualcosa di suo gradimento ” …
Tuttavia, per i leader francesi, la questione etnica è secondario o addirittura artificiale. Lo “specialista” che mi era succeduto all’EMS di Saint-Cyr Coëtquidan dopo che ne ero stato licenziato, non aveva paura di dire e scrivere che l’approccio etnico è un “c…. “. Con tale formazione in superficie, i nostri futuri capisezione furono quindi costretti a prepararsi alla loro proiezione nella BSS con la lettura clandestina del mio libro Les guerres du Sahel des origines à nos jours , opera costruita appunto dai corsi che tenni al L’Ecole de Guerre e l’EMS prima della mia cacciata…
2) In Libia dove la questione è prima di tutto tribale – e non etnica -, e dove la guerra insensata ispirata da BHL ha portato allo scioglimento delle confederazioni tribali, quindi nell’anarchia, ho spiegato fin dall’inizio che la soluzione risiede nella ricostruzione del sistema politico-tribale un tempo costruito dal colonnello Gheddafi. Inoltre, non ho mai smesso di sostenere che l’unico che può rimetterlo insieme è Seif al-Islam Ghedhafi, suo figlio. Per un semplice motivo: attraverso suo padre, fa parte delle alleanze tribali della Tripolitania, e attraverso sua madre, di quelle della Cirenaica. Attraverso di essa può quindi rinascere l’ingranaggio tribale su cui poggia tutta la vita politica del Paese. Tutto il resto è solo un’artificiosa patina politica europea-centrica.
Secondo alcune fonti, Seif al-Islam Gheddafi, sostenuto dal Consiglio tribale, starebbe valutando di candidarsi alle prossime elezioni. Dove e quando potrebbe annunciare la sua candidatura? Dalla Libia o da un paese del Maghreb?

Maggiori informazioni sul blog di Bernard Lugan .

atlantismo. Mutazioni e domande, di Pascal Gauchon

Per la sua prima visita ufficiale all’estero (lo scorso giugno), Joe Biden ha scelto l’Europa. Per lui si trattava di rivitalizzare l’alleanza atlantica nata dopo il 1945. Ma l’atlantismo ha ancora un significato?

Il termine atlantismo significa che una stretta solidarietà unisce le due sponde dell’Atlantico, il Nord America e l’Europa occidentale.

Atlanticismo versioni 1949 e 2021

Questa solidarietà era umana e culturale all’indomani della seconda guerra mondiale, quando i popoli dei due sub-continenti erano principalmente di origine europea, con la notevole eccezione dei neri americani; parlavano le stesse lingue e condividevano le stesse religioni cristiane. Hanno aderito allo stesso modello democratico, liberale e capitalista contro l’URSS comunista e atea. Proclamavano gli stessi principi provati nel 1941 dalla Carta Atlantica avviata dagli Stati Uniti e dal Regno Unito. Significativamente, tuttavia, questo documento non è stato ufficialmente firmato e Churchill ha rivelato che solo Roosevelt ne aveva una copia siglata dal presidente degli Stati Uniti che aveva firmato anche per il primo ministro britannico. Sul piano simbolico era già stato detto tutto.

Fortunatamente per lui, l’atlantismo aveva basi più tangibili. Primo, la paura dell’URSS. Non dobbiamo dimenticare che furono gli europei a pregare gli americani di restare in patria e a volere la creazione della NATO nel 1949. L’idea atlantista faceva parte anche della geografia del secondo oceano mondiale, attraversato da potenti rotte commerciali e delimitato da porti, i più importanti al mondo in quel momento. Il North Atlantic Track era allora la rotta marittima più importante del mondo (il 20% del commercio mondiale in valore alla fine degli anni ’60, quando gli Stati Uniti inviavano un terzo delle proprie esportazioni verso l’Europa occidentale). Non sono solo le idee nella vita, c’è anche il dollaro.

Questo atlantismo non è più di stagione. Il legame tra le due sponde del grande oceano si è indebolito. La scomparsa dell’URSS ha scosso la dimensione strategica dell’Alleanza. Potremmo persino credere in un disaccoppiamento tra Stati Uniti ed Europa durante la guerra in Iraq, quando fu delineato un asse Parigi-Berlino-Mosca. Ma questo asse si è rotto sull’opposizione di Polonia e Lituania, poi sugli affari ucraini e georgiani che Mosca ha interpretato come un tentativo di portare questi due paesi nella NATO. Nel frattempo, Washington ha martellato la sua opposizione alla creazione di una difesa europea che avrebbe potuto competere con la NATO – Madeleine Albright , segretario di Stato di Bill Clinton, è stato categorico su questo argomento. Le divisioni dell’Europa, la sua dipendenza militare, soprattutto la sua incapacità di definire una strategia alternativa a quella propugnata dagli Stati Uniti hanno portato all’incapacità degli europei di affermarsi come l’altro polo dell’atlantismo. Lo abbiamo visto durante la visita di Biden in Europa durante la quale le cancellerie europee si sono accontentate di elogiare il nuovo presidente, Londra che ha abbassato la testa sotto le critiche alla Brexit, la Francia che ha piegato le spalle alla volontà americana di riallacciarsi con una Turchia che ci aveva provocato da poco fa. Gli europei avevano paura delle minacce di Trump di far saltare la Nato, minacce che avevano risvegliato le paure del 1945: i paesi europei temono di essere abbandonati dal fratello maggiore, accolgono con favore il suo ritorno. Di servitù volontaria.

Da leggere anche: La Francia atlantista o il naufragio della diplomazia. La Francia è di nuovo in riga!

riallineamento

Sono quindi costretti ad accettare i cambiamenti dell’Alleanza nella direzione voluta da Washington. L’Alleanza Atlantica è sempre meno atlantica, è intervenuta in Afghanistan (che non faceva parte del suo campo di intervento come mostra una semplice mappa), ha assistito ai trasferimenti di truppe dall’Europa all’Asia, sotto Obama e lei approva Biden quando spiega che il vero pericolo oggi è la Cina. Si è capito che si trattava della Russia governata da un “killer” secondo la formula meno diplomatica usata da Biden (alla quale Putin aveva risposto ironicamente augurando “buona salute” al suo omologo). In effetti, gli Stati Uniti stanno riattivando vecchie paure mentre ne suscitano di nuove per rimanere gli stessi.“Leader delle democrazie” come li hanno chiamati i media occidentali.

Il cambiamento geografico è accompagnato da un cambiamento ideologico, la democrazia auspicata dall’Alleanza si allinea agli sviluppi americani. Basta vedere come i paesi europei hanno accolto questo, dai Black Life Maters al neofemminismo e alla teoria del genere, dal ginocchio alla terra per cambiare i nomi delle strade e sfatare le statue. Le specificità nazionali vengono gradualmente cancellate, l’atlantismo diventa un blocco molto più allineato con gli Stati Uniti che nel 1945. Il cambiamento principale è strategico. Gli Stati Uniti hanno scelto il loro principale avversario, la Cina. Eppure l’avevano aiutata a raggiungere la vetta, il loro errore principale era la decisione di Clinton di portarla nel WTO senza altra garanzia che buone parole. Gli europei lo seguivano altrettanto spesso;[1] . Poi si riprendono, va detto che gli Stati Uniti di Trump li incoraggiano a farlo. Biden spinge nella stessa direzione.

L’Alleanza Indebolita

Rimangono due problemi.

Innanzitutto, quale atteggiamento adottare nei confronti della Russia? La linea di Trump era chiara: cercare un alloggio con lei di fronte a Pechino; ma un’intera parte dell’establishment repubblicano era riluttante ei media democratici lo accusavano di compromesso. È per accontentare quest’ultimo che Biden ha adottato un tono più fermo, per non dire più brutale, anche se significa ritirarsi durante il suo incontro con Putin quando ha ammesso che quest’ultimo non voleva un ritorno alla Guerra Fredda. Allo stesso tempo, ha fatto una consistente concessione revocando l’embargo sul gasdotto North Stream 2 che collegherà la Russia alla Germania: consentirà a Mosca di raccogliere più valuta estera, priverà l’Ucraina di una parte delle entrate che ne derivano dal transito del gas russo, rafforzerà i legami, per non dire la dipendenza energetica di Berlino da Mosca. Un regalo alla Germania, unico Paese dell’Unione Europea che conta per la Casa Bianca, e ancor di più per la Russia. Capiamo che Putin abbia sorriso quando ha incontrato Biden. Quali altri doni avrà Biden da offrire per staccare Mosca da Pechino, se sarà ancora possibile?

Il confronto con il suo omologo americano potrebbe anche soddisfare il presidente russo. Biden ha mostrato una preoccupante debolezza fisica e intellettuale durante il suo tour europeo. Forse è per questo che ha rifiutato una conferenza stampa congiunta con Putin; Aveva paura che la sua lettura esitante del suo testo preparato e le sue risposte frettolose a un numero limitato di domande impallidissero in confronto a quella che deve essere definita la facilità di Putin? Non dovremmo vederci il simbolo di un Paese indebolito, diviso, che non sa più quale pericolo favorire o dove volgersi?

Questo è il secondo problema dell’Alleanza Atlantica. Come gli Stati Uniti, non ha più il vigore che possedeva nel 1949. Rivolgendosi al Pacifico, e persino al mondo intero, si espone alla sofferenza della sovraestensione imperiale. Fissandosi obiettivi troppo ambiziosi – estendendo la sua visione delle cose in tutto il mondo – rischia di moltiplicare i suoi nemici. Allineandosi sistematicamente con gli Stati Uniti, rischia di rafforzare la sua immagine di falso naso di questi ultimi.

https://www.revueconflits.com/atlantisme-mutation/

Anthony M. Esolen, Sex and the unreal city. La demolizione del pensiero occidentale, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Anthony M. Esolen, Sex and the unreal city. La demolizione del pensiero occidentale, Il Timone, Milano 2021, pp. 233, € 22,00.

Come scrive l’autore “ora, in questa nostra epoca così apparentemente illuminata, abbiamo dichiarato che restare ancorati alla realtà sia una cosa da condannare. Perciò non abbiamo semplicemente finito col credere in alcune falsità”, ma alla falsità, compreso il non essere, inteso al minimo come ciò che non esiste, anzi ciò che ragionevolmente non può esistere. La diffusione di tale credenza è sorprendente, e contraddice la pretesa di essere, nel contempo, dei “fedeli della ragione”. Perché credere in una cosa che non è ma addirittura non può essere, serve solo ad illudersi o ingannare gli altri. Come scrive Dante “ti fai grosso / col falso imaginar, sì che non vedi / ciò che vedresti, se l’avessi scosso”. Così una volta creduto nell’irrealtà, si deve conseguentemente svincolarsi dalla logica e dall’esperienza. Scrive Esolen: “Uno dei sintomi dell’irrealtà è sicuramente l’incapacità di riconoscere la propria stupidità… Tutti, in qualche maniera, siamo degli sciocchi: ci sono gli sciocchi che lo sanno, e gli sciocchi che, non sapendolo, sono ancora più sciocchi”, scrive l’autore descrivendo la parabola delle università americane popolate, del tipo umano homo academicus saecularis sinister.

Nell’illudersi un’importanza decisiva ha il linguaggio “Una delle strane caratteristiche della Città Irreale è l’ossessione simultanea per il linguaggio e un rifiuto generale di riconoscere a cosa serve il linguaggio”. Nomina sunt coinsequentia rerum dicevano i romani: invece oggi, precisa l’autore “Vogliamo creder che le nostre parole possono alterare la realtà”. Solo che questo significa creare il falso: un uomo che afferma di essere una donna, e pretende di essere considerato e chiamato tale, continua ad essere un uomo. D’altra parte secondo un noto detto il Parlamento inglese poteva fare qualsiasi cosa, tranne che cambiare l’uomo in donna; tale limite non c’è per i creatori e fedeli di certi idola, tendenzialmente creduli nell’onnipotenza (delle parole).

Il che somiglia assai più che a un ragionamento a un desiderio che si trasforma in obiettivo, in un quid da realizzare. Senza però chiedersi se sia realizzabile. Con ciò presupporrebbe una potenza (o onnipotenza) che non è nelle disponibilità umane. Basta all’uopo constatare – a livello macroscopico – qual è stata la sorte del comunismo, il cui esito era la società comunista o senza classi. Già nel giovane Marx il comunismo era indicato come la soluzione dell’enigma irrisolto della storia. Ossia la formula per cambiare la natura umana mutando i rapporti di produzione. L’instaurazione della società senza classi avrebbe comportato l’estinguersi dello Stato e del politico. Solo che non c’era un esempio nella storia che ciò si fosse verificato. I presupposti del politico, cioè l’insopprimibilità (la costanza) del comando/obbedienza, del pubblico/privato, dell’amico/nemico, risultavano dati in ogni comunità umana conosciuta (l’uomo è zoon politikon). Il resto della parabola dimostra che il comunismo realizzato (cioè il socialismo reale) ha retto solo perché (contrariamente alle intenzioni) ha potenziato le tre costanti. Ha creato dittature sovrane, società che hanno quasi completamente annichilito il “privato”, ha avuto nemici (la borghesia, ecc.) come qualsiasi altro regime politico.

Dopo poco più di settant’anni (al massimo, per l’URSS) il tutto è finito per implosione, dato che la stessa classe dirigente non credeva più nel sistema e della società senza classi non si sentiva il profumo, neanche alla lontana. Il tutto può ripetersi in utopie/illusioni che presentino caratteri analoghi: obliterare la realtà per andare appresso all’immaginazione di essa. Cosa che, come scriveva Machiavelli, porta alla “ruina sua”.

E causa di quella ruina è aver creduto all’impossibile. Cioè alla fuga dalla realtà e dalle costanti che la governano.

Teodoro Klitsche de la Grange

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