Macerata, come procedono le indagini_di Roberto Buffagni

Macerata, come procedono le indagini

 

Premessa: non sono Sherlock Holmes, e le uniche informazioni che ho sono ricavate dalla stampa. A seguire trovate un resoconto dei fatti, qualche dubbio sulle interpretazioni proposte dagli inquirenti, e un’ipotesi diversa, non suffragata da alcuna prova: nulla più.

Novità sul caso Pamela Mastropietro: a Innocent Oseghale è stata notificata l’accusa di omicidio volontario. Intercettato in carcere, Lucky Awelima dice a Desmond Lucky; “Il 30 gennaio Innocent [Oseghale, principale sospetto dell’omicidio] mi telefonò chiedendomi se volevo andare a stuprare una ragazza che dormiva.”

Secondo gli inquirenti, le cose si sarebbero svolte così: Pamela va nell’appartamento di Oseghale, si inietta l’eroina, ha un rapporto sessuale con lo spacciatore nigeriano. Per il procuratore Giorgio è senz’altro stupro perché Pamela, drogata, non era in grado di consentire; per il GIP Giovanni Maria Manzoni, invece, può esserci stato consenso “in un’atmosfera amicale” (presumo lo desuma dal fatto che Pamela si prostituiva, e che non è insolito per una tossicodipendente prostituirsi agli spacciatori). Pamela si sente male e Oseghale, “forse nel timore di essere scoperto”, la uccide con un colpo alla testa e due coltellate al fegato.[1] Poi smembra il cadavere per liberarsene, lo mette in valigia, chiama il tassista abusivo camerunese Mouthong Tchomchoue, soprannominato “Patrick”, carica in macchina le valigie, gli chiede di portarlo a Tolentino. Qualche chilometro fuori Macerata fa fermare l’auto, scarica le valigie sul ciglio di un viottolo di campagna e si fa riportare a casa. Insospettito, a sera Patrick torna dove ha lasciato le valigie, ne apre una, si fa luce con il cellulare, vede una mano e scappa. Quando vede in Tv la notizia dell’omicidio torna, trova la polizia al lavoro, va in commissariato, denuncia l’accaduto e riferisce che nel corso del viaggio di andata, Oseghale ha fatto una telefonata in inglese, durante il viaggio di ritorno ha parlato al telefono con una donna.[2]

Prime impressioni sulla ricostruzione dei fatti degli inquirenti, per come la presenta la stampa.

1) I due nigeriani intercettati non sono ingenui cittadini modello, non è improbabile che immaginassero di essere sotto sorveglianza e che cerchino di scaricare la colpa sul solo Oseghale. In ogni caso, la tesi “Oseghale unico colpevole” fa comodo anche a chi ha interesse a minimizzare il più possibile l’accaduto, un vasto fronte che comprende chiunque abbia interesse ad alzare una muraglia impenetrabile tra l’omicidio di Pamela e  le problematiche connesse all’immigrazione. Cui prodest? Piccolo esempio: a Macerata, nel 2013 la Lega prende lo 0,6; nel 2018, dopo l’omicidio di Pamela, il 20% abbondante.[3]

2) Non si vede perché Oseghale uccida Pamela “per paura di essere scoperto” quando la ragazza si sente male. Per lo spaccio di droga? Ma è la sua attività abituale, e perché mai Pamela dovrebbe denunciarlo? Si droga abitualmente, non risulta che abbia mai denunciato uno spacciatore. E con quali prove lo denuncerebbe? Anche nel peggiore dei casi, Oseghale rischia ben poco, con una denuncia per spaccio, mentre con un omicidio rischia grosso. Per lo stupro? Ma Pamela si prostituisce abitualmente, oggi persino il GIP contesta lo stupro. Se Pamela si sente male, basta aspettare che faccia buio, accompagnarla fuori sorreggendola, lasciarla su una panchina e chi s’è visto s’è visto. Se muore in casa, si fa la stessa cosa, magari nascondendola in un tappeto arrotolato, caricandola in auto e gettando il cadavere in qualche posto fuori mano. Altrimenti, Oseghale poteva adottare la soluzione consigliata da Lucky Awelima e Desmond Lucky, v. punto 3 a.

3) Invece Oseghale corre tre grossi rischi: il rischio di un omicidio, il rischio di coinvolgere un estraneo come Patrick per trasportare le valigie con il cadavere smembrato, il rischio di abbandonarle lungo la via. Perché? Vediamo due ipotesi.

  1. a) Oseghale è un criminale dilettante che si lascia prendere dal panico e fa un errore dopo l’altro. Mah. A giudicare dalle sue frequentazioni non sembra. Nell’ordinanza di custodia cautelare per Lucky Awelima e Desmond Lucky, il GIP G.M. Manzoni riporta altre intercettazioni nel carcere di Montacuto, dove Desmond dice: “Sono stato un rogged [appartenente ad un’organizzazione criminale nigeriana], le cose che sono successe [l’omicidio di Pamela] sono cose da bambini… abbiamo già fatto cose terribili.” I due poi aggiungono che Oseghale poteva benissimo far sparire il cadavere tagliandolo a pezzettini e gettandoli un po’ per volta nel water. Il resto poteva congelarlo e mangiarselo con calma.[4] Fanno gli spacconi? Mah: tradotta questa conversazione, l’interprete nigeriana si rende irreperibile.[5]
  2. b) Pamela è uscita dalla comunità senza un soldo. Incontra lungo la strada un camionista che le dà un passaggio, e con lui contratta un rapporto sessuale a pagamento, qualche diecina di euro. Alla stazione di Macerata prende un taxi (sette euro) che la porta ai giardini Diaz, dove si spaccia. Chiede eroina a Oseghale che ha solo hashish e la accompagna da un collega che le vende una dose di eroina (trenta euro). Insieme comprano una siringa in farmacia.[6] Pamela è al verde e non ha dove andare. Oseghale la invita a casa sua, “Vieni da me, ti fai con calma, magari stiamo insieme, se vuoi ti fermi un po’”. Pamela va, si inietta l’eroina, Oseghale la prende (stuprandola o no), Pamela, che non è abituata all’eroina, si sente male mentre fanno sesso e respinge Oseghale che si irrita e le dà una botta in testa; oppure è Pamela che sbatte la testa divincolandosi. A questo punto Oseghale fa un rapido conto costi/benefici. Pamela non gli serve né per il sesso, né come cliente perché non ha soldi. Se reagisce così male all’eroina, difficile anche agganciarla e farla battere per lui in cambio del rifornimento di droga. In più ingombra, ha problemi, dà fastidio. Togliersela dei piedi abbandonandola da qualche parte? Corre il rischio di qualche fastidio, e non ci guadagna niente. Come metterla a reddito? Pamela è un gatto randagio, nessuno la cerca e nessuno la conosce. Tanto vale ammazzarla, farla a pezzi e venderli a qualcuno che apprezza l’articolo, per esempio l’organizzazione criminale a cui – forse – si può ricondurre la fossa comune di Porto Recanati, v. punto 4. Però qualcosa non va nel verso giusto. Per qualche imprevisto, l’incaricato non ritira in tempo le valigie, e Patrick, più coraggioso dell’interprete che tradotte le intercettazioni si resa irreperibile, o forse ignaro di quanto sia pericolosa la mafia nigeriana, non si fa i fatti suoi come invece Oseghale dava, apparentemente, per scontato.

4) A Porto Recanati (32 km da Macerata) è stata scoperta una fossa comune con 50 reperti umani circa, a due passi dall’Hotel House, “condominio multietnico”, un palazzone modello Le Corbusier dove abitano circa 2000 stranieri. Tra i resti, forse quelli di Cameyi Mossamet, una quindicenne bengalese scomparsa ad Ancona nel 2010,[7] e quelli di un bambino di 8-10 anni, non identificato. Colgo l’occasione per segnalare un articolo de “L’Internazionale” che tenta eroicamente di sdrammatizzare la fossa comune: “non è poi così vicina all’Hotel House”, “hanno trovato solo due corpi”; il problema immigrati: “anche gli italiani non pagano le spese condominiali” e di prospettare un futuro multietnico radioso: “Zakiri, un ragazzo bangladese che vive all’Hotel House e coordina la squadra di cricket dei bangladesi di Porto Recanati…ha ottenuto la cittadinanza italiana, lavora in una fabbrica della zona con un contratto regolare e parla un ottimo italiano. Lui e sua moglie aspettano un figlio, che nascerà all’Hotel house”. Medaglia d’oro per l’ottimismo al colonnello in pensione (ultimo dei Mohicani italiani che non hanno venduto a tempo il loro appartamento) Antonio La Rosa, intervistato dalla giornalista: “l’Hotel house parla del nostro passato, di quando gli immigrati erano i meridionali che andavano a lavorare al nord ed erano trattati con disprezzo dai torinesi. L’Hotel house parla anche del futuro, della società multietnica che ci aspetta. Questo edificio potrebbe essere una grande occasione per sperimentare delle forme di convivenza” (non si specifica quali).[8]

Conclusione. Come sia andata, non lo so. La ricostruzione degli inquirenti, per come la presenta la stampa, non mi pare molto verisimile, perché non spiega né la ragione dell’omicidio, né la ragione dello smembramento, né la ragione dell’abbandono lungo la via delle valigie contenenti il cadavere; non spiega neanche perché Oseghale non abbia avuto timore di coinvolgere Patrick nel trasporto delle valigie: semplice imprudenza, pura stupidità? O dava per scontato che Patrick, avendo a che fare con un rogged, come l’interprete nigeriana si sarebbe preso un salutare spavento e avrebbe tenuto la bocca chiusa?

Si intuisce negli inquirenti una gran voglia, d’altronde comprensibile, di minimizzare i fatti, addossando tutta la colpa al solo Oseghale, e tenendo a distanza di sicurezza cioè fuori dal quadro dell’indagine mafie nigeriane, rivendita a scopo di lucro di parti di cadavere, omicidi rituali, fosse comuni, etc., cioè a dire tutti gli elementi che possono differenziare l’assassinio di Pamela Mastropietro da un comune, rassicurante fatto di cronaca nera senza legame alcuno con l’immigrazione. Teniamo gli occhi aperti, e chissà: magari vedremo.

[1] https://roma.corriere.it/notizie/cronaca/18_maggio_03/pamela-mastropietro-oseghale-carcere-anche-accusa-omicidio-7ce90c60-4ed6-11e8-aead-38ee720fad91.shtml

[2] http://www.liberoquotidiano.it/news/italia/13311589/pamela-mastropietro-parla-tassista-oseghale-da-trolley-spuntava-mano.html

[3] https://www.ilmessaggero.it/primopiano/politica/a_macerata_la_lega_fa_boom-3587546.html

[4] https://www.corriereadriatico.it/macerata/macerata_pamela_mastropietro_cannibalismo_intercettazioni-3689855.html

[5] https://www.la-notizia.net/2018/04/27/pamela-zio-interprete-nigeriana/

[6] https://www.corriereadriatico.it/macerata/macerata_pamela_sesso_droga_dopo_fuga_comunita-3529726.html

[7] http://www.ilgiornale.it/news/cronache/lorribile-cumulo-ossa-umane-due-passi-allhotel-dei-migranti-1510332.html

[8] https://www.internazionale.it/reportage/annalisa-camilli/2018/05/03/hotel-house-porto-recanati-immigrazione

La trattativa con la realtà, di Roberto Buffagni

La trattativa con la realtà

 

Ho appena letto della sentenza sulla trattativa Stato-Mafia, con le pesanti condanne inflitte agli ufficiali dei Carabinieri. Evito di diffondermi sul messaggio (trasversale?) che i giudici mandano alle FFOO: “Prima di tutto coprirsi le spalle e altre parti del corpo”, all’antica quieta non movere, alla moderna don’t  rock the boat. Evito di diffondermi anche sul fatterello che le FFOO non “trattano con la Mafia” in proprio ma per conto terzi, cioè per conto dei governi (nel caso in oggetto, governi di sinistra e non berlusconiani, ma sono dettagli). Evito di diffondermi sul fatto, incontestabile, che le trattative si fanno con gli avversari e/o i nemici, con gli amici ci si mette d’accordo con le gambe sotto il tavolo e il bicchiere in mano. Evito di diffondermi sul tempismo cronometrico della sentenza, che influisce sulla delicata dialettica politica in corso, favorendo un governo 5*-PD e/o un governo 5*-Lega che spaccherebbe il centrodestra e farebbe lo scherzo dell’Anaconda a Salvini. Evito di diffondermi persino sul fatto storico, anch’esso incontestabile, che le trattative con la Mafia le faceva anche Giovanni Giolitti, un politico italiano di grande statura e specchiata onestà personale che si beccò la definizione di “Ministro della malavita” da Gaetano Salvemini.

Mi diffondo invece (poco, niente paura) su un tema che mi interessa di più.

E’ il tema della grande fiaba desinistra dei “servizi deviati” e dell’inattingibile ”terzo livello della Mafia”, in pillola: la DC un tempo, in seguito Berlusconi, insomma i destrogiri, sono complici della Mafia e in genere delle Forze Oscure della Reazione, solo grazie a questa complicità assurgono a un immeritato e altrimenti inspiegabile potere, conculcano e sbeffeggiano le Forze Sane del Progresso e fanno dell’Italia, che sarebbe tanto brava, un paese anormale ove spadroneggiano impuniti e sfacciati gli evasori fiscali, i furbetti del cartellino, gli analfabeti d’andata e ritorno, i fans di Padre Pio, Berlusconi e Lucio Battisti, gli assessori che scialacquano i risparmi degli italiani in coca troie aragoste e mutande a rete come il celeberrimo Batman, i guidatori di SUV parcheggianti in posto riservato invalidi, etc.; e questo infausto destino durerà nei secoli dei secoli sinché non andrà al governo con larga maggioranza prima il PCI, poi il PD o altri avatar del Bene levogiro tipo 5*, e allora sì che cambierà tutto: in meglio, s’intende, il dopo è sempre meglio del prima, sennò che fine fa il progresso, dove andiamo a finire, torniamo indietro?

Archetipo della suddetta fiaba, il mitico sceneggiato anni Settanta in milletrecentosei puntate La piovra, che diede fama imperitura a Michele Placido, da allora trasfigurato nell’icona immortale del “Commissario Cattani”; il quale  – nota a margine per i più piccini – aveva anche lui la moglie straniera e incontentabile come il suo più tardo avatar Commissario Montalbano, pure lui eroe desinistra sebbene pelato. Bene: colgo l’occasione per formulare anche io una sentenza, la seguente: la fiaba desinistra sulla Mafia è una fiaba.  Questa fiaba desinistra può essere raccontata bene, anche molto bene (le prime serie de La piovra sono belle o belline); e sarà sempre interessante non perché sia interessante la sinistra italiana che francamente non lo è, sotto il profilo spettacolare e drammaturgico il mito dell’onestà, del rigore, del pagamento al centesimo delle tasse, della superiorità morale, dell’eguaglianza tous azimuts, delle vacanze intelligenti, insomma il mito delle professoresse piddine entusiasma come un accertamento fiscale o una seduta dal dentista. Sarà sempre interessante perché è interessante la Mafia, che furbescamente la sinistra italiana parassita per incrementare il suo indice di gradimento spettacolare. La Mafia è interessante per due motivi: uno, che il Male è sempre più immediatamente interessante del Bene, provate a creare un personaggio integralmente buono che non sia un pesce lesso e ve ne accorgerete subito, l’ultimo che ha avuto successo è Gesù Cristo che d’altronde negava recisamente di essere buono (v. tutti i sinottici, es. Mt. 19,17);  lo spericolato Dostoevskij ci ha provato ma ha truccato le carte facendone L’idiota, troppo facile l’espediente del buono perché matto.  E’ un fatto che può dare occasione a spunti di riflessione teologica ed estetica di grande profondità che qui ometto, sarà per un’altra volta. Due, che la Mafia è interessante perché la criminalità organizzata è l’immagine analogicamente più prossima a quella di uno Stato che agisca in condizioni di reale sovranità politica, dunque non l’Italia del dopoguerra: il che rende più ghiotto ed emozionante il surrogato Mafia, quando non c’è il caviale le uova di lompo fanno venire l’acquolina in bocca. La Mafia infatti vive e opera in un mondo nel quale non esiste un terzo imparziale in grado di promulgare e applicare la legge, e dunque in un mondo che somiglia come una fotocopia al mondo delle relazioni internazionali, in cui operano gli Stati: un mondo nel quale non si può andare dal giudice o dal poliziotto se qualcuno ti fa un torto, in cui non ci si può ritirare a vita privata estraniandosi dai conflitti di vario genere che turbano sonni e digestione, in cui di punto in bianco può spuntare nel tuo orizzonte qualcuno che per motivi tutti suoi ti vuole ammazzare, te e i tuoi cari, e non solo ne ha l’intenzione ma pure i mezzi e il know-how. E’ insomma il mondo in cui chi ha il potere è costretto a prendere decisioni di vita e di morte che non solo decidono della vita e della morte fisica, ma della salvezza o della dannazione dell’anima – ognuno traduca la formula religiosa nel suo linguaggio – anzitutto la propria ma anche le altrui. Un esempio davvero magistrale di svolgimento di questo tema sono i primi due film della serie Il padrino, di F. F. Coppola, che senza alterare di molto la trama del mediocre romanzo di Mario Puzo, vi indovinò con grande intelligenza la struttura drammaturgica di una tragedia storica shakespeariana, sfuggita al superficiale romanziere.

Per concludere: la Mafia è interessante perché la Mafia è tragica, e con tragedia intendo la situazione in cui legge, costume, istituzioni, telefono amico non ti forniscono una soluzione precostituita al tuo serio dilemma di vita e di morte. Ci sei tu che sei solo, c’è il mondo che è grande, c’è il cielo che è lontano, e stop: incipit tragoedia. Questa è la tragedia, e questo è anche, nel linguaggio politico, lo stato di eccezione, che definisce chi è il sovrano.

Ecco perché la fiaba desinistra sulle Forze Oscure della Mafia & della Reazione è interessante, ed ecco anche perché è una fiaba.

E’ una fiaba nella parte desinistra, col Commissario Cattani/Montalbano che si batte per il PCI/PD +  il popolo buono che paga le tasse e raccoglie la cacca del cane con la paletta, e in quanto fiaba non intrattiene alcun significativo rapporto con la realtà effettuale, al massimo con la realtà psicologica che vuole a) sentirsi dalla parte giusta b) mettere dalla parte sbagliata chi ci sta antipatico c) vincere + avere ragione d) in attesa di c, perdere + avere ragione e) come minimo, giustificare la propria sconfitta dandone la colpa agli altri che vincono perché sono cattivi e viceversa, v. sub b.

E’ interessante invece, e sul serio, nella parte tragedia, perché la tragedia, sebbene dedestra, quella sì che intrattiene un significativo rapporto con la realtà effettuale, anzi mi sento di spararla grossa e affermare pubblicamente che qualora non si introduca nel quadro un’audace prospettiva soprannaturale & provvidenziale, la tragedia è la realtà effettuale, proprio la realtà effettuale che il pensiero (si fa per dire) desinistra non coglie, per difetto genetico dell’apparato visivo, mai. E non c’è neanche bisogno di tirare in ballo il Politico e lo stato di eccezione come ho fatto prima: perché nella realtà effettuale, anche nella realtà effettuale piccola e modesta delle nostre vite, di fronte alle cose veramente decisive come la gioia e il dolore e la scelta e la morte “ci sei tu che sei solo, c’è il mondo che è grande, c’è il cielo che è lontano, e stop: incipit tragoedia.”

Da quanto precede deriva anche un più equilibrato giudizio sulla famosa trattativa Stato-Mafia, questo. Che la Mafia è una realtà, una realtà non solo criminale ma sociale e politica, con vasto consenso in alcune, non piccole, zone del paese, forza militare non trascurabile, abbondanti finanze, embrione e qualcosina in più che embrione di struttura politica, efficiente amministrazione giudiziaria, fiscalità senza evasori, legami internazionali importanti. Sradicarla si può, come no, almeno per ora lo Stato italiano disporrebbe della forza militare sufficiente. Basterebbe rifare la “guerra al brigantaggio”, però stavolta contro i briganti veri invece che contro i legittimisti borbonici. Però i Commissari Cattani o Montalbano non bastano. Bisognerebbe anche varare un avatar della “Legge Pica” d’antan, cioè sospendere le elezioni democratiche e le garanzie giuridiche agli individui almeno nelle zone di maggior radicamento mafioso, istituire tribunali speciali e comminare condanne amministrative, meglio se anche a morte, impiegare le FFAA non per posare come belle statuine nelle piazze e nelle stazioni ma per fare i rastrellamenti, attivare una vasta campagna di eliminazioni di dirigenti mafiosi (senza processo), e scontare l’inevitabile quota di sbavature cioè innocenti che ci vanno di mezzo + atrocità assortite, dura repressione di eventuali moti popolari a sostegno della Mafia in nome dell’identità locale, ritorsioni anche terroristiche del nemico, e così via. Per me si può cominciare anche domani, ma non mi sembra che il programma qui delineato sia proprio un programma democratico e desinistra, tipo fiaccolata contro la Mafia e celebrazioni di Falcone e Borsellino nei licei con l’oratore di turno che dice “E’ tutta una questione culturale, la scuola ha il compito primario eccetera”.

Insomma: la Mafia è una realtà effettuale, e con la realtà effettuale, volenti o nolenti, tutti dobbiamo aprire una trattativa, anche lo Stato. Poi certo, le trattative possono andare meglio o peggio. Questa per lo Stato è andata bene, per la Mafia no e per gli ufficiali dei Carabinieri neanche; ma del resto, anche la fiaba desinistra ha assunto, nei cuori e nelle menti degli italiani che detto per inciso votano anche in base alla loro psicologia, una sua forma, se si vuole distorta, di realtà effettuale. E dunque, per salvare il Commissario Cattani e il Commissario Montalbano, per non sporcare la loro immagine tanto cara a tanti italiani e poter aggiungere un altro centinaio di puntate al serial Italiamoraledesinistra vs. MafiaForzeOscuredellaReazione, i giudici si sono visti costretti ad appioppare qualche decina d’anni di galera ai Carabinieri, che essendo persone concrete e non archetipi non possono aspettarsi indulgenze plenarie e resurrezioni, e del resto sono usi a obbedir tacendo, tacendo morir (per ora, poi vedremo).

That’s all, folks.

 

IL BUCO NERO_ IL RE (UE) E IL MATTO (M5S), di Roberto Buffagni

Sulla situazione politica italiana e sulle novità funamboliche del Movimento Cinque Stelle il blog ha già dedicato numerose pagine.

Riproponiamo un articolo ancora attuale di Roberto Buffagni, già apparso nel 2016 su http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.it/2016/12/la-politicaitaliana-secondo-shakespeare.html

Un testo attuale, propedeutico a quanto scriveremo una volta che si delineerà più chiaramente la dinamica che ci porterà al varo di un nuovo governo e della conseguente maggioranza_Giuseppe Germinario

La crisi  europea e  italiana… secondo  William Shakespeare 

Il Re e il suo Matto

di Roberto Buffagni

Why, ‘some are born great, some achieve greatness,
and some have greatness thrown upon them
.
(il Matto Feste, Twelfth Night, Atto V, Scena 1)

Winning will put any man into courage.
(il Matto Cloten, Cymbeline, Atto II, Scena 3)

In questo inverno del nostro scontento (59,11% di NO nel referendum appena votato), nella situazione politica italiana non si capisce niente, tranne una cosa: che dopo questo terremoto, tra le rovine dei partiti di maggioranza e opposizione, resta in piedi ed anzi si consolida un solo partito, o meglio un solo Coso: il Movimento 5 Stelle. Il problema è che non si sa che cosa sia il M5S, questo Buco Nero. Populista, si dice. Sì, è populista: ma il populismo è uno stile, non un’identità politica, e neanche un contenuto programmatico. Insomma: che cos’è questo Coso?

Come faccio sempre quando non ci capisco niente, ho consultato il Bardo, che di politica e d’altro se ne intende assai; e come sempre il Bardo mi ha cortesemente risposto la verità, raccomandandomi però di dirla in fretta, perché “La verità è simile ad un cane/che deve restar chiuso in un canile;/va ricacciato lì dentro a frustate.” (il Matto, Re Lear, Atto I Scena 4).

Obbedisco, e ve la dico subito: il M5S è il Matto che rivela la verità sul Re.

Il Bardo, però, ama la sintesi estrema, perché è un grande poeta amico dei simboli e degli enigmi, e un grande uomo di teatro nemico delle lungaggini e della noia. A me, tocca spiegare. Spiego, scusandomi sin d’ora se dovrò esser lungo.

Chi è il Re? Il Re è l’Unione Europea. E qual è la verità che rivela il Matto sul Re? Che il Re è un usurpatore, un falso Re.

Facciamo un passo indietro, come nei romanzi d’appendice, e vediamo un po’ che cos’è quest’altro Coso o Buco Nero: l’Unione Europea, il Mostro Buono, come lo chiamava H.M. Enzensberger.

Nella grammatica politica, esistono soltanto gli Stati nazionali, che possono in varia forma e misura confederarsi, cioè unirsi in modo revocabile: v. il progetto gaulliano di “Europa delle nazioni”; e gli Imperi, in cui l’unità è federale, cioè irrevocabile: v. per antifrasi la guerra di secessione USA tra Nord federale e Sud confederale. L’Europa non può essere o diventare uno Stato nazionale, perché se esiste una civiltà europea, non esiste una nazione europea. L’UE non è una confederazione: se lo fosse, il quadro giuridico dei rispettivi poteri e competenze di Stati nazionali e istituzioni confederali sarebbe chiaro e politicamente legittimato, e l’unione revocabile.

Dunque, l’UE è un progetto federale imperiale (in corso d’opera). Per federare un insieme di Stati in un organismo istituzionale maggiore, Stato-nazione o Impero che sia, ci vuole un federatore (v. il ruolo di Piemonte e Prussia nelle unificazioni italiana, nazionale, e tedesca, imperiale, del XIX sec.). I requisiti essenziali del federatore sono l’indipendenza politica e la forza egemonica (senz’altro militare, nel caso migliore anche economica e culturale). Nel progetto di federazione imperiale UE, invece, non c’è un federatore: lo Stato più forte, la Germania, difetta di entrambi i requisiti (ospita sul proprio territorio basi militari non europee, è economicamente ma non culturalmente egemone).

In realtà, il progetto federale imperiale UE ha due federatori a metà: un federatore politico (gli USA, che hanno l’indipendenza politica, della forza militare, e in certa misura dell’egemonia culturale in Europa) e un federatore economico (la Germania). Nessuno dei due “federatori a metà”, né il politico né l’economico, può/vuole portare a compimento la sua opera. Gli Stati europei non possono federarsi politicamente con gli USA, diventando il cinquantunesimo, cinquantaduesimo, settantottesimo, etc., Stato della federazione nordamericana. Né gli Stati europei possono federarsi intorno all’egemonia economica tedesca, perché il vantaggio economico del “federatore a metà” tedesco implica lo svantaggio economico senza contropartita politica della maggior parte dei federandi, che com’è logico alla fine si ribellano: ma né gli USA per evidente assenza di legittimazione, né la Germania per evidente difetto di mezzi atti allo scopo, possono far uso della forza per ricondurli all’unità.

Ora, nessun federatore agisce gratis et amore Dei nell’unica preoccupazione dell’interesse dei federati; ma perché l’operazione sia politicamente vitale, tra federatore e federati deve sempre avvenire uno scambio, più o meno equo e immediato, di reciproci vantaggi: anche quando la federazione avvenga per conquista sul campo di battaglia. Ad esempio, nell’unificazione italiana, allo svantaggio economico patito dal Meridione – sconfitto con le armi in due campagne militari, la seconda delle quali, la “guerra al brigantaggio”, particolarmente crudele – corrispondono i vantaggi politici dell’accrescimento di potenza dello Stato, così liberato dalle ingerenze straniere, dell’integrazione tra territori culturalmente e linguisticamente affini, e, seppur tardivamente e imperfettamente, un riequilibrio/compensazione delle disparità economiche e sociali tra Nord e Sud, aggravate o almeno non appianate dall’unificazione.

Nel caso dell’UE, invece, la federazione non può essere portata a compimento né dal “federatore a metà” politico, gli USA, né dal “federatore a metà” economico, la Germania. Ne risulta non solo un impaludamento del processo di federazione, ma:

  1. a) un grave danno politico per tutte le nazioni europee: l’UE risulta in un dispositivo di neutralizzazione politica dell’Europa nel suo complesso, del quale si avvantaggia il “federatore a metà” statunitense
  2. b) un grave danno economico per tutte le nazioni europee tranne la Germania e i suoi satelliti, che invece si avvantaggiano del danno altrui.

La contropartita di questi due danni, politico ed economico, è zero. Ripeto e sottolineo due volte: zero.

Per l’Italia – Stato, nazione, popolo italiani – la contropartita di questi due danni, politico ed economico, è meglio esprimibile con un valore algebrico negativo. Esempio politico. Regnante la UE, per due volte l’Italia ha fatto uso della forza contro uno Stato straniero, su indicazione del “federatore a metà” USA e contro il proprio manifesto interesse nazionale: contro la Jugoslavia e contro la Libia (nel caso jugoslavo, l’Italia già che c’era ha fatto anche l’interesse economico della Germania). Esempio economico. Dall’ingresso nell’euro, che è una macchina per svalutare il marco e favorire il mercantilismo tedesco ai danni anzitutto dell’Italia, che della Germania è tuttora il principale concorrente economico europeo, l’Italia ha perso il 25% della sua base industriale, con la disoccupazione di massa che ne consegue.

Quanto all’Unione Europea in generale, poi, lo squilibrio tra intenzioni (almeno esplicitamente dichiarate) e risultati effettuali dell’UE è talmente grande che minaccia di provocare, più prima che poi, una implosione/disgregazione totale del progetto federale, in modi e con effetti imprevedibili e potenzialmente catastrofici.

Come sentenziato dal Bardo, insomma, l’Unione Europea è un usurpatore, un falso Re.

Ma come è giunto a conquistare il trono questo usurpatore, questo falso Re? Quali grandi Casate nobiliari l’hanno sostenuto nella sua impresa, e perché?

Le grandi Casate nobiliari che hanno posto la corona sul capo del falso Re (“uneasy lies the head that wears a crown”, dice Bolingbroke nell’Enrico IV) sono le classi dirigenti europee e statunitensi: liberals, cattolici, socialdemocratici; gli eredi legittimi delle classi dirigenti antifasciste che hanno vinto, sul campo di battaglia o nelle urne elettorali, la Seconda Guerra Mondiale e il dopoguerra. Dalla grande alleanza antifascista mancano solo i comunisti sovietici, ma sono rappresentati dai loro eredi: eredi legittimi anche loro, anche se dopo l’estinzione del ramo principale è un ramo cadetto (i maligni dicono, un ramo bastardo) a portare il titolo.

Dopo la grande vittoria comune di settant’anni fa, queste grandi Case si sono aspramente combattute per decenni. Oggi governano insieme il Consiglio della Corona del (falso) Re e la Camera dei Lord dell’Unione Europea. Come hanno fatto ad accordarsi? Per il potere, si dirà. Certo, per il potere: ma questa risposta, che è sempre vera, non spiega tutto, e anzi forse non spiega niente. Qual è il minimo comun denominatore che ha consentito alle grandi Case, un tempo in lotta per il potere, di trovare un durevole accordo, e così porre la corona sul capo del falso Re?

Il minimo comun denominatore delle grandi Casate americane ed europee che sostengono il falso Re (l’Unione Europea) è l’universalismo politico.

L’universalismo è una cosa sul piano delle idee, dei valori, della spiritualità (nella cristianità europea, l’istituzione delegata a incarnarlo era la Chiesa, il primo “sole” del De Monarchia dantesco). Se tradotto sul piano politico, però, l’universalismo non può che incarnarsi in forze inevitabilmente particolaristiche: perché esistono solo quelle, nella realtà effettuale.

Volendo, chiunque se ne senta all’altezza può parlare in nome dell’universale umanità; ma non può agire politicamente in nome dell’universale umanità senza incorrere in una contraddizione insolubile, perché l’azione politica implica sempre il conflitto con un nemico/avversario.

Senza conflitto, senza nemico/avversario non c’è alcun bisogno di politica, basta l’amministrazione: “la casalinga” può dirigere lo Stato, come Lenin diceva sarebbe accaduto nell’utopia comunista. A questa contraddizione insolubile si può (credere di) sfuggire solo postulando come certo e autoevidente l’accordo universale, se non presente almeno futuro, di tutta l’umanità: “Su, lottiamo! l’ideale/ nostro alfine sarà/l’Internazionale/ futura umanità!” (il “governo mondiale” è un surrogato o avatar della “futura umanità” dell’inno comunista).

Lenin, e in generale il movimento comunista (o anarchico) rivoluzionario, vuole risolvere la contraddizione con la forza. Nella classificazione machiavelliana, Lenin è un “leone”.

L’universalismo politico delle grandi Casate nobiliari nordamericane ed europee che sostengono l’UE non è meno radicato di quello leniniano, perché discende dalla stessa radice illuminista. Esse però vogliono/devono risolvere la contraddizione con l’astuzia; Machiavelli le definirebbe “volpi”. Scrivo “devono”, perché a prescindere dalle intenzioni soggettive, le grandi Case non potrebbero essere altro che “volpi”: entrambi i “federatori a metà”, USA e Germania, non possono portare a compimento con la forza la loro opera.

Come l’URSS comunista, anche l’UE postula l’accordo universale, se non presente almeno futuro: accordo anzitutto in merito a se medesima, e in secondo luogo in merito al governo mondiale legittimato dall’umanità universale, che ne costituisce lo sviluppo logico, e giustifica eticamente sin d’ora l’obbligo di accogliere un numero indeterminato di stranieri, da dovunque provenienti, sul suolo europeo. Per questa ragione è impossibile definire definitivamente i confini territoriali dell’Unione Europea, che qualcuno pretende di estendere alla Turchia, e persino a Israele: perché ha diritto di far parte dell’UE chi ne condivide i valori universali (cioè virtualmente tutti, dal Samoiedo al Gurkha al Masai), non chi ne condivide i confini storici e geografici.

Il passaggio tra il momento t1 in cui l’accordo universale è soltanto virtuale, e il momento t2 in cui l’accordo universale sarà effettuale, non avviene con il ferro e il fuoco della “volontà rivoluzionaria”. Le volpi oligarchiche UE introducono invece nel corpo degli Stati europei, il più possibile surrettiziamente, dispositivi economici e amministrativi – anzitutto la moneta unica – che funzionano, secondo la celebre definizione di Mario Draghi, come “piloti automatici”. Questi piloti automatici provocano crisi politiche e sociali, previste e premeditate, all’interno degli Stati e delle nazioni, ai quali impongono o di insorgere in aperto conflitto contro la Corona, o di addivenire a un accordo universale in merito al “sogno europeo”: per il bene degli europei e dell’umanità, naturalmente, come per il bene dei russi e dell’umanità Lenin ricorreva al terrore di Stato, alle condanne degli oppositori per via amministrativa, etc.

A quest’opera va associata, inevitabilmente, una manipolazione pedagogica minuziosa e su vasta scala, in altri termini una lunghissima campagna di guerra psicologica. La dirigenza UE conduce questa campagna di guerra psicologica da una posizione di ipocrisia strutturale formalmente identica a quella della dirigenza sovietica, perché non è bene e vero quel che è bene e vero, è bene e vero quel che serve alla UE o alla rivoluzione comunista: in quanto Bene e Verità = accordo dell’intera umanità, fine dei conflitti, pace e concordia universali. Le élites, necessariamente ristrette, di “pneumatici” e di “psichici” che conoscono questo arcano della Storia, hanno il diritto e anzi il dovere morale di ingannare e manipolare, per il loro bene, le masse di “ilici” che invece lo ignorano.

Il leone Lenin accetta solo provvisoriamente il conflitto politico, e anzi lo spinge a terrificanti estremi di violenza, in vista dell’accordo universale futuro: dopo la “fine della preistoria”, quando diventerà reale il “sogno di una cosa” comunista e ogni conflitto cesserà nella concordia, prima in URSS poi nel mondo intero. Le volpi UE celano l’esistenza effettuale del conflitto (in linguaggio lacaniano lo forcludono), e da parte loro lo conducono, solo provvisoriamente, con mezzi il più possibile clandestini, in vista dell’accordo universale futuro, quando diventerà reale il “sogno europeo” e ogni conflitto cesserà nella concordia, prima in Europa poi nel mondo intero.

In questo grande affresco romantico proposto alla nostra ammirazione con la colonna sonora dell’Inno alla Gioia (forse non è un caso che il Beethoven delle grandi sinfonie fosse anche il compositore preferito di Lenin) c’è solo una scrostatura: che nella realtà, l’accordo universale di tutta l’umanità non si dà effettualmente mai. Ripeto e sottolineo due volte: mai, never, jamais, niemals, jamàs, etc.

E’ questa cosa, l’usurpatore, il falso Re: il Re del Mondo di Domani che non ha né la forza, né l’autorità, né la legittimità per governare il suo regno di oggi.

E il Matto? Il Matto Movimento 5 Stelle? In che modo ci rivela la verità sul suo e nostro falso Re?

Il M5S è un caso esemplare di universalismo politico spinto fino alle estreme conseguenze dell’assurdità, del ridicolo, insomma del grottesco. La sua scelta di non allearsi con alcuna forza politica se non su singoli provvedimenti definiti “tecnici” o “concreti” consegue, infatti, direttamente dal rifiuto pregiudiziale e preliminare del conflitto politico: dire che tutti sono avversari o nemici è identico a dire che nessuno lo è; dall’individuazione del nemico/avversario, infatti, consegue quali siano gli amici politici, che non si scelgono in base alla comunanza dei valori o all’affinità intellettuale e sentimentale, ma ci vengono imposti dalla comune inimicizia.

E chi è il nemico o l’avversario del Movimento 5 Stelle? La destra? La sinistra? Il centro? Il PD? La Lega? L’Unione europea? I nemici dell’Unione Europea? L’ISIS? L’America?  Il sistema solare? Il riscaldamento climatico? I corrotti? I bugiardi? I ricchi? I poveri? Il Resto del Mondo finché non si converte e non s’iscrive alla piattaforma Rousseau?

Il M5S rinvia tutto al momento magico in cui, da solo, prenderà il 51% dei voti, metterà in opera un progetto di democrazia diretta elettronica totale, e gradualmente persuaderà tutti della bontà e verità della propria azione, che non si caratterizza per la rispondenza a interessi ben definiti di ceti, classi, istituzioni, etc., ma per qualità d’ordine prepolitico come l’onestà, la trasparenza, la freschezza, etc.: qualità in merito alle quali tutti saranno costretti ad accordarsi, se non vogliono autodefinirsi corrotti, bugiardi, marci, etc.: “… honesty coupled to beauty is to have honey a sauce to sugar.” (il Matto Touchstone, As You Like It, Atto III, Scena III)

Una posizione simile condurrebbe, per sua logica interna, al Terrore giacobino; se non fosse che a) il M5S è sprovvisto dei mezzi per metterlo in opera b) il M5S agisce in un quadro di sovranità nazionale limitata (dalla UE) c) il M5S è un Matto, e il Matto può impugnare lo scettro e la spada, ma lo scettro è di cartone e la spada di gomma: più piccoli, ma per il resto identici al (finto) scettro e alla (finta) spada del suo (falso) Re.

Il M5S è, insomma, è un microcosmo che rispecchia il macrocosmo UE: un Matto buffo, piccolo, gobbo, sguaiato, vestito come il Re, e che parla, gesticola, si atteggia, promette e minaccia (a vuoto) come il Re. Come l’Unione Europea, è un organismo politico affatto disfunzionale, ispirato a un universalismo politico che non ha la forza di imporre, e il contenuto delle sue proposte politiche si autodefinisce come “la miglior soluzione tecnica, oggettiva, per il bene di tutti, di problemi concreti”. Poi, certo: il Re ha  un vasto stuolo di tecnici professionisti ben pagati che sfornano impeccabili soluzioni tecniche a tonnellate, 24/7, mentre il Matto ha una squadretta parrocchiale di geometri, ragionieri, laureati per corrispondenza che lavorano nei ritagli di tempo e fanno quel che possono. Ma la somiglianza – anzi, diciamolo col Bardo: la parodia c’è tutta.

Come l’UE in grande, cioè in Europa, così il M5S in piccolo, cioè in Italia, sortisce principalmente due effetti: neutralizza politicamente l’Italia, che a causa dell’ “elefante nel salotto” M5S si impaluda nella paralisi politica; e non pronunciandosi mai chiaramente in merito alla UE – perché per esistere, il Matto ha bisogno del Re, anche se può punzecchiarlo – gioca e fa giocare agli italiani un incessante ping-pong mentale tra la UE realmente esistente (falsa e cattiva) e la UE possibile (vera e buona); tra il Re com’è oggi, e il Re come sarà in futuro, in quel mondo migliore che i Matti chiamano Paese di Cuccagna, Schlaraffenland, Terra di Jaunja, Land of Plenty, Pays de Cocagne, etc.

Concludo. Rispondendo alla mia domanda sul Movimento 5 Stelle, il Bardo mi ha bonariamente rimproverato, invitandomi a disturbarlo solo quando devo fargli domande veramente difficili. “Aiutati che io t’aiuto”, m’ha detto scherzosamente. Ci ho riflettuto un attimo, e arrossendo gli ho presentato le mie scuse. In effetti, ci potevo arrivare anche da solo. Non c’è forse un Matto di professione, alla guida del Movimento Cinque Stelle? Non reca forse cinque stelle, la bandiera del Matto, come ne reca dodici la bandiera del Re (proposta dall’Araldo capo d’Irlanda)? Il dodici, che nella Cabala simboleggia “Il bene sopra tutto. La virtù non è solo pensiero ma anche azione. L’agire senza lucro e senza calcolo.” E il cinque, che simboleggia: “Fugate le nere ombre della notte, l’alba porta con sé i colori vivi della primavera e prepara l’arrivo del sole.”

Che sciocco sono stato, a non accorgermene subito. E’ proprio vero che  “The fool doth think he is wise, but the wise man knows himself to be a fool.” (il Matto Touchstone, As You Like It, Atto I, Scena 5).

 

Roberto Buffagni

La crisi siriana e l’Italia, di Roberto Buffagni

La crisi siriana e l’Italia

 

Mentre scrivo è in corso la riunione del Consiglio di Sicurezza ONU sulla crisi siriana. Registro le due dichiarazioni molto dure e direttamente antirusse di Stati Uniti e Francia, la dichiarazione interlocutoria della Cina che invita a una soluzione politica e non militare della crisi, e la dichiarazione più cauta del Regno Unito che non dà per scontata la responsabilità siriana nell’uso dei gas: il governo May è debole, i laburisti protestano, i conservatori non sono saldamente uniti, e il Ministro della Difesa russo proprio oggi ha ufficialmente accusato il governo britannico di aver appoggiato chi ha inscenato “il falso attacco provocatorio con i gas”.

In Italia non si registrano prese di posizione serie sulla crisi siriana. Si è costretti a prendere atto, con dispiacere e vergogna, di un allineamento totale del PD alle posizioni USA più oltranziste, quando persino all’interno dell’Amministrazione americana e tra gli alti gradi delle FFAA USA ci sono serie perplessità e posizioni nettamente contrarie a un attacco non dimostrativo contro Siria e Russia. Unico a invitare alla calma e a non invischiarsi in una situazione pericolosa, Matteo Salvini: nel paese dei ciechi l’orbo è re, ma non basta.

Che cosa rischiano l’Italia e il mondo intero? In sintesi, quanto segue. In caso di un attacco USA non dimostrativo contro la Siria e il suo alleato russo, l’enorme superiorità di mezzi di cui dispongono gli USA nel teatro mediterraneo può soverchiare le difese siriane e russe. Una prima fitta ondata di missili viene abbattuta dal sistema difensivo russo-siriano che però esaurisce lo stock missilistico, che non è possibile rifornire in tempo utile per le difficoltà logistiche imposte dalla distanza tra Russia e Siria. Una seconda ondata passa e causa gravi danni, colpendo personale siriano e russo. I russi sono costretti a rispondere dal Mar Caspio e dal Mar Nero, forse anche dal suolo russo. Gli USA rispondono, lo scontro si internazionalizza. Se un missile USA colpisce il suolo russo, la Russia colpirà il suolo americano. Sebbene lo scenario sinora tratteggiato non preveda l’uso di armi nucleari, nessuno può escludere che l’escalation vi conduca. E naturalmente, a ogni passo dell’escalation diventa sempre più difficile la de-escalation, sempre maggiori le probabilità di una perdita di controllo da parte di uno o entrambi i contendenti.

Per la sua posizione geografica, in caso di attacco USA non dimostrativo l’Italia sarà in prima linea, perché gli USA vorranno usare le loro basi situate su territorio italiano. Chi dice “siamo nella NATO e dunque dobbiamo appoggiare l’intervento americano contro la Siria” mente spudoratamente. La NATO non, ripeto NON c’entra niente con l’intervento USA contro la Siria. Un’azione aggressiva NATO esige l’accordo unanime, ripeto unanime, dei membri dell’alleanza. Né alcun membro NATO è stato aggredito dalla Siria o dalla Russia. Se dalle basi USA (USA, non NATO) presenti sul territorio italiano partissero truppe o voli diretti ad aggredire la Siria, questo avverrebbe con la piena corresponsabilità del governo italiano e della nazione. Nelle basi USA su territorio italiano, infatti, ci sono due comandanti, uno americano uno italiano. Il comandante americano è tenuto a comunicare in anticipo al comandante italiano tutte le operazioni, e il comandante italiano può autorizzarle oppure no, ripeto OPPURE NO. In caso di attacco USA contro la Siria che parta da basi USA su territorio italiano, il comandante italiano della base USA è tenuto a comunicare ai superiori gerarchici il piano operativo a lui sottoposto dal comandante americano, e i superiori gerarchici a informarne il governo e il Presidente della Repubblica, comandante in capo delle FFAA, perché un atto di guerra contro la Siria e la Russia intrapreso da base USA su territorio italiano configura un identico atto di guerra dell’Italia contro Siria e Russia. Per intenderci: se la Russia rispondesse a un attacco USA partito dall’Italia attaccando obiettivi militari su territorio italiano, sarebbe giustificata dal diritto di guerra. Invitiamo caldamente tutte le forze politiche che abbiano a cuore la sicurezza e l’onore nazionale a fare pressione sul governo e sul Presidente della Repubblica, comandante in capo delle FFAA, perché con apposita comunicazione scritta ribadiscano a tutti comandanti italiani di basi militari USA che è loro diritto e dovere esigere dal comandante americano il controllo preventivo del piano di operazioni, e comunicare prontamente per via gerarchica al governo eventuali piani di operazioni USA contro Siria e Russia che partano dal suolo italiano. Se questa possibilità si verifica, viste le gravi ripercussioni possibili e anzi probabili, il governo è politicamente e moralmente tenuto a darne notizia al Parlamento, e a sottoporre a un voto delle Camere l’autorizzazione italiana di qualsivoglia operazione americana contro Siria e Russia in partenza dal territorio nazionale. Vogliamo sperare che i rappresentanti del popolo italiano si mostrerebbero all’altezza del loro ufficio, negando l’autorizzazione e così tutelando sicurezza e onore dell’Italia. Chi non lo facesse si assumerebbe una gravissima responsabilità storica e morale.

 

Pacco-Italia: Alto/Basso. Fragile. Maneggiare con cura, di Roberto Buffagni

Pacco-Italia: Alto/Basso.

Fragile. Maneggiare con cura

 

Com’è il pacco-Italia che ci hanno recapitato le elezioni politiche 2018?

Be’, anzitutto è rovesciato: presenta il lato Basso in alto. Però sconsiglierei di raddrizzarlo bruscamente, perché il pacco è molto Fragile: basta guardarlo un momento, e si vede che presenta una netta linea di frattura proprio a metà, fra Nord e Sud. Insomma: maneggiare con cura.

Non stupisce, che il Basso (Lega al Nord, Movimento 5 Stelle al Sud) abbia rovesciato l’ Alto. Il centro di gravità dell’Alto che sinora ha governato l’Italia (il PD) era situato troppo, troppo in alto: geograficamente, oltre la cintura alpina, a Bruxelles e a Francoforte; socialmente, nei ceti che, a torto o a ragione, identificano il loro interesse con l’Unione Europea; geopoliticamente, lungo la direttrice nordeuropea, che rovescia la naturale direttrice mediterranea dell’interesse nazionale italiano. Con la testa nelle nuvole, l’Alto ha lasciato che il Basso si allargasse, si appesantisse, si depositasse sempre più in basso, ed ecco il risultato: Basso continuo, dalle Alpi a Capo Passero.

Il risultato è un enigma, perché non può esistere un Basso senza un Alto. Chi formerà il nuovo Alto di questo Basso, e come? Il quesito da risolvere è questo.

Una prima analisi del Basso italiano distingue tra un Basso nordista che sventola la bandiera del Lavoro e, ancora timidamente, la bandiera della Nazione; e un Basso sudista che sventola la bandiera del Soccorso e, ancora timidamente, la bandiera dell’Unione Europea. Il Basso nordista cerca di diventare Popolo liberandosi dal suo servaggio con lo strumento tradizionale del suo riscatto, la laboriosità; il Basso sudista si presenta per quel che è, Plebe; e se da un canto se ne inorgoglisce sfacciatamente (“uno vale uno” vuol dire “non siete meglio di noi”) dall’altro mendica da “Franza o Spagna” l’urgente soccorso di cui ha vero bisogno, il “reddito di cittadinanza”, il “purché se magna”.

Si ridisegnano, insomma, a centosettant’anni di distanza, le linee di frattura sociali e geografiche che non riuscì a saldare l’ “eroico sopruso” dell’unificazione nazionale italiana, e ci impongono un urgente esame di realtà, senza il quale non potrà sorgere un Alto che guidi questo Basso.

Ci hanno fornito le coordinate essenziali di questo esame di realtà tre dei maggiori interpreti della storia e dell’identità italiana, che tutti conosciamo dai tempi della scuola: Alessandro Manzoni, Giacomo Leopardi, Giovanni Verga. Il conte Manzoni dedica la sua opera maggiore alle vicende di un’operaia tessile e di un operaio qualificato che diventa piccolo imprenditore. Il conte Leopardi, in una delle sue poesie più luminose, si fa pastore errante, un marginale così isolato che gli tocca di parlare con la luna. Il rentier Giovanni Verga, nel suo romanzo migliore, ci racconta la storia di una famiglia di poveri pescatori e di un carico di lupini. Ciascuno a suo modo, Alessandro Manzoni, Giacomo Leopardi e Giovanni Verga ci dicono una verità che noi italiani già sappiamo tutti, se appena ci riflettiamo e siamo onesti con noi stessi: che il modo di essere naturale, archetipico, dell’Italia e degli italiani è la povertà. Siamo stati la quinta potenza industriale del mondo, tuttora possediamo, neonati compresi, un paio di telefoni cellulari a testa, ma la povertà resta, nel bene e nel male, la nostra casa: finché ne avremo una. Povertà e ricchezza hanno ciascuna le sue virtù e i suoi vizi. Virtù e vizi della ricchezza – amore della gloria e della sfida, fiducia in se stessi, alterigia, distacco – non ci riescono bene. Siamo decisamente più a nostro agio con virtù e vizi della povertà. Le principali virtù della povertà sono: sapere, fin dentro le ossa e il midollo, che la sciagura esiste sul serio, nella vita quotidiana di tutti e non solo nei libri; la modestia del realismo; la dignità che ne consegue; e la laboriosità. I principali difetti della povertà sono: il sogno della ricchezza che divora tutto; la millanteria della grandezza; il vittimismo; e la tentazione ricorrente del melodramma, cioè a dire la tentazione di credere e agire come se i poveri e i deboli, solo perché poveri e deboli, fossero buoni e incolpevoli: come se la responsabilità di errori colpe e mali fosse sempre dei ricchi e forti, e soprattutto degli altri.

Per noi italiani la tentazione del melodramma – la tentazione di dare la colpa (e con la colpa, la responsabilità) agli altri – è oggi la più forte e la più pericolosa: e il Movimento Cinque Stelle ne è l’espressione politica schiettamente servile. Non è un caso fortuito che a fondarlo sia stato un comico. La posizione del comico è la posizione del servo, che nella zona franca della scena, dove gli spari non uccidono e le decisioni non impegnano, può salire in Alto e dire le sue ragioni. In condizioni normali, cioè se il centro simbolico, politico e sociale tiene, quando cala il sipario il servo riprende il suo posto nel mondo e torna in Basso. Oggi il centro non tiene, e il Servo si ritrova in primo piano sulla grande scena del mondo, dove le scelte hanno conseguenze, le decisioni impegnano, gli spari uccidono: e spaurito, incredulo, se ne esalta e sogna.

Che cosa sogna, il Servo-Movimento Cinque Stelle? Be’: continua a sognare, in forma semplificata, ingenua, caricaturale, il sogno che gli ha insegnato a sognare il suo padrone, il PD: il sogno dell’Europa “dove lavoreremo un giorno di meno e guadagneremo un giorno di stipendio in più”, secondo la gesuitica profezia di Romano Prodi; e lo riformula sognando che da Lassù, Qualcuno ci recapiterà lo stipendio senza che ci diamo la briga di lavorare neanche un’ora. Insensato? Certo che è insensato. E allora? A tanti italiani, specie al Sud, appare insensata l’ambizione di lavorare, crescere una famiglia, mettersi un tetto sulla testa e una lapide sulla tomba, insomma: appare insensata la vita. Perché non preferirle un sogno, altrettanto insensato ma lieto?

La Plebe del Sud che vuole sognare e il suo partito, il Movimento Cinque Stelle, sono dunque l’avversario politico naturale del Popolo del Nord, che vuole destarsi.  Se il Nord saprà proporre al Sud una via praticabile e una prospettiva sensata, vivibile anche da svegli, dal Basso del Nord e del Sud potrà sorgere un nuovo Alto, capace di ricomporre e guidare l’Italia intera. Se non ci riuscirà, l’Italia ne uscirà balcanizzata, e tornerà ad essere un’ “espressione geografica”, come la definì la celebre formula del principe Clemens von Metternich.

FASCISMO & ANTIFASCISMO: UNA PIETRA SOPRA, di Roberto Buffagni

FASCISMO & ANTIFASCISMO: UNA PIETRA SOPRA.

 

Il lettore ricorderà che Luca Traini, ultimata la sua rappresaglia collettiva per l’assassinio di Pamela Mastropietro, si è costituito alle forze dell’ordine. Per sacralizzare il suo gesto, si è avvolto nel tricolore ed ha atteso l’arresto sul Monumento ai Caduti della Prima Guerra Mondiale. Che cosa c’entrano la Prima Guerra Mondiale e i suoi caduti con il gesto di Traini? Naturalmente, non c’entrano niente. C’entrano molto, invece, con le manifestazioni antifasciste che hanno risposto al gesto di Traini. C’entrano, perché non so se ci avete fatto caso, ma Monumenti ai Caduti della Seconda Guerra Mondiale, in Italia non ce ne sono proprio.

Monumenti ai Caduti Partigiani ce ne sono in ogni città italiana, grande o piccola. Nel migliore dei casi, sotto l’elenco dei caduti partigiani c’è una lista dei “caduti al fronte”, dove per “caduti al fronte” si intendono i caduti nel corso delle operazioni belliche 1940-1945, esclusi i caduti della Repubblica Sociale Italiana che non sono ricordati neanche con un post-it appiccicato nei cessi di un periferico autogrill. Ma monumenti ai Caduti della Seconda Guerra Mondiale, dove siano ricordati tutti i caduti italiani, salvo errore in Italia non ne esistono proprio[1]. Eppure, non sono stati pochi: secondo l’Ufficio dell’Albo d’Oro del Ministero della Difesa[2], i numeri sono i seguenti: Esercito, 246.432; Marina, 31.347;  Aeronautica, 13.210;  formazioni partigiane, 15.197;  forze armate della RSI, 13.021.

Risulta chiaro, dunque, che non è ancora possibile mettere la proverbiale pietra sopra, in forma di lapide monumentale, a una vicenda non secondaria della storia italiana. I caduti della Seconda Guerra Mondiale sono e restano caduti abusivi o tollerati, mentre i caduti della Repubblica Sociale Italiana sono e restano caduti illeciti e disonorati. Gli unici caduti italiani legittimi e onorati della Seconda Guerra Mondiale sono i caduti partigiani (circa il 5% del totale). Di conseguenza, quando Luca Traini ha voluto legittimare e sacralizzare il suo gesto presentandosi come un combattente per la nazione e per la stirpe italiana, non ha potuto che scegliere il Monumento ai Caduti della Prima Guerra Mondiale: che però con l’assassinio di Pamela Mastropietro, con l’immigrazione, con il fascismo e l’antifascismo, se non altro per ragioni cronologiche c’entra zero.

Motivi ce ne sono, naturalmente. La Repubblica italiana si autodefinisce “antifascista” sin dalle sue origini, e “antifascista” fu la classe dirigente riunita nel CLN che la guidò, dopo la sconfitta militare e l’armistizio con le potenze Alleate. Il regime politico responsabile dell’ingresso dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale, e dunque della nostra sconfitta, fu senz’altro il regime fascista. Non facile sarebbe stato, per la nuova classe dirigente repubblicana, presentarsi agli italiani e al mondo come erede di una sconfitta. Più facile presentarsi come eredi di una vittoria: la vittoria dell’antifascismo sul fascismo. Il fatto, storicamente incontestabile, che a perdere la guerra era stato non solo il regime politico fascista ma l’Italia, e a vincerla sì l’antifascismo, ma innanzitutto le potenze straniere Alleate che l’Italia avevano sconfitto e invaso, e senza le quali il CLN e le formazioni partigiane non avrebbero vinto mai, fu passato sotto silenzio.

Non subito: nei primi anni dopo la fine della guerra, troppo bruciante e troppo chiara a tutti era la realtà della sconfitta, e troppo evidenti i rapporti di forza tra le formazioni partigiane e le potenze Alleate, liberatrici dal fascismo e insieme occupanti la nazione italiana. Alla conferenza di Pace di Parigi del 1946, infatti, l’antifascista Alcide De Gasperi così si rivolge alle potenze vincitrici: “Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra cortesia, è contro di me: è soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa ritenere un imputato, l’essere arrivato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione.”

Poi nacque il mito, sottolineo mito della Resistenza; e nacque anzitutto per opera di Togliatti e del PCI, che con il mito della Resistenza e dell’antifascismo si accreditava quale partito democratico per eccellenza, nonostante la sua appartenenza al campo sovietico, che di democratico non aveva un gran che tranne il nome delle “democrazie popolari” del Patto di Varsavia. La guida culturale del campo antifascista fu presa, però, dagli eredi del Partito d’Azione. Piero Gobetti aveva definito il fascismo “autobiografia della nazione”, e gli italiani che avevano appoggiato il fascismo “popolo delle scimmie”. Fascismo come autobiografia della nazione significava, per Gobetti e per la cultura azionista, fascismo come risultante di tutte le “arretratezze” italiane: la mancanza di una riforma protestante, di una borghesia laica, di una rivoluzione industriale. Per farla breve: fascismo come effetto del mancato ingresso dell’Italia nella modernità europea e occidentale, della nostra incapacità di essere “un paese normale”, come dirà Massimo D’Alema tanti anni dopo. “Fascismo” veniva a significare il contrario di “progresso”; e per l’Italia, “progresso” diventava sinonimo di “assimilazione culturale ai paesi-guida della modernità”, in parole povere ai paesi anglosassoni. Scotomizzata dal paradigma/paraocchi mentale progressista, elementare e potentissimo, che divide il mondo in un avanti dove c’è ogni valore e un indietro dove c’è ogni disvalore, la cultura dell’antifascismo a guida azionista condivide il “pregiudizio favorevole”[3] nei confronti del comunismo: perché pur presentando qualche difetto, il comunismo è avanti.

Esempio preclaro di “pregiudizio favorevole”, Piero Calamandrei. Scrivendo a suo figlio Franco, allora (1955-6) corrispondente de “L’Unità” da Pechino, Piero, che sta preparando un numero de “Il Ponte” dedicato alla Cina, gli chiede quanto segue: “Ora vorrei una spiegazione da te, caro Franco, se puoi darmela[4]. In un articolo su ‘La Cina vista dall’Inghilterra’ del redattore del ‘Manchester Guardian’, l’autore che rifà la storia di come si è arrivati alla Cina popolare, dice a un certo punto: ‘C’è stato terrorismo politico: nel 1952 ministri del governo annunciarono che erano stati sterminati 2.500.000 nemici di classe.’ E’ esatta questa notizia? E’ controllabile? O è un’invenzione? Non so se tu sei in grado di rispondermi: in caso negativo, sia per non detto. Ciò non avrebbe importanza sul giudizio positivo sulla Cina attuale; le rivoluzioni sono rivoluzioni come le guerre. Ma se la notizia fosse falsa vorrei ribatterla[5].[6]

Oggi sappiamo che la notizia era vera, le cifre degli sterminati sono in quell’ordine di grandezza. Ma la cosa interessante è che Piero Calamandrei, persona intelligente, preparata e degna, di fronte a una cifra come 2.500.000 morti ammazzati non nel corso del conflitto guerreggiato ma dopo, a sangue freddo, a) non fa una piega b) non si chiede a chi e cosa corrisponda, nei fatti cinesi, il concetto di “nemico di classe” c) qualora il figlio lo accerti che la notizia è vera, addebita lo sterminio alla forza delle cose e al destino, tipo “per fare la frittata si rompono le uova” d) e dunque chiede verifica a Franco solo per cogliere una buona occasione di far polemica contro gli anticomunisti in caso la notizia fosse falsa.
Si noti che Calamandrei non era comunista, né aveva responsabilità politiche dirette nel movimento comunista (chi ha responsabilità politiche dirette tende inevitabilmente al cinismo pragmatico). Era un celebre e rispettatissimo studioso, certo politicamente schierato nel campo antifascista, ma non un agente del KGB, e nemmeno un membro dell’Ufficio Politico del PCI.

La cecità volontaria parziale di Calamandrei deriva da un pregiudizio ideologico, il “pregiudizio favorevole” al comunismo. Calamandrei non era comunista, ma un azionista antifascista. Con la svolta di Salerno, il PCI si era proposto come campione dell’antifascismo e della democrazia; e per complesse ragioni storiche e ideologiche, la proposta era stata accolta da tutte le forze componenti il CLN, sebbene il PCI antifascista lo fosse stato senz’altro, ma democratico mai (accettava di fatto la democrazia rappresentativa pluralistica perché questo era il quadro di Yalta, ma non l’accettava in linea di principio, e questo resterà vero fino a Berlinguer e oltre: è la celebre “doppiezza” togliattiana). Quindi, il PCI restava fuori dal governo in base a Yalta, ma sul piano ideologico e culturale il comunismo restava non solo accettabile per tutti gli antifascisti, ma una forza e una cultura nei riguardi della quale le forze ex CLN nutrivano un “pregiudizio favorevole”. Ragione di fondo: un tipo di interpretazione del fascismo (azionista e marxista, che convergono su questo giudizio per diverse vie) che lo vede come un pericolo permanente e ricorrente, contro il quale è indispensabile conservare l’alleanza antifascista anche quando il fascismo storico non esiste più perché sconfitto sul campo. A questo poi si aggiunga la solidarietà di interessi che sempre si stabilisce in una classe dirigente, e che prescrive quel che si può, e quel che non si può dire pena serie difficoltà nella carriera, sino all’ostracismo. Conclusione: a fronte del pericolo di risorgenza del fascismo eterno, i 2MLN e mezzo di morti cinesi contano zero, e vanno passati sotto silenzio perché a parlarne “si fa il gioco del fascismo”; come si fa il gioco del fascismo a parlare del terrore leniniano e staliniano, del dissenso sovietico, e del fatto che il mito della Resistenza è, appunto, un mito che non corrisponde alla realtà, come non corrisponde alla realtà la vulgata secondo la quale il fascismo è “l’invasione degli Hyksos” (Croce) o “l’autobiografia della nazione” di un “popolo di scimmie” (Gobetti) o “il braccio armato del grande capitale che quando è in difficoltà lo tira sempre fuori dalla cassetta degli attrezzi” (marxisti tutti); e quindi, non si può mai dire che il fascismo non è un errore contro la cultura tout court, ma “un errore della cultura”, e della migliore cultura italiana (Noventa).

Si faceva il gioco del fascismo anche se si parlava dell’adesione e collaborazione al fascismo, più o meno profondamente persuasa ma non solo forzata o motivata da inesperienza giovanile, di una larga parte della classe dirigente e degli intellettuali italiani antifascisti; tant’è vero che lo stesso Calamandrei, nel discorso tenuto il 28 febbraio 1954 al Teatro Lirico, alla presenza di Ferruccio Parri, ebbe a dire: “Il ventennio fascista…fu un ventennio di sconcio illegalismo, di umiliazione, di corrosione morale, di soffocazione quotidiana…perché, sì, fu un’invasione che veniva da dentro, un prevalere temporaneo di qualcosa che si era annidato dentro di noi[7]”. L’oratore del Teatro Lirico era lo stesso medesimo prof. Piero Calamandrei che quattordici anni prima, nel 1940 (millenovecentoquaranta A.D.) era stato il principale collaboratore del Guardasigilli Grandi per l’elaborazione del nuovo codice di procedura civile, e che aveva steso per conto del ministro la Relazione al Re. Relazione che come di prammatica figura in premessa al testo del codice e ne proclama l’alta ispirazione fascista. “Sconcio illegalismo”?

Il comunismo e l’URSS non ci sono più. Ma nei partiti e tra gli intellettuali proUE italiani prevale una cultura largamente ispirata all’azionismo antifascista (omogeneizzato e banalizzato modello Scalfari); come del resto nell’intero paese, dove è irriflessa ma è diventata senso comune. Rinnegata, senza vero riesame, la prospettiva comunista dopo l’implosione dell’URSS, gli intellettuali progressisti proUE (cioè quasi tutti) hanno certo accettato la democrazia rappresentativa pluralistica e liberale, ma al “sogno di una cosa” comunista hanno sostituito, a svolgere la medesima funzione, il “sogno europeo”. Qual è, questa funzione? La stessa che con lodevole franchezza ci illustra Alberto Asor Rosa parlando della sua adesione al comunismo: “La promessa comunista ci apriva un orizzonte di cambiamento, la liberaldemocrazia no…eravamo dei marxisti conseguenti, noncuranti peraltro delle nostre azioni [sottolineatura mia]…Certo, inseguivamo un progetto ‘inverosimile’. Ma nel campo dei fenomeni intellettuali, ‘inverosimile’ non corrisponde automaticamente a ‘sbagliato’.[8] Insomma, il comunismo ci faceva sognare (e cos’è la vita senza sogni? direbbe Marzullo); inoltre, noi in quanto intellettuali non siamo responsabili delle conseguenze reali delle nostre idee.

Non mi pare ci voglia la scala dei pompieri per giungere a stabilire una fruttuosa analogia tra “pregiudizio favorevole” al comunismo e “pregiudizio favorevole” alla UE. Come il comunismo, la UE cortesemente fornisce, gratis, “la prospettiva di cambiamento”, cioè il “sogno” senza il quale la vita, anche intellettuale, è sciapa assai; come gli intellettuali comunisti, o pregiudizialmente favorevoli al comunismo pur senza aderirvi, gli intellettuali proUE non sono responsabili delle conseguenze delle loro idee; come nel caso del progetto comunista, il progetto UE è “inverosimile”, ma “nel campo dei fenomeni intellettuali, ‘inverosimile’ non corrisponde automaticamente a ‘sbagliato’ “. Si aggiunga poi, naturalmente, che l’adesione al progetto UE, come a suo tempo l’accettazione del “pregiudizio favorevole” al comunismo su base antifascista, a) garantisce la condivisione di oneri e onori elargiti dall’ufficialità b) favorisce la carriera e la cooptazione nella classe dirigente c) rasserena e rassicura la coscienza morale, perché come chi non aderiva al “pregiudizio favorevole” al comunismo “faceva il gioco del fascismo”, così chi non aderisce al “pregiudizio favorevole” alla UE “fa il gioco” del populismo, del nazionalismo, del razzismo: insomma, del presente avatar del fascismo eterno. E siccome la storia, conforme al detto marxiano, si presenta per la prima volta in tragedia, per la seconda in farsa, stavolta gli intellettuali e i politici antifascisti non hanno bisogno di far finta di non vedere (cosa non facilissima) stragi terrificanti di milioni di persone, campi di concentramento siberiani, colpi alla nuca nelle cantine della Lubianka, massacri a sangue freddo commessi da partigiani comunisti anni dopo la fine delle ostilità, testimonianze agghiaccianti e veritiere di dissidenti come Solgenitsin e Salamov, etc. Stavolta, agli intellettuali antifascisti, progressisti, proUE, basta far finta di non vedere un po’ di suicidi (e il suicidio ha sempre un fondo psicologico inscrutabile), una vasta disoccupazione (che comunque non costringe nessuno alla fame), una grave erosione della struttura industriale italiana (ma si può sempre emigrare e favorire gli investimenti esteri), un po’ di trucchetti più o meno leciti (ma sempre legali) per assicurare l’insediamento dei governi desiderati, una immigrazione di massa che provoca certo problemi (ma che è fattualmente inarrestabile e moralmente doveroso accettare), e il fatto, certo un po’ seccante, che il progetto UE è politicamente inverosimile e disfunzionale, perché la UE non potrà mai trasformarsi in vero Stato federale. Insomma: se gli intellettuali antifascisti con “pregiudizio favorevole” al comunismo della Prima Repubblica dovevano applicarsi sugli occhi spesse fette di salame, agli intellettuali antifascisti proUE della Seconda Repubblica basta incollarsi sulle cornee una fettina quasi trasparente di prosciutto San Daniele.

Quanto più il fascismo e l’antifascismo come ideologie si allontanano dalla realtà storica e filosofica, tanto più si ossificano e si semplificano in reazioni irriflesse e in tifoserie paracalcistiche, e dunque tanto più si prestano alle strumentalizzazioni politico-elettorali e alla psicotecnica propagandistica. E’ così che si spiegano due acting out[9] simmetrici quali la sommaria simbologia fascista usata da Luca Traini e la sommaria simbologia antifascista di chi ha manifestato, a Macerata e altrove, contro la sua azione criminale.

In ambito psicoanalitico, l’ acting out  viene considerato un meccanismo di difesa, caratterizzato da comportamenti aggressivi, messi in atto per scaricare una tensione generata da un conflitto emotivo interno del paziente. Qui il paziente sarebbe l’Italia, una nazione che non riesce a mettere una pietra sopra a un periodo chiave della sua storia. Non si stende una nazione intera sul lettino dello psicoanalista. Una cura però ci sarebbe: una cura arretrata (quindi forse fascista?) ma che varrebbe la pena tentare. Chi ne ha messo a punto il protocollo non è un medico: è un uomo politico, un economista, un militare e un drammaturgo. Va però rilevato che la sua casa fu scelta per ospitare la statua del dio Asclepio, inventore della medicina, in attesa che venisse completato il santuario di Epidauro a lui dedicato. La descrizione del morbo e il protocollo di cura sono contenuti nella sua tragedia Antigone, nella quale si chiarisce come i cittadini di una polis che si rifiutano di riconoscere e onorare con pubbliche esequie il proprio concittadino, benché nemico politico, e nemico politico sconfitto, violano una legge sacra non scritta, più antica e più fondamentale dei codici penale e civile: leggi che “non sono d’oggi, non di ieri, vivono sempre, nessuno sa quando comparvero né di dove.”[10] La pena per chi tiene il concittadino/nemico politico sconfitto “senza onore e senza tomba, cadavere nefando” e non solo non ne ha il diritto lui, ma “neanche gli dei d’Olimpo” è molto grave: “le Erinni degli dei e degli inferi ti agguantano, perché tu perisca dei medesimi mali[11]. I “medesimi mali” sono: la discordia civile, il fratello che si leva in armi contro il fratello come Eteocle e Polinice, figli di Edipo e fratelli di Antigone, si erano affrontati in duello per il trono di Tebe.

La pietra sopra, insomma, sarebbe quel che oggi non c’è, e purtroppo non ci sarà domani: un Monumento ai Caduti, a tutti i caduti italiani della Seconda Guerra Mondiale. Ma “l’arroganza dei superbi, percossi da duri castighi, troppo tardi ammaestra la saggezza dei vecchi.[12]

 

 

[1] C’è il Sacrario Militare di El Alamein, sorto grazie all’opera di Paolo Caccia Dominioni, che ricorda i caduti in una battaglia che le forze armate italiane, in particolare le divisioni Folgore e Ariete, combatterono con luminoso eroismo. Però si trova in Egitto. https://www.difesa.it/Il_Ministro/ONORCADUTI/Sepolcreti/Pagine/ElAlamein.aspx

[2] https://www.difesa.it/News/Pagine/SULPORTALEDELLADIFESAL%27ALBOD%27ORO.aspx

[3] Vittorio De Caprariis, Il pregiudizio favorevole, in “Nord e Sud”, a. VIII, n. 11, novembre 1961

[4] Corsivo nel testo.

[5] Sottolineatura mia.

[6] Piero e Franco Calamandrei, Una famiglia in guerra. Lettere e scritti (1939-1956), Laterza 2008, p. 145

[7] Sottolineatura mia.

[8] ”Alberto Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, Laterza 2009, p. 20 e 29-30

[9] “Il termine acting out , letteralmente ‘passaggio all’atto’, indica l’insieme di azioni aggressive e impulsive utilizzate dall’individuo per esprimere vissuti conflittuali, inesprimibili attraverso la parola e comunicabili solo attraverso l’agito.”  https://www.psiconline.it/le-parole-della-psicologia/acting-out.html#VSLaWtRAdqsUVkyM.99

[10] Sofocle, Antigone, vv. 453-457, trad. mia. Prima rappresentazione alle Grandi Dionisie di Atene, 442 a.C.

[11] Tiresia a Creonte in Antigone, cit., passim.

[12] Ultime parole del Coro in Antigone, cit.

INTORNO AI FATTI DI MACERATA_ NON C’E’ PIU’ RELIGIONE?DIPENDE, di Roberto Buffagni

Non c’è più religione? Dipende.

Intorno ai fatti di Macerata

LA PARTICOLARE GESTIONE POLITICA DEI FATTI DI MACERATA, di Giuseppe Germinario

La giovanissima Pamela Mastropietro viene uccisa e smembrata a Macerata, pare dal criminale nigeriano Innocent Oseghale, in concorso con altro suo connazionale (identificato, non si sa perché non ancora arrestato). Immediatamente un giovane maceratese, Luca Traini, che pure non la conosce di persona, decide di vendicarla. Incensurato, con simpatie sommarie per l’estrema destra, candidato della Lega alle ultime elezioni comunali (zero voti),  in possesso di porto d’armi per uso sportivo (rilasciato dalla Questura in seguito a presentazione di certificato medico ASL attestante l’idoneità psicofisica[1], nonostante egli oggi dichiari d’essere “in cura da una sua amica psichiatra”) si propone di uccidere Oseghale. Ma Oseghale è protetto dalle FFOO, e Traini ripiega su una vendetta generica, una rappresaglia collettiva: sale in automobile e spara con la sua Glock a undici passanti neri, per fortuna senza ucciderne nessuno. Subito allertate, le FFOO lo cercano per ben due ore nella minuscola Macerata, senza trovarlo. Ci pensa Traini, a farsi trovare. Si avvolge in un tricolore e va ad attendere l’arresto-martirio, al quale non opporrà resistenza, sul monumento ai Caduti della Prima Guerra Mondiale. Il simbolismo del gesto è limpido: Traini si considera un eroe, che ha agito per difendere la patria e la stirpe italiana come i soldati che combatterono e morirono nella Grande Guerra. Sorpresa: pare che non pochi maceratesi siano d’accordo con Traini, a giudicare da quel che riferisce il suo avvocato Giancarlo Giulianelli: “Mi ferma la gente a Macerata per darmi messaggi di solidarietà nei confronti di Luca. E’ allarmante ma ci dà la misura di quello che sta succedendo.”[2]

“Non c’è più religione?” Dipende. Non c’è più la religione del Dio che dice “Misericordia io voglio e non sacrifici” (Mt 9 13): non c’è più il cristianesimo, che si è secolarizzato e tradotto (molto male) nel pensiero dominante progressista dei diritti umani e sociali e dell’accoglienza tous azimuts  per gli immigrati, un pensiero tanto dominante che l’ha fatto proprio persino il pontefice cattolico regnante; l’altro, il pontefice pensionato, ha le sue riserve ma sta ai giardinetti e se le tiene per sé.

Altre religioni, invece, ci sono eccome, e una di esse, antica, importante, diffusa nel mondo, a Macerata ha dato una prova di vigorosa esistenza in vita. E’ la religione del popolo Yoruba, al quale Karl Polanyi dedicò un bel libro, Il Dahomey e la tratta degli schiavi. Analisi di un’economia arcaica, Einaudi 1987[3]. Racconta Polanyi che il popolo yoruba viveva del commercio degli schiavi, inserendosi così nelle correnti del traffico interafricano. Per quei tempi, prima dell’arrivo dei bianchi, era la punta di lancia più avanzata dell’economia; i raziocinanti yoruba trattavano bene gli schiavi, per non far deperire la merce pregiata. Come molte religioni, per la verità tutte le religioni tranne le abramitiche[4], la religione yoruba contemplava il sacrificio umano.

La religione yoruba contemplava il sacrificio umano allora, e continua a contemplarlo anche oggi, anche se naturalmente lo proibiscono le legislazioni dei paesi in cui essa è praticata, tra i quali anzitutto la Nigeria. Per la religione yoruba, il benessere e la potenza degli dèi, gli orisha, dipendono dagli uomini.[5] Senza i sacrifici che gli uomini gli tributano, gli orisha si indeboliscono, si ammalano, cadono in depressione, si riducono a nulla.[6] Con il vettore degli schiavi, la religione yoruba si è diffusa nel mondo occidentale, e ibridandosi con elementi del cattolicesimo ha dato origine al candomblè brasiliano, al voodoo haitiano, alla santeria cubana.

Il sacrificio è al centro della religione yoruba. L’uomo sa di non essere solo, ma in comunione con forze divine, alle quali va offerto un sacrificio appropriato alla richiesta e all’occasione. Il sacrificio è il tramite di questa comunione. Si sacrifica per rendere grazie della buona fortuna e per propiziarsela, per sventare la collera divina, per cambiare situazioni spiacevoli, per difendersi dai nemici, per purificare una persona o una comunità in seguito all’infrazione di un tabù. A seconda delle circostanze e dello scopo, si sacrificano oggetti personali, piante, animali. In speciali circostanze, si sacrifica un essere umano. Come è consueto in tutto il mondo, la vittima sacrificale umana viene trattata con il massimo rispetto: ben nutrita, ne vengono esauditi tutti i desideri tranne la vita e la libertà. Se il sacrificio ha scopo riparatorio o espiatorio, la vittima viene condotta in parata lungo le vie della città mentre la popolazione prega per il perdono dei peccati. Il capro espiatorio porta con sé i peccati, la sfortuna e la morte di tutti, senza eccezione. Lo si cosparge di cenere per velare la sua identità di individuo, e il popolo lo tocca per trasferire su di lui tutti i propri mali, fisici e morali. Condotto sul luogo del sacrificio, egli canta la sua ultima canzone, che viene ripresa dagli astanti. La testa viene recisa, il sangue offerto agli dèi.[7]

Molto curiosa la somiglianza tra la religione yoruba e il luogo comune sociologico, o il moderno senso comune ateo, secondo il quale ogni religione è creazione puramente umana, rispondente al bisogno di rassicurazione contro la precarietà e i mali dell’esistenza. La dimensione pratica è in effetti prevalente, nella religione yoruba: in una civiltà cristiana, la si chiamerebbe magia, piuttosto che religione; perché la magia si propone appunto lo scopo pratico di influenzare o asservire forze numinose, per mezzo di rituali e incantesimi.

Come d’altronde la nostra (ex nostra) religione, anche la religione yoruba può secolarizzarsi e trascriversi in pratiche e persuasioni che le somigliano e ne derivano, senza essere espressamente e autenticamente religiose. Per esempio, negli omicidi rituali: molto interessante l’articolo di Patrick Egdobor Igbinova, accademico nigeriano, sugli omicidi rituali in Nigeria.[8] Sempre come avviene, o avveniva, per la nostra ex religione, anche la religione yoruba può influenzare le forme di rappresentazione, a livello artistico o commerciale. Wole Soyinka, ad esempio, il premio Nobel di origini nigeriane, quando ha voluto adattare per la scena un testo della classicità occidentale ha scelto Le baccanti di Euripide, che narra lo sparagmòs, o smembramento sacrificale del re Penteo per mano delle Baccanti, le donne invasate dal dio Dioniso.[9] A livello commerciale, è istruttivo apprendere che da quando in Nigeria c’è stato un afflusso importante di migranti dell’etnia Igbo, assai affezionati alla religione yoruba, il settore industriale degli home movies ha conosciuto una tumultuosa espansione. La trama fissa degli home movies di maggior successo è la seguente: rituali di sacrificio umano generano affermazione sociale, ricchezza, benessere. Certo: l’ autore del sacrificio è presentato come un cattivo, e alla fine della storia viene sconfitto. Però intanto la ricchezza, il successo e il piacere li ha raggiunti proprio grazie ai sacrifici umani che ha praticato.[10]

E’ stato un sacrificio umano con tutti i crismi, l’omicidio con smembramento di Pamela Mastropietro? Non lo so, non credo. E’ stato un omicidio rituale? Non lo so, credo di sì. E’ un pazzo, il criminale nigeriano che l’ha uccisa? Una specie di Jack lo Squartatore africano? Non credo proprio. E’ sicuramente un criminale (pregiudicato, spacciatore di droga, probabilmente membro della mafia nigeriana), ma non vedo perché dovrebbe essere un pazzo. Le modalità dell’omicidio corrispondono a una corrente, antica e profonda, della sua cultura. A quanto pare sinora, lo smembramento non è stato operato per facilitare il trasporto del cadavere, ma a scopo rituale: ma il rituale di smembramento ha uno scopo utilitario, esattamente come smembrare il corpo per farlo stare in valigia. Almeno questo aspetto utilitario dovremmo essere in grado di capirlo anche noi progressisti, che giudichiamo e comprendiamo tutto in chiave di economia, utilità e profitto. C’è molta differenza tra fare a pezzi il cadavere di Pamela per celebrare un rituale inteso ad accrescere il proprio successo e benessere, e fare a pezzi il cadavere dei feti abortiti per venderlo alle industrie biotecnologiche, come fa abitualmente Planned Parenthood? A me francamente non pare. Forse la differenza è che secondo noi progressisti, il rituale africano non funziona? Ma non è affatto detto. Il rituale africano può funzionare benissimo, per esempio per sviluppare la fiducia in sé e la forza del celebrante, per cementare l’intesa del gruppo, per incutere un salutare timore ai nemici, etc. E poi si possono fare soldi con entrambe le pratiche, no?

Concludo rivolgendomi al lettore, in special modo al lettore progressista, allo “hypocrite lecteur, mon semblable, mon frére”.[11]

Rifletti un momento, caro lettore. Giustamente ti ripeti che bisogna comprendere l’Altro, e io sono più che d’accordo con te. L’assassino nigeriano è un uomo, un uomo come te e me, capace di bene e di male come lo siamo tu ed io. Ha anche una sua cultura, radicata nella religione come tutte le culture – persino la tua, nonostante a te la religione non parli più – e questa cultura informa dal profondo sia il bene, sia il male che compie quest’uomo: pensieri, sentimenti, sogni, emozioni, punti di vista, amori, odi, azioni, passioni… E’ così, e non può essere che così, perché è un uomo, e nessun uomo si può ridurre ai moventi più superficiali ed evidenti dei suoi atti. Ora, rifletti: ti sembra facile, o almeno possibile, “integrare” questa cultura, questo uomo? Basterebbe mandarlo a scuola e insegnargli l’italiano, dargli un posto di lavoro decente, il diritto di voto, l’automobile, il 730 dell’Agenzia delle Entrate?

“Ma questo è un criminale,” mi ribatterai tu. “E tutti gli onesti nigeriani, che…etc., etc.”. Vero. Senz’altro vero. Ma secondo te, gli onesti nigeriani comprendono meglio te, o lui, il disonesto nigeriano, l’assassino rituale? A chi si sentono più prossimi? E tu, li capisci, i nigeriani? Onesti o disonesti che siano, come onesti o disonesti siamo noi, a volte indossando la stessa identità anagrafica nell’onestà e nella disonestà? Pensaci.

Pensaci, riflettici, parlane tra te e te, se parlarne con me o con altri ti mette a disagio. Sei sicuro che con tutte queste premure, con tutta questa accoglienza e assistenza, il disonesto nigeriano e gli onesti nigeriani diventerebbero come te, come noi? E se invece fossimo noi, a diventare come lui, come loro? Ci hai mai pensato? E se Luca Traini, il fragile balordo Luca Traini che si è autoinvestito di una missione sacra, la missione di placare col sangue i Mani della fanciulla appartenente alla sua tribù e alla sua stirpe, barbaramente trucidata dal membro di altra tribù, di altra stirpe, e ha simboleggiato la sacralità del suo gesto con i suoi poveri mezzi di bordo – la paccottiglia neonazi, il tricolore-sudario, il Monumento ai Caduti –  se Luca Traini fosse uno di noi che diventa come uno di loro? Un italiano criminale che si sforza di somigliare il più possibile al nigeriano criminale, e ci riesce piuttosto bene? Ci hai mai pensato? Prova. Pensaci. Prova a pensare, a valutare l’ipotesi che il fascismo e l’antifascismo non c’entrino proprio niente. O meglio: c’entrano, nel cuore di Luca Traini, perché da molti decenni le parole sacre “patria” e “stirpe” sono state rinchiuse nella gabbia-ghetto-cordone sanitario della parola “fascismo”.  Non do la colpa a te, per tante ragioni è andata così. Però, vedi: volere o volare, fascismo o antifascismo, patria e stirpe sono pur sempre parole sacre. Restano parole, parole come le altre, finché non accade qualcosa che le riattiva, che le circonda di nuovo dell’aura numinosa, splendida e terribile, che sempre circonda il sacro e dal sacro irradia. Qualcosa di simile l’hai certo sperimentato anche tu: quando parole come “amore” e “tu”, o un altrimenti banale nome di battesimo, vengono pronunciate tra amanti che profondamente si legano, nell’intimità splendida e terribile dell’eros; che come sai – te lo dice anche Umberto Galimberti – è sacro. Bene: non solo l’amore, è sacro. Purtroppo, vedi: nel cuore umano, la radice dell’amore e dell’odio è la stessa. Difetto di progettazione? Forse, ma è così. Anche questo, l’hai sperimentato: quando un tuo grande amore si è trasformato in odio radicato, insopportabile, rovente, e ti ha fatto fare e subire cose che mai avresti immaginato di fare e subire. Esiste, l’amore innocuo? L’amore senza effetti collaterali dannosi? L’amore sicuro, il safe-love? Si può mettere il preservativo, questo sì. Ma il preservativo del cuore e dell’anima non c’è; o se c’è, e lo indossi, anima e cuore avvizziscono, cadono in depressione e muoiono, come gli orisha della religione yoruba quando non gli tributi i sacrifici richiesti.

Come la mettiamo, adesso? Che facciamo? Mah. Un tempo c’era, la procedura seguendo la quale le parole sacre – amore, patria, stirpe, eccetera – restavano sacre ma non irradiavano un’aura radioattiva, mefitica, agghiacciante; in cui insomma si sapeva “gestire”, come ti piace dire, o addomesticare, come preferisco dire io, le sacre profondità dell’anima umana. La procedura si chiamava “civiltà”, e si usava, un tempo, contrapporle la parola “civilizzazione”. Con la parola “civilizzazione” si intendeva tutta la complessa, necessaria, benemerita macchina sociale, dallo Stato alle dighe alle fabbriche alle fogne: tutto quel che si occupa della vita esteriore dell’uomo. Con “civiltà” si intendeva il resto: quel che si prende cura della vita interiore dell’uomo, dalle cime angeliche alle profondità ctonie. La civiltà, ahimè, non c’è (quasi?) più. Ne restano in vita, o in animazione sospesa, gli innumerevoli, meravigliosi monumenti[12]. La fiamma ne è spenta, o è così fioca e impercettibile da sembrarlo. Immensa, torreggiante, la civilizzazione, la “gabbia d’acciaio” weberiana pare invincibile; e in un certo senso lo è, certo che lo è. Ma l’anima e il cuore dell’uomo, anche quando dormono, restano quelli che sono sempre stati. Nelle loro profondità, ci sono miniere d’oro di bontà e fermezza, e abissi di malvagità e violenza. Chi, ormai, sa scendervi e recarvi la luce  “come quei che va di notte, che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte” [13] ?

Io no, e tu neanche, caro lettore progressista. Se ti azzardi a mettere piede sulle vertiginose scalinate, incise da Gustave Doré, che conducono nelle profondità ctonie dell’anima umana, e per illuminarti la via ti munisci della lampadina “antifascismo”, alimentandola con le batterie “diritti, accoglienza, eguaglianza”, temo che presto, molto presto resterai al buio, inciamperai e ti romperai l’osso del collo.

Temo che questo sia un momento solenne e terribile, caro lettore. Temo che l’endiadi dell’omicidio orribile della ragazzina sbandata, e la vendetta atroce e ridicola del giovane balordo, siano il segnale che si è mosso l’Acheronte. Ricordi L’interpretazione dei sogni di Freud, che hai comprato insieme a “la Repubblica” tanti anni fa? Ricordi l’exergo? “Si flectere nequeo Superos / Acheronta movebo”. Se non riesco a piegare gli Dei celesti, muoverò l’Acheronte: che è il fiume infernale. Questi due orribili fatti di sangue, caro lettore, temo proprio siano due schizzi dell’acqua d’Acheronte, che hanno bagnato la piccola città italiana di Macerata. Che Dio, il Dio “che vuole misericordia e non sacrifici” ci aiuti tutti, anche se non ce lo meritiamo.

[1] https://www.laleggepertutti.it/122839_porto-darmi-tipologie-previste-e-requisiti

[2] http://www.repubblica.it/cronaca/2018/02/05/news/macerata_11_i_migranti_presi_di_mira_da_traini-188082521/

[3] https://www.amazon.it/dahomey-schiavi-Analisi-uneconomia-arcaica/dp/8806593919

[4] L’episodio chiave che marca la differenza tra le religioni abramitiche e le altre è il sacrificio di Isacco. Dio ingiunge ad Abramo di sacrificare l’unico figlio Isacco. Abramo è sconvolto dal dolore, ma nient’affatto sconvolto dalla richiesta in sé e per sé: non trova insensato che il suo Dio gli chieda un sacrificio umano, perché per lui e per tutti i suoi contemporanei è scontato e normale che agli Dei si debbano sacrifici: e il sacrificio più pregiato è, naturalmente, il sacrificio umano. Tra i sacrifici umani, il più elevato è il sacrificio del figlio primogenito, il possesso più prezioso del sacrificante. Ma quando Abramo è sul punto di affondare il coltello nella vittima sacrificale, l’Angelo di Dio gli ferma la mano e gli dice: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio» (Gen. 22,13). Ricordo di passaggio l’opera di René Girard, recentemente scomparso, tutta incentrata intorno al tema del sacrificio umano e del suo disvelamento nel cristianesimo.

[5] V. J. Omosade Awolalu, Yoruba Sacrificial Practice, “Journal of Religion in Africa” Vol. 5, Fasc. 2 (1973), pp. 81-93 http://www.jstor.org/stable/1594756

[6] Karin Barber, How man makes God in West Africa: Yoruba attitudes towards the Orisa, International African Institute 1981 https://www.cambridge.org/core/journals/africa/article/how-man-makes-god-in-west-africa-yoruba-attitudes-towards-the-orisa/AB2C604A49D9A4D1712082F22E2C52BA

 

[7] V. Yoruba Sacrificial Practice, cit.

[8] Patrick Egdobor Igbinova, Ritual Murders in Nigeria, 1 april 1988, in “Internation Journal of Offender Therapy and Comparative Criminology” http://journals.sagepub.com/doi/abs/10.1177/0306624X8803200105

[9] Qui un’intelligente recensione di: Wole Soyinka, The Bacchae of Euripides: A Communion Rite https://www.jstor.org/stable/41153657

[10] Jenkeri Zakari Okwori, A dramatized society: representing rituals of human sacrifice as efficacious action in Nigerian home-video movies, in “Journal of African Cultural Studies” Volume 16, 2003 – Issue 1 http://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/1369681032000169230

 

[11] Charles Baudelaire, “Au lecteur”, in Les fleurs du mal, 1861. Qui testo originale e traduzione italiana con una analisi ben scritta. Invito a leggere o rileggere perché molto a proposito: http://charlesbaudelaireifioridelmale.blogspot.it/2011/04/au-lecteur-al-lettore-poesiaprologo.html

[12] Eccone uno, che fa bene al cuore più straziato, e lo placa: https://youtu.be/Z5WUO7hsgCA

[13] Purg. 22, 67-69

Taccuino francese: il ritorno della Vandea, di Roberto Buffagni

Taccuino francese: il ritorno della Vandea

 

Nello scorso novembre, Patrick Buisson[1] ha pubblicato un libro molto interessante: La grande histoire des guerres de Vendée[2]. Non l’ho letto, ma da quel che ne dicono le recensioni non credo ci racconterà  molto di nuovo sulla terribile repressione rivoluzionaria dell’insorgenza vandeana.

Il libro resta di grande interesse, ma per altre ragioni. Anzitutto, per l’autore. Patrick Buisson è uno storico, un giornalista e un militante politico di primo piano della destra francese. E’ stato consigliere di Sarkozy nella sua prima campagna elettorale (2007); seguendo i suoi consigli, Sarkozy non solo ha vinto le elezioni presidenziali, ma per la prima e unica volta nella storia politica francese ha strappato sette punti elettorali al Front National. La campagna elettorale suggerita da Buisson, che appartiene alla destra francese conservatrice di ascendenza maurrassiana[3], batteva su tutti i temi cari al FN, anzitutto l’identità nazionale (alla quale fu poi intitolato un ministero). Buisson, però, nel corso della presidenza Sarkozy, ha dovuto toccare con mano le conseguenze di una circostanza che non gli sarà sfuggita, ma che forse aveva sottovalutato: l’altro principale consigliere del suo candidato era Alain Minc[4], cioè l’esatto opposto ideologico di Buisson, un liberal-progressista che “ha superato la distinzione destra/sinistra”; e infatti, nell’elezione presidenziale del 2017 Minc ha sostenuto la candidatura del centrista républicain Alain Juppé finché ha avuto chances, per poi passare nel campo di Emmanuel Macron, il candidato su misura per lui. In sintesi: Sarkozy, un abile tattico senza principi, ha usato la linea conservatrice e populista di Buisson in campagna elettorale per prendere voti, e una volta al governo ha seguito la linea liberal-progressista di Minc (così perdendo l’elezione del 2012). Insomma: passata la festa, gabbato lo santo.

Non l’ha presa bene, Buisson. Dopo un ultimo tentativo con Sarkozy nel 2012, quando ha tentato inutilmente di persuadere sia il candidato sia il partito a uscire dalla trappola del Front Républicain – la conventio ad excludendum contro il Front National costruita da Mitterrand per garantire ai socialisti il congelamento di metà della destra francese, e la rendita di posizione che ne conseguiva per il PS – Buisson si è allontanato dai Républicains, ha pubblicato La cause du peuple, un libro di violentissima critica a Sarkozy e alla destra liberale[5] che ha avuto spinosi contraccolpi giudiziari, e si è dedicato alla battaglia politico-culturale per la riforma della destra francese.

L’obiettivo strategico della battaglia di Buisson è la fondazione di una destra conservatrice autentica, accomunata da tradizioni, valori e ideologie non liberali o francamente antiliberali (gaullisti di destra e gaullisti sociali, cattolici reazionari, maurrassiani, etc.). Sul piano operativo, l’obiettivo si può raggiungere solo attraverso una spaccatura e una rifondazione: la spaccatura dei Républicains tra liberali/conservatori non liberali e antiliberali, e la rifondazione del Front National su basi nazionaliste, antiliberali, conservatrici, cattoliche (grossolanamente: la linea che si identifica in Marion Maréchal Le Pen[6], contro quella che si identifica in Marine, e prima di Marine in Florian Philippot[7]). In termini pragmatici, per Buisson i conservatori francesi, sinora politicamente rappresentati dai Républicains, devono prendere la guida di una nuova formazione politica di destra antiliberale e antiprogressista, e diventare il corpo ufficiali di un esercito le cui truppe sono costituite dall’elettorato popolare, sociologicamente e geograficamente periferico, del Front National.

Un’altra ragione d’interesse de La grande histoire des guerres de Vendée è il suo prefatore, Philippe de Villiers[8]. Il visconte vandeano Philippe de Villiers è stato leader del fronte sovranista che nel referendum del 2005 bocciò la proposta di costituzione europea promossa dalla UE; ed è fratello maggiore di Pierre de Villiers[9], il capo di stato maggiore delle FFAA francesi che si è recentemente dimesso (applaudito dalle truppe) dopo un violento scontro con il presidente Macron sui finanziamenti alle forze armate.

Terza e ultima ragione d’interesse del libro, il suo soggetto. Non solo perché la guerra civile di Vandea e il terrore di Stato che sterminò  i combattenti vandeani sono una memoria tuttora viva e politicamente attiva in Francia; ma perché non ho il minimo dubbio che Buisson abbia sottolineato, nel suo libro, come la Convenzione rivoluzionaria abbia decretato la durissima repressione delle insorgenze legittimiste e cattoliche sulla base di un consenso elettorale che definire minoritario è dir poco: su 7 MLN di aventi diritto (suffragio ristretto), solo il 10% espresse un voto valido. L’analogia con la ridotta legittimazione popolare di Emmanuel Macron (al secondo turno, 40% circa sul totale degli aventi diritto, con un record storico di astensione e schede bianche o nulle) è lampante[10].

Non è da ieri che uomini di cultura e politici propongono alle destre francesi questa linea francamente conservatrice, che non è mai riuscita ad affermarsi. Ma rispetto a ieri, oggi c’è una grossa novità: che il successo di Emmanuel Macron l’ha resa l’unica linea politica praticabile, se la destra francese non vuole mettere una pietra tombale sulla sua lunga storia. L’abilissima operazione di “taglio delle estreme” che ha condotto Macron alla presidenza ha resuscitato la “destra di situazione” liberale e orleanista[11] che si cristallizzò nel 1830: nell’odierna riedizione, i centristi e gli europeisti/mondialisti di entrambi i maggiori partiti francesi, PS e Républicains, vengono risucchiati dal “movimento di governo” En Marche!  e svuotano dall’interno i partiti da cui provengono. Li svuotano di personale politico, di clientele, di voti, di finanziamenti e soprattutto di ragioni d’esistere. Li svuotano di ragioni d’esistere, perché a dettare la strategia politica tanto del PS quanto dei Républicains è tuttora il paradigma del Front Républicain, l’adattamento francese dell’ “arco costituzionale antifascista” italiano inventato da Mitterrand negli anni Ottanta[12]: e come hanno dimostrato plasticamente le presidenziali del 2017, non esiste blocco sociale, ideologia, formazione politica più adatta ed efficace per battere il Front National del centrismo orleanista di Macron, che si situa all’esatto opposto del blocco sociale e dell’ideologia del Front National e ne è per così dire il negativo fotografico.

Quindi, chi all’interno del PS e dei Républicains vuole ritrovare ragioni d’esistere al di là del nudo e crudo richiamo della gamelle, e non si vuole allineare con il centrismo orleanista di Macron, è costretto a spezzare il cerchio magico del Front Républicain, e a prendere atto che è finita l’alleanza storica tra il liberalismo e il conservatorismo a destra, tra il liberalismo e il socialismo a sinistra. Esattamente come nel 1830, il  liberalismo puro coincide, oggi, con il pensiero e le forze economiche e politiche socialmente dominanti. C’è però una differenza sostanziale tra il 1830 e il 2018, una differenza che è la chiave politica di tutto: che nel 1830 il suffragio elettorale era censitario e ristretto, nel 2017 universale: e per quanto il sistema politico-mediatico possa manipolarlo con le campagne di guerra psicologica, con le leggi elettorali maggioritarie, etc., non può permettersi di abolirlo, perché il suffragio universale è la “formula politica” (Mosca)[13] che lo legittima. E’ questo, il punto debole del liberalismo, che è democratico soltanto suo malgrado. Il liberalismo non è mai riuscito a diventare “popolare”, perché sin dalla sua premessa metodologica non si rivolge ai popoli e alle comunità, ma agli individui.

In sintesi. Stravincendo e mettendo con le spalle al muro tanto la sinistra quanto la destra, il liberalismo orleanista di Macron costringe entrambe ad affrontare e tentar di sciogliere un nodo metapolitico di portata storica: la dialettica dell’illuminismo e il precipitato storico della Rivoluzione francese. Il mondialismo liberale è la manifestazione storica della dialettica dell’illuminismo, del progressismo e dell’universalismo, culturale e politico, che li accompagna. Illuminismo e universalismo sono trascrizioni secolarizzate – amputate della dimensione metafisica e propriamente religiosa – del cristianesimo. L’opposizione al mondialismo è dunque costretta ad essere, volens nolens, opposizione all’illuminismo e all’universalismo politico[14]; e la linea di frattura politica che divide i campi tende a coincidere con la linea di frattura culturale che divide l’Europa sin dal tempo delle guerre di religione[15].

Ecco perché nel 2018 ritorna di attualità la Vandea. Ed ecco perché nella campagna elettorale presidenziale del 2017 due soli candidati hanno incentrato la loro proposta intorno alla ripetizione della parola “patrie”: Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon. Per Marine, non c’è bisogno di spiegare. Per Mélenchon, la spiegazione che propongo è questa: con la reiterazione martellante della parola “patrie”, Mélenchon manifesta il tendenziale distacco della sinistra francese dal liberalismo, e cerca di ritrovare le radici democratiche rousseauiane della sinistra giacobina e socialista. Non è un caso che anche Alain de Benoist, che ha designato il liberalismo come nemico principale del suo campo politico, abbia dedicato una crescente attenzione a Rousseau[16]: perché il liberalismo trionfante tende a separarsi dalla democrazia.

I progetti di ridefinizione politica e partitica oggi in corso in Francia e non solo in Francia, insomma, sono la manifestazione di superficie di un movimento tettonico profondissimo, che costringe gli europei e gli occidentali a ripensare la loro storia, la loro filosofia e la loro religione (o irreligione). Proprio per questo, le vicende politiche francesi che ho brevemente illustrato sin qui interessano direttamente anche l’Italia. Le differenze storiche tra le culture politiche francese ed italiana sono molte, e non superficiali. Ma in profondità, il sommovimento geologico culturale tocca l’Italia come la Francia. Ne vedremo, probabilmente, gli effetti di superficie dopo le prossime elezioni politiche del marzo 2018. Anche da noi, il blocco sociale e politico liberale tenterà di operare il “taglio delle estreme”, con l’ausilio, a destra, delle quinte colonne Berlusconi e Maroni, a sinistra delle formazioni dissidenti dal PD, e usando come massa di manovra il Movimento 5 Stelle, che grazie alla sua “impoliticità”[17] si candida a essere usato come “ago della bilancia” in una manovra machiavellica di superamento della distinzione tra destra e sinistra storiche. Se l’operazione “taglio delle estreme” riuscirà, l’effetto a breve termine sarà devastante per il campo antimondialista e antiUE; a medio e lungo termine, però, sarà benefico e liberatorio, perché farà coincidere la linea di frattura politica con la linea di frattura culturale e sociale reale e principale.

[1] https://fr.wikipedia.org/wiki/Patrick_Buisson. Per una esposizione approfondita delle sue posizioni, i francofoni possono seguire questa sua conferenza del maggio 2017: https://youtu.be/Hj_B708sCWY

[2] La grande histoire des guerres de Vendée, Perrin, Paris 2017

[3] https://fr.wikipedia.org/wiki/Nationalisme_int%C3%A9gral

[4] https://fr.wikipedia.org/wiki/Alain_Minc

[5] Qui una recensione simpatizzante : https://www.polemia.com/la-cause-du-peuple-de-patrick-buisson/

[6] https://fr.wikipedia.org/wiki/Marion_Mar%C3%A9chal-Le_Pen

[7] https://fr.wikipedia.org/wiki/Florian_Philippot

[8] https://fr.wikipedia.org/wiki/Philippe_de_Villiers

[9] https://fr.wikipedia.org/wiki/Pierre_de_Villiers_(militaire)

[10] http://www.lefigaro.fr/elections/presidentielles/2017/05/07/35003-20170507ARTFIG00164-apres-une-abstention-et-un-vote-blanc-record-macron-attendu-au-tournant.php; https://www.rtbf.be/info/monde/detail_presidentielle-francaise-emmanuel-macron-obtient-66-06-de-voix-selon-les-resultats-quasi-definitifs?id=9600231

[11] Ne ho parlato diffusamente qui: http://italiaeilmondo.com/2017/09/29/taccuino-francese-che-cosa-ci-insegna-la-crisi-del-front-national-di-roberto-buffagni/ . “Destra di situazione” significa una destra che non è tale per i valori e l’ideologia che propone, ma per il posizionamento relativo nella dialettica parlamentare; come fu appunto la destra orleanista nel 1830, che a sinistra escludeva repubblicani e bonapartisti, a destra i legittimisti.

[12] Mitterrand, un politico di abilità machiavellica, fece di tutto per promuovere a dignità di pericolo nazionale il Front National di Jean-Marie Le Pen, erede di Vichy e dell’OAS, piazzandolo nello spettro politico-ideologico allo stesso posto in cui stavano il fascismo e i suoi eredi in Italia, così ridefinendo i confini della legittimità politica in Francia a scapito della destra, e garantendo alla sinistra un vantaggio permanente in ogni competizione elettorale. A sinistra, nessun nemico (Mitterrand vinse la sua prima campagna presidenziale, nel 1981, con l’appoggio decisivo del Partito Comunista Francese, allora forte di un 15% di voti) a destra, un confine invalicabile.

[13] https://fr.wikipedia.org/wiki/Gaetano_Mosca

[14] Ne ho parlato qui: http://italiaeilmondo.com/2017/09/29/taccuino-francese-che-cosa-ci-insegna-la-crisi-del-front-national-di-roberto-buffagni/

[15] Ne ho parlato, dialogando con Alessandro Visalli, a proposito della “Dichiarazione di Parigi” firmata da un gruppo di studiosi conservatori di chiara fama: http://italiaeilmondo.com/category/dossier/autori-dossier/roberto-buffagni/

[16] Qui un articolo liberamente scaricabile: https://s3-eu-west-1.amazonaws.com/alaindebenoist/pdf/relire_rousseau.pdf

[17] E’ “impolitico” un movimento politico che non designa l’avversario, e dunque non designa neppure l’amico. La sua impoliticità lo predispone all’eterodirezione, all’essere usato come massa di manovra e come “ago della bilancia” in una manovra politica spregiudicata “al di là della destra e della sinistra”.

DISINFORMAZIONE, UN BREVE VADEMECUM_1a parte, di Roberto Buffagni

Vademecum: la disinformazione, che cos’è e come funziona

capitolo uno

 

Premessa generale: il linguaggio umano si differenzia da tutti gli altri perché è capace di mentire.

In questo vademecum che mi accingo a scrivere, esporrò brevemente le caratteristiche principali della disinformazione. Il tema è vastissimo, io non sono uno specialista e questo non sarà un trattato: sarà un agile e breve manualetto, appunto un vademecum, che si propone il modesto scopo di aiutare il lettore a riconoscere la disinformazione e a evitarla, insomma a non abboccare. Saranno benvenuti critiche, obiezioni, aggiunte e suggerimenti dei lettori.

Cominciamo dal principio, con una classificazione elementare dei tipi di disinformazione.

I tipi fondamentali di disinformazione sono: lo stratagemma, l’intossicazione, la propaganda bianca, la propaganda nera, l’influenza.

  1. Stratagemma. Esiste da sempre. Nel combattimento individuale è la finta: finti col sinistro, l’avversario si scopre per parare, colpisci col destro; nel combattimento tra formazioni è la diversione: attacchi con un reparto a est per attirare colà il nemico, colpisci con il grosso delle tue forze a ovest. I greci abbandonano l’assedio, si allontanano sulle navi (nascondendole dietro l’isolotto di Tenedo), lasciano sulla riva il cavallo di legno (farcito di armati), i troiani esultano, eccetera. Questo celebre stratagemma contiene anche un’intossicazione (v. 2) perché i greci fanno credere ai troiani che il cavallo sia un’offerta ad Atena, ciò che li persuade a trasportarlo in città.
  2. Intossicazione. Rifilare al nemico dei falsi segreti. Nella definizione lapidaria del colonnello André Brouillard (Pierre Nord, artista francese del controspionaggio) “consiste nel far credere all’avversario quel che dovrebbe credere per precipitare nella sconfitta, militare o politica”. Hitler fa credere a Stalin che nel corpo ufficiali sovietico si cospira con la Germania per rovesciare l’URSS: Stalin fa giustiziare metà del corpo ufficiali. Gli Alleati vogliono sbarcare in Sicilia, fanno trovare ai tedeschi, al largo delle coste spagnole, un cadavere di ufficiale inglese: nelle sue tasche, prove indiziarie di un prossimo sbarco in Grecia. Hitler sposta in Grecia una parte delle truppe e del naviglio stazionato in Sicilia. Il principio dell’intossicazione è: ingannare il nemico in merito alla fonte dell’informazione.
  3. Propaganda bianca. La propaganda bianca consiste nel ripetere, molte volte e con molte variazioni: “Noi siamo meglio di voi”[1]. Il limite intrinseco della propaganda bianca è che dichiara la sua fonte. Siccome il bersaglio della propaganda è il nemico o l’avversario politico, va dato per scontato che egli nutrirà un pregiudizio sfavorevole riguardo al suo contenuto, cioè che ne diffiderà. Il fatto che la propaganda bianca sia veritiera può essere utile, ma non sempre risolutivo (non scrivo “mai” perché il cinismo è pericoloso in questo campo, menoma l’immaginazione). Guerra fredda: la propaganda bianca del campo anticomunista dice che l’Occidente è più ricco e più libero del campo comunista povero e dispotico, la cosa è effettivamente vera ma non persuade i comunisti e i loro simpatizzanti del campo occidentale, compresi fior d’intellettuali che potrebbero sapere come stanno le cose, o addirittura concretamente lo sanno, ma riescono a convincersi che non stanno così. Ai cittadini sovietici la propaganda bianca non arriva, o arriva in dosaggi insufficienti. Sintesi: la forza di penetrazione psicologica della propaganda bianca è limitata; per essere efficace, la propaganda bianca deve affidarsi alla quantità e alla ripetizione incessante: in questo somiglia ai bombardamenti terroristici “a tappeto” impiegati dagli Alleati nella IIGM, non diretti a obiettivi militari ma a intere popolazioni civili. La propaganda bianca “a tappeto” ottiene risultati sia perché diventa impossibile sfuggirle, sia soprattutto perché produce effetti di siderazione nel bersaglio. “Siderazione” significa paralisi delle capacità volitive in seguito a choc; la siderazione induce spesso timore reverenziale di fronte alla potenza sovrumana che si dispiega e ci colpisce, come di fronte a un’epifania della divinità[2]. Esempio contemporaneo: l’effetto frastornante e suggestivo delle tempeste mediatiche che ci bersagliano quando l’emittente della propaganda bianca ha una posta rilevante in gioco. Esempio, una guerra da legittimare, una competizione elettorale importante di cui vuole teleguidare il risultato, etc.
  4. Propaganda nera. La propaganda nera si differenzia dalla propaganda bianca perché mente sulla sua origine. Non è identica all’intossicazione, perché mentre l’intossicazione mira a far credere all’avversario una singola informazione, la propaganda nera mira a diffondere sfiducia nel campo avversario, per abbatterne il morale. Esempio: l’inglese Sefton Delmer, nella IIGM, crea diverse stazioni radio che si presentano come radio tedesche, favorevoli al regime nazista. Quando la popolazione di Amburgo sfolla verso l’Est in seguito ai bombardamenti, una radio di Delmer trasmette questo comunicato: “Il dottor Conti, Ministro della Sanità del Reich, si congratula con gli ufficiali medici dei centri di raccolta per l’infanzia siti nel Gau Warteland [dove sfollano gli amburghesi] per la devozione esemplare con la quale curano l’epidemia di difterite che si è manifestata tra i bambini che hanno in cura. Esprime altresì l’auspicio di vederli trionfare sulla tragica penuria di medicinali, e di ridurre così il tasso di mortalità a una media di sessanta morti la settimana.” La propaganda nera ha una forza di penetrazione psicologica molto maggiore della propaganda bianca, appunto perché, mentendo sulla propria fonte, può contare (se eseguita a regola d’arte) sul pregiudizio favorevole del bersaglio, che si fida. A differenza della propaganda bianca, però, la propaganda nera non può e non deve essere diffusa in dosaggi massicci, “a tappeto”. Non punta sulla quantità e sulla siderazione della potenza, ma sulla qualità dell’inganno (adesione perfetta allo stile della falsa fonte e alla mentalità del bersaglio) e sulla diffusione lenta e capillare. La propaganda nera, insomma, ha bisogno di artisti dell’inganno e di tempo, tanto tempo, per produrre i suoi effetti. Un esempio contemporaneo di propaganda nera, iniziato nel corso della IIGM, è il diluvio di attributi disonoranti che i media rovesciano sul popolo italiano, al quale sono sistematicamente addebitati i difetti e le tare morali e civili più infamanti e ridicoli. Che gli italiani abbiano davvero tare e difetti è del tutto irrilevante, perché ne hanno tutti i popoli. La differenza è che agli altri popoli, tare e difetti non vengono sistematicamente addebitati, e l’effetto di comparazione è dunque profondamente debilitante e demoralizzante per il popolo italiano. Questo esempio riuscitissimo di propaganda nera sfuma nell’influenza (v. 5) perché è stato compiuto servendosi di agenti d’influenza e casse di risonanza (v. 5).
  5. Influenza. L’influenza ricorre, talvolta, alle tecniche dell’intossicazione e della propaganda nera, ma è infinitamente più raffinata. L’influenza non mira semplicemente a diffondere informazioni false o sfiducia, mira a destabilizzare l’intero campo avversario. Al campo che emette l’influenza non importa sapere se i primi effetti della sua azione andranno a suo proprio immediato vantaggio, a patto che gli effetti d’eco dell’azione d’influenza siano nocivi per il campo avverso. L’influenza è una tecnica raffinata, che non può fare ricorso agli strumenti grossolani della propaganda bianca: chiunque esprima aperta simpatia per il campo emittente l’influenza, diventa inservibile e va evitato con cura. L’influenza si opera per mezzo di agenti d’influenza e casse di risonanza. Gli agenti d’influenza sono persone interne al campo-bersaglio, situate in posizioni dirigenziali, soprattutto nei media, che operano consapevolmente a favore del campo emittente l’influenza: esempio, un direttore di giornale. Le casse di risonanza sono persone o gruppi di persone interne al campo-bersaglio, che per le più varie ragioni diffondono, inconsapevolmente, l’azione d’influenza: il giornalista che scrive quel che gli ordina il direttore-agente d’influenza, o il giornalista che condivide gli scopi apparenti dell’operazione d’influenza, per esempio la pace nel mondo o la sconfitta del fascismo; oppure, semplicemente il lettore di giornali, che ne diffonde le opinioni chiacchierando in casa, sul lavoro, al bar. Esempio storico: nel corso della guerra fredda, in Europa occidentale l’URSS appoggia a loro insaputa formazioni anticomuniste accesamente nazionaliste, perché sono anche antiamericane. Il partito degli emigrati russi Giovane Russia si dichiara monarchico e adotta uno stile parafascista, ma è infiltrato e manipolato dal KGB, che lo usa per far pensare che tutti gli oppositori dell’URSS siano così, reazionari, illusi, fascistoidi. Esempio contemporaneo: la diffamazione sistematica tuttora corrente del popolo italiano (v. 4, propaganda nera). Nel corso della guerra civile, e dopo la vittoria alleata nella IIGM, gli Alleati e in particolare i britannici insediano in Italia, in posti di responsabilità, diversi tecnici della guerra psicologica, tra i quali ad esempio Renato Mieli, primo direttore dell’ANSA e padre di Paolo Mieli[3]. I partiti italiani riuniti nel CLN hanno l’interesse immediato di addebitare tutta la colpa della guerra perduta al regime fascista, tutto il merito della vittoria alla Resistenza, cioè a se medesimi. I tecnici della guerra psicologica alleati appoggiano questa naturale inclinazione a dividere gli italiani in due categorie: i fascisti (cattivi, arretrati, reazionari, corrotti, pericolosi, perdenti) e gli antifascisti (buoni, moderni, onesti, pacifici, vittoriosi) e iniziano un’operazione di propaganda nera ai danni degli italiani fascisti, accentuandone tare e difetti: spesso reali, beninteso, basti ricordare l’8 settembre. Si tratta però di propaganda nera, che non dichiara la propria fonte (britannica, alleata) che si trasforma in influenza perché si serve di agenti d’influenza italiani (es., Renato Mieli) e di casse di risonanza (gli antifascisti). Gli agenti d’influenza impegnati in quest’ operazione scelgono, di preferenza, di posizionarsi tra i comunisti (come Renato Mieli che fu per nove anni direttore de “L’Unità”) e più tardi nella sinistra extraparlamentare, anche estremista. Comunisti e sinistra extraparlamentare sono fieramente, rumorosamente avversi al campo americano e britannico (perché anticomunista e capitalista) dunque la fonte ideale per un’operazione d’influenza, che non deve mai partire da chi esprima aperta simpatia per il campo emittente. L’operazione di propaganda nera si trasforma, nei decenni, in azione d’influenza coronata da larghissimo successo. Gli agenti d’influenza e le casse di risonanza tengono in vita l’antifascismo per decenni, anche dopo la totale sparizione del fascismo, e così possono affibbiare colpe e tare spregevoli ai loro avversari più scomodi, qualificati di “fascisti” in aeternum. [4] Procede parallelamente, ormai sospinta dalla forza d’inerzia delle abitudini inveterate, la routinaria demoralizzazione sistematica degli italiani, che indebolisce e divide la nazione e lo Stato e concorre validamente a far raggiungere al campo emittente l’operazione d’influenza il suo obiettivo politico-militare principale: il controllo del Mediterraneo, difficile da ottenere se l’Italia è coesa nel perseguimento dello scopo geopolitico che le dettano posizione geografica e interesse nazionale.

E’ appena il caso di aggiungere che le operazioni d’influenza, come questa anglosassone ai danni dell’Italia che ho appena sommariamente descritto, non creano dal nulla una mentalità o una cultura politica, ma fanno leva su opinioni e persuasioni già esistenti nel paese-bersaglio. I complotti, cioè i disegni segreti, esistono eccome, ma non creano la realtà: le danno una spintarella, a volte ininfluente, a volte decisiva.

Con questo importante caveat concludo il primo capitolo del vademecum. Nel secondo capitolo illustrerò la disinformazione nel senso esteso, o dezynformatsjia, come l’hanno creata nel 1959 i grandi artisti del Direttorato D del KGB, guidato dal Generale Agayantz (poi Direttorato A, capeggiato dal braccio destro di Agayantz, gen. Kondracev).

I servizi segreti sovietici, che si riallacciavano alla grande tradizione dell’Okhrana –  la polizia segreta zarista che cucinò e diffuse I protocolli dei Savi di Sion piratando il semisconosciuto libello satirico Dialogue aux enfers entre Machiavel et Montesquieu – si avvalsero anche della prossimità geografica e culturale con l’Asia, in particolare studiando Sun Tzu, testo obbligatorio all’Accademia Frunze sin dagli anni Quaranta (oggi in tutte le accademie militari del mondo).

Come introduzione al prossimo capitolo del vademecum, ecco una serie di precetti tratti da L’arte della guerra di Sun Tzu.

  1. Screditate tutto ciò che è buono nel paese nemico
  2. Implicate i membri della classe dirigente del nemico in imprese criminali
  3. Distruggete la loro reputazione e al momento opportuno, consegnateli all’indignazione dei loro concittadini
  4. Servitevi della collaborazione degli esseri più vili e abominevoli
  5. Disorganizzate con ogni mezzo l’azione del loro governo
  6. Diffondete la discordia e le liti tra i loro cittadini
  7. Istigate i giovani contro i vecchi
  8. Ridicolizzate le tradizioni dei vostri nemici
  9. Intralciate con tutti i mezzi l’intendenza e i rifornimenti dell’esercito nemico [N.B.= danneggiate l’economia del nemico]
  10. Indebolite la volontà dei guerrieri nemici con musica e canzoni sensuali
  11. Inviategli delle prostitute per completare l’opera di distruzione
  12. Siate generosi nelle promesse e nei doni per procurarvi informazioni. Non lesinate, perché il denaro speso a questo fine vi frutterà un ricco interesse
  13. Infiltrate dappertutto le vostre spie

 

 

 

 

[1] O, a seconda dei casi e del contesto storico, “Non ci sono alternative a noi”.

[2] V. La dottrina militare USA proposta dai neoconservatori USA (e impiegata sul campo nell’operazione Desert Storm) intitolata “Shock and Awe”, “Siderazione e Timore Reverenziale”. https://it.wikipedia.org/wiki/Shock_and_awe

[3] https://it.wikipedia.org/wiki/Renato_Mieli

[4] Com’è come non è, spesso questi avversari politici “fascisti” manifestano, più o meno coraggiosamente, l’intenzione di difendere l’interesse nazionale italiano…

Tutto finisce a questo mondo, anche gli imperi_ di Roberto Buffagni

 

Italiaeilmondo ha appena pubblicato, qui: http://italiaeilmondo.com/2018/01/08/il-piano-a-il-piano-b-il-piano-c_-le-attenzioni-su-trump-a-cura-di-giuseppe-germinario/  un’ interessante e preoccupante intervista a Roger Stone, che ci permette di sbirciare dal buco della serratura uno scorcio della violenta lotta di potere in corso a Washington. Alla radice di questo scontro c’è un nodo di importanza storica: l’Impero americano ha superato il culmine della sua parabola ascendente, è overextended, incerta la sua egemonia mondiale, in crisi il suo sistema di alleanze e la sua coesione interna; e la sua potenza militare, per quanto tuttora insuperata, colleziona da decenni vittorie operative e sconfitte strategiche. Le risposte possibili alla sfida sono due: un rilancio di potenza espansiva, o un ripiegamento strategico. La prima risposta può rivelarsi una fuga in avanti dalle conseguenze imprevedibili e potenzialmente rovinose, la seconda un consolidamento in apparenza saggio, ma in realtà più pericoloso della fuga in avanti, perché di fatto irrealizzabile.

I due campi non coincidono al millimetro con i due grandi partiti americani, anche se nel Partito Democratico la vocazione mondialista è maggioritaria e consolidata, e la tradizione nazional-conservatrice, per quanto minoritaria, non è del tutto spenta nel Partito Repubblicano. Gli interpreti più autentici della risposta “rilancio di potenza” sono i neoconservatori, un gruppo di potere “mondialista” ideologicamente coeso ma politicamente bipartisan. I sostenitori della risposta “ripiegamento strategico” sono un gruppo di potere grosso modo “nazionalista”, ideologicamente frammentato, politicamente radicato nell’ala dissenziente del Partito Repubblicano e nella galassia apartititica della Alt-Right.

L’urgenza di dare una risposta al problema storico dell’Impero si è manifestata nell’ascesa alla Presidenza di Trump, un uomo estraneo all’establishment imperiale; la violenta reazione dell’establishment illustra quanto alta sia la posta in gioco, e gareggiando in avventatezza con la sconclusionata direzione politica di Trump, rischia di scassare e delegittimare le istituzioni statunitensi.

Che una decisa sterzata alle strategie imperiali americane sia necessaria, sembra chiaro. Il problema è che la politica, come in generale la vita umana, è tragica perché non si fa con il senno di poi, ma nell’angoscia dell’ignoranza e dell’incertezza, e sotto il gravame delle scelte, degli errori e delle colpe del passato. Ad esempio: è possibile cambiare non solo direzione, ma natura dell’Impero americano? Perché un consolidamento difensivo imperiale, come quello proposto da E. Luttwak nel suo recente libro La grande strategia dell’impero bizantino[1], sembra sì una scelta prudente e quasi obbligata: ma non è affatto detto che sia una scelta possibile. Sin dalla loro nascita, gli Stati Uniti d’America si trovano di fronte due vie possibili: repubblica (confederale, aristocratica, centripeta) o impero (federale, democratico, centrifugo). Il bivio è così profondamente inciso nell’immaginazione americana che lo ritroviamo, tale e quale tolto il nodo della schiavitù, nella saga di maggior successo di tutta la storia del cinema, Guerre stellari. Per ottant’anni gli USA sono riusciti a rinviare la scelta della via da imboccare, ma il 12 aprile 1861 il momento della scelta è arrivato, ed è costato circa 750.000 caduti sul campo, più la morte di un numero imprecisato di civili e uno strascico di divisioni e rancori non ancora riconciliati. Stime recenti valutano le sole perdite sul campo in un 10% di tutti i maschi in età militare  (20-45 anni) al Nord, 30% al Sud.

La vittoria dell’opzione federale ha deciso anche la natura sui generis dell’Impero americano: un impero democratico e ideocratico (vi si appartiene per adesione ideologica, non per radicamento territoriale, etnico, storico), e dunque costantemente espansivo, non ecumenico (centro di un mondo) ma tendenzialmente universale: il simbolo immaginale più profondamente impresso nella psiche americana, da allora in poi, sarà la Frontiera, che sempre va inseguita e sempre si allontana, come l’orizzonte dominato dallo sguardo dell’animale totemico degli USA, l’aquila marina incisa sul Grande Sigillo del Governo Federale americano[2].

In estrema sintesi e sul piano strettamente politico, il dubbio è questo: è possibile all’Impero sui generis americano rinunciare all’espansione illimitata, riconvertirsi e consolidarsi in una repubblica nazionale che si limita a dominare il Continente e a intervenire nel mondo solo quando sono in gioco i suoi interessi vitali? Perché dalla fine della Guerra di Secessione in poi, le molteplici e profonde linee di frattura politica interne alla madrepatria imperiale – fra Stati e governo federale, fra Stati del Nord e del Sud, fra etnie, lingue e razze, fra centri e periferie, fra confessioni religiose, fra confessioni religiose e laicismo politically correct, etc.  –  non hanno innescato conflitti incomponibili perché tutte le mille frizioni latenti sono state deviate e risolte nell’espansione imperiale: ideologica, militare, economica, e last but not least psichica; perché gli USA sono un impero euforico e geneticamente ottimista: il tono del suo umore è maniaco-depressivo, e la fine della fase maniacale lo precipita in una depressione psichica che innesca una crisi politica profonda, come dimostra l’altra crisi che, dopo la Guerra di Secessione, ha messo a rischio l’esistenza simbolica degli USA: la Grande Crisi del 1929.

L’Impero statunitense può essere distrutto soltanto dall’interno, come sapeva bene il suo fondatore Abraham Lincoln: “Dovremmo temere che qualche gigantesca potenza militare d’oltreoceano lo attraversi e ci schiacci in un colpo? Mai! Tutti gli eserciti di Europa, Asia e Africa congiunti, con tutti i tesori della terra (escluso il nostro) a finanziarli, con un Bonaparte a comandarli, mai riuscirebbero con la forza a bere un sorso del fiume Ohio o a tracciare un sentiero sul Blue Ridge, neanche se ci provassero per mille anni. Da dove dobbiamo temere che venga, allora, il pericolo? Rispondo. Se mai il pericolo ci raggiungerà, esso dovrà scaturire in mezzo a noi; non può venirci da fuori. Se la distruzione è il nostro destino, dovremo noi stessi esserne autori e responsabili. Dovremo per sempre vivere come nazione di uomini liberi, o morire suicidi.”[3]

La situazione odierna degli USA di Trump, insomma, richiama alla mente per analogia la situazione dell’URSS di Gorbacev, un altro impero sui generis perché (in parte) ideocratico, scosso da una crisi profonda. Per ricordare quanto grave fosse la crisi dell’URSS, ecco alcune testimonianze in diretta di membri della sua classe dirigente dell’epoca:

L’ottusità del paese ha raggiunto un picco: dopo, c’è solo la morte. Nulla è fatto con cura. Rubiamo a noi stessi, prendiamo e diamo mazzette, mentiamo nei nostri rapporti, sui giornali, dal podio, ci rivoltoliamo nelle nostre menzogne e intanto ci conferiamo medaglie a vicenda. Tutto questo dall’alto in basso, e dal basso in alto.” N.I. Ryzkov, segretario e capo del Dipartimento economico del Comitato centrale con Ju. I. Andropov, e K.U. Cernenko, poi primo ministro con M.S. Gorbacev.

Sono anni che tradisco me stesso, dubito e mi indigno tacitamente, cerco ogni tipo di scuse per addormentare la mia coscienza. Tutti noi, soprattutto la classe dirigente, conduciamo una vita doppia se non tripla: pensiamo una cosa, ne esprimiamo un’altra e ne realizziamo un’altra ancora.” E. V. Jakovlev, giornalista, ambasciatore dell’URSS in Canada, collaboratore di M.S. Gorbacev.

Nessun nemico avrebbe potuto conseguire quello che abbiamo conseguito noi con la nostra incompetenza, ignoranza e autoincensamento, con il nostro separarci dai pensieri e dai sentimenti della gente comune.” Generale Markus Wolff (“Mischa”), capo dei servizi segreti della D.D.R.[4]

E’ a questa crisi caotica e dissolutiva che Gorbacev tentò di rispondere. Ora sappiamo com’è andata, cioè molto male: ma non tentare una risposta, continuare come prima era impossibile. Era possibile rispondere alla crisi consolidando anziché dissolvendo? Quanta parte di responsabilità hanno avuto i limiti personali di Gorbacev e della sua cerchia nell’esito infausto della riforma imperiale? Sarebbe bastato che al timone dello Stato ci fosse un uomo migliore? Per concludere l’analogia: Trump è forse il Gorbacev americano?

Altri imperi, prima del sovietico e dell’americano, hanno tentato di rispondere alle crisi storiche che li hanno colpiti, di solito all’inizio della parabola discendente, dopo aver superato il culmine della potenza e dell’espansione. All’Impero romano riuscì, con Adriano, il consolidamento difensivo, che garantì secoli di equilibrio; ma la crisi interna, economica e politica, non si arrestò, e con i Severi giunse al punto di non ritorno: il segno fatale fu l’emigrazione di percentuali significative di cittadini romani dalle zone amministrate dai funzionari imperiali alle zone amministrate dai barbari, le cui pretese fiscali erano assai più miti di quelle degli esattori romani:[5] se ne angosciava sul letto di morte l’imperatore Settimio Severo. L’impero spagnolo entrò nella sua crisi storica, economica e politica, pochi decenni dopo aver raggiunto la sua massima espansione con le conquiste americane. E’ un monito istruttivo rileggere le proposte di riforma economica e politica degli gli arbitristas della Scuola di Salamanca[6], diverse delle quali, esaminate con il senno di poi, sembrano diagnosticare con precisione i problemi di fondo e proporre soluzioni brillanti: eppure, sempre col senno di poi, sappiamo come andò.

Oggi, come allora i sudditi dell’Impero romano o spagnolo, non sappiamo come andrà. Vedremo, e per la verità non vedremo soltanto, perché purtroppo non siamo seduti nelle poltrone di un cinema per assistere all’emozionante kolossal La crisi dell’Impero americano, ma ci troviamo in una periferia non troppo lontana dal centro imperiale e per nulla esente dalle conseguenze delle sue scelte, giuste o sbagliate che siano.

L’unica cosa che sappiamo, come già allora sapevano i romani e gli spagnoli, è che tutto finisce, a questo mondo: anche gli imperi, e anche noi.

[1] V. qui una buona recensione: http://www.imperobizantino.it/la-grande-strategia-dellimpero-bizantino-di-edward-n-luttwak/

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Stemma_degli_Stati_Uniti_d%27America

[3] Abraham Lincoln, 27 gennaio 1838, discorso agli studenti dello Young Men’s Lyceum di Springfield, Illinois:  “The Perpetuation of Our Political Institutions”. Qui il testo originale: “Shall we expect some transatlantic military giant to step the ocean and crush us at a blow? Never! All the armies of Europe, Asia, and Africa combined, with all the treasure of the earth (our own excepted) in their military chest, with a Bonaparte for a commander, could not by force take a drink from the Ohio or make a track on the Blue Ridge in a trial of a thousand years. At what point then is the approach of danger to be expected? I answer. If it ever reach us it must spring up amongst us; it cannot come from abroad. If destruction be our lot we must ourselves be its author and finisher. As a nation of freemen we must live through all time or die by suicide.”.

[4] Citazioni tratte da Andrea Graziosi, L’Urss dal trionfo al degrado, Il Mulino, Bologna 2008.

[5] . Salviano di Marsiglia, De Gubernatione Dei, V, 5, 22. V. anche gli storici citati da S. Mazzarino ne La fine del mondo antico, Milano 1988, da Orosio a Prisco.

[6]  V. qui un riassunto ben fatto: http://spainillustrated.blogspot.it/2012/01/arbitrismo-politico-economico.html

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