RIFLESSIONI INTORNO A “IL CONFLITTO PERMANENTE COME CULLA DEL NUOVO MONDO MULTIPOLARE” DI PIERLUIGI FAGAN_ di Massimo Morigi

CULLA DEL NUOVO MONDO MULTIPOLARE O CULLA DEL NUOVO MONDO? RIFLESSIONI INTORNO A “IL CONFLITTO PERMANENTE COME CULLA DEL NUOVO MONDO MULTIPOLARE” DI PIERLUIGI FAGAN

DI MASSIMO MORIGI

Come del resto per palesemente manifestata intenzione comunicativa dell’autore, l’assai denso e stimolante contributo di Pierluigi Fagan per “L’Italia e il mondo”,  Il conflitto permanente come culla del nuovo mondo multipolare (URL di riferimento: http://italiaeilmondo.com/2018/04/05/il-conflitto-permanente-come-culla-del-nuovo-mondo-multipolare-di-pier-luigi-fagan/, WebCite: http://www.webcitation.org/6ySWLdQbR;https://pierluigifagan.wordpress.com/, WebCite: http://www.webcitation.org/6ySWkATvg) contiene due distinti livelli di analisi. Il primo, mostrato immediatamente in apertura del contributo, riguarda il problema di come e se si possa parlare di conoscenza scientifica nelle scienze politiche e sociali (Fagan, per la verità, non usa questa impostazione terminologica ed epistemologica ma ci mette in guardia contro le “false analogie”che, come sappiamo, sono state la grande trappola di tutte quelle impostazioni – in primis quella della scuola positivista, ma di questa ingenuità “analogica” non solo il positivismo si è macchiato, come ben illustra riguardo il moderno realismo classico l’articolo di Fagan –,  che volevano rendere le scienze storiche e sociali una scienza di tipo meccanicistico-naturalistico). Il secondo, che attraversa ed innerva tutto il contributo, è volto a dare un volto ed una fisiologia al nuovo mondo multipolare che stiamo vivendo dopo la caduta del muro di Berlino. Ma Fagan non vuole limitarsi a fornirci (in tutto il suo intervento: in maniera egregia) questa rappresentazione ma lo scopo finale del contributo, in gran parte riuscito (poi con qualche distinguo che avanzeremo), è intrecciare il livello di critica epistemologica contro una metodologia interpretativa facilona ed analogica del ragionamento sulla storia e la società basata  sulle false analogie con la presa d’atto del  mutamento in senso multipolare dello scenario internazionale, in un percorso argomentativo dove questo mondo multipolare, proprio per la sua novità, è da un lato la pietra tombale dell’ingenuità di tipo analogico e, dall’altro. ci deve introdurre alla consapevolezza di una visione dove il conflitto attraversa tutti i livelli dell’umano operare. Forse il passaggio dove meglio viene esplicitata questa tensione all’unione del livello della costruzione di una nuova teoresi storica e sociale con la sua (brillante) presa d’atto della multipolarità dell’attuale (e futuro) scenario internazionale è il seguente: «Quello nel quale siamo già immersi è un sistema multipolare sbilanciato con conflitto permanente. Potremmo dar nome a questa interpretazione come nuovo “realismo complesso”, un realismo che reinterpreta le costanti storiche all’attualità del mondo di oggi profondamente diverso da quello di ieri. “Conflitto” prende qui un nuovo significato che include varie forme di confronto armato ma non è riducibile solo a quello, prende il posto della guerra tradizionale dilatando però il fronte ed il tempo della tenzone. Oggi le potenze si muovono in uno scenario multidimensionale.» Il realismo che quindi dovrebbe essere all’altezza dell’interpretazione del nuovo mondo multipolare viene definito come un «nuovo “realismo complesso”» , un nuovo realismo complesso che, come il lettore potrà verificare dalla lettura del contributo, partendo dai due caposcuola del realismo politico Hans Morgenthau e Kenneth Waltz, intende su questi due autori compiere una sorta di hegeliana Aufhebung che faccia giustizia soprattutto delle false analogie che, come ben ci mostra Fagan, hanno sempre afflitto anche un’impostazione interpretativa della politica, il realismo, che, proprio per onorare il suo termine, dovrebbe stare religiosamente attaccata alla realtà effettuale e rifuggire dalle facili ed ingenue analogie tanto giustamente deprecate da Fagan (e tanto inutili, sottolinea assai opportunamente sempre per Fagan, a comprendere il nuovo mondo multipolare che non ha nessuna analogia col vecchio mondo bipolare dove esercitarono la loro dottrina Morgenthau e Waltz). Ma questo superamento/conservazione del moderno realismo politico classico (quello, per intenderci dei sunnominati Waltz e Morgenthau e di tutti coloro che hanno operato sulla loro scia nel secondo dopoguerra: per lo scrivente discorso molto diverso per il realismo à la Tucidide e, soprattutto,  à la Machiavelli, assolutamente  costoro più dialettici e teleologici dei due autori realisti che hanno segnato gli ultimi settant’anni di studi) questa Aufhebung alla luce di un nuovo realismo complesso, trova una completa definizione in Il conflitto permanente come culla del nuovo mondo multipolare? Su questo punto è lecito avanzare qualche perplessità e questo non per mancanza di acutezza critica e nell’analisi delle fallacie interpretative del moderno  realismo classico o della nuova situazione che si è prodotta nel mondo con la polverizzazione dei centri di potere ma perché nell’attuale scienza politica (e quindi questa critica non è solo per Fagan ma è anche per lo scrivente) deve essere ancora compiuto dal punto di vista della teoresi politica quel percorso di completo distacco dal meccanicismo positivistico (e quindi, di riflesso, anche dalle false analogie tanto deprecate da Fagan). Ma, del resto, è proprio Fagan ad indicarci che è proprio questo il punto che deve essere superato quando scrive che «Gli stati non sono gli atomi della fisica realista, sono entità intenzionali ed autocoscienti ». Qui Fagan con “fisica realista”si riferisce specificamente alla dinamica dei rapporti internazionali come meccanicisticamente e violentemente inquadrati dal realismo alla Morghenthau o alla Waltz ma ci sia consentito di fare un (benevolo) processo alle intenzioni a Fagan dicendo che il nostro ha (giustamente) indicato un Écrasez linfâme! nel meccanicismo pseudonaturalistico di stampo galileano e poi positivistico e neopositivistico che ormai da cinque secoli sta ammorbando le scienze storiche e sociali. A questo punto nel rilevare il non ancora soddisfacente percorso teorico del nuovo realismo politico proposto da Fagan, si potrebbe evidenziare con la matita rossa il non avere affrontato il problema del costruttivista Alexander Wendt, cioè se sia condivisibile o meno l’impostazione che l’anarchia del sistema internazionale sia un dato di natura prettamente culturale e per niente “meccanica”(problema affrontato dal Alexander Wendt in Id., Anarchy is what States Make of it: The Social Construction of Power Politics in “International Organization”, Vol. 46, No. 2. (Spring, 1992), pp. 391-425, articolo consultabile all’URL https://people.ucsc.edu/~rlipsch/migrated/Pol272/Wendt.Anarch.pdf e che noi per la sua importanza abbiamo anche caricato  su Internet Archive agli URL https://archive.org/details/AnarchyIsWhatStatesMakeOfIt.TheSocialConstructionOfPowerPolitics.pdf e https://ia601506.us.archive.org/7/items/AnarchyIsWhatStatesMakeOfIt.TheSocialConstructionOfPowerPolitics.pdf/AlexanderWendt.AnarchyIsWhatStatesMakeOfIt.TheSocialConstructionOfPowerPolitics.pdf), oppure, per risalire alle origini della geopolitica (geopolitica e realismo politico moderno, come si sa, hanno stretti vincoli di parentela, e senza voler forzare troppo la mano, si potrebbe dire che il moderno realismo politico è, per molti versi, la traduzione anglosassone del secondo dopoguerra  della geopolitica di area tedesca – cfr. Patricia Chiantera-Stutte, Il pensiero geopolitico. Spazio, potere e imperialismo fra Otto e Novecento, Roma, Carocci Editore, 2014; e nonostante questa strettissima filiazione con il moderno realismo politico di area anglosassone, geopolitica condannata alla damnatio memoriae per i suoi reali, e presunti,  legami col nazismo – Haushofer maestro di Rudolf Hess, Hess  a sua volta sinistro Virgilio di geopolitica di Hitler incarcerato nella prigione di Landsberg am Lech dopo il fallito putch di Monaco e che durante questa dorata carcerazione, potendo anche approfondire la sua superficiale conoscenza della geopolitica, scrisse il Mein Kampf – e per l’essere stata  considerata la Germania del  Novecento – e quindi in extenso tutta la sua cultura politico-strategica, fra cui in prima fila la geopolitica –  la protagonista e colpevole per l’annientamento a livello globale dell’importanza del Vecchio continente), il non avere Fagan citato  Kjellén e la sua concezione dello Stato come forma di vita (Rudolf Kjellén, Staten som lifsform, Gebers, 1916): il punto vero è che sia Wendt che Kjellén, pur andando nella giusta direzione di un modello teorico antimeccanicisitico, né riescono, in fondo, a proporne uno alternativo né escono, di conseguenza, dalle false analogie tanto giustamente deprecate da Fagan.

In particolare, in Wendt, seppur particolarmente sentita la necessità di uscire dal modello meccanicistico di stampo galileiano, e allo scopo Wendt arriva a ricorrere alla meccanica quantistica da lui ritenuto alternativo alla fisica meccanicistica galileano-newtoniana (cfr. Alexander Wendt, Quantum mind and social science: unifying physical and social ontology, Cambridge, Cambridge University Press, 2015; questa impostazione “quantistica”, denunciando a giudizio del Repubblicanesimo Geopolitico, una notevole e del tutto giustificata “nostalgia” verso un ritorno di una dialettica di stampo hegeliano) non ci si decide mai, alla fine, di prendere il coraggio a due mani arrivando ad affermare, come invece in Fagan, che gli Stati  “sono entità intenzionali ed autocoscienti” ma il suo costruttivismo è orientato ad affermare che l’intenzionalità ed autocoscienza degli Stati sono, in ultima analisi, un espediente euristico per giudicare la dinamica interna ed esterna di  questi Stati e non un giudizio in merito alla loro intima natura (così facendo, è ovvio, Wendt evita false analogie di tipo organicistico ma, altrettanto ovvio, compie un debole compromesso verso quel meccanicismo che egli vorrebbe demolire in direzione di un organicismo che dovrebbe sì lasciarsi alle spalle ogni falsa analogia ma che per essere veramente epistemologicamente innovativo e produttivo dal punto di vista di un rinnovato realismo dovrebbe andare, come però non riesce alla fine ad accadere in Wendt, alla riscoperta di un organicismo antimeccanicistico lungo la direttiva teleologica – e, aggiungiamo noi, intimamente dialettica e, quindi, in ultima analisi, hegeliano-idealistica –  Aristotele-Machiavelli).

Kjellén, al contrario, col suo Stato come organismo vivente, compie sì un grande e coraggioso passo ma in lui è fortissima la presenza della falsa analogia di una visione certamente organica ma visione organica che è quasi totalmente in preda di un organicismo di stampo positivistico e meccanicistico (e, vista l’epoca, senza alcuna possibilità di fuoruscita dalla stesso attraverso la fisica “alternativa” della meccanica quantistica, in primis dei suoi principii, da un certo punto di vista alquanto dialettici,  della superposition quantistica, della complementarietà e, last but not the least per la sua immensa portata teleologica, dell’observer effect).

In conclusione, il problema è uscire dalle false analogie nel giudicare gli eventi storici e sociali, false analogie che possono originare semplicemente dal paragonare l’attuale mondo multipolare con l’appena tramontato mondo pre caduta muro di Berlino, ma, ancor più grave, false analogie che ci giungono dal vedere il mondo delle relazioni umane dominato da schemi meccanicistici e in cui, in questo caso, la corretta  via d’uscita è dotare, come ha fatto Fagan, gli Stati e le formazioni sociali umane (ma, aggiungiamo noi, anche non umane) di una loro capacità organica (ma qui con il rischio che questa loro natura organica sia immiserita e snaturata, a sua volta, da una sorta di meccanicismo deterministico, o ancor peggio – e qui lo diciamo di sfuggita, ma rischio che deve essere sottolineato –  che la natura organica e  quindi teleologica e quindi dialettica di questi aggregati – ineludibile natura teleologica e dialettica degli aggregati organici sociali, storici, culturali o biologici che siano, in assenza della quale questi non potrebbero relazionarsi con l’ambiente e, quindi, in ultima istanza, esistere: rimandiamo ancora una volta a Richard Lewins, Richard Lewontin, The Dialectical Biologist, Harvard University Press, 1985 – venga confusa con una sorta di spiritistico  ed irrazionalistico élan vital di bergsoniana memoria).

E allora? Ci permettiamo di indicare (non di dimostrare, per carità, le dimostrazioni le lasciamo ai geometri neopositivisti) la risoluzione sciogliendo la domanda retorica del titolo di queste riflessioni al contributo di Fargan in senso positivo e quindi affermando che il conflitto non è solo la culla del nuovo mondo multipolare ma è, soprattutto, la culla del mondo tout court. Ed affermando, inoltre, che perché questa “culla del mondo” possa essere il luogo di un conflitto umanamente profondo e produttivo, non è possibile prescindere da un’autentica e sentita filosofia della prassi che non si limiti ad analizzare il conflitto ma che questo conflitto costituisca e riconosca come categoria gnoseologica ed epistemologica interiormente vissuta e progressivamente ed attivamente proiettata verso una realtà esterna che, proprio in ragione di questa comune natura conflittuale, sia dinamicamente e dialetticamente legata all’agente che ne ha compresa la comune radice creativo-dialettico-strategico-conflittuale.

La proposta è, quindi, aggiornata sul piano empirico dalla consapevolezza di uno scenario politico multipolare   (e magari integrata sul piano delle scienze naturali dagli interessanti apporti euristici dati anche dalla meccanica quantistica ma non solo, vedi teoria del caos – antesegnano della quale Carl von Clausewitz ed il suo Vom Kriege ed epigenetica – vedi i lavori di Eva Jablonka, in particolare Eva Jablonka, Marion J. Lamb, Evolution in Four Dimensions: Genetic, Epigenetic, Behavioral, and Symbolic Variation in the History of Life, Bradford Books/The MIT Press. 2005 –, temi da noi già sfiorati in Dialecticvs Nvncivs e altrove, e che troveranno una più profonda trattazione in Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico) ma su un piano teorico più alto, animata dalla consapevolezza della natura costitutiva del conflitto nella morfogenesi del mondo naturale ed umano lungo la direttiva di una filosofia della prassi che vede in Giovanni Gentile, Antonio Gramsci dei Quaderni del Carcere e nel György Lukács di Storia e coscienza di classe i suoi più recenti terminali ma che ha avuto inizio con la phronesis aristotelica per continuare con Machiavelli e poi con Hegel, quella stessa, in fondo, del “realismo complesso” indicata da Fagan. Ovviamente non pretendendo, proprio per la natura complessa di questo realismo, che egli possa concordare su ogni singolo punto qui esposto ma sperando, sempre per la natura complessa e quindi dialettica di questo realismo, che questo dibattito, ponendo la parola fine ad ogni ingenua, passiva e meccanicistica analogia, possa essere l’inizio di  nuove profonde ed attive linee di azione.

Massimo Morigi – 14 aprile 2018

 

 

DA MASSIMO MORIGI A TEODORO KLITSCHE DE LA GRANGE_A PROPOSITO DEL REALISMO POLITICO, di Massimo Morigi

RECENSIONE CUMULATIVA A “SOVRANISMO E LIBERTÁ POLITICA” (http://italiaeilmondo.com/?s=sovranismo+e+libert%C3%A0+politica  E http://www.webcitation.org/6yPG6YC86), “STATO RAPPRESENTATIVO E VINCOLO DI MANDATO” (http://italiaeilmondo.com/?s=STATO+RAPPRESENTATIVO+E+VINCOLO+DI+MANDATO E http://www.webcitation.org/6yPGTH6Wo), “NOTE SU DIPENDENZA DEGLI STATI E GLOBALIZZAZIONE” (http://italiaeilmondo.com/?s=NOTE+SU+DIPENDENZA+DEGLI+STATI E http://www.webcitation.org/6yPGjFeLj) E “SENTIMENTO OSTILE, ZENTRALGEBIET E CRITERIO DEL POLITICO” ( http://italiaeilmondo.com/?s=sentimento+ostile E http://www.webcitation.org/6yPGwg0i6 O https://www.rivoluzione-liberale.it/wp-content/uploads/2017/03/SENTIMENTO-OSTILE-ZENTRALGEBIET-E-CRITERIO-DEL-POLITICO.pdf E http://www.webcitation.org/6yPIFo21y) DI TEODORO KLITSCHE DE LA GRANGE

 

Di Massimo Morigi

 

Nell’appena passato mese di marzo sulle pagine elettroniche dell’ “Italia e il mondo” sono stati ospitati quattro interventi di Teodoro Klitsche de la Grange, sui cui relativi titoli, URL di riferimento e “congelamenti” su WebCite si è già data indicazione bibliografica nel titolo del presente commento. Esaurita questa premessa diciamo tecnica (ma che in sè contiene già una valutazione estremamente positiva di questi interventi, visto che si è ritenuto doveroso preservarli a futura memoria dal rischio della decadenza degli URL originari), veniamo ora di sviluppare una valutazione complessiva in merito agli stessi, valutazione globale non solo estremamente positiva (e questo s’è appena detto ma repetita anche se stufant iuvant) ma anche di facilissima formulazione perché in questi interventi Teodoro Klitsche de la Grange – come del resto in tutti i suoi precedenti lavori – si è dimostrato come uno dei più interessanti interpreti e rinnovatori presenti sull’italica – e, purtroppo, assai derelitta da questo punto di vista –  piazza del pensiero politico realista. Quindi, i suoi punti di riferimento sono quegli autori, Tucidide, Niccolò Machiavelli, Carl von Clausewitz, e per giungere ai contemporanei  Julien Freund, che costituiscono le fonti basilari del pensiero realista e naturalmente – e, applicandola al Nostro mai come in questo caso l’icastica formuletta inglese è stata appropriata – last but not the least Carl Schmitt. Del quale grande giuspubblicista Teodoro Klitsche de la Grange si dimostra non solo profondo conoscitore – e “sviluppatore” del suo pensiero – dal punto di vista strettamente politologico e filosofico-politico ma anche dal punto di vista della teoresi giuridica, caratteristica questa di La Grange non solo estremamente preziosa in sede di trattazione dello Schmitt (preziosa, ovviamente, qualora questa maestria nelle scienze giuridiche molto importante nell’affrontare lo Schmitt sia accompagnata da altrettanta conoscenza politologica come nel suo caso) ma anche per l’affermazione di una autentica cultura realista, il cui costante rischio, specialmente ma non solo a livello di vulgata popolare, è quello di sprofondare in una sorta di nascosto naturalismo e/o criptopositivismo, in ultima analisi, quindi, in una negazione del vero realismo, il cui nucleo generatore è mettere sempre al primo posto le teleologie dei vari attori singoli od associati che siano;  teleologie in cui il primo stadio di manifestazione e cristallizzazione consiste appunto nella dimensione giuridica. Che del resto la riflessione sulla dimensione teleologica del diritto sia centrale in La Grange, e lo sia lungo la fecondissima direttrice già a suo tempo tracciata da Schmitt, ben risalta dalla seguente citazione dalla nota n. 9 di Sovranismo e libertà politica, dove sulla scorta della schmittiana Politische Theologie viene smontata la concezione Kelseniana del diritto e del ‘politico’ puramente procedurale, concezione che a livello di teoria giuridica non è altro che l’espressione della contraddizione dell’ attuale ideologia democratica, formalmente basata sulla decisione del popolo ma che questa dimensione decisionistica della politica alla fine nullifica perché, in ultima istanza, questa decisione deve essere sempre e comunque conforme ad astratti principi universalistici e che trovano questi principi garanzia della loro realizzazione non tanto attraverso un rispetto sostanziale  della decisione ma attraverso un procedimento formale di creazione giuridica in cui alla fine poco importa se questo realizzi o meno l’autentica teleologia della decisione stessa: «riportiamo [scrive La Grange] i passi salienti delle critiche di Schmitt: “Kelsen risolve il problema del concetto di sovranità semplicemente negandolo. La conclusione delle sue deduzioni è «Il concetto di sovranità dev’essere radicalmente eliminato». Di fatto si tratta ancora dell’antica negazione liberale dello Stato nei confronti del diritto e dell’ignoranza del problema autonomo della realizzazione del diritto. Questa concezione ha trovato un rappresentante significativo in H. Krabbe, la cui dottrina della sovranità del diritto riposa sulla tesi che ad essere sovrano non è lo Stato, bensì il diritto. Kelsen sembra scorgere in lui solo un precursore della sua dottrina dell’identità di Stato ed ordinamento giuridico. In verità la teoria di Krabbe ha una radice ideologica comune con il risultato di Kelsen”; secondo Krabbe “Lo Stato ha solo il compito di «costruire» il diritto: cioè di fissare il valore giuridico degli interessi … Lo Stato viene ridotto esclusivamente alla produzione del diritto”  in Poltische Theologie I, trad. it. in Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 56.» Comunque, se quanto appena citato ci permette di definire il La Grange come un ortodosso – ed anche assai attrezzato dal punto dell’acribia sulle fonti – esponente del pensiero realista nonché conoscitore del pensiero di Schmitt, la cui caratteristica è seguire l’autentico sviluppo, di natura tutta teleologica, del momento giuridico nella dimensione del ‘politico”, e La Grange coglie in pieno questa evoluzione che si sviluppa senza soluzione di continuità, è giunto a questo punto il momento di dare piena giustificazione alla nostra affermazione iniziale che La Grange non è solo un profondo conoscitore e cultore del pensiero realista ma ne è soprattutto un rinnovatore. Se consideriamo le vicende umane (politiche, economiche, culturali ma anche semplicemente esistenziali sul piano privato) da un punto di vista realista e quindi teologico, per tutte queste vicende esiste un “punto di caduta”, un momento di risoluzione sia simbolico che di indicazione delle linee di azione e di comprensione della azione e/o della situazione, che ci permette non solo di definire queste vicende ma anche di indicarci la direzione per un nostro attivo intervento sulle stesse. Ora, a mio giudizio il “punto di caduta” dei quattro articoli che  Teodoro Klitsche de la Grange ha gentilmente concesso ai lettori dell’ “Italia e il mondo” ed anche la prova della dimensione autenticamente rinnovatrice e creatrice del suo realismo, può essere colto a pieno dalle seguenti parole che cito dalla chiusa di Nota su dipendenza degli stati e globalizzazione: «Che «forza» e «legge» siano modi di combattere, come scrive Machiavelli, ossia d’imporre la propria volontà, è spesso dimenticato; così del pari, è – anche se in misura minore – trascurato che forza e legge sono anche modi di governare, non (totalmente) alternativi, ma piuttosto complementari. La «legge» senza forza è inutile: la forza senza legge è arbitrio violento. Nella realtà occorrono entrambi. Se la combinazione di forza e regola è la normalità del governo dei gruppi umani, così come il potere responsabile è l’ordinatore ideale, quello che si profila nel mondo globalizzato appare tra i meno preferibili. Perché si risolve nell’affidare prevalentemente alla forza e all’astuzia (del potere esistente) il massimo della potenza disponibile senza la prospettiva che possa riuscire a creare un ordine che sia veramente tale.» Oltre alla totale demolizione del mito di una globalizzazione che si vorrebbe pacifica mentre in realtà è il suo esatto contrario perché questa vuole inesorabilmente eliminare ogni potere teleologicamente responsabile per sostituirlo con gli imperscrutabili meccanismi sociali ed economici della globalizzazione stessa (libera, o meglio anarchica, circolazione di capitali, merci ed uomini con conseguente annientamento di ogni peculiarità politica, economica e culturale degli stati nazione e delle diverse etnie), le parole appena citate rendono ampia dimostrazione di un pensiero realista veramente innovatore e che compie un’hegeliana Aufhebung del magistero schmittiano perché ha compreso «che forza e legge sono anche modi di governare, non (totalmente) alternativi, ma piuttosto complementari». Dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico questa complementarietà non è solo necessaria dal punto di vista della creazione e conduzione di una vitale e reale Res Publica ma, ancor più, costituisce un inscindibile binomio dialettico: che per comodità espositiva e di descrizione delle varie situazioni possiamo di volta in volta definire legge o forza; le quali però, nella sostanza, non sono che due espressioni e manifestazioni basilari ed originarie di quel conflitto-azione strategica da cui origina la società e tutta la dinamica storica (ed anche tutta la dinamica creatrice  del mondo fisico-naturale, ma questa non è la sede per dilungarci sull’argomento, per il quale si rimanda volentieri a quanto precedentemente già detto, in particolare nel Dialectvs Nvncivs ma anche in altri luoghi). Resta da vedere quanto Teodoro Klitsche de la Grange possa concordare dal punto di vista della teoresi a tutta questa  peculiare direzione dialettica e originata da una interpretazione in chiave di filosofia della prassi del magistero marxiano ed in particolare delle sue Glosse a  Feuerbach (e quindi quanto sia disposto ad inserire nel suo Pantheon realista autori come Antonio Gramsci e il György Lukács di Storia e coscienza di classe: intanto, dalla lettura di Sentimento ostile, Zentralgebeit e criterio del politico, l’ultimo dei quattro articoli gentilmente concessi all’attenzione dei lettori dell’  “Italia e il mondo”, abbiamo con piacere potuto notare che non esiste alcuna preclusione verso il grande disconosciuto della cultura italiana del Novecento, e cioè verso Giovanni Gentile la cui interpretazione della filosofia di Marx in chiave attualista come filosofo della prassi non solo costituisce un “rimettere coi piedi per terra” l’impostazione filosofica in chiave antipositivista del pensatore di Treviri ma costituì anche la base per il successivo sviluppo della filosofia della prassi in Antonio Gramsci, così come ci viene restituita e sviluppata nei suoi Quaderni del Carcere), ma questo costituisce non dico un problema trascurabile o da relegare solamente ad un dibattito fra specialisti (non bisogna mai peccare di falsa condiscendenza) ma certamente è un aspetto secondario nel giudicare l’importanza dell’impostazione del realismo politico fornitaci da Teodoro Klitsche de la Grange e questo perché tutto l’argomentare di questo valente studioso va veramente nella direzione della creazione e disvelamento di quell’ ‘epifania strategica’ che, a meno che il pensiero realista non si voglia chiudere in sé stesso, deve costituire il momento generatore ed obiettivo del pensare il ‘politico’. Ed è soprattutto per questa intima teleologia, unita alle sue non comuni capacità critiche,  che  dobbiamo ringraziare Teodoro Klitsche de la Grange.

 

Massimo Morigi – 5 aprile 2018

 

 

 

 

 

 

Riguardo a   “La complessità di un mondo multipolare – Videointervista a Pierluigi Fagan”, di Massimo Morigi

Riflettendo in queste pagine dell’ “Italia e il mondo” sul   “ “Che fare” di Carl Schmitt. Europa, nuovi stati, Nomos del mondo” di Pierluigi Fagan (sempre pubblicato in questo blog) riassumevo nei seguenti termini il mio pensiero in merito all’odierno stato della scienza politica ritenendo che, pur nella differenza di impostazione nell’affrontare la storia del pensiero politico  fra lo scrivente e Fagan (a mio giudizio un eccesso di schematismo classificatorio in Fagan che lo porta a trascurare la presenza o meno della componente conflittuale-strategica dei singoli pensatori: «Ci sono pensatori politici di due tipi, quelli che rimangono teorici e quelli che bordeggiando contingenze pratiche, finiscono con l’addomesticare la propria teoria alla contingenza», scriveva in quell’intervento Fagan riferendosi a Carl Schmitt, accusando quindi il suo pensiero di strumentalismo e trascurandone perciò la drammatica ed euristicamente fondamentale  dialettica del confronto della teoria con la prassi politica), Pierluigi Fagan fosse pienamente convergente con me  nel cogliere il terribile deficit di pensiero che caratterizza le odierne classi dirigenti politico-intellettuali delle cosiddette democrazie rappresentative: «Conclusione che non conclude ma che (dovrebbe) aprire il cantiere del rapporto fra prassi e teoria politica: c’è indubbiamente diffusa una rinnovata consapevolezza che le vecchie mitologie politiche liberali e democraticistiche non stanno più letteralmente in piedi; ma c’è in tutti noi indubbiamente il bisogno di un rinnovato ed approfondito sforzo teorico-pratico per rimpiazzare queste consunte mitologie politiche. E l’odierno contributo di Pierluigi Fagan senza dubbio si inserisce validamente in quest’alveo.» Ora riguardo a “La complessità di un mondo multipolare – Videointervista a Pierluigi Fagan” pubblicata in tre parti in questo blog (caricata anche su YouTube e sulla quale piattaforma viene pubblicata nelle sue tre parti anche sul seguente unico URL  https://www.youtube.com/watch?v=MBVEzL4hsL0), non posso che confermare – e rafforzare – il mio giudizio totalmente positivo su questo studioso, giudizio positivo ulteriormente confermato in ragione non solo del fatto che nell’intervista Fagan ribadisce e argomenta ulteriormente l’attuale crisi che attraversa la teoresi politica ma fornisce anche indizi per fornire un contesto storico alla stessa. Per Fagan questa crisi di pensiero risale principalmente al periodo fra il primo ed il secondo dopoguerra (cita come esempio e della debolezza intrinseca di questo pensiero ed anche della scarsa produttività dello stesso il progetto della Paneuropa di Richard Nikolaus von Coudenhove-Kalergi e il Manifesto federalista di Ventotene di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, risibili non solo per la – dirigistica ed autoritaria –  utopicità di voler federare un’Europa che al massimo presa nel suo insieme, nell’insieme cioè delle sue immense differenze, potrebbe aspirare ad una confederazione ma anche ridicoli nel senso che sono state le uniche nuove proposte di un Vecchio continente in crisi che, invece, sul piano culturale ed artistico si era contraddistinto come l’iperproduttiva fucina della modernità); mentre, a mio giudizio, la crisi del pensiero politico moderno (e la crisi del Vecchio continente tout court, le quale due cose, come è di tutta evidenza, sono strettissimamente correlate) va piuttosto collegata col trauma della seconda guerra mondiale, conflitto che ha significato accanto alla giusta e sacrosanta damnatio memoriae del totalitarismo nazista e fascista anche la damnatio memoriae di un qualsiasi pensiero  non  di stretta osservanza universalista, liberale e/o comunista-internazionalista che fosse. Ma queste sono non dico questioni di dettaglio (non lo sono di dettaglio sia perché anche l’universalismo politico e filosofico possiede una sua dialetticità storica, e a seconda o no che si concordi sulla realtà di  questa dialetticità si è o reazionari –  absit iniuria verbis! – o appartenenti ad una tradizione realista-strategica ed intrinsecamente dialettica (Machiavelli, Mazzini, Marx, Gramsci, il György Lukács di Storia e coscienza di classe) ma certamente problemi che però non riescono ad occultare il fatto principale – e puntualmente rilevato da Fagan – che la crisi del pensiero politico occidentale – e della sua filosofia – non deriva dal fatto che la teoria ha giocato tutte le sue carte ma dal semplice dato di fatto che la crisi geopolitica dell’Europa, che ha avuto il suo acme nel Secolo breve, non poteva non produrre anche una contemporanea crisi di pensiero: non grande importanza, allora stabilire l’esatto terminus a quo, l’importante è avere ben presente il processo. Al giorno d’oggi la vera nobilitate di un pensiero e di un pensatore è sulla consapevolezza di questo inestricabile e dialettico nesso fra dato geopolitico e/o storico e dato teorico che si misura. Da questo punto di vista il pensiero di Fagan veramente molto attento, come ama concepirlo Fagan, al dato della “complessità” del mondo contro ogni ideologico tecnicismo ed invadente ed autoritaria tecnocrazia (ma noi, preferiamo dire: estremamente sensibile alla storicità e dialetticità dell’agire umano) si colloca veramente con grande autorità nell’alveo storicista di una filosofia della prassi che ha compreso che non esiste una evoluzione della teoresi politica qualora questa si consideri separata dalla “bassa” pratica del cambiamento del “politico”. E di questa non piccola consapevolezza dobbiamo continuare a ringraziare Pierluigi Fagan.

 

 

Massimo Morigi, 31 marzo 2018

 

 

 

 

 

 

 

REPLICA    DI MASSIMO MORIGI A “CIRCA IDENTITÀ E UNIVERSALISMO: DIALOGHI REPUBBLICANI” DI ALESSANDRO VISALLI

REPLICA DI MASSIMO MORIGI A “CIRCA IDENTITÀ E UNIVERSALISMO: DIALOGHI REPUBBLICANI” DI ALESSANDRO VISALLI

(AGLI URL http://italiaeilmondo.com/2018/03/20/circa-identita-e-universalismo-dialoghi-repubblicani-di-alessandro-visalli/ E https://tempofertile.blogspot.it/2018/03/circa-identita-e-universalismo-dialoghi.htmlWebCite: http://www.webcitation.org/6y9MwYd6S E http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F03%2F20%2Fcirca-identita-e-universalismo-dialoghi-repubblicani-di-alessandro-visalli%2F&date=2018-03-24)

Caro Visalli, in questa mia ulteriore  replica alle tue ultime stimolanti considerazioni sul problema identitario mi permetto di citarti iniziando dal finale del tuo articolo dove vi si afferma: «l’idea di libertà come egoismo non limitato, spesso connessa internamente con lo scientismo, è strutturalmente e geneticamente connessa con l’inibizione dell’azione collettiva e milita contro quella che Taylor chiama la “libertà pubblica”. La “libertà privata” atomistica impedisce l’affermazione della “libertà pubblica”, l’autorealizzazione individualista con la lealtà collettiva. La questione è dunque politica.» Sono d’accordo in tutto e per tutto, specialmente nell’ultima frase dove si dice che il problema dell’identità ruota totalmente intorno alla politica. Ma, come si dice, “il diavolo è nei dettagli” ed è quindi necessario chiarire molto bene cosa si intende per ‘politica’ e come si intende la natura della ‘politica’. Ora la mia forte impressione è che per politica nel tuo ultimo contributo s’intenda un’attività culturale  che si contrappone alla naturalità dell’uomo, la quale naturalità umana, sovente agonistica e violenta, se ben diretta da una “buona politica” riesce a mettere la sordina agli spiriti belluini dell’uomo (fra i quali primeggia l’autoriconoscersi dei gruppi umani con specifiche identità); se invece eccitata da una “cattiva politica” funge da tragico moltiplicatore di queste tendenze violente e distruttive. Su questo punto dissento radicalmente. Non è questa la sede per ripercorrere partitamente l’epistemologia che sotto la definizione di ‘Repubblicanesimo Geopolitico’ è stata sviluppata per contestare alla radice la suddivisione, originata in primo luogo dalla rivoluzione scientifica galileana, fra natura e cultura, due punti di vista di conoscenza della realtà che possono venire unificati alla luce del modello dell’azione dialettico-conflittuale-strategica (modello dell’azione dialettico-conflittuale-strategica per il quale si rimanda, per chi ne voglia  per sommi capi ripercorrere la teoria,  a Repubblicanesimo Geopolitico Anticipating  Future Threats. Dialogo sulla moralità del Repubblicanesimo Geopolitico più breve nota all’intervista del CSEPI a La Grassa (di Massimo Morigi), agli URL https://archive.org/details/MARXISMO_345  e https://ia601909.us.archive.org/4/items/MARXISMO_345/MARXISMO.pdf ; WebCite:    http://www.webcitation.org/6o8vF7WLt  e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601909.us.archive.org%2F4%2Fitems%2FMARXISMO_345%2FMARXISMO.pdf&date=2017-02-09; ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/309427489_Repubblicanesimo_Geopolitico_Anticipating_Future_Threats_Dialogo_sulla_Moralita_del_Repubblicanesimo_Geopolitico_piu_Breve_Nota_all%27Intervista_del_CSEPI_a_La_Grassa_di_Massimo_Morigipdf: DOI: 10.13140/RG.2.2.11532.72320  e  a Dialecticvs Nvncivs. Il punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico attraverso i Quaderni del Carcere e Storia e Coscienza di Classe per il rovesciamento della gerarchia della spiegazione meccanicistico-causale e dialettico-conflittuale, per il rinnovamento degli studi marxiani e marxisti e per l’Aufhebung della gramsciana   e   lukacsiana   Filosofia   della  Praxis, agli URL https://archive.org/details/DialecticvsNvncivs_201701  e https://ia801509.us.archive.org/26/items/DialecticvsNvncivs_201701/Dialecticvs%20Nvncivs.pdf; WebCite:  http://www.webcitation.org/6o8wW4znJ e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia801509.us.archive.org%2F26%2Fitems%2FDialecticvsNvncivs_201701%2FDialecticvs%2520Nvncivs.pdf&date=2017-02-09; ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/313278043_Dialecticvs_Nvncivs_Il_punto_di_vista_del_Repubblicanesimo_Geopolitico_attraverso_i_Quaderni_del_Carcere_e_Storia_e_Coscienza_di_Classe_per_il_rovesciamento_della_gerarchia_della_spiegazione_meccanici: DOI: 10.13140/RG.2.2.29749.47842. Dialecticvs Nvncivs è stato inoltre pubblicato anche sul presente  blog  “L’Italia e il Mondo”,  agli URL   http://italiaeilmondo.com/2016/12/13/dialecticus-nuncius-di-massimo-morigi/ e http://italiaeilmondo.com/category/agora/; WebCite: rispettivamente http://www.webcitation.org/6oBwn5kXP e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2016%2F12%2F13%2Fdialecticus-nuncius-di-massimo-morigi%2F&date=2017-02-11 e http://www.webcitation.org/6oBx5xZNt e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2Fcategory%2Fagora%2F&date=2017-02-11), e non è nemmeno la sede per argomentare che non solo la cultura politica ma anche la cosiddetta cultura scientifico-naturalistica devono ripartire dallo Zoòn Politikòn  aristotelico dove, almeno per rimanere alle scienze umane, è di tutta evidenza che per lo stagirita il ‘politico’ (o il sociale a seconda dalla traduzione, ma è altrettanto chiaro che si tratta di un problema di traduzione tutto nostro, perché per Aristotele evidentemente tale distinzione non avrebbe avuto senso) è tutto fuorché non naturale e non costitutivo della naturalità (e quindi della politicità e/o della socialità) dell’uomo, ma forse non è inutile sottolineare che a modesto giudizio dello scrivente questa artificiosa suddivisione fra natura e cultura (e quindi, per diretto riflesso, fra natura e politica), è responsabile della discutibile affermazione che «Quel che possiamo provare a nominare come ‘i popoli’ (che poi a grandi linee sono solo le loro élite e le clientele ad esse connesse in vario modo, e quindi facenti parte del ‘modo di produzione’ tributario ad esse) hanno sempre sviluppato una loro specificità, e quindi ciò che oggi chiamiamo una loro ‘identità’, ma quanto ad avvertirla il passo non è sempre automatico», dove l’elemento discutibile non è tanto la giusta sottolineatura del fatto che «le élite e le clientele», detto in parole povere, “ci marciano” sul sentimento identitario dei gruppi umani ma quello che sembra sottintendere il passaggio testé citato, e cioè che il senso – e il bisogno – di identità dei gruppi umani sia un prodotto di pretta natura  “culturale” ed essendo come tale politico, cioè frutto di una “cattiva politica”, può essere curato e domato da una “buona politica” che ponga ai vari gruppi umani altri obiettivi che non siano identitari, vale a dire la ricerca all’interno di questi gruppi di una maggiore giustizia. Ora su questo punto occorre essere molto chiari. Non c’è bisogno di ricorrere ad esempi storici per mostrare che le élite sul bisogno identitario ci abbiano “marciato” ma è un terribile errore prospettico affermare che le élite abbiano ad arte creato questo bisogno del quale, mi scuso per il gioco di parole, non c’era alcun bisogno e che in natura sarebbe addirittura inesistente. Non è qui il caso di fare un corso di antropologia culturale in sessantottesimo ma è di tutta evidenza non solo che l’evoluzione dell’homo sapiens (per limitarci alla specie che per ovvie ragioni conosciamo meglio ma il discorso è per lo meno estendibile anche ad altre specie animali che hanno sviluppato strategie di sopravvivenza di gruppo, cioè in pratica tutte, e non escludiamo le specie vegetali) sia dal punto di vista biologico che culturale è avvenuta all’interno di gruppi che avevano sviluppato linguaggi specifici e quindi identità escludenti gruppi concorrenti dotati di altre espressioni linguistiche e/o di trasmissione di informazioni ma è anche altrettanto evidente che senza questo presa di coscienza di alterità rispetto agli altri gruppi umani (coscienza di alterità culturale e naturale al tempo stesso) non ci sarebbe stata alcuna evoluzione umana (sull’inestricabile nesso fra l’evoluzione culturale, la sua trasmissione di generazione in generazione e su come questa  evoluzione-trasmissione culturale abbia fortissime ricadute anche nella modificazione del genotipo non solo della specie umana ma anche delle altre specie animali, in uno schema che riprende,  integra e sviluppa dialetticamente sul modello darwiniano di pura selezione meccanica il precedente schema lamarkiano dove l’organismo ed il gruppo in cui questo organismo è collocato svolgono un ruolo attivo e culturalmente mediato e non solo passivo come nel darwinismo, si consigliano, oltre al Dialectical Biologist di Richard Lewins e Richard Lewontin – Richard Lewins, Richard Lewontin, The Dialectical Biologist, Harvard University Press, 1985 –  i fondamentali lavori di Eva Jablonka sull’epigenetica, in particolare Eva Jablonka, Marion J. Lamb,  Evolution in Four Dimensions: Genetic, Epigenetic, Behavioral, and Symbolic Variation in the History of Life, Bradford Books/The MIT Press. 2005). Concludo  con Hannah Arendt citando il suo  Sulla rivoluzione dove la filosofa politica tedesca esule negli Stati uniti per ragioni razziali e assunta  poi la cittadinanza statunitense, parlandoci del   miracolo non miracolo dell’azione (non miracolo perché evento totalmente terreno, miracolo perché l’azione consente all’uomo di vincere la sua mortalità sia attraverso il lustro che gli può conferire una grande e gloriosa azione ma, soprattutto, perché l’agire dà inizio ad una catena infinita di eventi che va oltre la vita dell’uomo), lega quest’azione al principio naturale della generazione vitale e della  crescita, generazione vitale e crescita  che a loro volta sono hic et nunc possibili solamente qualora si instauri, di generazione in generazione, una  consapevole  tradizione di passaggio  di queste possibilità creative e di azione. In questo discorso Hannah Arendt sovrapponeva il paradigma culturale dell’antica Roma all’azione dei padri fondatori degli Stati uniti, e in questa sorta di anacronismo non si fa molta fatica ad intravedere il problema identitario di un’ebrea tedesca che aveva perso la sua patria e doveva trovarsene e crearsene un’altra. Ma nonostante l’anacronismo di paragonare in On Revolution (Hannah Arendt, On Revolution, The Viking Press, 1963) Roma antica agli Stati unti, queste parole  di Hannah Arendt, volendo andare al di là delle peculiari  situazioni storiche  che vi vengono trattate  e comparate, la tradizione culturale-religiosa della Roma antica e  la rivoluzione americana, costituiscono uno dei più grandi contributi in merito alle dinamiche identitarie (indubbiamente autoperformative, quindi culturali, ma non per questo innaturali, anzi esattamente il suo contrario) e all’errore che si  commette qualora queste dinamiche vengano considerate come una sorta di epifenomeno culturale trattabile con giuste politiche piuttosto che come un bisogno naturale e culturale dell’uomo e indispensabile non solo per la sua evoluzione ma anche perché la sua natura rimanga una natura umana e quindi in grado di crescere, generare e creare, contrapponendosi quindi alla meccanizzazione della sua cultura e della sua psiche; una meccanizzazione che, sia detto per inciso, non è iniziata con la rivoluzione industriale ma è l’inevitabile portato, verificatosi in tutte le epoche dell’uomo, dell’azione delle elite, ma non in quanto queste intendono “marciare” sui problemi indentitari ma quando questi gruppi ristretti, in nome di astratti principi, intendono annullare e gettare nel bidone della storia il naturale e culturale bisogno identitario  dei gruppi umani: «Nella persona dei senatori romani continuavano ad essere presenti i fondatori di Roma, e con loro era presente lo spirito della fondazione, il cominciamento, il principium e il principio di quelle res gestae che da quel momento in poi formeranno la storia del popolo romano, giacché l’auctoritas, la cui radice etimologica è augere, accrescere e aumentare, dipendeva dalla vitalità dello spirito di fondazione, in virtù della quale era possibile aumentare, accrescere ed ampliare le fondamenta che erano state gettate dai progenitori. L’ininterrotta  continuità di questo accrescimento e l’autorità insito in esso potevano realizzarsi solo attraverso la tradizione, ossia attraverso la trasmissione, lungo la linea ininterrotta di successori, del principio stabilito all’inizio. Essere in questa ininterrotta linea di successori significa a Roma possedere autorità; e restare legati al principio dei progenitori in pio ricordo e con spirito conservatore significava avere pietas romana; essere “religioso” ovverossia “legato” alle proprie radici.» (Hannah Arendt, Sulla rivoluzione, Torino, Einuadi , 2006, pp. 230-231). Se si vuole uscire  da una visione meccanicista dell’uomo e della politica (espressione politico-ideologica della quale, il liberalismo-liberismo che vede la possibilità dell’espressione della creatività dell’uomo solo entro uno pseudo libero mercato dove operano liberamente  pseudo individualità: individualismo metodologico, ed espressione scientista della stessa nella c.d.  sociobiologia  che chiude gli occhi di fronte al legame dialettico fra organismo, gruppi di organismi e l’ambiente che viene modificato, oltre a modificare, dagli organismi stessi ) e, nel contempo, non ricadere nella “pappa del cuore” del politicamente corretto dei “sacri” principi politici universalistici nati dalla rivoluzione dell’ ’89 del Secolo decimo ottavo ma senza per questo rifugiarsi stolidamente in un reazionarismo da alleanza fra trono e altare e degli allegri compagni del pensiero controrivoluzionario (e sui rischi di una frequentazione troppo entusiasta dei quali, Joseph-Marie de Maistre, Louis de Bonald, Juan Donoso Cortés,  la paradigmatica vicenda politica ed umana  del giuspubblicista fascista Carl Schmitt ha molto da insegnarci), penso che queste parole di Hannah Arendt costituiscano un perfetto viatico e, perché no? non per mettere irenicamente d’accordo ma per fornire una medesima “fusione d’orizzonti” fra le posizioni espresse dal sottoscritto  e quelle magistralmente illustrate dall’amico Alessandro Visalli.

 

P.S.  Per completezza di comprensione di questa mia ultima risposta ad Alessandro Visalli, non è forse inutile ripercorrere i primi passi di questo dibattito teorico sul problemi identitari avvenuto sull’ “Italia e il mondo”. Ovviamente, per brevità e per non iniziare un altro intervento, si tratta di un andare a ritroso solamente bibliografico, lasciando i commenti e le riflessioni ai lettori. Tutto è iniziato con l’ottimo contributo di Roberto Buffagni sui tragici fatti di Macerata per poi continuare fra commenti e risposte del sottoscritto e di altri lettori dell’ “Italia e il mondo” – che hanno toccato anche il tema del malefico mito identitario che va sotto il nome di antifascismo –  sino all’odierna mia risposta ad Alessandro Visalli (non si danno i titoli dei vari interventi e contributi ma solo gli URL e i “congelamenti” su WebCite): http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/; http://www.webcitation.org/6x87pr86F; http://www.webcitation.org/6x886y1nC;http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/; http://www.webcitation.org/6x9EFQqT4;http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/; http://www.webcitation.org/6xCnA0lmK; http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/; http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/#comments; http://www.webcitation.org/6xInS3p6S; http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F02%2F07%2Fintorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni%2F%23comments&date=2018-02-17; http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/; http://www.webcitation.org/6xJAwBIIo;http://www.webcitation.org/6xJBK3kDc;http://italiaeilmondo.com/2018/02/20/letture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli/;http://www.webcitation.org/6xQLEqyD5;http://italiaeilmondo.com/2018/02/20/letture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli/#comments; http://italiaeilmondo.com/2018/02/20/letture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli/#comments;http://www.webcitation.org/6xWZB8SPD;http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F02%2F20%2Fletture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli%2F%23comments&date=2018-02-26; http://italiaeilmondo.com/2018/02/23/considerazioni-a-margine-di-lettura-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni_-di-massimo-morigi/; http://www.webcitation.org/6xcbBIQNN;http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F02%2F23%2Fconsiderazioni-a-margine-di-lettura-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni_-di-massimo-morigi%2F&date=2018-03-02; http://italiaeilmondo.com/2018/03/01/identita-e-universalismo-un-dialogo-di-alessandro-visalli/; http://www.webcitation.org/6xcaJuM6L; http://italiaeilmondo.com/2018/03/04/replica-a-identita-e-universalismoun-dialogo-dal-punto-di-vista-del-repubblicanesimo-geopolitico-di-massimo-morigi/; http://www.webcitation.org/6xfajD50m;http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F03%2F04%2Freplica-a-identita-e-universalismoun-dialogo-dal-punto-di-vista-del-repubblicanesimo-geopolitico-di-massimo-morigi%2F&date=2018-03-04;http://italiaeilmondo.com/2018/03/10/a-proposito-delle-elezioni-del-4-marzo-di-massimo-morigi/; http://www.webcitation.org/6xqFvZtVo;http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F03%2F10%2Fa-proposito-delle-elezioni-del-4-marzo-di-massimo-morigi%2F&date=2018-03-11;http://italiaeilmondo.com/2018/03/18/dal-xxi-podcast-di-gianfranco-campa-suggestioni-sullodierna-natura-della-democrazia-e-sul-mito-dellantifascismo-di-massimo-morigi/;http://www.webcitation.org/6y1nzhUck;http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F03%2F18%2Fdal-xxi-podcast-di-gianfranco-campa-suggestioni-sullodierna-natura-della-democrazia-e-sul-mito-dellantifascismo-di-massimo-morigi%2F&date=2018-03-19.

 

 

Massimo Morigi – 24 marzo 2018

 

 

 

 

 

dal XXI podcast di Gianfranco Campa suggestioni sull’odierna natura della democrazia e sul mito dell’antifascismo Di Massimo Morigi

Leviathan, Behemoth, Giobbe, Giovenale, Schmitt, Kelsen, Neumann e Thomas Hobbes: dal XXI podcast di Gianfranco Campa suggestioni sull’odierna natura della democrazia e sul mito dell’antifascismo

Di Massimo Morigi

Quis custodiet ipsos custodes? è la chiusa del podcast n. 21 (Parte II) – Chi per primo chiuderà il cerchio? di Gianfranco Campa e con questa citazione prima dalle Satire di Giovenale e poi divenuta paradigmatica del confronto Kelsen-Schmitt in merito al Custode della Costituzione del giuspubblicista fascista di Plettenberg (Carl Schmitt, Der Hüter der Verfassung, Duncker u. Humblot, 1931) nel quale Kelsen molto acutamente mostrò la contraddizione schmittiana di far poggiare la tutela della costituzione (nello specifico la Costituzione della repubblica di Weimar) sull’organo monocratico del presidente della Repubblica (e da qui la domanda di Kelsen “chi controllerà i custodi stessi?”), si ha il singolare e straniante effetto, non solo letterariamente assai suggestivo ma anche molto potente dal punto di vista euristico, che dall’attuale feroce lotta di potere politico-giudiziaria in corso oggi negli Stati uniti per rovesciare Donald Trump si viene trasportati nel clima dell’epoca della Repubblica di Weimar con i suoi altrettanto feroci scontri fra gli agenti strategici politici ed economici e che vedevano il popolo tedesco come massa di manovra per alimentare questi scontri. Sappiamo come andò a finire: nessuno riuscì a custodire niente e nessuno e prevalse un potere apparentemente monolitico e, come già si poteva dire allora usando un lessico preso a prestito dalla politologia fascista italiana, totalitario. Ma a questo punto del nostro ragionamento sovviene un’altra suggestione, non presa direttamente a prestito dalle parole del podcast n. 21 di Gianfranco Campa, ma dalla situazione che questo podcast magistralmente rappresenta, e cioè la situazione di assoluto caos che regna fra i poteri della Res publica degli Stati uniti d’America, una repubblica che una scienza politica immolatasi al formalismo giuridico descrive come improntata e forgiata sul principio della divisione dei poteri ma che, in realtà, è basata sullo scontro anarchico e feroce fra questi poteri. E questa situazione di feroce ed anarchico scontro di poteri ha profondissime analogie, solo se si voglia scavare più a fondo di quello che dolosamente non fanno le odierne scienza politica e filosofia politica mainstream, con la dinamica reale dello scontro di potere nel regime nazista secondo la magistrale interpretazione datane da Franz Leopold Neumann, il quale nel suo Behemoth. The Structure and Practice of National Socialism (Franz Neumann, Behemoth. The Structure and Practice of National Socialism, London, Victor Gollancz, 1942), sovvertendo la vulgata che il potere nazionalsocialista era caratterizzato da una ferrea monoliticità al cui vertice stava il Führer, affermava che questo era caratterizzato da una situazione di caotica policrazia, insomma era caratterizzato da una feroce lotta di potere fra i vari organi dello stato e i vari potentati nazisti, una lotta di potere nella quale Hitler non era il feroce burattinaio manovratore di tutti i fili ma, bensì, una specie di terribile e venerato idolo ai piedi del quale si svolgevano autonome e feroci lotte di potere. Sul solco della tradizione ebraica, in particolare il libro di Giobbe, poi anche ripresa da Thomas Hobbes nel Leviathan e nel Behemoth (rispettivamente, Thomas Hobbes, Leviathan or The Matter, Forme and Power of a Common-Wealth Ecclesiasticall and Civil, 1651 e Id. Behemoth: the history of the causes of the civil wars of England, and of the counsels and artifices by which they were carried on from the year 1640 to the year 1660, 1681), e sulla traccia della quale il filosofo inglese utilizza l’immagine del leviatano per rappresentare l’ordine politico da instaurare contro il disordine rappresentato dalla bestia Behemoth, Beemoth rappresenta il caos e volendo terminare con le suggestioni letterarie ma che ritengo abbiano più forza euristica e dialettica delle mille fregnacce che ci vengono propalate dall’attuale scienza politica, è veramente forse qualcosa di più di un’anacronistica analogia affermare che Behemoth possa essere la mitica bestia che contemporaneamente meglio rappresenta il nazismo e l’attuale lotta di potere negli Stati uniti. E questo non per dire, come da stanca vulgata da agit-prop, che gli Stati uniti, popolo tutto e sue istituzioni, sono nazisti ma per dire, molto più semplicemente, una più elementare verità, che vale anche per tutti gli altri paesi del perimetro delle moderne democrazie industriali ed in particolare per l’Italia e che è la seguente: qualora la retorica sulla democrazia e sui diritti umani non sia seguita da una reale maturazione a livello di massa della consapevolezza sull’intrinseca natura di scontro strategico della politica, questa politica, o meglio questa natura strategica, come vera e propria pulsione repressa, assume manifestazioni caotiche violente, non produttive perché razionalmente non riconosciute, e, in ultima istanza, con esiti totalitari, e che alla fine, come nel nazismo, assumono formalmente veste tetragona e compatta (nel nazismo e nel fascismo un riconosciuto e dispiegato diretto totalitarismo del potere, nelle democrazie, sempre un totalitarismo del potere ma formalmente mediato dalle forme istituzionali dell’esercizio del potere, ma forme istituzionali considerate indiscutibili per ogni luogo, tempo e circostanza, e quindi in sé totalitarie), ma che in realtà, sotto la veste dell’uniformante – e reale in entrambi i casi – totalitarismo, non sono altro che il pieno dispiegamento delle caotiche pulsioni conflittuali che le retoriche democratiche ed universalistiche hanno cercato inutilmente di rimuovere e camuffare. In Italia fino all’altro ieri vigeva il Behemoth della retorica antifascista. Il fatto che ora sembra che di questo antifascismo non si sappia ormai più cosa farne, non è certo nostalgia per un ritorno ad una vecchia tragedia ma bensì il tentativo, magari in forme non teoricamente mature, di uscirne definitivamente, avendo percepito che il vecchio caos fascista aveva trovato nella retorica dell’ apparente anticaos antifascista, forma italica degenerata della retorica dirittoumanistica e democraticistica, il suo modo di sopravvivere. Oltre che per la puntuale ed iconoclasta ricostruzione – autenticamente rivoluzionaria ed iniziatica rispetto ai media informativi mainstream – della feroce lotta di potere attualmente in corso nella grande “democrazia” americana, anche di queste suggestioni dobbiamo essere grati dalle cronache americane di Gianfranco Campa. Massimo Morigi – 18 marzo 2018

A PROPOSITO DELLE ELEZIONI DEL 4 MARZO, di Massimo Morigi

A PROPOSITO DELLE ELEZIONI DEL 4 MARZO 2018: BREVI RIFLESSIONI ATTORNO A  PACCO-ITALIA: ALTO/BASSO, FRAGILE, MANEGGIARE CON CURA DI ROBERTO BUFFAGNI E A SI APRANO LE DANZE DI GIUSEPPE GERMINARIO

 

Di Massimo Morigi

http://italiaeilmondo.com/2018/03/06/pacco-italia-alto-basso-fragile-maneggiare-con-cura-di-roberto-buffagni/

Si aprano le danze, di Giuseppe Germinario

 

Pur senza consapevolezza della posta in gioco e delle eventuali conseguenze da parte del corpo elettorale, le elezioni politiche italiane del marzo 2018 hanno decretato la morte delle vecchie classi dirigenti e delle loro ideologie (liberalismo ed antifascismo) che avevano legittimato di fronte ai vincitori la ricostruzione di una nazione uscita sconfitta dal secondo conflitto mondiale. Si tratta di un evento epocale di fronte al quale, in questo momento, appare onestamente del tutto secondario che la forza uscita vincitrice al nord del paese, pur espressione della sua parte più produttiva, non abbia alcuna consapevolezza teorica della posta in gioco e che la forza egemone al sud sia espressione di profonde e radicate pulsioni assistenzialistiche, senza rendersi conto gli elettori di questa parte politica che la realizzazione di un piena cittadinanza può essere realizzata solamente liberandosi dei lacci mentali dell’ideologia liberale ed antifascista che rende l’Italia una colonia economica, politica e culturale, una condizione liberatasi dalla quale solo allora sarà possibile innestare in Italia una autentica rivoluzione attraverso la quale anche le vecchie forme assistenzialistiche (prima democristiano-comuniste ed ora di appannaggio esclusivo dei pentastellati) possono tramutarsi in una autentica occasione di profondo e reale sviluppo (cioè di rivoluzione) per il sud e quindi per il resto del paese. Ma anche la forza ora politicamente egemone al nord, la Lega, non riesce ancora ad esprimere la consapevolezza che i suoi ambiziosi ed ampiamente condivisibili obiettivi (drastico abbattimento fiscale, difesa culturale dell’identità italiana e tutela economica dell’Italia e dei suoi operatori contro la peste delle globalizzazione)  sono possibili solo gettando a mare gli idola tribus ideologici di cui si è detto prima riguardo ai cinque stelle. Il processo iniziato con le elezioni del 4 marzo 2018 non è ancora completato. Da parte della Lega manca ancora il completo inglobamento di quell’equivoco chiamato Forza Italia; e da parte del movimento pentastellato non è ancora del tutto riuscito l’annientamento di quell’altro grande equivoco che va sotto il nome di partito democratico. Quando (e se) questo processo sarà completato, se ciò non sarà accompagnato da una migliore consapevolezza teorica della posta in gioco, cioè l’abbandono degli idola tribus chiamati liberalismo ed antifascismo con le conseguenze di servaggio dalle potenze straniere che sono il loro logico corollario, l’Italia, come acutamente paventa l’amico Roberto Buffagni in Pacco-Italia: Alto/Basso. Fragile. Maneggiare con cura,  ritornerà veramente ad essere una metternichiana espressione geografica. Se invece questo processo di ribellione dalle attuali élite sarà parallelamente accompagnato da un’analoga maturazione e liberazione politico-culturale, si può veramente sperare che le due direttrici della protesta possano veramente mutare natura e divenire le due formidabili braccia di una rivoluzionaria manovra a tenaglia che spezzerà le catene che tengono legata l’Italia da più di settant’anni. Se ciò non sarà, il movimento cinque stelle riconfermerà la sua natura intimamente servile di guardia bianca controrivoluzionaria al servizio delle potenze straniere che hanno vinto il secondo conflitto mondiale, e la Lega non potrà certo pretendere (e non vorrà assolutamente intraprendere) quella legittima azione di liberazione economica dalle tecnoburocrazie italiane ed europee e dalle rimanenti bardature economico-clientelari del morente PD del nord. Insomma, in questa che Germinario chiama “apertura delle danze” siamo ancora al minuetto. Penso che non dovremo attendere molto per vedere se il minuetto si trasformerà in una luttuosa marcia funebre per l’Italia oppure in un energico boogie-woogie, che, come si sarà capito, non è qui metafora di un idilliaco stato di quiete ma l’augurio di una rinnovata consapevolezza strategica perennemente   in statu nascenti, il cui cardine è la comprensione della natura intimamente creatrice del conflitto qualora questo si svolga in forme razionali e socialmente condivise. Una epifania strategica che sarebbe veramente singolare – e triste – che non si manifestasse in una nazione che ha dato i natali a Niccolò Machiavelli, Giuseppe Mazzini ed Antonio Gramsci.

Massimo Morigi – 8 marzo 2018

Replica a “identità e universalismo:un dialogo” dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico, di Massimo Morigi

Risposta  di Massimo Morigi dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico a Identità e universalismo: un dialogo  di Alessandro Visalli

Identità e universalismo: un dialogo, di Alessandro Visalli

 

Di Massimo Morigi

 

 

«Ahi serva Italia, di dolore ostello,/ nave sanza nocchiere in gran tempesta,/ non donna di province, ma bordello!» (Purgatorio: Canto VI,  vv. 76-78, Invettiva di Dante all’Italia e Firenze); «Ma non voglio che noi entriamo in ragionamenti di fastidio; però ben sarà dir degli abiti del nostro cortegiano; i quali io estimo che, pur che non siano fuor della consuetudine, né contrari alla professione, possano per lo resto tutti star bene, pur che satisfacciano a chi gli porta. Vero è ch’io per me amerei che non fossero estremi  in alcuna parte, come talor sòl essere il franzese in troppo grandezza e ’l tedesco in troppo piccolezza, ma come sono e l’uno e l’altro corretti e ridutti in meglior forma dagli Italiani. Piacemi ancor sempre che tendano un poco piú al grave e riposato, che al vano; però parmi che maggior grazia abbia nei vestimenti il color nero, che alcun altro; e se pur non è nero, che almen tenda al scuro; e questo intendo del vestir ordinario, perché non è dubbio che sopra l’arme piú si convengan colori aperti ed allegri, ed ancor gli abiti festivi, trinzati, pomposi e superbi.» (Baldassar Castiglione, Il Cortegiano, l. II,  Del conte Baldassarre a Messer Alfonso Ariosto, § XXVII, citato da Baldassarre Castiglione, Il libro del Cortegiano, a cura di Giulio Preti, Progetto Manuzio, 1° edizione elettronica del 19 marzo 1999, all’URL https://www.liberliber.it/mediateca/libri/c/castiglione/il_libro_del_cortegiano/pdf/il_lib_p.pdf, p. 64); «Non si debba, adunque, lasciare passare questa occasione, acciò che la Italia, dopo tanto tempo, vegga uno suo redentore. Né posso esprimere  con quale amore e’ fussi ricevuto in tutte quelle provincie che hanno patito per queste illuvioni esterne; con che sete di vendetta, con che ostinata fede, con che pietà, con che lacrime. Quali porte se gli  serrerebbano?  quali populi gli negherebbano la obedienza? quale invidia  se gli opporrebbe? quale Italiano gli negherebbe l’ossequio? A ognuno puzza questo barbaro dominio. Pigli, adunque, la illustre casa vostra questo assunto con quello animo e con quella speranza che si pigliano le imprese iuste; acciò che, sotto la sua insegna, e questa patria ne sia nobilitata, e, sotto li sua auspizi, si verifichi quel detto del Petrarca : ‹Virtù contro a furore / prenderà l’arme, e fia el combatter corto; / ché l’antico valore / nell’italici cor non è ancor morto.› »  (Niccolò Machiavelli, De principatibus, XXVI, Exhortatio ad capessendam Italiam in libertatemque a barbaris vindicandam,  in Id., Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Firenze, Sansoni, 1971, p. 298). Riferendosi al capitolo XXVI del Principe, l’ Exhortatio ad capessendam Italiam in libertatemque a barbaris vindicandam, e come suggello del suo giudizio immensamente positivo  sull’importanza della figura del Segretario fiorentino espresso nei Quaderni non solo come   scienziato sempre animato dal proposito di risalire alla ‘verità effettuale’ della politica ma anche – se non soprattutto – come il più grande artefice del mito del ‘politico’, mito del ‘politico’ incarnato per Gramsci nella figura del Principe, figura mitologica che però per Gramsci non si esauriva, come invece credeva la critica coeva e come anche si continua ad affermare tuttoggi, in una vuota esaltazione leaderistica ma trovava la sua finale entelechia nel progetto di costituzione di un partito comunista che sapendo unire il momento intellettuale con quello politico si poneva come novello principe che sarebbe dovuto subentrare all’Italia fascista, operando sia un rivoluzionamento politico che di tipo culturale –  e riuscendo con questo ad ingenerare il fiorire di quella cultura nazional-popolare che la ritardata e stentata “nazionalizzazione delle masse” italiane non aveva consentito che operasse come fattore di progresso di queste stesse masse –, Antonio Gramsci scriveva nei suoi Quaderni: «Nella conclusione [del Principe ] il Machiavelli stesso si fa popolo, si confonde col popolo, ma non con un popolo genericamente inteso, ma col popolo che il Machiavelli ha convinto con la sua trattazione precedente, di cui egli diventa e si sente coscienza ed espressione, si sente medesimezza: pare che tutto il lavoro “logico” non sia che un’autoriflessione del popolo, un ragionamento interno, che si fa nella coscienza popolare e che ha la sua conclusione in un grido appassionato, immediato.» (Antonio Gramsci, Quaderni del carcere,  a cura di Valentino Gerratana,Torino, Einuadi, 1977, vol. III, p.1556). In sede di risposta alle riflessioni di Alessandro Visalli, Identità e universalismo: un dialogo, sul mio Considerazioni dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico a margine a Lettura sul dramma di Macerata: lo scontro delle secolarizzazioni di Alessandro Visalli, che, come recita appunto il titolo, nasce originariamente come commento all’intervento di Visalli sull’ “Italia e il mondo” sul dramma di Macerata per poi divenire esso stesso un intervento autonomo, intervento autonomo al quale è seguito a sua volta il sopracitato commento di Visalli Identità e universalismo prima all’URL https://tempofertile.blogspot.it/2018/02/identita-e-universalismo-un-dialogo.html e poi su mio invito anche all’URL dell’ “Italia e il mondo” dove è postato il mio articolo originale ed  anche questo mio commento (URL:  http://italiaeilmondo.com/2018/02/23/considerazioni-a-margine-di-lettura-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni_-di-massimo-morigi/: WebCite: http://www.webcitation.org/6xcbBIQNN

e  http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F02%2F23%2Fconsiderazioni-a-margine-di-lettura-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni_-di-massimo-morigi%2F&date=2018-03-02 . P.S.  Molto opportunamente, al momento in cui questo commento viene postato, 2 marzo  2018,  il commento di Visalli non è più presso l’URL di “Italia e il mondo” sopraindicato e, all’interno dell’ “Italia e il mondo”, gli è stato così  fornito   un suo autonomo URL: http://italiaeilmondo.com/2018/03/01/identita-e-universalismo-un-dialogo-di-alessandro-visalli/ : WebCite: http://www.webcitation.org/6xcaJuM6L), di fronte al mio gentile interlocutore ma – soprattutto – di fronte ai lettori dell’ “Italia e il mondo” mi sono preso la libertà, accostando citazioni apparentemente disomogenee e appartenenti a periodi diversi,  di adottare una metodo può essere definito cubista e non contento di questo non solo ho citato anche un autore, Antonio Gramsci, che a sua volta commenta una precedente citazione,  l’ Exhortatio ad capessendam Italiam in libertatemque a barbaris vindicandam dal Principe di Niccolò Machiavelli, ma ho anche, a chiusura di questa giostra di citazioni, commentato il commentatore dell’ Exhortatio, Antonio Gramsci, e come l’autore dei Quaderni utilizzò il Principe nella sua costruzione idealizzata e mitizzata del ruolo che avrebbe dovuto assumere il Partito comunista in un Italia liberata dal fascismo (ed anche dalla democrazia borghese). Di fronte al profondo intervento di Visalli è questa una strategia argomentativa palesemente inadeguata o, almeno apparentemente, non a tono se non fosse che, a mio giudizio, le pur pregevoli argomentazioni di Visalli riguardo il mio articolo ruotano attorno ad  un punto che per mostrarne l’estrema e multilaterale debolezza necessita di un “attacco”, appunto, con una visione multiprospettica cubista –  punctum dolens  che ora cito direttamente (e ci risiamo): «Nel contesto di questo dibattito Charles Taylor ricorda che la questione dell’identità per come noi la capiamo è figlia della modernità, ovvero della secolarizzazione. Infatti è il crollo delle gerarchie sociali fondate sull’onore (e quindi l’adesione al ruolo) che fa emergere l’idea di pari dignità e quella di avere una voce morale individuale. Qui si segue Rousseau fino a Herder, che mette a fuoco l’idea che ognuno ha un suo modo di essere uomo, una sua “misura”. Bisogna dunque essere principalmente fedeli a se stessi; a questo ideale è ancorata la ragione di essere della propria vita. Si tratta di un potente ideale morale, che implica anche il fatto che il modello al quale conformare la propria vita è rintracciabile solo in se stessi, non in un modello esterno. “Essere fedele a me stesso significa essere fedele alla mia originalità, cioè a una cosa che solo io posso articolare e scoprire; e articolandola definisco me stesso, realizzo una potenzialità che è mia in senso proprio” (Taylor, p.16). Questo concetto di autenticità si applica per Herder sia alla persona sia ai popoli. Al Volk che dovrebbe essere fedele alla propria cultura.» Il passo di Visalli testè citato sembra quindi suggerire, assieme a tutto il tono del suo intervento,  che il problema dell’identità dei popoli, e di riflesso degli individui che questi popoli compongono, ha inizio in epoca moderna, legato prevalentemente ai fenomeni di secolarizzazione e di progressiva riduzione della dimensione del sacro. Ora, ammettendo ben volentieri che di nazione, e di missioni o qualità dei popoli che queste nazioni esprimono, diventa un argomento discriminante e fondamentale nelle polemica politica e culturale in età moderna con Herder nel XVIII secolo (seguito dopo non molto, sempre in area germanica da Fichte con i  Discorsi alla nazione tedesca) ed in polemica con l’universalismo di stampo illuministico (e fra l’altro quando Mazzini parlava della missione speciale della futura Italia libera, unita e repubblicana, che era quella di costituire l’innesco per liberare similmente gli altri popoli, mutuava il concetto di missione delle nazioni da Herder), deve essere assolutamente respinta come storicamente inesatta l’idea che i popoli per sviluppare ed avvertire una propria identità, e parlo  di un’identità avvertita in maniera agonistica rispetto alle altre e per difendere la quale si deve anche ricorrere alla guerra se necessario, abbiano dovuto aspettare il XVIII secolo. Insomma, senza scavare nemmeno troppo a fondo nei ricordi scolastici e senza far spreco di inutile erudizione, i greci pensavano come barbari, cioè come gruppi umani i cui membri quando cercavano di parlare il greco balbettavano penosamente, tutti gli altri popoli e non è certo questo il luogo per approfondire l’importanza che ebbe la costruzione dell’immagine del barbaro sia per respingere i tentativi persiani di invadere l’Ellade sia per costruire il concetto di una propria identità speciale rispetto agli altri popoli, ritenuti “barbaramente” inferiori. Gli ebrei si sono sempre considerati il popolo del libro, l’unico popolo che era riuscito a costruire un rapporto diretto con il vero e unico Dio, e i romani consideravano una loro missione speciale incivilire il resto del mondo (ogni riferimento alla potenza statunitense è, ovviamente, scontata e del tutto non casuale). Si potrebbe continuare così con decine e decine di altri esempi ma siccome nel dialogo fra il sottoscritto e Visalli è soprattutto d’Italia che si parla veniamo così alla mia strategia comunicativa cubista che ha accostato vari autori italiani appartenenti ad epoche diverse ma che  uniti compongono una Gestalt storica e culturale del tutto inequivocabile. E questa Gestalt, ma a questo punto penso che il lettore non avrebbe bisogno di troppe spiegazioni, è che d’Italia, intesa non come una metternichiana “espressione geografica” ma  come territorio che contiene un popolo con una specifica identità e con specifiche qualità, si comincia a parlare sin dal Medioevo. Mazzini in gioventù scrisse un’operetta intitolata Dell’amor patrio di Dante, per la quale anche in periodo risorgimentale venne molto criticato perché si pensò, anche giustamente, che era del tutto antistorico attribuire a Dante, come suggeriva l’operetta, un desiderio patriottico di stampo risorgimentale (fra l’altro Dante, quando l’imperatore del Sacro Romano Impero Enrico VII di Lussemburgo invase l’Italia, egli lo considerò come un nuovo Carlomagno e per celebrare la calata in Italia dell’imperatore, egli scrisse il De monarchia, dove si riconosce l’impero come unica forma di governo in grado di garantire la pace e proponendo proprio Enrico VII come monarca universale: non proprio un Mazzini con la sua Delenda Austria). Ma non è assolutamente errato od antistorico affermare che già negli ambienti letterari dell’Italia del XIII secolo si pensasse all’Italia e alle qualità del suo popolo. Dante, comunque, se non fosse stato tanto influenzato dall’idea dell’esistenza storico-culturale dell’Italia non avrebbe evidentemente potuto scrivere il Canto VI del Purgatorio, con le sue invettive contro l’Italia e Firenze. Accanto a Dante ho voluto inserire Baldassar Castiglione e il suo Cortegiano. Ora presso il ceto intellettuale semicolto, che è prevalentemente di sinistra ma annovera valorosi esponenti anche a destra, non esiste opera maggiormente “sputtanata” – mi si passi il termine – del Cortegiano, dileggiata perché quest’opera non sarebbe altro che un tristo manualetto su come si deve atteggiare un cortigiano presso una corte. Il Cortegiano sarebbe quindi un libro di istruzione per chi ha un carattere servile e rifletterebbe la mentalità delle classi intellettuali quando il Rinascimento, a seguito delle invasioni straniere, stava velocemente e tristemente declinando.   Apparentemente la citazione tratta dal Cortegiano conferma questo pregiudizio. Vi si parla di una “meglior forma”  mostrata dagli italiani nel vestire rispetto agli altri popoli. Ma chi voglia fare solo “piccolo” lavoro storico e, andando oltre il sentito dire del ceto semicolto, legga quindi direttamente e senza prevenzioni politico-ideologiche tutto il Cortegiano, non tarderà ad accorgersi che tutta l’opera è una orgogliosa rivendicazione della “meglior forma” del popolo italiano rispetto alle altre  culture e agli altri popoli, e che la  “meglior forma” non è  altro che una particolare locuzione per mostrarci il vero centro   espressivo di tutta l’opera, la convinzione, cioè, della  distinta identità italiana rispetto agli altri popoli, una distinta identità degli italiani  la cui fiera rivendicazione  è il vero  Leitmotiv di tutto il Cortegiano. Di Machiavelli è sempre stato detto di tutto ed il suo contrario, e spesso se n’è detto male e ancor peggio di errato. Andando sempre ai ricordi scolastici, che dovevano scontare un’interpretazione di Machiavelli  impregnata di spirito antifascista e sostanzialmente negativa dal punto di vista morale del Segretario fiorentino – uno spirito antifascista ancor più dannoso che quando ci si scontra contro il fantomatico oggetto specifico da ripudiare, il fascismo, ma che, con una sorta di ‘effetto teleobiettivo’ che annulla ed appiattisce proprio l’intimo tessuto cronologico dello svolgimento storico pretendendo che la storia italiana inizi dal 25 aprile 1945, avvilisce, banalizza e falsifica tutto quanto è esistito prima di tale fatidica data e a farne le spese sono stati, per esempio, un Dante che mai pensò all’Italia o un Machiavelli sì grande scrittore politico realista ma assolutamente dimentico del concetto di patria –,  della machiavelliana Exhortatio ad capessendam Italiam in libertatemque a barbaris vindicandam si diceva che non dimostrava assolutamente nessun amor patrio di Machiavelli ma era, semplicemente e banalmente, una tirata retorica di Machiavelli, insomma il risultato di una esercitazione letteraria che, se certamente era espressione della cultura retorico-letteraria italiana tardo-rinascismentale, non significava assolutamente nulla riguardo al giudizio di fondo che si doveva dare del  Principe  e del suo autore  riguardo all’Italia, che –  secondo questo singolare modo di interpretare il Segretario fiorentino macchiato dal frutto culturalmente più amaro e terribile dell’antifascismo, l’annichilimento, cioè, della dimensione storica – sarebbe stata del tutto assente dall’orizzonte culturale ed emotivo di Niccolò Machiavelli e del Principe. Ancor prima della nascita ed affermazione culturale ed editoriale dell’odierno neo-repubblicanesimo era intervenuto però un autore, Antonio Gramsci, che aveva posto la dialettica di  Machiavelli e della sua opera con i “piedi per terra”, facendo diventare il “nuovo principe” il mito ed il modello archetipo del costruendo Partito comunista,  implementando una filosofia della prassi  che, agendo  come una sorta di  nucleo  psichico organizzativo della personalità del PCI e operando attraverso la formazione della mentalità dei  quadri politici ed intellettuali del partito (marxiana filosofia della prassi per l’individuazione della quale come nucleo generatore del pensiero di Marx era stato fondamentale Giovanni Gentile e la sua magistrale interpretazione delle marxiane Glosse a Feuerbach, ma questo non è il luogo per approfondire la decisiva influenza che l’attualismo gentiliano ebbe per Gramsci e per tutta la sua generazione di rivoluzionari di sinistra: Angelo Tasca: «All’epoca dell’ Ordine Nuovo” si era tutti gentiliani» . Basti qui solo dire che per essere definiti di destra o di sinistra, ammesso che la distinzione abbia ancora una qualche importanza per comprendere l’odierno scontro strategico all’interno della società e quindi definire  conseguenti e razionali percorsi politici, è del tutto fuorviante trovare un indicatore decisivo nel fatto  che in sede di elaborazione teorica si utilizzino pensatori che ebbero storicamente questa o quella appartenenza politica: Gramsci era di destra?…), sarebbe stata mirata  a fornire   una “meglior forma” e al proletariato italiano e alla cultura nazional-popolare del nostro paese.  Siamo quindi ritornati al problema del percorso storico dell’identità italiana, fra invettive, esortazioni, forme migliori che partendo dalle ristrette – per quanto assolutamente consapevoli in termini di acquis culturale italiano – corti rinascimentali e velate dalla tristezza per la fine di un Rinascimento segnate dalle invasioni straniere arriva alla “meglior forma” identitaria che per Gramsci doveva sorgere con lo strumento della marxiana filosofia della prassi attraverso la redenzione del proletariato e la (ri)nascita di un’autentica cultura nazional-popolare. Scrive Visalli in conclusione del suo pregevole commento al mio articolo: «L’unica teoria della giustizia possibile, dunque, è quella che è in qualche modo progettata (rischiosamente) a partire dalle caratteristiche che lo sviluppo storico concreto ha depositato nell’oggi, per come queste si sono date, cioè, dal sedimento dei conflitti e dei successi o fallimenti nell’ottenere riconoscimento da parte delle diverse soggettività. Probabilmente anche l’unica possibile pratica politica.» Per quanto da indegno erede del  crociano storicismo assoluto io sia del tutto hegelianamente diffidente verso ogni teoria, anche se sotto forma di ‘teoria della giustizia’, calata sulla “realtà effettuale”, non ho alcuna difficoltà a riconoscermi nello spirito di questa affermazione, il cui nucleo è il sacro rispetto che si deve avere di quell’ “astuzia della ragione” che consiste nel secolare deposito storico di aspirazioni e tradizioni apparentemente contraddittorie ma che proprio nella loro contraddittorietà – ed anche mutua violenza e volontà nel passato e, purtroppo, anche odierna,   di sopprimersi – formano oggi, del tutto analogamente a come avviene per gli altri popoli, la nostra identità come individui e come popolo. E questo non significa affatto che siccome Machiavelli esortava a prendere le armi contro lo straniero, il demente sparacchiatore maceratese debba ritenersi un emulo del Segretario fiorentino; o che il riconoscere la fondamentale importanza nella definizione dei nostri problemi identitari e per l’elaborazione di una teoria autenticamente rivoluzionaria di un filosofo fascista trucidato nel corso dell’ultima guerra civile voglia dire per questo avere una visione reazionaria, o di destra che dir si voglia, di questi  problemi identitari e della conflittualità sociale. (Ho citato il Machiavelli del Principe e della Exhortatio ad capessendam Italiam in libertatemque a barbaris vindicandam: spero che per questo non si intenda che io pensi che l’odierno straniero presente irregolarmente sul nostro territorio debba venire cacciato al grido belluino: «Virtù contro a furore / prenderà l’arme, e fia el combatter corto; / ché l’antico valore / nell’italici cor non è ancor morto» o che attenendomi alla lettera di «Non si debba, adunque, lasciare passare questa occasione, acciò che la Italia, dopo tanto tempo, vegga uno suo redentore. Né posso esprimere  con quale amore e’ fussi ricevuto in tutte quelle provincie che hanno patito per queste illuvioni esterne; con che sete di vendetta, con che ostinata fede, con che pietà, con che lacrime. Quali porte se gli  serrerebbano?  quali populi gli negherebbano la obedienza? quale invidia  se gli opporrebbe? quale Italiano gli negherebbe l’ossequio?», si ritenga che si abbia in animo, attraverso il Repubblicanesimo Geopolitico, di far emergere dalle contraddizioni e dalla  intrinseca violenza  della storia la figura di un novello duca Valentino per ricostituire, sotto nuove ma sostanzialmente sempre le stesse modalità autoritarie e dittatoriali,  la forma di stato totalitaria che ha preceduto l’attuale Repubblica, E sia detto per inciso, quando Visalli mi attribuisce una sorta cecità storica nel mio paragonare, per giustificare il comportamento reattivo degli italiani nei loro riguardi,  gli attuali immigrati irregolari alle truppe di occupazione, in prevalenza croate, dell’impero Austroungarico, le quali avevano compiuto eccidi in Italia, il mio gentile interlocutore non tiene conto del fatto queste truppe obbedivano a precisi ordini  militari e non perché i Croati di per sé fossero particolarmente violenti o lontani dalla nostra cultura; mentre certo non si può dire che quella parte di immigrati irregolari che sul nostro territorio nazionale  causano problemi culturali  di integrazione e di ordine pubblico lo facciano sospinti da qualche ordine superiore: lo fanno semplicemente perché sono, appunto, di difficile od impossibile integrazione. Faccio inoltre presente che tutto si può dire dell’Impero Austroungarico tranne che fosse una forma di dominio inteso a distruggere – come per esempio  accadde con il Terzo Reich nei confronti delle popolazioni dell’Est Europa che avrebbero dovuto nei piani dei nazisti essere in gran parte annientate  per far posto alle popolazioni tedesche del Reich millenario –  le popolazioni del Lombardo Veneto; e quindi, contrariamente a quanto sembra suggerire Visalli, la popolazione italiana reagiva con i moti risorgimentali a questi occupanti non perché costituissero una minaccia contro la vita delle popolazioni – il governo Austroungarico era ottimo ed onestissimo e aveva livelli di efficienza amministrativa di livello incomparabilmente superiore a quello esercitato in seguito, ad unità raggiunta, dalla monarchia sabauda! –  o perché queste truppe avessero comportamenti di violenza bestiale ma, molto più semplicemente, perché  il dominio Austroungarico veniva avvertito – a torto o a ragione – una minaccia ed un insulto per l’identità nazionale, minaccia ed insulto costituito anche dall’attuale ondata migratoria di irregolari, verso i quali, però, non si vuole, come vorrebbe ironicamente intendere l’amico Visalli, intraprendere nessuna guerra guerreggiata modello risorgimentale ma, più semplicemente ed anche produttivamente, sviluppare un atteggiamento politico-culturale non viziato dalle fumisterie universalistiche: Mazzini pensava che l’uomo apparteneva ad una medesima umanità che lui scriveva con l’iniziale maiuscola. Ma depurato questo concetto del suo misticismo, questa Umanità con la U maiuscola non significa altro che tutti gli uomini condividono universalmente le stesse caratteristiche e quindi la stessa natura, che oggi  dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico viene definita natura dialettico-espressivo-conflittual-strategica. Ma questo importa assai poco. Quello che importa è che il riconoscimento in Mazzini di una umanità con universalmente le stesse qualità condivise, non significa che egli abbia ceduto al misticismo dell’ universalismo illuministico della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Era anzi il suo contrario: la dimostrazione del suo estremo realismo antropologico, e poco importa che in Mazzini  ciò trovasse espressione in un lessico mistico: la mentalità di Mazzini fu, in nuce, sempre una mentalità strategica, il culmine di quella mentalità strategica che significa aver compreso che la storia umana – histoire événementielle, storia culturale e storia biologico-naturale – si svolge condividendo dialetticamente – e quindi strategicamente e vicendevolmente espressivamente –  la propria comune natura con gli altri uomini: insomma l’Umanità mazziniana trova il suo più illustre predecessore nello  Zoòn Politikòn di un certo Aristotele di Stagira …). Ma anche se espresse con diversi riferimenti culturali ed anche non condivise in singoli ancorché importanti punti prospettici, sono convinto che queste conclusioni rappresentino anche la “meglior forma” del cortese e profondo intervento di  Alessandro Visalli attorno ai miei ragionamenti sul caso di Macerata.

Massimo Morigi – 2 marzo 2018

 

 

 

CONSIDERAZIONI A MARGINE DI “Lettura sul dramma di Macerata: lo scontro delle secolarizzazioni”_ DI MASSIMO MORIGI

 Francesco Hayez, La Meditazione, 1850, olio su tela, 90 x 70 cm, Galleria d’Arte moderna Achille Forti, Verona.
La figura femminile malinconica fu un tema caro a Francesco Hayez, che ne realizzò diverse versioni. Il tema era tradizionalmente legato alla rappresentazione delle sofferenze amorose, ma dopo l’insuccesso della Prima guerra d’indipendenza, questa iconografia si caricò di nuovi significati. La figura della Malinconia (o Meditazione) diventò la personificazione allegorica dell’Italia che riflette sul fallimento degli eventi del 1848, come confermano la scritta sul
dorso del libro (Storia d‘Italia) e le date in rosso delle Cinque Giornate di Milano sulla croce (simbolo del martirio patriottico)

 

Considerazioni dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico a margine a “Lettura sul dramma di Macerata: lo scontro delle secolarizzazioni” di Alessandro Visalli (originariamente pubblicata all’URL https://tempofertile.blogspot.it/2018/02/letture-sul-dramma-di-macerata-lo.html    e ora all’URL http://italiaeilmondo.com/2018/02/20/letture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli/  –  WebCite: http://www.webcitation.org/6xPpiXVOA e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F02%2F20%2Fletture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli%2F&date=2018-02-22)

 

 

Di Massimo Morigi

 

Nell’anno in cui si iscrisse al PCI, il 1948, Delio Cantimori pubblicò sulla “Nuova Rivista di diritto Commerciale, Diritto dell’Economia, Diritto sociale”, anno I, fasc. 9-12, 1948, “Idee di riforma sociale in Italia”, il cui testo era l’elaborazione a scopo di pubblicazione di  due lezioni che lo storico romagnolo aveva tenuto nell’estate del  1946 per l’Istituto per la Riforma Sociale di Pisa. Queste “Lezioni”, oltre a costituire una impeccabile ricostruzione storica delle idee e dell’agire dei riformatori sociali che si confrontarono e scontrarono nel Risorgimento italiano, sottintendeva, attraverso questa ricostruzione, la direzione verso la quale un’Italia uscita a pezzi dal secondo conflitto mondiale avrebbe dovuto imboccare e questo nuovo inizio, per Cantimori, avrebbe dovuto evidentemente prendere le mosse ispirandosi alla figura di Giuseppe Mazzini, al quale è dedicata la parte più significativa e pregnante delle “Lezioni”. Ed è anche altrettanto evidente che nelle “Lezioni”  Mazzini, o meglio il movimento storico che egli seppe creare, non è per Cantimori solo il momento imprescindibile e fondante nella costruzione dell’unità ed identità italiana, ma costituiva anche la proposta politico-culturale avanzata dallo storico romagnolo al  Partito comunista –  nel quale Cantimori intendeva svolgere il suo operato di intellettuale –  di un personaggio che aveva presieduto alla sua personale Bildung politico-culturale, il quale partendo da un ambiente romagnolo e da una famiglia profondamente intrisi di mazzinianesimo, aveva cercato, senza successo, di far vivere questa formazione prima nel PNF e ora nel PCI di Togliatti. Molto è stato scritto riguardo alla fuoruscita di Cantimori dal PCI avvenuta nel ’56, fuoruscita generalmente attribuita ad una forma di protesta per l’invasione da parte dell’Unione Sovietica dell’Ungheria e alla denuncia  di Chruščëv al XX congresso del PCUS, tramite il cosiddetto rapporto segreto intitolato “Sul culto della personalità e le sue conseguenze”, del culto della personalità di Stalin, con i conseguenti terribili eccessi che ne erano derivati. Molto più verosimilmente, invece, Cantimori uscì dal PCI non perché questo partito non si fosse schierato contro l’Unione sovietica e perché all’interno di questo partito sarebbero sempre stati all’ordine del giorno sistemi “staliniani”, seppur in sedicesimo, e che avrebbero denotato, tramite il rapporto segreto, una specie di male diffuso anche negli altri partiti comunisti, ma perché già allora era evidente che sia sul versante culturale che su quello politico il PCI non era in grado di implementare quella rivoluzione sociale di tipo mazziniano che aveva costituito il “perno psicologico” dell’attività scientifica di Cantimori (i principali studi di Cantimori, pur non occupandosi mai direttamente di Mazzini, furono sempre incentrati dallo sforzo di far affiorare il contributo italiano al processo di modernizzazione politica europea: vedi per tutti i suoi “Eretici italiani del Cinquecento”) e della vita pubblica di Cantimori (il Cantimori fascista apparteneva all’ala sinistra del PNF, quella parte del partito, per dirla in due parole, che vedeva la gerarchia in funzione della missione sociale del fascismo e non viceversa, come invece i fascisti di destra e reazionari). Citiamo allora la parte di questo articolo di Cantimori riguardante Mazzini, non tanto per rievocare un tentativo fallito di far germinare all’interno del PCI guidato da Palmiro Togliatti la tradizione sociale mazziniana, ma perché queste parole di Cantimori su Mazzini possono essere considerate la migliore risposta al pur pregevole articolo di Alessandro Visalli “Letture sul dramma di Macerata: lo scontro delle secolarizzazioni”, eccellente sì per sincerità di sforzo di analisi (ed anche per il risultato della stessa, specialmente quando afferma che i flussi migratori sono funzionali alla costituzione di un esercito industriale di riserva) ma  che anche deve però pagare pesanti pedaggi al politically correct ed ad una visione ancora ideologica e insufficientemente strategica del problema dell’immigrazione. Facciamo quindi parlare Cantimori: «Su questo sfondo di dottrinari risalta il profondo realismo rivoluzionario di Giuseppe Mazzini.   Egli non concilia o unisce (o sovrappone astrattamente, come meglio si dovrebbe dire) le nuove dottrine, i nuovi principî, il  «verbo della nuova età» all’istanza politica nazionale unitaria, ma tiene sempre fermo ad essa, non tanto subordinando le dottrine all’azione, anzi facendo sorgere le dottrine (o la polemica contro le dottrine) dall’azione stessa, dalle situazioni, dalle possibilità stesse dell’azione. Non che manovri la bandiera della riforma sociale come il Cavour manovrava elegantemente lo spauracchio della rivoluzione socialista: non si tratta di abilità politica, nel senso tecnico della parola; Mazzini coglie genialmente e spontaneamente lo stato degli animi, coglie i sentimenti, le aspirazioni, le vaghe idee, i bisogni, i timori, le speranze, e li convoglia, li rielabora in funzione della rigenerazione della patria attraverso l’unità e l’indipendenza. Perciò non si può né si deve considerare Mazzini – neanche il Mazzini scrittore – coi metodi della storia delle dottrine e delle ideologie: le sue posizioni dottrinali e ideali sono in funzione diretta dell’azione politica a lunga scadenza e di grande portata, e perciò non si esauriscono in semplici programmi e progetti o in pure considerazioni teoriche, anche quando l’azione non è coronata da successo immediato. Il Salvemini e il Mondolfo hanno già rilevato come negli scritti di Mazzini si trovino pagine di tipo socialista, e di tipo socialista moderno, tanto polemiche e critiche,  da poter giustificare a loro giudizio l’avvicinamento (puramente teorico) a Marx, al di là delle cattive relazioni personali che fanno la delizia di coloro i quali, nel migliore dei casi, non sanno fare distinzione fra giudizio politico e giudizio storico; e hanno rilevato però anche le infinite pagine di polemica antisocialista e anticomunista che si trovano negli stessi scritti, tali da annullare quasi, l’interesse che presentano le altre. Questi due studiosi hanno anche osservato che le prime si trovano soprattutto negli scritti precedenti il 1852, le seconde nel periodo posteriore, dopo il consolidamento della reazione in Francia e in Europa, quando sembrò  al Mazzini che le dottrine socialiste avrebbero allontanato, col solo nome, e anche se moderate assai come quelle del Montanelli, la borghesia italiana dal programma unitario e repubblicano. O. Vossler ha anche notato acutamente come Mazzini, oltre la polemica contro i caratteri edonistici e materialistici dei «sistemi socialisti», rifiuti sempre di accettare in astratto la negazione della proprietà privata e combatta anche l’idea che il socialismo sia il principio o il «verbo» della nuova età, informatore di ogni altra idea e di ogni altra azione. Non è dunque il caso di specificare con citazioni, perché non c’è molto da aggiungere a quanto hanno detto questi studiosi, soprattutto il Salvemini e il Mondolfo, per lo meno dal punto di vista della storia dottrinale e ideologica. Va rilevato invece che l’azione del Mazzini, proprio sul terreno sociale, va molto al di là delle teorie (anche arditissime come quelle del suo omonimo, ma pure e astratte teorie) proposte dai «socialisti» italiani suoi contemporanei; e, in un certo senso, in quanto azione lungimirante, organizzata, almeno tendenzialmente, su largo piano, va molto al di là anche dell’azione diretta di Pisacane. Intendo riferirmi al fatto che Mazzini e i suoi seguaci hanno dato vita, si può ben dire, a tutto o a quasi tutto quanto è  esistito di movimento operaio (artigiano) fra gli italiani, in esilio o in patria, durante il Risorgimento. Anche dopo la venuta del Bakunin e durante i primi anni di attività dell’Internazionale in Italia si può ben dire che il movimento operaio (artigiano) italiano è prevalentemente, quasi unicamente mazziniano. Aveva ben ragione Mazzini, in sostanza, quando nel 1871 affermava: «Dal primo impianto della Giovine Italia fino alle nostre ultime manifestazioni la causa degli operai fu nostra e la immedesimammo col moto nazionale italiano… Aiutammo come era in noi… l’impianto delle società di Mutuo soccorso, … preludio a quelle di cooperazione… Tentammo di far intendere alle classi medie che il moto operaio non era sommossa sterile e passeggera…» Questa azione del Mazzini è più importante fra noi in quel periodo delle dottrine anche più ardite, ed è anche più importante delle varie insurrezioni di tipo «guerra ai palazzi, pace alle capanne», di cui abbiamo notizia qua e là prima, dopo, e durante il 1848-49, come sono state studiate, per esempio, per la Toscana, dall’Andriani, seguendo le indicazioni del Salvemini.» (citato da Delio Cantimori, “Studi di storia”, Torino, Einuadi, 1969, pp. 596-598). Cosa  ci dice quindi a chiarissime lettere Cantimori su Mazzini (e, di riflesso, su quello che avrebbe dovuto essere e l’azione del PCI nella società italiana e la sua stessa azione all’interno del PCI, e sia detto per inciso ma anche fondamentale per comprendere l’assoluta originalità, ed anche temerarietà, dell’azione che Cantimori voleva svolgere all’interno del PCI: è solarmente evidente dal passo citato che il Mazzini di Cantimori è un Mazzini in cui è determinante la griglia interpretativa dell’attualismo di Giovanni Gentile). In poche parole Cantimori ci dice che Mazzini non fu quell’acchiappanuvole idealista, e persino intimamente reazionario, sempre votato al fallimento, tramandatoci da una superficiale storiografia e stereotipo assorbito anche a livello popolare, ma, al contrario, afferma con vigore che Mazzini è il perfetto compendio del politico realista, un politico che, proprio per l’intrinseca serietà del suo agire, rifiuta di farsi ingabbiare in facili e rigidi schemi ideologici che privilegiano o le riforme sociali o l’irrobustimento (o creazione) di un’identità nazionale ma sviluppa il suo operato a seconda delle necessità reali o percepite tali dal popolo (che di volta in volta possono essere identitarie o di maggiore giustizia sociale, e ancor più sovente inestricabilmente legate assieme) ma questo non può essere definita demagogia   per ottenere facili successi immediati (l’azione di Mazzini fu sempre mirata ad ottenere il massimo risultato ma proiettato nel lungo periodo: per Mazzini l’insuccesso di un’insurrezione innescava un eroico processo di emulazione attraverso il quale, alla fine di un lungo e doloroso percorso di fallimenti e di schiere di  martiri, avrebbe trionfato la rivoluzione italiana) ma aveva il nobilissimo e strategico  scopo di ottenere nel popolo un armonioso sviluppo fra istanze culturali ed identitarie e le istanze di giustizia sociale, che per il Mazzini sono inscindibili e che solo per ragioni tattiche possono essere momentaneamente disgiunte. Per Mazzini la sintesi finale fra questi due momenti era l’istituzione della Repubblica ma quello che qui preme sottolineare, al di là del tristo santino repubblicano che di lui ci ha consegnato una tradizione politica assolutamente non degna della grandezza del personaggio, è  che per Mazzini la Repubblica era, insomma, l’obiettivo finale ed anche il momento simbolico di un grandioso sforzo strategico che il rivoluzionario di Genova intendeva svolgere sul (e a favore del) popolo italiano. Il popolo italiano era quindi per Mazzini e il centro strategico della sua azione e il precipitato finale di questa azione, e questo non perché disdegnasse le impostazioni socialistiche della rivoluzione ma perché aveva assolutamente chiaro che una rivoluzione su base unicamente economicista o, peggio, astrattamente universalistica era un autentico non senso. Mazzini, insomma, non era un astratto ed esaltato acchiappanuvole ma lo potremo definire il Lenin italiano – o, ancor meglio, il Lenin degli italiani o dell’Italia –  che se anche non disse mai “analisi concreta della situazione concreta” costantemente ispirò la sua azione a questa massima. Vengo rapidamente alla conclusione. Ottimo l’articolo di Vissalli, fatta però una fondamentale osservazione. In “Lettura sul dramma di Macerata: lo scontro delle secolarizzazioni” (risposta all’articolo di Roberto Buffagni “Intorno ai fatti di Macerata – Non c’è più religione? Dipende”, all’URL http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/ – WebCite: http://www.webcitation.org/6xJAwBIIo), il momento strategico  è concentrato e limitato sull’analisi del fenomeno migratorio come funzionale alla costituzione di un esercito industriale di riserva; del tutto però insufficiente riguardo le problematiche identitarie del popolo italiano; problematiche fatte emergere violentemente dai fenomeni migratori ma in cui questi fenomeni sono solo una parte del problema, iniziando questa crisi identitaria dalla sconfitta nel secondo conflitto mondiale (e massima e tragica espressione politica di questa crisi identitaria è l’ideologia antifascista – cioè non l’antifascismo sorto come logica, naturale e legittima reazione al regime fascista ma l’antifascismo foglia di fico per qualificarsi come democratici verso le potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale e braghettone ideologico per nascondere la guerra civile latente fra i partiti che erano subentrati alla apparente guida dell’Italia dopo il 25 aprile ma in cui il vero comando era riservato alle potenze angloamericane che avevano conquistato l’Italia –,  vero e proprio virus, questo antifascismo a regime fascista morto, geneticamente modificato e creato per  parassitare e alla fine a distruggere il DNA della tradizione storico-culturale italiana) e rincrudita ed accelerata dallo sviluppo economico capitalista del secondo dopoguerra. Cantimori uscì dal PCI per l’indifferenza che suscitò nel partito la sua linea culturale, e nella quale il mazzinianesimo (l’autentico mazzinianesimo – quel mazzinianesimo che ebbe il suo migliore studioso in Giovanni Gentile –, il mazzinianesimo fedele alle idee e all’operato del grande genovese, e che noi oggi definiamo ‘mazzinianesimo strategico’, non certo l’odierno caricaturale e deformato mazzinianesimo dei suoi indegni epigoni) costituiva la spina dorsale,  ma l’impostazione che voleva dare alla soluzione  del problema italiano (se soluzione si può parlare per i fatti storico-sociali) era, come è tuttora, quella corretta: una chiara visione strategica di pretto stampo mazziniano che partendo dai problemi sociali e culturali del nostro popolo sappia (ri)costruire e rafforzare una identità nazionale che permetta al nostro paese di rimandare al mittente tutte le spinte disgregative (di cui l’immigrazione è una di questa) che ci giungono da questa disgraziata modernità di un mondo sempre più multipolare. Per Mazzini il nemico storico da dissolvere ed annientare era l’Impero Austroungarico. Oggi il nemico da dissolvere ed annientare non è un impero ma un’impostazione mentale “politically correct” che vorrebbe privilegiare l’impero turbo-capitalistico della globalizzazione e le cui povere truppe d’assalto, al posto dei croati Austroungarici, sono le disgregate, vaganti e disperate popolazioni del sud del mondo. E come i nostri padri del Risorgimento, prima fra tutti Mazzini, non odiavano i croati (che costituivano il grosso delle truppe di occupazione dell’impero Austroungarico) ma anzi provavano per loro compassione  ma, nonostante questa compassione li volevano cacciare (Vedi poesia “Sant’Ambrogio” di Giuseppe Giusti: «Entro, e ti trovo un pieno di soldati,/Di que’ soldati settentrïonali,/Come sarebbe Boemi e Croati,/Messi qui nella vigna a far da pali:/  Difatto, se ne stavano impalati,/ Come sogliono in faccia a’ Generali,/Co’ baffi di capecchio e con que’ musi,/Davanti a Dio diritti come fusi.//Mi tenni indietro; chè piovuto in mezzo/ Di quella maramaglia, io non lo nego/ D’aver provato un senso di ribrezzo/Che lei non prova in grazia dell’impiego./Sentiva un’afa, un alito di lezzo;/Scusi, Eccellenza, mi parean di sego,/ In quella bella casa del Signore,/Fin le candele dell’altar maggiore […] Povera gente! lontana da’ suoi,/In un paese qui che le vuol male,/Chi sa che in fondo all’anima po’ poi/Non mandi a quel paese il principale!/ Gioco che l’hanno in tasca come noi. —/Qui, se non fuggo, abbraccio un Caporale,/  Colla su’ brava mazza di nocciolo,/Duro e piantato lì come un piolo.»), così anche noi ci dobbiamo atteggiare e comportare verso i flussi immigratori incontrollati. E questa risoluzione non viene da qualche lunatico sparacchiatore ma dalla più pura tradizione strategica del nostro Risorgimento. Anche se in forme veramente inedite ed inaspettate, alla fine veramente tutto torna, e questo è veramente una grande lezione strategica che evidenziata nel nostro Risorgimento, è anche alla base della nascita, sempre italiana, del pensiero storicista che si sviluppa attorno al vichiano ‘Verum et factum convertuntur’ del “De antiquissima italorum sapientiae” (e che si pone in antitesi al pensiero illuministico ed astrattamente razionalistico ed antistorico, da cui trae origine la mistica dei diritti umani, grande responsabile  e giustificatrice sul piano ideologico degli incontrollati flussi migratori). Machiavelli, Vico, Mazzini, Giovanni Gentile, Gramsci, Cantimori (cioè la grande tradizione del realismo e dello storicismo italiani, che non si traduce,  però, nella  esaltazione di una tetra ed amorale realpolitik o Machtpolitik calata dall’alto ma, mazzinianamente, nella  creazione di una politica espressiva dei più profondi ed intimi bisogni del popolo, insomma un progetto teso nella sua più ultima e rivoluzionaria espressione – che, partendo da Giovanni Gentile per arrivare ad Antonio Gramsci,  va sotto il nome di filosofia della prassi – alla definizione di quella gramsciana cultura nazionalpopolare, il cui mancato conseguimento fu anche, come ben si vede oggi sia nella società che nel partito che pretende essere l’erede di quello fondato da Antonio Gramsci, anche il grande fallimento del PCI togliattiano), pensati attentamente i quali paiono  veramente bizzarre la considerazioni, riguardo i fatti di Macerata,  che «L’unica cosa certa di questa vicenda è che una ragazza è morta, alcuni immigrati hanno tentato di occultare il cadavere, dissezionandolo, e un italiano in preda ad esaltazione ha tentato di fare giustizia sommaria su altri innocenti scelti a caso» o  che «Ci sono associazioni, tra cui la ALCR […], attiva in Gabon, che denunciano coraggiosamente gli omicidi rituali, spesso condotti per banali ragioni di successo economico in un contesto di elevata frammentazione etnica (circa 40 gruppi) e di religioni animiste (20% della popolazione) o sincretiche come il Bwiti, anche se il 75% della popolazione è identificata come cristiana. Si tratta comunque di poche centinaia di casi, [sic!] spesso ricondotti a non meglio precisati “cultisti” […], ma sono spia del disagio di una troppo rapida, e subalterna, trasformazione.» Mazzini, intriso di spirito umanitario ma anche (o proprio per questo) pensatore ed uomo d’azione profondamente strategico non inneggiò mai all’odio contro nessuno ma non si sognò mai neppure di dire: «L’unica cosa certa è che i soldati croati sono dei semplici fantocci in mano all’impero austroungarico e per questo non devono essere combattuti ma accompagnati, piuttosto, gentilmente alla porta.» Le cose non andarono così e, se si vuole dare una speranza a questo paese, non dovranno andare così neppure per gli immigrati irregolari. E questo con buona pace – pur dandogli credito delle migliori intenzioni – delle pur generose esortazioni (ed anche in parte penetranti analisi) di Alessandro Visalli, il cui difetto di fondo è l’essere impregnate di quello spirito universalistico di matrice illuministica che Mazzini – e sulla sua scia il Repubblicanesimo Geopolitico –  sempre e con tutte le sue energie avversò, e questo non perché fosse un reazionario ma perché aveva capito benissimo che se si vuole essere veramente universali la prima cosa che necessita è possedere una visione strategica il cui centro focale è la creazione di una propria distinta ed unica identità, lasciando agli ideologi la discussione in merito all’universalità di questo o quell’altro sacro principio (che, come Mazzini aveva ben compreso, sempre nasconde l’interesse di qualcuno che con questi giochi di parole – ai tempi di Mazzini la Francia col suo monopolio  e volontà di imposizione dei sacri principi dell’ ’89, oggi la liberale e liberistica globalizzazione turbocapitalistica col mito del diritto e dell’inevitabilità all’immigrazione incontrollata –  intende perseguire nascostamente e con l’appoggio di masse ignoranti, vaganti, disperate e senza identità i propri inconfessabili interessi di annichilimento culturale dei popoli  e di  disgregazione ed atomizzazione delle società che questi popoli, attraverso lacrime, sangue,  battaglie e guerre si sono costruite nel corso della storia ).

Massimo Morigi – 22 febbraio 2018

 

 

 

 

 

 

 

MASSIMO MORIGI A PROPOSITO di CRISTIANESIMO, TOLLERANZA E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO. NOTE A MARGINE A TACCUINO FRANCESE! CHE COSA CI INSEGNA LA CRISI DEL FRONT NATIONAL? DI ROBERTO BUFFAGNI

15 Haec cum audisset quidam de simul discumbentibus, dixit illi: “Beatus, qui manducabit panem in regno Dei”.  16 At ipse dixit ei: “Homo quidam fecit cenam magnam et vocavit multos; 17 et misit servum suum hora cenae dicere invitatis: “Venite, quia iam paratum est”. 18 Et coeperunt simul omnes excusare. Primus dixit ei: “Villam emi et necesse habeo exire et videre illam; rogo te, habe me excusatum”. 19 Et alter dixit: “Iuga boum emi quinque et eo probare illa; rogo te, habe me excusatum”. 20 Et alius dixit: “Uxorem duxi et ideo non possum venire”. 21 Et reversus servus nuntiavit haec domino suo. Tunc iratus pater familias dixit servo suo: “Exi cito in plateas et vicos civitatis et pauperes ac debiles et caecos et claudos introduc huc”. 22 Et ait servus: “Domine, factum est, ut imperasti, et adhuc locus est”. 23 Et ait dominus servo: “Exi in vias et saepes, et compelle intrare, ut impleatur domus mea. 24 Dico autem vobis, quod nemo virorum illorum, qui vocati sunt, gustabit cenam meam” ”

 Evangeliun Secundum Lucam 14: 15-24

 

Facendo i più vivi complimenti all’analisi politica svolta per “L’Italia e il Mondo” da Roberto Buffagni in “Taccuino francese! Che cosa ci insegna la crisi del Front National?”, (1) un’analisi dove la puntuale conoscenza delle forze politiche che si scontrano sullo scenario transalpino viene eccellentemente unita ad una visione in profondità degli ultimi due secoli di storia francese, tale che vista l’importanza di questa nazione per la modernità politica occidentale, il “Taccuino francese!” può veramente aspirare ad essere una prima ricognizione non solo dei nostri problemi italiani (ed auspicabili soluzioni, posto, non mi stancherò mai di ripetere che in storia e nella vita delle società non si danno soluzioni come in matematica ma, semmai, nuovi problemi, dialetticamente connessi con quelli che li hanno preceduti) ma anche di quelli di tutte le odierne c.d. “democrazie”, è proprio sull’aspetto definito nell’analisi di Buffagni “metapolitico” (cioè della Weltanschauung e della politica culturale che dovrebbero connotare le consapevoli e più culturalmente attrezzate attuali forze antisistema) che si pone la necessità di una ulteriore puntualizzazione e messa a fuoco del problema. Una ulteriore puntualizzazione e messa a fuoco del problema che non può assolutamente sfuggire all’impostazione “culturalistica” datane da Antonio Gramsci quando nei suoi Quaderni del Carcere a livello di strategia politica preconizzava la graduale ed inesorabile conquista attraverso una lunga e paziente guerra di posizione delle “casematte” politico-culturali del nemico (dal suo punto di vista di comunista queste casematte erano occupate dalla borghesia e il movimento rivoluzionario non solo avrebbe dovuto battere il nemico di classe ma anche insignorirsi dei migliori valori di questa classe, in modo che non solo questi valori passassero al proletariato ma anche che i migliori rappresentanti della classe egemone ora sconfitta passassero dalla parte del proletariato) e formulava, con mentalità molto sorelliana, il mito del “moderno principe”, che non si riassumeva certo nell’ingannevole figura del classico “uomo forte”ma che rappresentava, piuttosto, la sintesi dialettica, incarnata in un movimento politico che sapesse fondere il momento più politico con quello di cultura politica – Buffagni lo definisce metapolitico – , fra le spinte dal basso politiche e culturali provenienti dal proletariato e le migliori istanze della borghesia che pur doveva venire sconfitta tramite la predetta guerra di posizione all’interno della società. Insomma, per Gramsci la cultura “nazionalpopolare” non era solo uno strumento per comprendere la società italiana del suo tempo ma era, soprattutto, un progetto rivoluzionario “in fieri” che doveva preludere alla rivoluzionaria vittoria del proletariato. E veniamo quindi ora ai punti “metapolitici” dell’articolo di Buffagni. Per farla breve, ed anche perché questo a mio giudizio è il cuore di tutto il ragionamento di Buffagni, cito direttamente il punto 3 che afferma: “L’opposizione al mondialismo è costretta ad essere, volens nolens, opposizione all’illuminismo e all’universalismo”. Ora, a parte il fatto che il termine ‘mondialismo’ dice troppo o troppo poco (ma si tratta di intendersi, tutti, compresi lo scrivente, soffrono della mancanza, dopo il fallimento storico delle esperienze e categorie marxiste, di un adeguato lessico rivoluzionario e ‘mondialismo’ – preso cum grano salis e con la consapevolezza della sua natura di strumento provvisorio da sostituire quanto prima con ben altre e più ficcanti terminologie, e il Repubblicanesimo Geopolitico è anche, se non soprattutto, impegnato nella formulazione di queste nuove “categorie del politico – può ben indicare la retoricizzazione a scopi di dominio politico interno e di proiezione imperialistica degli ideali democratici e dei c.d. diritti umani), è sull’opposizione totale e totalitaria all’illuminismo e all’universalismo che è necessario spendere qualche ulteriore riflessione (e diciamolo chiaramente anche qualche critica). Questo per due fondamentali motivi. Punto numero uno. Proprio perché come già affermato nelle vicende storiche e sociali non si danno mai soluzioni ma semmai nuovi problemi od assetti dialetticamente legati agli stati precedenti e che magari soddisfano, almeno parzialmente e per brevi periodi, coloro che li hanno generati ma che, in nessun modo, possono essere chiamati soluzioni alla stregua delle soluzioni matematiche, non ha dal punto di vista prettamente teorico alcun senso affermare che si è contro o a favore di una determinata situazione o periodo storico. O per essere ancora più radicali – ed anche apparentemente auto contraddittori – la teoresi politica e culturale è allo stesso tempo dialetticamente contro tutta la realtà che l’ha preceduta ma è anche attratta inesorabilmente da questa stessa realtà. Questo per il molto semplice e banale motivo che senza polarità di attrazione-repulsione della realtà che gli si pone di fronte, non solo non è possibile modificare la realtà stessa ma non esisterebbe nemmeno, a meno che non si voglia cadere nella “storia monumentale” di nietzschiana memoria, la teoresi stessa. E questa dialettica di attrazione-repulsione della teoresi verso la realtà non è altro, se ci si pensa bene, che la trasposizione su un piano prettamente teorico della dinamica del confronto-scontro strategico che avviene negli altri livelli della realtà, dalla evoluzione delle istituzioni e consuetudine umane all’evoluzione degli organismi in natura. Ma su questo fondamentale aspetto non mi voglio ora dilungare oltre, atteso che tutti i lettori sono a conoscenza della hegeliana dialettica servo-padrone ed anche perché – si parva licet componere magnis – è un aspetto che ho già precedentemente trattato e che troverà una ulteriore sistemazione nelle mie prossime Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico. Secondo – ed ultimo – fondamentale motivo per cui il punto 3 dell’articolo di Buffagni necessita di una ulteriore messa a fuoco: è vero noi siamo tutti, tanto per intenderci su un piano di praticità operativa e retorica e in attesa anche di più scaltrite categorie politiche – contro l’universalismo ed il mundialismo ma – e qui ritorna in campo l’impostazione culturalistica di Gramsci – non dobbiamo assolutamente dimenticare (e Buffagni nei suoi punti assolutamente non dimentica) che universalismo e una delle sue degenerazioni che chiamiamo per comodità operativa mondialismo, sono l’ultimo anello di una catena che parte dal mondialismo (e mondializzazione altrimenti detta globalizzazione) occidentale iniziata coll’impero romano, proseguita dal cristianesimo e sfociata per ultimo in epoca moderna nelle grandi illusioni illuministe prima e marxistiche in finale di partita: tutto ciò per dire che ragionando con procedure dialettiche e gramsciane sembra veramente difficile che possa avere vita e forza politica, come invece sembra voler indicare Buffagni, una cultura nazionalpopolare che inglobi al suo interno una prospettiva cristiana ma rifiutandone ab imis l’universalismo relegandola ad una sorta di astratto momento ma disgiunto dall’azione vera e propria. In esergo a queste brevi considerazioni ho posto la parabola del convito dal Vangelo secondo Luca. Il padrone dice ai servi, costringete la gente ad entrare nel banchetto (compelle intrare: Luca 14:23). Nella tradizione della Chiesa, da Agostino a S. Tommaso d’Aquino, questa parabola è sempre stata citata per giustificare la persecuzione e la conversione forzata degli atei e degli infedeli. Se il lascito del cristianesimo riguardo ai rapporti col diverso fosse solo l’universalistico e mondialistico compelle intrare non ho nessuna remora ad affermare, nonostante tutti gli sforzi di sintesi dialettica che si debbono compiere in sede di teoresi, che non avrei proprio nessuna difficoltà a schierarmi toto corde contro cristianesimo, illuminismo e – ovviamente ça va sans dire – contro l’universalismo retorico e contro la sua ulteriore ed imperialistica estensione del mondialismo. Ma il cristianesimo non è stato solo questo, è stato, anche se perseguitato, spesso il suo contrario, e dal punto di vista storico e quindi della teoresi non è forse del tutto inutile ricordare che il concetto di tolleranza, ancor prima di assumere le modalità liberali di individualismo metodologico come infine sono state elaborate prima auroralmente e contraddittoriamente da Hobbes (libertà di coscienza ma solo nel foro interno e decisionismo sovrano che prevale nella società esterna schiacciando il sorgere pubblico di sette e divisioni all’interno della stessa), poi da Spinoza e infine definitivamente compiute in Locke, fu nella modernità occidentale elaborato dalle sette ereticali sorte in seguito alla Riforma, sette ereticali che, in polemica con la riforma stessa, affermavano, in buona sostanza, che l’amore universalistico che deve unire tutti gli uomini impedisce senza possibilità di alcun dubbio che qualcuno sia costretto ad entrare, sia cioè costretto a convertirsi. E queste sette e movimenti ereticali che fecero della tolleranza il loro maggiore lascito religioso, politico e culturale (gli eroici nomi delle loro guide spirituali: Sebastiano Castellione, (2) Bernardino Ochino, i Sozzini) erano gli eredi culturali del miglior e più scaltrito umanesimo italiano (il suo principale ed archetipo esponente, Lorenzo Valla) che tramite la loro critica filologica avevano ben capito che il compelle intrare ed altri luoghi comuni testuali, compormentali e culturali del cristianesimo o erano stati mal interpretati allo scopo di politiche di puro potere o, comunque, come tutti le umane imprese che nascono e muoiono nella storia, andavano debitamente contestualizzati tenendo sempre presente come stella polare l’universalismo dell’amore – e quindi della tolleranza – che giudicavano come il vero cuore pulsante del cristianesimo. Penso che una Kultur che avversi l’universalismo liberista e l’imperialista mondialismo e che partendo dalla storia della modernità occidentale sia sempre più radicata fino a diventare nazionale popolare (e quindi politicamente efficace) debba tenere ben presente anche questi elementi e del cristianesimo (3) e di questo aspetto di storia della religione che si sono manifestati proprio con estremo rigore e vigore in Italia. Concludo con una situazione estranea al bell’articolo di Buffagni ma che, anche se con una battuta, ci consente e di stigmatizzare il falso mondialismo democratico e di mostrare che l’ epifania strategica del Repubblicanesimo Geopolitico (progetto che fu anche di Gramsci, anche se con categorie per ora smentite dalla storia, ma avendo ben presente che si doveva dare origine ad un movimento politico-culturale “nazionalpopolare” e quindi radicato nella storia storia) non significa la falsa visione, portata a livello di massa, di un mondo intrinsecamente violento ma la consapevolezza molto strategica ma non necessariamente violenta che, esprimendoci con Alexander Werndt “anarchy is what states make of it”. (4) La bestiale repressione in Catalogna – e tanti saluti alla democrazia e ai diritti politici universalistici del mondo liberal-liberista falsamente propagandati dall’UE – ha fatto sì che, in piena tradizione esegetica cristiana mainstream di Luca 14: 15-24, si sia passati dal compelle intrare al compelle legnare. (5) Si tratta, in senso terroristico e con una versione della Kultur occidentale che noi avversiamo (contraddizione: non avevo appena detto che non si fanno i processi alla storia?) assieme ad una ulteriore conferma del detto wendtiano – ma in negativo, cioè della capacità umana, anziché di essere artefice del suo destino come indica la citazione wendtiana, di compiere il male – anche, attraverso la sua totale e speculare antitesi, dell’indicazione su cosa si deve intendere per ‘epifania strategica’. Una epifania strategica ed un senso delle più profonde e migliori radici della Kultur occidentale (6) che è del tutto assente nella mente e negli occhi spenti di questa attuale brutale Europa politica liberal-liberista e – usiamo ancora una volta questo termine sicuri che sappiamo capirci – mondialista.

Massimo Morigi – 4 ottobre 2017

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NOTE

1 Agli URL http://italiaeilmondo.com/2017/09/29/taccuino-francese-che-cosa-ci-insegna-la-crisi-del-front-national-di-roberto-buffagni/, http://www.webcitation.org/6tvriCfRo e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2017%2F09%2F29%2Ftaccuino-francese-che-cosa-ci-insegna-la-crisi-del-front-national-di-roberto-buffagni%2F&date=2017-10-03 .

2 Nell’ottobre 1553 venne messo al rogo a Ginevra l’antitrinitrario Michele Serveto (Michel Servet, Villanueva de Sigena, 19 settembre 1511 – Ginevra, 27 ottobre 1553). L’anno successivo stigmatizzando la decisione di Calvino di mettere a morte Serveto, Sebastiano Castellione (Sébastien Castellion, o Chatellion o Châteillon, in italiano Sebastiano Castellione, Saint-Martin-du-Frêne, 1515 – Basilea, 29 dicembre 1563) con lo pseudonimo di Martin Bellius pubblica il “De haereticis an sint persequendi” dove attraverso citazioni di diversi autori fra cui Martin Lutero, Erasmo da Rotterdam, Sebastian Frank e lo stesso Castellione, Castellione mostra l’insensatezza dell’intolleranza vista l’assoluta soggettività delle opinioni umane e, soprattutto, nella consapevolezza che il vero può essere avvicinato solo con una libera ricerca. Celebre la sua frase sul rogo di Serveto “Tuer un homme ce n’est pas défendre une doctrine, c’est tuer un homme. Quand les Genevois ont fait périr Servet, ils ne défendaient pas une doctrine, ils tuaient un être humain : on ne prouve pas sa foi en brûlant un homme mais en se faisant brûler pour elle” che consegna l’ “uccidere un uomo non è difendere una dottrina, è uccidere un uomo” come una delle massime pietre miliari non solo della cultura occidentale ma anche (e ci sia concesso per un attimo il peccato dell’universalismo) di tutte le culture dell’uomo.

3 Altro tratto del cristianesimo fondamentale per il Repubblicanesimo Geopolitico per un’ulteriore sviluppo di una Kultur realmente alternativa alle attuali scemenze liberal-liberiste, e cioè il tormentato rapporto del cristianesimo di S. Paolo con la legge civile, è stato affrontato nel nostro “Repubblicanesimo Geopolitico e Katargēsis Messianica” , che è stato pubblicato originariamente per “L’Italia e il Mondo” all’URL http://italiaeilmondo.com/2017/07/29/perche-la-chiesa-cattolica-viene-attaccata-dallonu-di-massimo-morigi/ (WebCite: http://www.webcitation.org/6sMcGBjay e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2017%2F07%2F29%2Fperche-la-chiesa-cattolica-viene-attaccata-dallonu-di-massimo-morigi%2F&date=2017-07-31) e che poi è stato anche caricato autonomamente su Internet ed ora è quindi consultabile, oltre che su altre piattaforme, agli URL di Internet Archive https://archive.org/details/RepubblicanesimoGeopoliticoEKatargsisMessianica_637 e https://ia600809.us.archive.org/25/items/RepubblicanesimoGeopoliticoEKatargsisMessianica_637/RepubblicanesimoGeopoliticoEKatargsisMessianica.pdf .

4 “Anarchy is what States Make of it: The Social Construction of Power Politics” è il titolo di un articolo di Alexander Wendt comparso nel 1992 sulla rivista “International Organization” (Alexander Wendt, “Anarchy is what States Make of it: The Social Construction of Power Politics” in “International Organization”, Vol. 46, No. 2. (Spring, 1992), pp. 391-425), articolo nel quale viene esemplarmente esposto quell’approccio costruttivista che ha rivoluzionato la dottrina delle relazioni internazionali e che ha profonde affinità con l’impostazione dialettico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico. L’articolo è ora anche consultabile su Internet, oltre altre piattaforme, all’URL https://people.ucsc.edu/~rlipsch/migrated/Pol272/Wendt.Anarch.pdf , mentre per l’importanza per il Repubblicanesimo Geopolitico del costruttivismo di Alexander Wendt, oltre a vedere “Repubblicanesimo Geopolitico. Alcune delucidazioni preliminari”, pubblicato prima sul “Corriere della Collera” all’ URL https://corrieredellacollera.com/2013/11/23/alla-ricerca-dellidentita-italiana-di-massimo-morigi/ e ora anche sull’ “Italia e il Mondo” all’ URL http://italiaeilmondo.com/2017/03/16/repubblicanesimo-geopolitico-3a-parte-alcune-delucidazioni-preliminari-di-massimo-morigi/ (WebCite: http://www.webcitation.org/6t4eGt59y e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2017%2F03%2F16%2Frepubblicanesimo-geopolitico-3a-parte-alcune-delucidazioni-preliminari-di-massimo-morigi%2F&date=2017-08-29), si rinvia, more solito, per la “dialettizzazione” del costruttivismo wendtiano alle prossime “Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico”.

5 Proseguendo con gli ignobili giochi di parole, ma per certe situazioni e certi uomini non si può sprecare troppa intelligenza, dopo l’indegno discorso di re Filippo VI di Spagna in seguito alla brutale e bestiale repressione in Catalogna per un referendum definito incostituzionale (ma ammesso e non concesso che lo fosse, sarebbe bastato non riconoscerne il risultato, cercando di non farlo svolgere si denuncia la propria coda di paglia e, comunque, ne viene posto, de facto, un sigillo di legittimità se non giuridica certamente politica), ora per le vicende di Spagna al “compelle legnare” bisogna anche associare un “compelle regnare” (o, con (in)felice sintesi “per regnare compelle legnare”: comunque, non si sa bene ancora per quanto, visto che la giustificazione di un’istituzione anacronistica come la monarchia nei regimi a c.d. democrazia rappresentativa si giustifica proprio per essere una voce , in ragione della sua natura non elettiva e quindi non sottoposta ad alcuna spinta elettoralistica, volta unicamente alla concordia del popolo, al di sopra delle fazioni e contro ogni demagogia – e nel caso della Spagna – delle bestialità autoritarie di leader politici – e degli agenti strategici politico-militari nostalgici del franchismo – che devono rispondere ai peggiori istinti totalitari del loro elettorato …).

6 Il Repubblicanesimo Geopolitico è debitore a Walter Benjamin, oltre alla elaborazione delle “categorie del politico” dell’ ‘iperdecisionismo’ e dello ‘stato di eccezione permanente’ che animano le “Tesi di filosofia della storia” (cfr. sull’argomento i nostri Massimo Morigi, “La Democrazia che sognò le fate (Stato di Eccezione, Teoria dell’Alieno del Terrorista e Repubblicanesimo Geopolitico”) e Id.,Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico. Lo Stato di Eccezione in cui Viviamo è la Regola”, entrambi lavori pubblicati sull’ “Italia e il Mondo” e consultabili anche su varie piattaforme Web), anche del suo particolare messianismo, non rivolto verso un imprecisato futuro ma inteso a salvare quanto nel passato era stato cacciato ai margini della storia ed oppresso. A questo proposito Benjamin creò la metafora del “balzo di tigre nel passato”. Nella Weltanschauung del Repubblicanesimo Geopolitico, questo messianico “balzo di tigre nel passato” si tramuta in un’ epifania strategica che per realizzarsi si pone l’obiettivo di una Kultur non statica ma sempre in fieri , attraverso la quale vengano recuperate e rese strategicamente operative e vincenti tutte quelle situazioni e (fallite) soluzioni che nel passato appartennero agli agenti omega-strategici: «La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è costituito dal tempo omogeneo e vuoto, ma da quello riempito dall’adesso. Così per Robespierre l’antica Roma era un passato carico di adesso, che egli estraeva a forza dal continuum della storia. La rivoluzione francese pretendeva di essere una Roma ritornata. Essa citava l’antica Roma esattamente come la moda cita un abito d’altri tempi. La moda ha buon fiuto per ciò che è attuale, dovunque esso si muova nel folto dei tempi lontani. Essa è il balzo di tigre nel passato. Solo che ha luogo in un’arena in cui comanda la classe dominante. Lo stesso salto, sotto il cielo libero della storia, è il salto dialettico, e come tale Marx ha concepito la rivoluzione.»: Walter Benjamin, tesi n. 14 di “Tesi di filosofia della storia”.

Massimo Morigi a proposito del “podcast-episode-13_ Lo SMARRIMENTO DEI VINCITORI, di Gianfranco Campa”

Un lungo commento di Massimo Morigi  al podcast sulle vicende presidenziali americane, ma con un occhio all’uomo “forte” del recente passato d’Italia

http://italiaeilmondo.com/2017/09/24/httpssoundcloud-comuser-159708855podcast-episode-13/

 

«Dell’ “eroe”, sia pure popolare, nel senso emersoniano Mussolini ebbe ben poco (come ben poco ebbe del vero uomo di Stato, mentre indubbiamente fu un notevole uomo politico); in tutti i momenti nodali della sua vita gli mancò la capacità di decidere, tanto che si potrebbe dire che tutte le sue decisioni più importanti o gli furono praticamente imposte dalle circostanze o le prese tatticamente, per gradi, adeguandosi alla realtà esterna, il che non sembra poi molto diverso. Per molti aspetti fu piuttosto, per usare un suo pseudonimo giovanile, l’homme qui cherche e non l’ homme qui va e trovò la sua via giorno per giorno, senza avere una idea di dove sarebbe arrivato, ma “sentendo” da vero politico, quale fosse la propria direzione. Sotto questo profilo bene ci pare lo abbia capito Maurras quando scrisse nel suo Dictionnaire: “[in C. Maurras, Dictionnaire politique et critique, III, Paris 1932, p.124, nota bibliografica dal testo citato]:Mussolini ne procède pas en doctrinaire idéologue. L’expérience le conseille, il en suit la leçon, soucieux, au jour, de restaurer le nécessaire, nullement ambitieux de précipiter les éléments politiques et sociaux à la manière d’une pâte dans un gaufrier. Néanmoins, si lâche et flottant, ou même dissolu que son dessein puisse paraître, il a une suite et un ordre, il laisse en se développant une trajectoire, et les observateurs sont bien obligés de se dire que tout cela se tient.”» : Delio Cantimori, prefazione a Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario. 1883-1920, Torino, Einuadi, 1994, p. XXIII.

Così il più profondo e tormentato storico italiano del Novecento, Delio Cantimori, nella sua prefazione, si era nel 1965, alla prima edizione del primo volume della biografia di Renzo De Felice su Benito Mussolini, Mussolini il rivoluzionario, volendo rappresentare in pochi icastici tratti la personalità di Benito Mussolini, ci restituiva la rappresentazione di un uomo né genio né demonio ma quella di un personaggio “umano, troppo umano” in cui le debolezze caratteriali venivano celate da un decisionismo di facciata che copriva un vuoto di pensiero e di progetto politico, e in questo non solo troppo umano ma anche troppo italiano, troppo simile a quegli italiani (in questo veramente uguali al di là delle magliette degli opposti schieramenti di destra e di sinistra) dove sia sul piano personale che su quello pubblico pensano che una petizione di principio ed una trombonata retorica possano fare le veci di un serio impegno personale e di una seria preparazione sui problemi pubblici. Al di là dei decenni e delle sideralmente diverse condizioni culturali e politiche, vichiani corsi e ricorsi della storia (ma, ancor più, dell’eterna natura umana, sempre una natura di tipo conflittual-strategico: l’eterno problema è come questa natura viene declinata, se seriamente o in maniera da pagliacci. Insomma la machiavelliana dannata serietà della politica che, se non presa con la dovuta consapevolezza, e questo è uno dei più importanti lasciti del Segretario fiorentino, non solo si ritorce contro chi l’ha così stoltamente concepita ma si tramuta malignamente in una vera e propria crisi di civiltà): nel fresco ritratto di Donald Trump che ci restituisce il tredicesimo podcast di Gianfranco Campa, “Lo smarrimento dei vincitori”, emerge veramente un Donald Trump con tratti terribilmente simili al cantimoriano ritratto di Mussolini. Non una terribile ed onnicalcolante mente dittatoriale (nel caso di Trump, seguendo la vulgata politicamente corretta: un democratico imbevuto di idee fascistoidi) ma piuttosto, un abile, anzi abilissimo politico, che fece del suo principale difetto, la superficialità, la sua principale se non unica arma per la conquista del potere ed una personalità politica dove il decisionismo è una decisionismo completamente di facciata perché la sua unica preoccupazione fu sempre, almeno fino a quando la sua azione di governo ebbe una certa efficacia, quello di una diuturna mediazione fra le varie componenti del fascismo non creando mai una situazione originale e sfruttando costantemente le varie circostanze che gli si presentavano di fronte senza avere mai un approccio veramente creativo (dopo, quando egli pensò di essere veramente un genio non ascoltò più nessuno e a questo punto la sua superficialità unita ad una crescente megalomania lo dannò): comunque tutto si può dire di Mussolini tranne che non fosse un abilissimo uomo politico (nel peggior senso della parola, ovviamente, e in questa sua assenza di “creatività” politica e fortissimo opportunismo e crescente megalomania, vero “padre ignobile” dell’attuale ceto politico antifascista del regime sorto in seguito alla sconfitta militare e che perdura ancora sfacciatamente nonostante che i miti resistenziali abbiano mostrato la loro funzione di “arma di rimozione di massa” dell’esperienza del fascismo) e tutto si può concedere a Mussolini tranne il fatto che fosse uno statista, essendo il significato del suo percorso pubblico e privato la dimostrazione più lampante del suo esatto contrario, il demagogo, specie umana e politica che infesta in egual modo sia le dittature che le c.d. “democrazie”. Continuava Cantimori nel suo ritratto di Mussolini: «Visto in una simile prospettiva lo studio della vita di Mussolini, pur mantenendo tutte le sue peculiarità, assume in un certo senso un valore “tipico”, che può servire a capire non solo l?uomo Mussolini, ma il significato del fascismo stesso, e può costituire anche una sorta di primo specchio del modo e della misura nei quali il socialismo di Mussolini e poi il suo fascismo furono visti e valutati dai suoi contemporanei. È in questa funzione, anzi, che la nostra narrazione della vita di Mussolini procede con una prospettiva, un inquadramento, che potremmo definire “a ventaglio” (allargandosi cioè a mano a mano che gli orizzonti di Mussolini si dilatano e la sua figura assume una portata maggiore sino ad avere un ruolo nazionale ed europeo e, quindi, ad inserirsi in un contesto che non è più locale, di partito, nazionale, ma internazionale), ma contemporaneamente senza precorrere, se così si può dire, i tempi della sua evoluzione e del suo successo. Più che ricorrere per lumi e per conferme al poi, insomma, abbiamo di volta in volta preferito attenerci al presente; nel pensiero e soprattutto nell’azione di Mussolini è possibile infatti riscontrare, per dirla con Maurras, uno sviluppo, una traiettoria che hanno una loro logica precisa; voler vedere però in certe “svolte”, in certe “scelte” della vita di Mussolini la consapevolezza che esse lo avrebbero portato a certe soluzioni, a certi obbiettivi a lungo raggio ci sembra non solo arbitrario, ma tale da distorcere i fatti e la loro comprensione: si finirebbe per fare di Mussolini l’ homme qui va e quindi per non capire più il vero significato degli avvenimenti attraverso i quali egli pervenne al successo e per ridurre tutte le altre figure ad un ruolo subalterno, a manichini messi nel sacco da un mago istrione e non piuttosto a considerarle più correttamente come altrettanti protagonisti di una vicenda che – bene o male – ha corrisposto al momento di crisi della società liberale postunitaria e al realizzarsi (tra incertezze, sbandamenti ed errori, dovuti appunto alla grandiosità e alla novità di questa trasformazione e all’imponenza della posta in gioco) di una nuova società politica di massa.»: Ivi, pp. XXV-XXVI.

Dai podcast di Gianfranco Campa per “L’Italia e il mondo” emerge “un inquadramento a ventaglio” della vicenda di Donald Trump, una ricognizione che dalla puntuale individuazione delle caratteristiche “umane, troppo umane” del personaggio Trump si allarga alla profonda conoscenza di tutti i protagonisti e comprimari culturali, politici, economici e militari che avversandolo (la stragande maggioranza) o favarendolo (sarebbe meglio dire: creandolo) stanno dando origine all’attuale micidiale scontro strategico all’interno dell’attuale establishment americano. E in questo tumultuoso quadro magistralmente e puntualmente – ma anche con profondi e cupi tratti espressionistici – rappresentato da Gianfranco Campa, Donald Trump appare sempre più, piuttosto che l’ homme qui va , l’homme qui cherche, un homme qui cherche veramente all’insegna delle parole conclusive di Charles Maurras su Benito Mussolini: “Néanmoins, si lâche et flottant, ou même dissolu que son dessein puisse paraître, il a une suite et un ordre, il laisse en se développant une trajectoire, et les observateurs sont bien obligés de se dire que tout cela se tient.” Il gramsciano “ottimismo della volontà” di Gianfranco Campa, in un’analisi talmente partecipe della situazione politica statunitense quasi da voler diventare uno degli attori dello scontro che rappresenta (ma questo atteggiamento “attivistico” non costituisce una debolezza della stessa ma, dialetticamente, indica anche una precisa moralità politica per chi, anche in Italia, si pone in posizione radicalmente alternativa rispetto all’attuale “stato delle cose” ma non si concede la scorata passività dell’osservatore mussoliniano di Charles Maurras), oltre a fare, tramite il suo realismo, letteralmente piazza pulita della “pappa del cuore” della menzogna del politicamente corretto che infesta pressoché tutti i commentatori, destra o sinistra non importa, quando parlano degli Stati uniti, costituisce anche una precisa traccia per un’autentica moralità politica che ponga le basi per quel gramsciano “moderno principe” che dovrà essere l’esatta antitesi del tipo umano e politico rappresentato da Marraus descrivendo Mussolini. Che, proprio perché simmetrica antitesi, non dovrà avere nulla da spartire e combattere come i principali nemici coloro che respingono Trump perché lo rappresentano come un fascistoide …

Massimo Morigi – 26 settembre 2017

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