Un saggio interessante che tenta di riprendere e ricalcare impostazioni e contesti teorici classici, in particolare marxisti, ma con alcuni aggiustamenti che tentano di superare il loro determinismo, laddove recupera il ruolo del politico ed ideologico in maniera più autonoma. Si tratta, però, a parere dello scrivente, comunque di un tentativo dal quale l’autore rischia sempre di allontanarsi per ricadere in una impostazione economicista in almeno tre occasioni:
- quando parla della crisi attuale come di sconvolgimento sistemico determinato dalle dinamiche dell’accumulazione capitalistica, quando queste dinamiche in realtà non determinano tendenze irreversibili assolute, ma sono la conseguenza e/o contribuiscono a ridefinire gli equilibri e i rapporti di forza
- quando stabilisce negli anni ’60 il momento di innesco della crisi egemonica statunitense, scambiando questa con una crisi dell’egemonismo. Il momento di crisi, in realtà, si è innescato solo dopo un paio di lustri dall’implosione del blocco sovietico grazie alla sicumera di aver conseguito definitivamente la condizione egemonica nel mondo e al dato strutturale che qualsiasi tendenza egemonica, nella fattispecie quella definita “globalismo”, genera di per sé spazi ed opportunità di azione di attori rivali
- quando lamenta la mancanza di una analisi di classe. Ma di quale rapporto di classe: quella tra salariati e proprietari di mezzi di produzione; quella tra “rapinati” e “rapinatori”; quella tra ricchi e poveri, da deboli e forti. Siamo proprio sicuri che il conflitto sociale sia condotto dalle classi e che quest’ultimo determini più o meno direttamente l’antagonismo ed il conflitto tra centri decisori?
Buona lettura, Giuseppe Germinario
Introduzione: i lineamenti della crisi in breve
La formidabile espansione economica occidentale del dopoguerra, guidata dagli Stati Uniti, ultimi eredi dell’egemonia occidentale sulla maggior parte del mondo, che era culminata con l’Impero Britannico, è entrata in crisi verso la fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Si tratta di una crisi sistemica. Una crisi è sistemica quando non coinvolge un gruppo limitato di comparti economici né un gruppo limitato di Paesi ma investe tutta una economia-mondo e la sua organizzazione intorno al potere economico, finanziario, politico e militare di un centro egemone. Da quanto detto si capisce che ogni crisi sistemica ha un carattere “ibrido”, per l’appunto politico, militare, economico e finanziario. Ne ha ovviamente anche uno sociale, perché le economie-mondo reggono sistemi sociali e sono rette da rapporti sociali. E ne ha uno ideologico che riguarda il complesso delle idee dominanti.
Oggi l’economia-mondo in crisi ha un’estensione planetaria e il centro egemone in crisi sono gli Stati Uniti d’America. Ma la natura più spettacolare della crisi sistemica corrente è data dal fatto che con essa potrebbe chiudersi la lunghissima sequenza di economie-mondo che a partire da Venezia sono state centrate sull’Occidente e, al suo interno, la sequenza dei cicli sistemici dominati dal mondo anglosassone. Da qui il carattere fortemente ideologizzato dello scontro che va oltre le ovvie manovre di propaganda e disinformazione. Oltre ad avere arruolato militarmente gli eredi più puri del nazismo hitleriano, l’Occidente collettivo ha infatti dovuto riesumare anche l’armamentario lessicale del fascismo. Gli alti funzionari della UE ormai parlano della Russia in termini di “Paese non civilizzato” e dei Russi come “solo apparentemente europei”, così come al momento del lancio dell’Operazione Barbarossa si parlava di “barbarie dei territori orientali” e di popolazione “semiasiatica”. In definitiva, una professione di fede razzista da parte di chi per il resto della giornata parla di “inclusione” e “democrazia”.
La campagna d’odio contro tutto ciò che è russo, comprese la grande letteratura e la grande musica, parti integranti della cultura europea, racconta di uno stato di disperazione che conduce ad atti di autolesionismo, di automutilazione, che ritroviamo tali e quali nella sfera economica e sono il risultato di una perniciosa incapacità di adattamento.
Questa resistenza all’adattamento è in gran parte indotta dalla nazione egemone in crisi, di cui gli Europei sono semplici vassalli. Ma ha anche radici locali in quelle élite che sanno che la perdita di egemonia degli Stati Uniti travolgerebbe anche i propri straordinari patrimoni e interessi e le proprie posizioni di potere semidivine.
Il campanello d’allarme della crisi sistemica fu il Nixon shock del Ferragosto del 1971, quando il presidente degli Stati Uniti mise fine alla convertibilità del Dollaro in oro. Dopo quasi un decennio d’incertezza, dovuta al braccio di ferro tra Washington (il Potere del Territorio) e Wall Street (il Potere del Denaro), la pace tra i due poteri fu decretata dal Volcker shock, quando il neo appuntato presidente della Fed portò i tassi dei fondi federali dal 11.2% al picco del 20% nel giugno del 1981. Le conseguenze furono disoccupazione, fallimenti, concentrazione e centralizzazione di capitali e il raffreddamento dell’inflazione che per tutto il decennio precedente si era accompagnata alla stagnazione. Infatti le spinte inflazionistiche agevolate dal governo statunitense per rilanciare l’economia non avevano sortito alcun effetto data la perdurante crisi di profittabilità degli investimenti. I capitali man mano si spostavano dal commercio e dall’industria, cioè dall’economia reale, verso le speculazioni finanziarie rompendo gli argini delle restrizioni legislative nazionali anche grazie alle operazioni delle multinazionali che inizialmente cercavano di difendersi dall’instabilità dei cambi provocata dal Nixon shock. Col Volcker shock e l’avvento del presidente Reagan, emulato in Europa dalla signora Thatcher negli UK e poi via via da tutti gli altri Paesi della UE, gli investimenti nel circuito finanziario presero decisamente il sopravvento. Era iniziata la finanziarizzazione, storicamente segno di crisi, in cui l’accumulazione di capitale reale è stata esponenzialmente sostituita da quella di capitale fittizio, i cui valori nominali niente hanno a che vedere con la ricchezza reale prodotta o esistente. Si è così giunti ad ammassare titoli di credito totalmente inesigibili, come la strabiliante massa di prodotti derivati il cui valore nozionale per la Bank for International Settlements di Basilea ammonta a 558,1 trilioni di dollari (con una stima totale di 1 quadrilione di dollari calcolando anche i contratti non-Over The Counter). La sola prima cifra, quella più bassa, equivale al doppio della ricchezza immobiliare di tutto il Pianeta, a poco meno di 6 volte il denaro nel mondo (inteso come monete, banconote e depositi di ogni tipo) e a 6 volte il PIL mondiale. Se si considera la stima più alta abbiamo che i soli titoli derivati equivalgono a 10 volte il PIL mondiale 2021.
Questa ricchezza fittizia, ma politicamente e militarmente supportata e quindi attiva, se in Occidente dava spazio a fantasie che da noi ben si accompagnavano alla “Milano da bere”, come gli “intangible assetes”, il “knowledge management” e cose simili (tutti concetti che quando si cercava di concretizzare facevano semplicemente riferimento al delta tra il valore reale di un’azienda e il suo valore borsistico), fantasie che altre ne hanno generate grazie a immaginifici teorici della “sinistra marxista”, questa ricchezza fittizia, si diceva, nel concreto intercettava i profitti che venivano creati là dove solo era possibile crearli, cioè al di fuori dei circuiti capitalisti storici: alla finanziarizzazione era necessario accoppiare la globalizzazione.
Ma la globalizzazione faceva crescere potenze che collocate al di fuori del controllo politico occidentale, nel giro di un paio di decenni sarebbero emerse come competitor strategici degli USA, la Cina e la Russia, intorno alle quali si aggregava un numero crescente di Paesi che cercavano di sottrarsi al predominio dell’Occidente collettivo (si pensi alla Shanghai Cooperation Organisation o ai BRICS+).
Fin dal 2000 (si veda il report “Rebuilding America’s Defenses: Strategies, Forces, and Resources For a New Century” del think tank neo-conservatore Project for a New American Century) si prevedeva che il decennio 2020 sarebbe stata l’ultima finestra utile entro la quale gli Usa potevano e dovevano intervenire, anche militarmente, in modo diretto contro i propri competitor per non perdere l’egemonia mondiale.
E così è stato.
La sequenza crisi sistemica-finanziarizzazione-guerre mondiali è ricorrente nella storia del capitalismo.
Dalla caduta dell’URSS abbiamo assistito a una guerra dopo l’altra: Jugoslavia (prima guerra in Europa dal 1945, e qualcuno già capiva che non sarebbe stata l’ultima) Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, Somalia, Yemen. E ora siamo di nuovo a una guerra europea, quella in Ucraina. Tutta questa cortina di fuoco, se da una parte serve a circondare la landmass eurasiatica (dove insistono quattro potenze atomiche, le nazioni più popolose del mondo, quella con la maggiore economia mondiale, ed è la sede di enormi e diversificate risorse naturali), dalla parte opposta serve a dividere l’Europa da essa e da buona parte dell’Africa. In altri termini serve a fare dell’Europa un’appendice incistata degli USA. E per far questo era necessario che la UE fosse “weaponized” (cioè trasformata in un’arma), diventasse un’estensione civile della Nato, da spendere contro la Russia, via l’Ucraina, la vittima sacrificale.
E qui arriviamo al centro del problema. Gli Stati Uniti, con tutti i suoi alleati, non sono in grado di sconfiggere in una guerra convenzionale né la Russia né la Cina. Vale la pena ricordare che il maresciallo Montgomery in un’audizione alla Camera dei Lord nel 1962 riguardante lo scenario di una futura terza guerra mondiale avvertì: «La regola 1, alla pagina 1 del manuale di guerra dice: “Mai marciare su Mosca”. La regola 2 dice: “Non combattete con un esercito di terra in Cina”».
In una guerra atomica saremmo tutti sconfitti, USA compresi. E lo sanno. Per lo meno c’è molta gente con posti di responsabilità negli Usa che lo sa perfettamente. A mio avviso lo sa anche Biden che è ondivagante perché deve tener testa a una massa di crazy freaks, a volte drammaticamente ideologizzati (il “Destino manifesto”), che non sanno cos’è una guerra convenzionale, men che meno sanno cos’è una guerra di difesa esistenziale (nozione che ai Russi è stata impressa nel DNA a suon di milioni di morti), e assolutamente non hanno idea di cosa sia una guerra atomica, pensano che poterebbe essere combattuta solo in Europa mentre loro stanno a guardare magari da un bunker extra lusso, e la cui unica strategia, sia economica che militare e politica, è rilanciare sempre esattamente la stessa mossa.
La crisi dei subprime fu, dopo le avvisaglie della crisi borsistica delle “dot-com” (cioè del “capitalismo immateriale”, del “capitalismo della conoscenza”), lo scoppio di un’enorme bolla di capitale fittizio. Grazie alla Cina la crisi fu faticosamente tamponata ma la logica occidentale di accumulazione rimaneva quella basata sul capitale fittizio. Tutte le mosse che avevano portato alla crisi vennero ripetute a scala ancora maggiore. Si pensi agli enormi quantitative easing in dollari o euro, che arrivavano all’economia reale solo col contagocce mentre la massa si fermava nei circuiti finanziari che la bloccavano lì. Ora incombe lo scoppio di una bolla colossale in un mondo non più globalizzato ma frammentato a livello geopolitico, commerciale e finanziario. Per mitigare lo scoppio si darà corso alle solite rapine: privatizzazioni del dominio pubblico, mergers and acquisitions, scorrerie immobiliari, compressione dei salari e tutto il resto a cui destra e ancor più sinistra ci hanno abituati in questi anni [1]. Rapine che ridurranno la società in uno stato miserevole, ma che comunque non basteranno, per via delle grandezze in gioco, del fatto che la ricchezza esistente è uno stock finito e infine che queste manovre e l’isolamento mondiale a cui ci stiamo auto-condannando impediranno ogni ripresa, se non in limitati settori, e quindi la creazione di nuovi flussi di ricchezza.
Ne consegue che sarà necessaria una progressiva sospensione/limitazione/abolizione delle libertà democratiche di espressione, organizzazione, eccetera, libertà non più sostenute dallo sviluppo ma, anzi, ostacoli alla riorganizzazione sempre più violenta, sempre più urgente e sempre più veloce dei processi di accumulazione di denaro e di potere. Ovunque verrà applicata l’autorità di questo nuovo impero aristocratico, fondamentalmente una nuova talassocrazia, sia sulle “colonie esterne” sia sulle “colonie interne” si applicherà il metodo classico di appoggiarsi a forze e gruppi sociali elitari e reazionari, ma avendo cura di accendere i riflettori sulla patina “libertaria” di woke culture, del tutto inutile per redimere vecchi torti e non farne di nuovi, ma molto utile per abituare le persone ad aderire a protocolli ideologici e comportamentali decisi dall’alto.
Negli Usa, pervasi dai neocon, l’unica via di salvezza è vista nella ripresa del ruolo di potenza egemone mondiale che però deve passare dalla sconfitta della Cina che richiede a sua volta la sconfitta della Russia. Mentre si tenta questa strada, che necessariamente spacca il mondo in un terzo occidentale e in due terzi “altro” e che quindi spezza violentemente il circuito finanziarizzazione-globalizzazione, gli Usa possono solo rapinare i propri alleati a partire dalla (ancora per poco) ricca Europa. Ma se anche questa rapina riuscisse in pieno gli Usa, nella migliore delle ipotesi, finirebbero per rimanere bloccati in una situazione di ricchezza solipsistica simile a quella da cui dovettero uscire nel dopoguerra inventandosi la Guerra Fredda e rifornendo di dollari un’Europa che doveva essere ricostruita dopo la II Guerra Mondiale. Ma quel ciclo non sarebbe più ripetibile, perché la situazione mondiale è oggi drasticamente diversa e più che altro è drasticamente compromessa. Non è chiaro se in questo modo gli Usa intendono solo guadagnar tempo mentre cercano di indebolire i propri avversari in vista di una loro capitolazione, o se la nuova posizione di assoluto comando su 1/5 del globo (quasi un impero formale) sarà usata per negoziare i nuovi rapporti di forza in un mondo multipolare ormai impossibile da contrastare. Dipenderà dall’andamento della crisi.
Come procederà?
La crisi è direttamente proporzionale al tasso di finanziarizzazione, all’accumulo di capitali fittizi, e quindi è massima nell’Occidente collettivo dove, come si è visto, non verrebbe risolta nemmeno rovesciando sotto sopra il Vecchio Continente e i suoi sempre meno numerosi annessi e connessi.
La crisi è causata dai meccanismi mossi dalla logica dell’accumulazione. Quindi all’interno del costruendo impero formale a guida anglosassone essa non ha modo di essere risolta. La domanda allora immediata è: “Al suo esterno cosa sta succedendo, cosa succederà?”.
A questa domanda io non so rispondere. Se un mondo multipolare finalmente emergerà sarà perché l’Occidente collettivo, che oggi è neoliberista, sarà sconfitto da un Sud (o Est) collettivo di cui per ora non si capisce quale potrà essere la natura. O quanto meno, io non lo capisco.
In realtà, al di là del chiaro intento della Russia di spezzare il sempre più minaccioso assedio della Nato culminato con l’appoggio occidentale ai neo-nazisti ucraini, e della possibilità – prevista dal Cremlino – che una gran parte del Sud globale vi sta cogliendo per sottrarsi al secolare giogo dell’Occidente, in crisi e quindi sempre più rapinoso e aggressivo (due aspetti in diretto contrasto con la nozione di “egemonia”), non credo che nessuno possa in scienza e coscienza affermare di aver chiare le linee profonde della contrapposizione, quelle che plasmeranno il mondo a venire.
Si parla genericamente di uno scontro tra l’Occidente neoliberista e … . E manca il secondo termine. Spesso il “neoliberismo” viene inteso come una sorta di “fase terminale” del capitalismo (cosa che in sé non è) e altrettanto spesso viene enfatizzata la sua accezione ideologica, visibile nelle iperboli della woke culture che seppure hanno una relativa forza distruttiva, sono ancora solo “sperimentali” e minoritarie (anche se non sembra, per via di media e testimonial vociferanti) e hanno il compito di celare sostanziosi “fenomeni di classe” nazionali e internazionali che non si è quasi ancora iniziato ad analizzare (le eccezioni sono pregevoli ma rare e tenute in stato di clandestinità). Così, ipnotizzato dagli effetti speciali della woke culture, c’è chi si immagina uno scontro tra un mondo indirizzato verso il transumanesimo e un mondo che difende i valori umanistici, non di rado descritti come “valori tradizionali”. E quando si usa il concetto di “tradizione” si entra in una selva di rovi. Quando inizia e quando finisce la “tradizione”? Per qualcuno nel Medioevo – inteso in senso storico, non spregiativo – per qualcun altro nell’Illuminismo, e via così secondo i propri punti di riferimento. E dove è localizzata questa “tradizione”, in Europa, in Cina, in Russia, in Argentina, in Thailandia? A quale sistema filosofico fa riferimento? “Tradizione” vuol solo dire rifiutare gli insopportabili “genitore 1” e “genitore 2”? Consiglio di lasciare queste schermaglie al lato propagandistico dei discorsi di Vladimir Putin, il lato che, per ovvi motivi, vuol far leva sui sentimenti più condivisi della società russa, e alle anime candide che sono pronte a vedervi una natura reazionaria e addirittura “fascista”. Perché non è su questo che si giocano i destini del mondo.
Ma su che cosa, allora?
Durante la guerra fredda si contrapponevano due progetti distinti, due visioni del mondo distinte, due sistemi economici e sociali distinti. C’erano poderosi corpi dottrinari, da una parte e dall’altra, che permettevano di interpretare quello scontro, pur con tutti i limiti che i corpi dottrinari hanno rispetto al fluire storico. Oggi non è più così.
Nello scontro che ora sta seguendo la dissoluzione dell’ordine mondiale della guerra fredda, si sa che da una parte c’è un complesso neoliberista, ma dalla parte opposta c’è un complesso ancor meno decifrabile di quanto lo fosse il sistema sovietico e che si sta arricchendo di soggetti eterogenei. Una nave che affonda viene abbandonata da tutti: ufficiali, sottufficiali, macchinisti, camerieri, passeggeri di lusso, di prima classe, di seconda classe, di terza classe, persino dai clandestini.
Apparentemente non siamo nemmeno di fronte a un classico scontro interimperialistico, nonostante si possa riscontrare la ripetizione di alcuni schemi presenti nella prima parte del secolo scorso – ad esempio la finanza anglosassone da una parte vs l’industrializzazione della Germania (oggi della Germania, della Russia e della Cina).
Ciò porta a doversi chiedere quali sono le condizioni per l’emergere effettivo di un mondo multipolare, per la sua stabilità e quale sarà la sua natura.
Cambio di partita
Il 4 ottobre scorso il Consiglio Federale russo ha ratificato il passaggio degli oblast di Zaporizhie, Cherson, Donetsk e Lugansk dall’Ucraina alla Federazione Russa, dopo che lo aveva fatto la Duma di Stato. Questa decisione, assieme all’ordine di mobilitazione parziale riguardante 300.000 soldati, è la risposta russa alla presa d’atto di due cose: 1) La Nato (qui intesa come Usa e UK) non permetterà a Zelensky di negoziare la pace con Mosca (finora glielo ha sempre impedito utilizzando i propri pretoriani neonazisti, pressioni e ricatti di ogni tipo), 2) La Nato ha preso il comando diretto delle operazioni militari in Ucraina.
Dal 4 ottobre Mosca considera dunque quelle regioni parti integranti della Russia. Che questa annessione sia o non sia riconosciuta dall’Occidente collettivo (che è primatista nelle operazioni di secessione, si vedano i Balcani) o da altre nazioni, conta molto poco. Perché in questo caso è evidente che ciò che conta è quel che pensa Mosca, ovvero le motivazioni strategiche dietro questa mossa. E questa mossa cambia totalmente le carte in tavola, o meglio cambia la scacchiera: ora non è più la Russia che combatte in Ucraina ma, per Mosca e per la stragrande maggioranza dei Russi come rilevano varie survey, è la Nato che combatte contro la Madre Russia con tutte le conseguenze che ciò comporta.
L’ex cancelliera Angela Merkel, che dimostra di avere ancora la stoffa da statista mentre Super Mario Draghi, che nella fantasia dei nostri politici e dei media Minculpop doveva essere il suo erede, ha solo dimostrato di essere un tecnocrate privo di ogni consapevolezza storica, lo sa e lo ha detto, pur se dietro il velo dello spettro di Helmut Kohl:
[D]ietro il velo di Kohl l’ex Cancelliera critica le condotte di Washington e della Nato, incapaci di “pensieri storicamente contestualizzati”, di “pensare l’impensabile” e di ascoltare lo spiraglio aperto da Putin nel discorso minaccioso del 21 settembre: un accordo con Kiev era quasi pronto a marzo, incentrato sulla neutralizzazione ucraina, e Londra e Washington l’affossarono. [2]
Mentre i media Minculpop si stanno esaltando per le “riconquiste” ucraine (Izjum, Balaklija, Lyman e qualche villaggio), mentre generali come Petraeus, che non hanno mai vinto una guerra in vita loro, parlano di “inizio del collasso dell’esercito russo” e al loro seguito una teoria di “esperti” stampati o teletrasmessi scambiano il successo di un’offensiva tattica con una vittoria operativo-strategica, dimenticandosi della distruzione immensa di materiale bellico e del numero spaventoso di perdite ucraine, mentre dunque l’Occidente collettivo si sta eccitando con questa “pornografia bellica” il quadro strategico è totalmente cambiato.
Una guerra non si vince sul piano tattico (anche se la pornografia bellica continuerà ancora, e al solo pensiero c’è da piangere). La parte “cinetica” di una guerra si vince sul piano operativo e la guerra come confronto strategico si vince nella dimensione politica. E’ per questo che le guerre sono sempre state ibride, anche se qualche commentatore pensa che sia una novità e comunica con un certo orgoglio al suo pubblico questa strabiliante “scoperta”. Ed è per questo che l’ammissione delle quattro regioni ucraine nella Federazione Russa cambia il gioco in modo drammatico.
Ora la Nato deve decidere se vuole combattere direttamente contro la Madre Russia (trattando di strategia, è opportuno parlare di “Madre Russia” come abbiamo visto). Non ci sono altre possibilità: o il compromesso o il confronto aperto, senza più l’interposizione del regime fantoccio di Kiev, col tentativo, a costi disumani per gli Ucraini, di strappare qualche nuova vittoria prima che la mobilitazione russa saturi il fronte e probabilmente passi alla controffensiva, nella speranza di indebolire Putin internamente (cosa che non sarà perché, per l’appunto, è in gioco la Madre Russia, e bastano due nozioni storiche e culturali per capirlo) e isolarlo dai suoi alleati, come la Cina, che in questo momento finge di fare il pesce in barile, ma ha perfettamente chiara la posta in gioco (anche perché basta un’imbecille arrogante come Nancy Pelosi per ricordarla a un miliardo e 400 milioni di Cinesi – e spaventare la stessa presidentessa di Taiwan, Tsai Ing-wen: “Lo scontro armato con la Cina non è un’opzione”).
E la decisione degli Usa (che dovrà tramutarsi in acquiescenza dell’Occidente collettivo) deve tener conto che l’Ucraina è solo uno dei terreni, attualmente il più caldo ma non per questo il più decisivo, del cambiamento epocale ormai conclamato e sotto gli occhi di tutti.
Un nuovo termine: “unprovoked”
Noam Chomsky ha fatto notare che quando si parla dell’invasione russa dell’Ucraina si usa automaticamente e obbligatoriamente un termine che in questi contesti è una novità: “non provocata” (unprovoked). «Ogni articolo che si trova [su Google] deve parlare dell’invasione dell’Ucraina come “non provocata”. Ovviamente è stata provocata. Altrimenti non si riferirebbero ad essa in continuazione come “non provocata” … Questa non è solo la mia opinione, è l’opinione di qualsiasi alto funzionario dei servizi diplomatici statunitensi che abbia una qualche familiarità con la Russia e l’Europa Orientale. Si va da George Kennan [il teorico del contenimento dell’Unione Sovietica] negli anni Novanta, all’ambasciatore di Reagan Jack Matlock, per includere l’attuale direttore della CIA» [3].
Ma se la Russia è stata provocata, occorre capirne i motivi. Quello più evidente è di tipo meccanico: la Russia deve “cambiare regime”, sottomettersi agli USA e se possibile deve essere balcanizzata, cioè frantumata in più stati. L’Ucraina in questo progetto funge da trappola dove migliaia di russo-ucraini del Donbass uccisi dal 2014 e, per ora, decine di migliaia di soldati ucraini caduti assieme a un migliaio di civili sono serviti da esca.
Perché la Russia deve cessare di esistere come stato sovrano?
Qui la pubblicistica russa ricorda che questo è da secoli un obiettivo dell’Occidente e fa riferimento all’invasione svedese e a quella dei Cavalieri Teutonici sconfitte da Alexandr Nevskij nel XIII secolo, all’invasione polacca durante il Periodo dei Torbidi tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, all’invasione napoleonica, a quella prussiana e a quella nazifascista. E’ interessante questa lettura russa della Storia, perché anche se a volte ha un non convincente sapore millenaristico che passa sopra troppi particolari, tuttavia segnala un sentimento e il fatto che per i Russi il concetto di difesa della patria (e di denazificazione) ha un alto contenuto emotivo.
Fatto sta che la Russia è sostanzialmente vista dall’Occidente come una nazione troppo grande, troppo ricca di risorse e troppo “diversa”. E’ una nazione che sfugge al controllo politico dell’Occidente e anche a quello ideologico, cosa non meno importante. Pur essendo parte integrante – e indispensabile – della cultura europea, la Russia è Russia. Il suo cristianesimo sta al di fuori della dialettica (a lungo fratricida) tra cattolici e protestanti ed è estraneo alla loro “modernizzazione” ambiguamente in bilico tra riconoscimento di diritti dovuti e adeguamento agli interessi di lobby politico-ideologiche. Ci sono motivi profondi perché i Russi vedano l’attuale Occidente collettivo non solo composto da irriducibili “odiatori” della Russia ma anche pervaso da una “civilizzazione” aliena, con “valori” non condivisibili [4].
La storica ricchezza etnico-culturale della Russia, composta da ortodossi, musulmani, ebrei, buddisti, da popoli diversi e culture diverse che pure si riconoscono in una sola entità nazionale, fenomeno che possiamo chiamare di “centralizzazione della varietà”, lascia spiazzata un’Europa dove una pletora di stati essenzialmente monocromatici per secoli non sono riusciti a venire a termini con l’Altro [5].
Ed è quindi paradossale, ma non sorprendente che, come si è visto, alti diplomatici della UE dichiarino che la Russia “non è civilizzata”, esattamente come pensavano i nazisti e i fascisti [6].
Scontro di civiltà o scontro generazionale?
La centralizzazione della varietà non è un’esclusiva della Russia. Si pensi alla Cina e all’India.
La centralizzazione della varietà si è plasmata in lunghi processi storici che sono stati permessi da meccanismi socio-economici lenti. Non è quindi da confondere col pot-pourri statunitense, formatosi in modo disordinato sotto la pressione di veloci e straordinari processi di accumulazione di denaro e di potere, né con quello disorganico dell’immigrazione nell’Europa post coloniale.
Lo scontro tra Stati Uniti e Russia, preliminare a quello tra Stati Uniti e Cina, è lo scontro tra una giovane nazione anglosassone alleata ad altre giovani nazioni anglosassoni (il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda) sotto la supervisione della loro matriarca, la Gran Bretagna, e nazioni che si sono formate in secoli e secoli: 1.000 anni la Russia, 4.000 la Cina.
Sotto questo punto di vista il blocco anglosassone mette in campo molti punti di forza dovuti alla giovinezza, all’elasticità, alla dinamicità delle scelte, alla spregiudicatezza, alla geografia stessa, ma presenta, specialmente negli Stati Uniti, una direi “fragilità strutturale” che potrebbe essere spiegata, con un abuso di metafora, in termini quasi “politico-psicanalitici”: è il frutto della premura, dell’ansia di recuperare una storia che non si è avuta, un’infanzia e un’adolescenza che sono state negate. Gli Stati Uniti sono Jack Torrence che in “Shining” si blocca su una frase infantile (che nella traduzione italiana, curata da Kubrick stesso, evoca la fase orale: “Il mattino ha l’oro in bocca”) per poi trasformare i deliri infantili di onnipotenza in odio mostruoso per chi egli accusa di bloccare la sua creatività, cioè per chi gli pone vincoli sociali e affettivi e gli ricorda le sue responsabilità di adulto.
Nella millenaria vicenda del Paese di Mezzo, il periodo di soggezione all’Occidente è effettivamente stato quel “paio di secoli non molto brillanti da cui ci stiamo però riprendendo” a cui si riferiscono i Cinesi. Un paio di secoli in 4.000 anni di storia possono essere visti con ironia, come qualcosa di passeggero.
I 77 anni di egemonia statunitense possono invece essere veramente una fiammata, straordinaria, decisiva ma che rischia di essere irripetibile e al suo seguito i trecento anni di predominio dell’Occidente sembrano essere un fenomeno di enorme importanza ma in via di irreversibile esaurimento. Cosa che in sé non sarebbe destinata a sfociare nel dramma se il millenario Occidente non fosse forzato a imitare gli Stati Uniti.
Nel mondo giovane e veloce degli Usa la memoria della Storia o ha un valore mercantile di cui appropriarsi oppure è vista come un’arma potente e pericolosa che a loro manca e che deve essere tolta ai nemici. È così che gli Usa nel 2003 devastarono quel museo di Baghdad istituito da un agente segreto britannico, Gertrude Bell, nel 1915, quando l’espansione dell’impero della “vecchia Inghilterra” stava avvicinandosi al suo apice.
Le nazioni con radici profonde non sono tollerate così come non lo sono le nazioni geograficamente grandi. Gli Stati Uniti devono tenere sotto controllo sia l’ampiezza sia la profondità delle altre potenze. Gli Stati Uniti sono convinti che per “destino manifesto” sono i soli ad avere il diritto ad essere grandi, dove “grande” ha innanzitutto un significato geografico, e che i propri valori fast and furious devono sostituire quelli lenti e calmi degli altri popoli.
Per parafrasare Jawaharlal Nehru, la civiltà occidentale [gli Inglesi] era portatrice di una qualità di cui gli altri popoli [l’India] erano carenti: la dinamicità. Ma lo era fino al parossismo. La società, ogni società, e il capitalismo (col suo alter ego, l’imperialismo) hanno sempre avuto ritmi molto differenti e col tempo questa differenza ad ogni ciclo è diventata un solco che appare sempre più incolmabile.
Ritorneremo a ritmi più lenti, saremo di nuovo capaci di voltarci indietro, di creare “tipi sociali arcaici in una forma superiore” (Marx), o ormai il virus si è propagato ovunque? Cosa uscirà da questo caos sistemico?
La guerra per evitare la rivoluzione
La Russia è stata provocata, dunque, e la provocazione è servirà a trascinarla in una guerra. E la guerra serve a minare politicamente la Russia al suo interno, a distruggerla come grande nazione e come nazione sovrana. Poi verrà il turno della Cina e a seguire, posso pensare, quello di un’India che senza il contrappeso della Cina potrebbe rischiare di acquisire un ruolo “troppo importante”.
Washington non vuole perdere la supremazia che ha acquisito grazie a una straordinaria posizione geografica, a una dinamicità selvaggia ancor più che parossistica, e alla scaltrezza da giocatore di poker che l’ha consigliata di entrare a metà corsa nelle due guerre mondiali precedenti. Non la vuol perdere perché è l’unica cosa che tiene insieme una società frantumata, col 15,1% in stato di povertà, il 18% che deve rivolgersi ai banchi alimentari, e che con poco più del 4% della popolazione mondiale ha circa il 25% della popolazione carceraria mondiale.
Per accettare la Storia e il resto del mondo gli Stati Uniti dovrebbero essere in grado di rivoluzionare i rapporti sociali che sono stati plasmati da recenti, veloci e impetuosi processi di accumulazione di denaro e di potere. Ma le sue élite dominanti non lo permettono e non sarebbero comunque in grado di farlo, perché la logica dell’accumulazione capitalistica si erge come un potere oggettivo anche sopra di loro. Sono dunque obbligate a cercare di perpetuare uno strapotere che dura da 77 anni (uno schioccar di dita nella storia umana) da parte di una nazione che per la fine del 2022 conterà solo il 4,2% della popolazione mondiale. Uno strapotere gestito da una minuscola élite che assieme a un numero ristrettissimo di alleati internazionali governa una parte finora ricchissima del pianeta, utilizzando il sostegno di ceti sociali vassalli che si riconoscono negli interessi, o a volte solo nell’ideologia, di questa neo-aristocrazia allevata dalla ormai quasi cinquantennale stagione della finanziarizzazione e del neo-liberismo, allevata cioè dalla crisi sistemica.
Si faccia però bene attenzione a una cosa: benché in differenti circostanze, è già avvenuto che una nazione che “non aveva i numeri” abbia controllato direttamente o indirettamente l’intero pianeta. Pensate alla minuscola Inghilterra di fronte all’immenso subcontinente indiano (sottoposto direttamente) e all’immensa Cina (controllata indirettamente) e al resto dell’Europa (di cui controllava il flusso degli affari e a cui imponeva il “balance of power”). Al momento della sua massima estensione, nel 1921, l’Impero Britannico copriva 35.5 milioni di kmq, il 24% delle terre emerse, 145 volte l’estensione delle isole britanniche e aveva 448 milioni di abitanti, un quinto della popolazione mondiale di allora e ben 10 volte la popolazione della Gran Bretagna. Ma al momento della conquista dell’India, il PIL britannico era solo l’1,9% di quello mondiale e la Gran Bretagna non controllava ancora economicamente e finanziariamente il resto dell’Europa, anzi era indebitatissima coi banchieri olandesi. Eppure conquistò un Paese che vantava più del 22% del PIL mondiale. Ma, come commentava Immanuel Wallerstein, l’Inghilterra era largamente superiore nell’ “arte criminale”, cioè nell’arte della guerra [7].
Ma oggi, sarà ancora possibile dispiegare tutta la propria arte criminale quando ciò può significare la fine dell’intera umanità? Se a Washington ci sono senz’altro mostri impazziti per la disperazione, non c’è veramente nessuno da quelle parti capace di tenerli a bada?
Tuttavia l’aspetto militare è solo uno dei fattori in campo. Si ricordi che oggi il PIL statunitense, benché in contrazione, in Parità di Potere d’Acquisto è il 15,78% di quello mondiale e il Dollaro è punto di riferimento per due terzi del PIL mondiale. Ha quindi ragione Raffaele Sciortino quando suggerisce di «prendere con estrema cautela le ipotesi decliniste riferite agli Stati Uniti». E ciò si ricollega al nostro caveat [8].
Il problema da analizzare è come e quando si combineranno le dinamiche belliche con quelle economiche e quelle finanziarie, tenuto conto che, ceteris paribus, il castello di carte finanziario, esemplificato dal famoso ammontare dei titoli derivati pari a 10 PIL mondiali, cioè pari al nulla dato che non esistono 10 Terre, è destinato a crollare, trascinando con sé banche, industrie e crisi fiscali. E qui “ceteris paribus” vuol dire senza il sostegno dei sistemi finanziari del Sud collettivo, a partire da quello cinese [9].
La Storia e lo show-down della crisi sistemica
La lettura del discorso tenuto da Vladimir Putin il 30 settembre nella sala San Giorgio del Cremlino in occasione della firma dei decreti di ammissione nella Federazione Russa delle quattro regioni ucraine, mi ha impressionato per un motivo molto preciso: se prosciugato degli slanci retorici, del riferimento al neoliberismo come “cultura” contrapposta ai “valori tradizionali” russi (cosa non sorprendente in chi sta conducendo una “grande guerra patriottica”), sembra una nota d’aggiornamento a piè di pagina del capolavoro di Giovanni Arrighi “Il Lungo XX Secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo”.
Una nota che ci riguarda da vicino perché con questo discorso la Russia si è staccata dall’Europa e con una notevole dose di astio, come quella di un’amante tradita. La nostra incapacità di porci come soggetto terzo tra gli Stati Uniti e le potenze emergenti ha reso questo strappo inevitabile a causa proprio delle dinamiche che erano state descritte da Arrighi a partire dalla prima metà degli anni Novanta. In quegli anni Vladimir Putin era presidente del comitato per le relazioni internazionali di Leningrado. Il suo compito era quello di promuovere i rapporti con l’estero e attirare gli investimenti stranieri. E fu ufficialmente criticato perché le sue decisioni favorivano troppo gli investitori occidentali. Ricordo che fino alla metà dello scorso decennio Putin sognava un mercato unico “da Lisbona a Vladivostok” (e con lui lo sognavano anche gli imprenditori tedeschi).
Bastano solo questi elementi biografici per capire che Vladimir Putin non è ideologicamente antioccidentale ma ha dovuto cambiare le proprie idee per far fronte alle circostanze che doveva gestire. Ne consegue che il 30 settembre scorso al Cremlino parlava come un attore sovrapersonale che rappresentava una dinamica storica. E quel che più impressiona è che sembrava che ne fosse consapevole. Cosa che affascina e inquieta. Perché sono sempre inquieto quando qualcuno, anche a ragione, pensa di interpretare la logica della Storia.
Excursus metodologico
Qui serve una precisazione. La Storia è frutto di una sequenza di scelte fatte in circostanze oggettive. Anzi, con un’analogia matematica, più che di una sequenza si tratta di un fascio di scelte.
«Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione». Così Karl Marx ne “Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte”.
In questa dialettica tra scelta e condizione oggettiva, si gioca la storia umana e l’etica dei suoi protagonisti.
La composizione delle varie scelte, così come la composizione delle forze in Fisica, spinge la Storia in direzioni che possono essere inintenzionali, cioè non volute, non previste e persino non gradite dagli attori storici che prendono le decisioni, che compiono le scelte.
Il classico esempio di composizione delle forze è il rombo: la forza F1 si compone con quella F2, che ha una direzione, un verso e una intensità differenti da F1, per fornire la risultante R, che ha direzione, verso e intensità diversi da entrambe. Se si concepisce la Storia come un procedere per successive composizioni di forze, si evita di cadere sia nel meccanicismo sia nel complottismo. Sia chiaro, che i complotti avvengono in continuazione, da quelli che servono a coprire realtà scomode (Ustica), a eventi semplici costruiti ad arte (l’incidente del Golfo del Tonchino, i falsi bombardamenti chimici di al Assad, eccetera) a macchinazioni più complesse, come l’omicidio Kennedy, Piazza Fontana. Abbiamo persino complotti nel complotto, come quello straordinario che prevedeva che Maria Stuarda si lasciasse implicare in un complotto contro Elisabetta I che doveva essere scoperto per obbligare la recalcitrante regina d’Inghilterra a decapitare la cugina Maria, così che finalmente il cattolicissimo ma anch’egli recalcitrante re di Spagna, Filippo II, si decidesse a muovere guerra contro la cugina protestante con la sua Invincibile Armata. Così avvenne, ma ci si mise di mezzo il caso, cioè una serie di tempeste che fecero letteralmente affondare i progetti spagnoli.
Il caso, e ce ne sono tanti esempi, è parte delle forze da comporre. Al contrario, i complotti sono semplici frazioni di una forza e non sono in grado di imporre una risultante voluta.
Occorre però sottolineare che quanto detto non impedisce di poter intravedere o ipotizzare linee di tendenza più verosimili di altre.
Una dichiarazione di guerra all’Europa
«Se la Russia invade l’Ucraina, in un modo o in un altro il Nord Stream 2 non andrà avanti»
Victoria Nuland, gennaio 2022 [10].
In molti hanno visto nell’attentato ai due Nord Stream un atto di guerra contro la Germania e l’Europa [11]. Non mette conto leggere i penosi tentativi di sedicenti esperti politici e geopolitici che cercano di dare la colpa alla Russia. Non ha nessun senso. Punto.
Io suggerisco di leggere l’attentato terroristico internazionale al Nord Stream come il più recente di una sequenza di atti che, cose si diceva nell’Introduzione, hanno come obiettivo la separazione dell’Europa occidentale dalla restante massa Eurasiatica (con prolungamenti nel Nord Africa e nel Corno d’Africa) e, specularmente, l’accerchiamento della Russia e della Cina (e in prospettiva aggiungerei anche l’India – il fronte del Kashmir è sempre disponibile, oltre ad attentati e scontri intercomunitari).
L’attentato al Nord Stream sembra inoltre una risposta anticipata a ogni futuro ripensamento tedesco: d’ora in poi scordatevi la vostra pacifica Drang nach Osten 2.0.
Separato dal resto del mondo, l’Occidente collettivo avrà come unica scelta l’auto-cannibalismo. La scelta unilaterale di Berlino di stanziare 200 miliardi di euro in deficit per calmierare i prezzi energetici ha creato malumori nella UE e ha iniziato a rievocare lo spettro di Weimar. E ciò a causa della logica dell’accumulazione, che procede per differenziali di sviluppo e non lascia scelta: là dove si possono creare, vengono creati, non si guarda in faccia a nessuno. Inoltre, l’accumulazione odierna, cioè l’accumulazione in tempi di crisi, si svolge in larga parte non per sviluppo ma per rapina – o in termini più soft, tramite l’acquisizione della ricchezza esistente, già prodotta, da parte dei più forti. Per diverso tempo questo tipo di accumulazione era principalmente orientato ai danni del Sud globale. Poi ha dovuto iniziare a prendere di mira anche i centri capitalistici storici, con privatizzazioni del dominio pubblico, mergers and acquisitions, ristrutturazioni, scorrerie sui debiti pubblici e sulle risorse naturali ove esistono. Da oggi dovrà rivolgersi prevalentemente all’interno dell’Occidente stesso a meno di non riuscire a imporre un selvaggio sfruttamento neocoloniale su una parte di quel Sud collettivo che però, ben consapevole, guarda con crescente speranza al blocco Russia-Cina. In modo molto esplicito Vladimir Putin nel suo discorso del 30 settembre ha sottolineato come la Russia moderna intende raccogliere dall’Unione Sovietica la bandiera della protezione del Sud globale: «Noi siamo orgogliosi che nel XX secolo sia stato il nostro Paese a guidare il movimento anticoloniale, che ha aperto a molti popoli del mondo la possibilità di svilupparsi, di ridurre la povertà e le disuguaglianze e di sconfiggere la fame e le malattie».
Non sono parole retoriche lasciate al caso né nostalgie sovietiche: sono prove di egemonia nella lotta verso un mondo multipolare. Una lotta che la Russia deve condurre adesso, perché anche per la Russia le finestre operative non rimangono aperte all’infinito: la sua attuale supremazia militare in termini convenzionali e strategici non durerà per sempre, i gap sono destinati a colmarsi.
Nel mondo fratturato che caratterizza questa lotta, gli Stati occidentali più forti prenderanno di mira quelli più deboli, secondo una gerarchia che vede in testa gli Stati Uniti mentre le neo-aristocrazie locali prenderanno di mira la loro declinante classe media, un neo Terzo Stato che si sta mischiando progressivamente in modo disorganico a un Quarto Stato formato sempre più da proletari che sono intimiditi o sono indotti, e a volte obbligati, a credere di essere classe media, lavoratori autonomi [12].
Una condizione che in termini di coscienza politica e sociale mi ricorda il periodo tra la Rivoluzione Francese e i moti del 1848.
Questa cascata di rapine che si compie lungo una gerarchia ramificata dove ogni nodo cerca in qualche modo di risalire di livello a scapito degli altri, non può alimentarsi a lungo se la ricchezza rapinata non viene rigenerata. Ma proprio la cascata di rapine indurrà disfunzionalità e corti circuiti che ostacoleranno la produzione di nuova ricchezza. Già sta avvenendo, perché la necessità di non far crollare di colpo il castello di carte finanziario induce uno spreco immane di risorse, a partire dai quantitative easing che arrivano all’economia reale solo col contagocce o dai profitti d’impresa reinvestiti al 90% in operazioni di borsa.
Gli Usa vogliono venderci a caro prezzo il loro shale gas, come alternativa obbligata a quel gas russo a buon mercato che ha avuto un ruolo chiave per gran parte dello sviluppo economico europeo del dopoguerra [13]. Ma l’Europa come lo pagherà se contemporaneamente gli Usa applicano politiche tariffarie, fiscali e monetarie, per favorire la propria re-industrializzazione a scapito di una de-industrializzazione dell’Europa? E’ facilmente prevedibile uno scenario di austerity, di indebitamento crescente, di “aggiustamenti strutturali”, di disoccupazione, di impoverimento generale delle società europee. Ma a macchia di leopardo, in ragione delle “preferenze politiche” (ed economiche) degli Stati Uniti che lavoreranno su un terreno già frammentato.
La crisi del “sistema Germania” metterà infatti in crisi l’Euro e la già traballante solidarietà europea [14]. Ha misurato attentamente le parole Bruno Le Maire, il ministro francese dell’Economia, della Finanza e della Sovranità Industriale e Digitale (così Macron ha ribattezzato quest’anno il dicastero mentre sparava a zero contro i “sovranismi”) quando ha affermato che bisogna evitare «che il conflitto in Ucraina sfoci nella dominazione economica americana e nell’indebolimento europeo» [15].
Ma a cosa serve capire? Secondo Putin a nulla, ormai: «Capiscono chiaramente che gli Stati Uniti, spingendo l’UE ad abbandonare totalmente l’energia e le altre risorse russe stanno praticamente deindustrializzando l’Europa e si stanno impadronendo completamente del mercato europeo – capiscono tutto, queste élite europee, capiscono tutto, ma preferiscono servire gli interessi degli altri. Non si tratta più di una banalità, ma di un diretto tradimento dei loro popoli. Ma che Dio li accompagni, sono affari loro».
In realtà, più che il tradimento di un popolo, quella delle nostre élite è una scelta di classe, la scelta di servire interessi che ormai non hanno più alcuna connessione col benessere sociale e nazionale.
Con l’approfondirsi della crisi, infatti, alcuni grandi gruppi si arricchiranno, mentre altri collasseranno assieme a una miriade di imprese e di reti d’imprese con limitata disponibilità di capitale mobile, o meno protette politicamente, o meno strategiche (ad esempio non legate all’apparato militare). I fenomeni di concentrazione e centralizzazione dei capitali subiranno un’accelerazione perché il tempo diventerà risorsa rara: per via degli intrecci tra capitali reali e capitali fittizi queste operazioni dovranno essere compiute prima che inizino i grandi disastri finanziari, prima che si scopra che 10 Terre non esistono.
Se in corso d’opera la strategia anglosassone virerà dal tentativo di distruggere la Russia al tentativo di guadagnar tempo per rimandare più in là le scelte, bisogna considerare che sarà difficile “comprare tempo” senza lasciarsi attrarre da ricche sirene come il futuro mercato internazionale dello Yuan e forse anche del Rublo e gli stratosferici investimenti richiesti dalle nuove “vie della seta” (la Belt and Road Initiative cinese) e dagli altri colossali progetti eurasiatici. C’è una quantità strabiliante di capitali in Occidente che non intendono star fermi ad aspettare che la prossima crisi li “macelli” (Marx). E questo indurrà altri moti sussultori che si sommeranno allo scontro tra placche tettoniche.
Un discorso a parte, che qui non può essere sviluppato, riguarda l’agricoltura e i regimi alimentari. Un settore imprescindibile e che per gli Stati Uniti è stato strategico fin dalla loro formazione. E legato ad esso bisognerà affrontare il tema ecologico tenendolo distinto dal suo utilizzo a fini speculativi, che è quello corrente.
Conclusioni
Le conclusioni sono sempre le stesse che Giovanni Arrighi esponeva circa 30 anni fa:
«Prima di soffocare (o respirare) nella prigione (o nel paradiso) di un impero mondiale postcapitalistico o di una società mondiale di mercato postcapitalistica, l’umanità potrebbe bruciare negli orrori (o nelle glorie) della crescente violenza che ha accompagnato la liquidazione dell’ordine mondiale della guerra fredda. Anche in questo caso la storia del capitalismo giungerebbe al termine, ma questa volta attraverso un ritorno stabile al caos sistemico dal quale ebbe origine seicento anni fa e che si è riprodotto su scala crescente a ogni transizione. Se questo significherà la conclusione della storia del capitalismo o la fine dell’intera storia dell’umanità, non è dato sapere».
Queste domande e queste incertezze sono ineludibili e segnalano l’inadeguatezza dei nostri strumenti di analisi di fronte a fenomeni caotici e sommamente complessi.
Qua e là nei discorsi di Putin sembra di cogliere alcuni apprezzamenti precisi dei fenomeni in gioco, come la finanziarizzazione, come quando ricorda che con le «capitalizzazioni gonfiate», con la «capitalizzazione virtuale» non si può «riscaldare nessuno». Ma questo testimonia solo di una asincronicità tra le fasi di sviluppo e di crisi occidentali e quelle eurasiatiche. La finanziarizzazione non è uno stadio del capitalismo, ma l’espressione delle sua crisi sistemiche, crisi che sono indotte dai meccanismi di accumulazione. Quindi si può ipotizzare in prima battuta che per ora non sono entrati in contrasto due sistemi di rapporti sociali distinti, ma due “orologi” che non possono sincronizzarsi. Che poi questo contrasto assuma contorni ideologici è naturale. E’ sempre stato così e lo è ancora di più in un’epoca dove la comunicazione e il dominio delle idee sono diventati un’arma diretta. Ma la domanda è: sappiamo quali interessi difende Biden, ma quali interessi difende Putin, quali Xi? Che sistemi hanno in mente? Quanto sono praticabili? Quanto sono compatibili con la stabilità di un mondo multipolare? Si andrà incontro a una situazione permanente di caos, a una società di mercato postcapitalistica, o a che altro?
Non ne abbiamo idea. Io non ne ho idea. Sono anni che non si fa più un’analisi di classe e da un punto di vista di classe, militante e di ampio respiro. Così quando questo inverno saremo immersi nella riedizione del XIII secolo con la nuova guerra dei cent’anni, la nuova peste e i nuovi tumulti dei ciompi quel che avremo a disposizione sarà un pensiero simbolico pericolosamente vicino a un pensiero magico e rimpiangeremo la riga e il compasso.
Note
[1] “Non fate gestire la crisi ai banchieri centrali”, così il Guardian lo scorso 16 ottobre 2022 (https://www.theguardian.com/commentisfree/2022/oct/16/the-guardian-view-on-central-bankers-dont-put-them-in-charge-of-the-crisis). Come dei cani di Pavlov, i banchieri centrali per contrastare l’inflazione colpiscono automaticamente sul lato della domanda, cioè i salari, suscitando l’allarme di Richard Kozul-Wright, il responsabile del rapporto ONU sul commercio e lo sviluppo: «Cercate di risolvere un problema dal lato dell’offerta con una soluzione dal lato della domanda? Pensiamo che sia un approccio molto pericoloso». Qui il rapporto ONU: https://unctad.org/system/files/official-document/tdr2022_en.pdf e qui il commento di Michael Roberts, economista marxista britannico, ex analista finanziario nella City di Londra: https://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/24075-michael-roberts-la-terapia-d-urto-sull-economia-mondiale.html
[2] Barbara Spinelli, “Meloni deve scegliere: o Draghi o Merkel”. Il Fatto Quotidiano, 30 settembre 2022.
[4] Per fare un esempio importante, in Russia l’omosessualità non è né illegale né perseguitata. A inaugurare le Olimpiadi di Sochi fu un duo canoro, il t.A.T.u., che si presentava in scena in esibiti atteggiamenti lesbici (in realtà solo Julia Volkova era dichiaratamente bisessuale), Čajkovskij non è messo al bando perché omosessuale – lo è invece in diversi posti in Occidente perché russo – e potete trovare testimonianze di omosessuali russi che vivono all’estero e non amano Putin ma negano che in Russia ci sia una persecuzione omofoba. In Russia c’è invece una legge per “proteggere i minori dalle informazioni che promuovono la negazione dei valori tradizionali della famiglia”. Una dicitura su cui si può discutere (cosa significa “tradizionale”?) ma che intende evidentemente porre un argine, magari mal formulato, alle estremizzazioni a cui sta giungendo l’Occidente sulla base di una concezione illimitata (e ipocrita) della coppia individualismo-desiderio. Anche le società occidentali, in quanto comunità che hanno necessità di valori condivisi e di solidarietà, cercano di difendersi dalla teorizzazione e dalla pratica dell’illimitatezza, dell’apeiron, di individualismo e desiderio. In mancanza di forze comuniste che elaborino e indichino la strada dell’emancipazione, pressata dall’apeiron dei progressisti (anche economico: l’accumulazione infinita) e alla ricerca di un katéchon, un freno ad esso, questa necessità di difesa vede un rifugio immediato, benché profondamente errato, nella conservazione reazionaria, bigotta, intollerante, persino fascistoide, politicamente scorretta non per provocazione ma per convinzione. Succede in Occidente così come in Russia.
[5] Un’amica russa mi raccontava con nostalgia di quando viveva in Uzbekistan in epoca sovietica perché nel suo palazzo vivevano ortodossi, ebrei e musulmani e tutte le ricorrenze religiose erano occasioni condivise di festeggiamento.
[7] E non solo. La Gran Bretagna era abile nello sfruttare le contraddizioni sociali e politiche delle nazioni che conquistava, la loro cultura, le loro tradizioni, persino le loro superstizioni, e sapeva corrompere. E non si faceva scrupoli di nessun tipo. Oggi negli UK queste abilità, a parte la mancanza di scrupoli, a quanto pare sono un ricordo. Ma è vero o è apparenza? Certo, a parità di mancanza di scrupoli c’è un abisso tra un Winston Churchill e una Liz Truss: il declino occidentale si riflette anche nel disperante declino della caratura del suo personale politico. Ma al di là di questo penoso spettacolo, cosa bolle in pentola? Gli UK sono usciti dalla UE per avere le mani libere in vista della svolta che da lì a poco sarebbe stata impressa alla crisi sistemica. Questo è un punto che mi sembra assodato. Eppure sono sempre descritti come i “junior partner” degli Stati Uniti. Ma fino a che punto è vero? Gli Inglesi, gli eredi del più grande impero della storia, possono accontentarsi di essere solo dei “junior partner”? Notate che essere eredi d’imperi conta, e conta molto. Conta per il piccolo Belgio e conta per la piccola Olanda. E’ persino contato per l’Italia essere erede dell’Impero Romano: fino al 1600, quando fu superata dalla Province Unite, ha goduto del più alto PIL pro capite mondiale. E’ ovvio che quindi conti anche per la Gran Bretagna. Provate a pensare alla City di Londra. A Parità di Potere d’Acquisto gli UK vantano solo il 2,34% del PIL mondiale. Eppure nonostante gli USA abbiano una quota parte quasi 7 volte più grande, Londra supera New York per servizi finanziari, surplus degli scambi e per il mercato dei bond internazionali (si veda https://www.theglobalcity.uk/competitiveness).
Questa capacità di “resilienza” è dovuta all’accumulo nei secoli, grazie all’impero, di densi grumi di potere, di capacità di influenza, di vaste e importanti relazioni, di presenza internazionale, di abilità organizzative del business e di acquisizione e gestione delle informazioni. E’ la prova che queste capacità non sono determinate solo dalla potenza militare o da quella economica (nemmeno quella reale, altrimenti questi primati spetterebbero alla Cina). Persiste, ovviamente, anche la mancanza di scrupoli, esemplificata oggi nel modo più squallido da Liz Truss. Mentre qualsiasi politico, anche il più spudorato, parla del ricorso all’arma nucleare come di una risorsa della disperazione, Liz Truss è l’unica che ha dichiarato che si sentirebbe onorata a schiacciare il bottone dell’attacco nucleare contro la Russia. Ha anche dichiarato di essere una “enorme sionista” (a huge Zionist). Ma quando le dichiarazioni sono esagerate delle due l’una: o il soggetto è psicopatico, o nasconde qualcosa, tipicamente il contrario dell’esagerazione affermata. Tenuto conto che tradizionalmente Londra e Mosca hanno canali di comunicazione preferenziali, fino a che punto gli UK sono disposti a seguire gli USA nella loro avventura ucraina e nella loro crociata antirussa? Si tenga conto che la Gran Bretagna è sì al di là della Manica, ma è ben al di qua dell’Atlantico. Così come negli Usa dell’Ottocento c’era un partito anglofilo, i Democratici, e uno anglofobo, i Repubblicani, specularmente negli attuali UK sembra che ci sia un partito, trasversale, filo-americano e un partito, trasversale, sovranista-aristocratico (si veda https://www.cumpanis.net/la-gran-bretagna-non-puo-piu-sbagliare-la-sua-strategia-globale/). Ricordo che la regina Elisabetta fece trapelare il suo endorsement alla Brexit. E se la Brexit può voler dire abbandono dell’Europa a favore del ruolo di partner privilegiato degli Usa, fondamentalmente vuol dire tenersi le mani libere. La Gran Bretagna sembra in bilico tra il ruolo di junior partner e quello di matriarca delle giovani nazioni anglosassoni, delle Five Eyes.
In attesa quindi di vedere se Liz Truss è una volpe (per lo meno per conto terzi) o è veramente psicopatica, saremo costretti a subire i suoi spettacoli di cinismo, di arroganza e di mancanza totale di etica che uguagliano quelli di Hillary Clinton, che sembravano inarrivabili.
[9] Le provocazioni statunitensi alla Cina segnalano che Washington, Wall Street, Londra e la City sono ormai sicure che Pechino si opporrà all’integrazione della finanza cinese nei giochi finanziari occidentali – e la vicenda di Ali Baba lo dimostra. Quindi Washington e Londra devono ricorrere a tentativi di destabilizzazione.
[11] Uno per tutti, si veda un importante articolo del grande giornalista brasiliano Pepe Escobar, uno dei pochi che all’epoca di Osama bin Laden condusse inchieste in Afghanistan (e fu imprigionato dai Talebani). Dato che è stato bannato da Twitter e da Facebook, lo potete trovare qui:
[12] «In questo universo di soggetti lavorativi, che da un ventennio almeno rappresentano in Italia circa l’80% dei nuovi posti di lavoro, si distinguono nettamente due categorie: quelli che ancora conservano una coscienza della subordinazione o della dipendenza economica e ritengono che i rapporti di forza sul mercato sono tali per cui il conflitto presenta alti o troppi rischi e quelli che hanno perduto completamente questa coscienza e ritengono che la legittimazione sociale, il riconoscimento sociale siano la massima ricompensa cui hanno diritto di aspirare nel rapporto di lavoro, il quale, come tale, non può essere messo in discussione. Ritengono che negoziare le condizioni di lavoro sia un sovvertimento dell’ordine sociale. […]
Stretto nella morsa della sua solitudine, incapace di protestare o di riuscire a negoziare il rapporto di lavoro e la condizione lavorativa, volendo comunque migliorare la propria situazione, cerca una diversa situazione di lavoro, abbandona il possibile campo di scontro e crea in questo modo, da un lato, una precarietà cercata, voluta, dall’altro, un ulteriore indebolimento del fronte che avrebbe potuto configurarsi in maniera antagonista.
Mi sono fatto la convinzione che il problema del conflitto impossibile o negato ruota attorno alla tragica condizione dell’individualismo e che il problema del neofascismo, del sovranismo, del nazionalismo, del populismo – in una parola dell’antiglobalizzazione – sia essenzialmente una riproposizione dell’identità collettiva, del senso stesso di collettività, ottenuto attraverso la costruzione di un nemico immaginario (ieri gli ebrei, oggi i migranti). Questo è risaputo, è la spiegazione mainstream del neofascismo. Quello su cui non si riflette abbastanza è che alla radice sta sempre il problema del lavoro (o del welfare) e che il senso di frustrazione che è la molla dei comportamenti razzisti deriva proprio dai problemi occupazionali e in ultima analisi dall’impossibilità/incapacità di negoziare le proprie condizioni di lavoro o di migliorare la propria condizione esistenziale.
La differenza sostanziale tra il nostro modo di superare l’individualismo e quello dei populisti sta nel fatto che noi vorremmo costruire la solidarietà attraverso un conflitto reale che comporta notevoli rischi mentre loro costruiscono identità attraverso un conflitto immaginario che non comporta nessun rischio. Per questo il loro ostentare ardimento e aggressività nasconde una profonda, innata, vigliaccheria» (Sergio Bologna, “Fine del lavoro come la fine della storia? 2/2”, AcrO-Polis, 23-06-2022
L’intersecarsi disorganico di istanze di una classe media in via di proletarizzazione con quelle di un proletariato costretto a pensarsi classe media è stato messo in luce sia dalla vicenda Covid sia dalle elezioni in Europa e negli Stati Uniti.
https://sinistrainrete.info/crisi-mondiale/24083-piero-pagliani-la-caduta-lineamenti-e-prospettive-del-prossimo-futuro.html?fbclid=IwAR1YX4WMYrPRwbrjZpnMdGcpEZ6tEOvhrWEoeThZr-Ct6Q1wK68PL7vHKKE
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