PERCHÉ LA CHIESA CATTOLICA VIENE ATTACCATA DALL’ONU Di MASSIMO MORIGI

Prosegue la pubblicazione delle varie riflessioni di Massimo Morigi riguardanti il “repubblicanesimo geopolitico”. Anche questo breve scritto è preceduto da un lungo commento odierno dell’autore

Repubblicanesimo Geopolitico e  Katargēsis Messianica

di Massimo Morigi

«[19] Ora, noi sappiamo che tutto ciò che dice la legge lo dice per quelli che sono sotto la legge, perché sia chiusa ogni bocca e tutto il mondo sia riconosciuto colpevole di fronte a Dio. [20] Infatti in virtù delle opere della legge nessun uomo sarà giustificato davanti a lui, perché per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato. [21] Ora invece, indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti; [22] giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. E non c’è distinzione: [23] tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, [24] ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. [evidenziazione dal versetto 21 al versetto 24 del redattore] [25] Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati, [26] nel tempo della divina pazienza. Egli manifesta la sua giustizia nel tempo presente, per essere giusto e giustificare chi ha fede in Gesù. [27] Dove sta dunque il vanto? Esso è stato escluso! Da quale legge? Da quella delle opere? No, ma dalla legge della fede[28] Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della legge. [evidenziazione dal versetto 27 al versetto 28  del redattore] [29] Forse Dio è Dio soltanto dei Giudei? Non lo è anche dei pagani? Certo, anche dei pagani! [30] Poiché non c’è che un solo Dio, il quale giustificherà per la fede i circoncisi, e per mezzo della fede anche i non circoncisi. [31] Rendiamo allora inoperante [katargoumen: rendiamo inoperante, rendiamo inefficace, annulliamo, aboliamo, distruggiamo, superiamo, ndr] la legge mediante la fede? Nient’affatto, anzi confermiamo la legge. [evidenziazione del verseto 31 del redattore]  »: Rm 3, vv. 19-31.

 

In  Perché la Chiesa Cattolica viene attaccata dall’Onu  pubblicato sul “Corriere della Collera” il 9 febbraio 2014 (all’URL https://corrieredellacollera.com/2014/02/09/perche-la-chiesa-cattolica-viene-attaccata-dallonu-di-massimo-morigi/ e ora anche su WebCite agli URL http://www.webcitation.org/6sJ58D0JY e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com%2F2014%2F02%2F09%2Fperche-la-chiesa-cattolica-viene-attaccata-dallonu-di-massimo-morigi%2F&date=2017-07-28), dopo aver indicati i motivi geopolitici e di politica internazionale (in estrema sintesi: l’opporsi, per difendere la presenza cristiana nell’area, alla polverizzazione politica e statuale mediorientale operata dalla politica del caos statunitense) a causa dei quali la Chiesa cattolica, attraverso l’accusa di ogni nequizia sessuale possibile ed immaginabile stava subendo (e tuttora sta subendo) un possente attacco dei grandi centri strategici internazionali (stranamente, tanto per fare un esempio, l’Arabia Saudita, con la sua “singolare” visione del rapporto fra i sessi non ha dovuto subire mai nulla di simile; altrettanto singolare poi che la punta di lancia di queste accuse provenisse da quella pia organizzazione internazionale, le Nazioni unite, che è il consesso internazionale dove hanno possibilità di veto proprio quegli stati che spingendo un bottone possono distruggere l’umanità e che storicamente e tutt’oggi s’ingegnano a compiere i maggiori massacri in giro per il mondo), chiudevo le mie brevi considerazioni con queste parole: «Ed è altrettanto evidente che nel contrastare questo vuoto culturale e politico la Chiesa cattolica non solo non deve essere lasciata sola ma deve essere affiancata anche da apporti che se, apparentemente, hanno più a che fare con quello che deve essere dato a Cesare piuttosto che a Dio, cionondimeno affondano le loro radici, come il Repubblicanesimo Geopolitico, in una concezione di vita e di cultura che è nata nello stesso terreno sul quale ha prosperato la religione che ha dato forma alla civiltà occidentale.». Lo scopo dell’articoletto, la denuncia delle vere ragioni per le quali si tentava (e si tenta tutt’ora) di far apparire la Chiesa cattolica come la sentina di ogni vizio morale e sessuale non rendevano opportuna l’occasione, tranne il mero ma non ulteriormente precisato passaggio  sulle molte comuni radici fra la Chiesa cattolica ed il Repubblicanesimo Geopolitico, per diffondersi sull’argomento. La rinnovata cortese ospitalità dell’ “Italia e il Mondo” per i primi vagiti del Repubblicanesimo Geopolitico nonché la necessità –  oltre a rinnovare la difesa della Chiesa cattolica sempre e comunque sotto attacco –  di pubblica chiarificazione delle sue fonti teoriche, nella fattispecie delle presenti  considerazioni sotto l’aspetto della sua ‘teologia politica’, ci fornisce allora l’occasione per chiarire il senso delle impegnative considerazioni conclusive di Perché la Chiesa Cattolica viene attaccata dall’Onu .

Tutti conoscono la frase di Gesù e riportata dai tre vangeli  sinottici laddove il Figlio di Dio afferma “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” e da parte dei zelanti – ma ahimè non proprio molto scaltriti –  sostenitori della tesi  dell’assoluta non ingerenza della Chiesa cattolica nella vita dello stato (più o meno) laico (quasi che la politica attuale effettuale di una antichissima  istituzione possa essere giudicata alla luce delle parole attribuite da più di  duemila anni  al  suo Messia) e dei polemisti contro l’Islam (quasi che la Chiesa non abbia mai storicamente voluto imporre una sua propria particolare sharia), questa frase viene incessantemente citata per indicare il rapporto assolutamente libero ed autonomo della Chiesa stessa rispetto alla legge civile. In effetti, anche se non proprio per le ragioni indicate dalla maggior parte degli zelanti sostenitori della Chiesa cattolica (ragioni, fra l’altro, molto spesso condivise, anche da parte di coloro che si qualificano come laici, i quali pur non riconoscendo alla Chiesa cattolica attuale alcun disinteresse verso la legge civile, molto volentieri concedono al Figlio di Dio una corretta impostazione “laica” del problema, e a questo punto non si sa più se ridere o piangere a vedere come si è ridotto il c.d. “pensiero laico”), la frase e sì importantissima per delineare l’intima disposizione che per più di duemila anni ha animato il cristianesimo – e nello specifico – la Chiesa cattolica verso la legge civile ma il punto è che si tratta di una Stimmung  che non ha proprio nulla a che fare con l’angelico disinteresse verso la legge civile che ci consegnerebbero le parole di Cristo. In breve. Chiunque non voglia piegare (anche in perfetta buonafede, per carità!) il “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” ad esigenze “politiche” s’accorge immediatamente della loro inequivocabile ambiguità di fondo. Ora il sopracitato (rozzo) pensiero laico, risolve questa ambiguità con un “semplicismo” di stampo pseudostorico affermando che, qualsiasi fossero le recondite intenzioni per cui Gesù Cristo pronunciò quelle parole e le concrete condizioni che lo indussero ad esprimersi in questo modo,  fino ai nostri giorni tutti i tentativi della Chiesa cattolica sono stati indirizzati a piegare la legge civile ai dettami della religione finalizzandola, quando le condizioni storiche lo rendevano possibile, alla costruzione di uno stato teocratico. Invece un pensiero, come il Repubblicanesimo Geopolitico, non proprio intenzionato ad essere l’ottuso cantore del “Brave New World”, del mondo liberal-liberista, della democrazia di massa e rappresentativa e dei formidabili diritti dell’uomo oltre a notare l’intima contraddittorietà delle parole di Cristo riconosce in questa parole una contraddizione che è anche la propria trattandosi di un “crampo del pensiero” che è proprio di ogni pensiero autenticamente rivoluzionario che pur volendo generare una propria incontestabile legalità ha con la legge positiva (e, conseguentemente,  anche con la futura legge rivoluzionaria) un rapporto non proprio molto sereno (anche se, come vedremo) dialetticamente molto profondo. E che nel cristianesimo delle origini e nella futura Chiesa cattolica il rapporto con la legge civile fosse dialetticamente assai poco risolto, ben lo vediamo dalla lettera di S. Paolo ai Romani –  come da noi mostrato  in Rm 3, vv. 19-31 posto in esergo al presente  commento a Perché la Chiesa Cattolica viene attaccata dall’Onu   – dove al versetto 31, dopo un irrisolto ragionamento in merito al rispetto della legge civile chiedendosi «Rendiamo allora inoperante  [katargoumen: rendiamo inoperante, rendiamo inefficace,  annulliamo, aboliamo, distruggiamo, superiamo, sospendiamo, ndr] la legge mediante la fede?» scioglie la domanda con un contraddittorio «Nient’affatto, anzi confermiamo la legge.», contraddittorio perche ai vv. 21-24 aveva appena affermato «Ora invece, indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti; giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. E non c’è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù.». Sul problema della  katargēsis messianica della legge civile  in  Rm 3, vv. 19-31 (ma noi  con non forzata analogia possiamo ben parlare del problema della katargēsis  rivoluzionaria rispetto alla legge, cioè del problema mai risolto della rivoluzione rispetto non solo alla legge che l’ha preceduta ma anche rispetto alla legge “rivoluzionaria” prossima ventura) si è magistralmente espresso Giorgio Agamben in il Tempo che resta e in Homo Sacer , opere entrambe da cui traiamo ora  ampie citazioni e commentando le quali potremmo cominciare a formulare le nostre conclusioni riguardo le comuni radici fra ogni autentico pensiero rivoluzionario, fra i quali deve essere annoverato anche il Repubblicanesimo Geopolitico, e l’irrisolto rapporto che il cristianesimo e la Chiesa cattolica hanno intrattenuto fin dagli inizi con la legge. Scrive quindi Agamben a proposito della katargēsis messianica: «Come dobbiamo pensare lo stato della legge sotto l’effetto della katargēsis messianica? Che cos’è una legge che è, insieme, sospesa e compiuta? Per rispondere a queste domande, non trovo nulla di più istruttivo che far ricorso a un paradigma epistemologico che sta al centro dell’opera di un giurista che ha posto la sua concezione della legge e del potere sovrano sotto una costellazione esplicitamente antimessianica –  ma che, proprio per questo, in quanto «apocalittico della controrivoluzione»  – non può evitare di introdurre in essa dei  theologoumena genuinamente messianici. Secondo Schmitt – avrete capito che è a lui che mi riferisco –  il paradigma che definisce la struttura e il funzionamento proprio della legge non è la norma, ma l’eccezione: “Il caso d’eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale. Qui la decisione si distingue dalla norma giuridica e (per formulare un paradosso) l’autorità dimostra di non aver bisogno del diritto per creare diritto … L’eccezione  è più interessante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto; non solo esso conferma la regola: la regola stessa vive solo dell’eccezione. (Schmitt 1921, 41) [nell’ultima edizione italiana : Carl Schmitt, Teologia politica, in Id., Le categorie del politico, trad. it, Bologna, 1972 (ed. 2013), p.41, ndr]”. È importante qui non dimenticare che, nell’eccezione, ciò che è escluso dalla norma non è, per questo, senza rapporto con la legge; al contrario, questa si mantiene in relazione con l’eccezione nella forma della propria autosospensione. La norma si applica, per così dire, all’eccezione, disapplicandosi, ritirandosi da essa. L’eccezione è, cioè, non semplicemente un’esclusione, ma un’esclusione inclusiva, un’ex-ceptio nel senso letterale del termine: una cattura del fuori. Definendo l’eccezione, la legge crea e definisce nello stesso tempo lo spazio in cui l’ordine giuridico-politico può avere valore. Lo stato di eccezione rappresenta, in questo senso, per Schmitt la forma pura e originaria della vigenza della legge, a partire dalla quale soltanto essa può definire   l’ambito normale della sua applicazione. » (Giorgio Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani,Torino: Bollati Bolinghieri, 2000, pp. 98-99), una   katargēsis  messianica che sembra letteralmente esplodere sotto il peso delle sue contraddizioni: «Di qui l’ambiguità del gesto di Rm. 3, 31, che costituisce la pietra d’inciampo di ogni lettura della critica paolina della legge: “Rendiamo dunque inoperante [katargoumen] la legge attraverso la fede? Non sia! Anzi, teniamo ferma [histdnomen] la legge”. Già i primi commentatori avevano notato che l’apostolo sembra qui contraddirsi (contraria sibi scribere: Origene 1993, 150): dopo aver dichiarato più volte che il messianico rende inoperosa la legge, qui sembra affermare il contrario. In verità è proprio il significato del suo terminus technicus che si tratta qui per l’apostolo di precisare, riportandolo al suo etimo. Ciò che è disattivato, fatto uscire dall’ enérgeia, non è, per questo, annullato, ma conservato e tenuto fermo per il suo compimento.» (Ibidem, p. 94).

Per Agamben, quindi, mettendoci la katargēsis messianica  di fronte ad una legge  sospesa e compiuta  al tempo stesso, per ricostruire la vera genealogia della Gestalt dello stato di eccezione schmittiano, la cui intima natura espressiva è la messa al mondo della legge stessa ma contraddittoriamente facendola precedere in importanza gerarchica ed operativa  proprio dal  suo annullamento e/o negazione, lo stato di eccezione appunto, dobbiamo ricorrere alla lettera di S. Paolo ai  Romani. Riprendiamo più per esteso la citazione schmittiana del Tempo che resta: «Il caso d’eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale. Qui la decisione si distingue dalla norma giuridica e (per formulare un paradosso) l’autorità dimostra di non aver bisogno del diritto per creare diritto. […] Solo una filosofia della vita concreta non può ritrarsi davanti all’eccezione e al caso estremo, anzi deve interessarsi ad esso al più alto grado. Per essa l’eccezione può essere più importante della regola, e non in base ad una ironia romantica per il paradosso, ma con tutta la serietà di un punto di vista che va più a fondo delle palesi generalizzazioni di ciò che comunemente si ripete. L’eccezione è più interessante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto; non solo essa conferma la regola: la regola stessa vive solo dell’eccezione. Nell’eccezione, la forza della vita reale rompe la crosta di una meccanica della ripetizione. » ( Carl Schmitt, Teologia politica, in Id., Le categorie del politico, trad. it, Bologna, 1972 (ed. 2013), pp. 40-41).

Questo è il luogo di tutta la produzione schmittiana dove meglio comincia a prendere forma quel concetto definito in sede di elaborazione teorica del Repubblicanesimo Geopolitico  come  ‘stato di eccezione permanente’ , uno ‘stato di eccezione permanente’ che troverà la sua completa forma stilistico-espressiva (anche se non la sua compiuta definizione lessicale, la cui responsabilità risale interamente allo scrivente, sull’argomento cfr. Massimo Morigi, Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico: Lo Stato di Eccezione in cui Viviamo è la Regola ed anche Idem, La Democrazia che Sognò le Fate (Stato di eccezione, Teoria dell’Alieno e del Terrorista e Repubblicanesimo Geopolitico) ) all’ VIII tesi di Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin: «La tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato di eccezione’ in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di eccezione; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo. La sua fortuna consiste, non da ultimo, in ciò che i suoi avversari lo combattono in nome del progresso come di una legge storica. Lo stupore perché le cose che viviamo sono ‘ancora’ possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi.».

Attraverso questo e altri luoghi benjaminiani è stato del tutto naturale per il Repubblicanesimo Geopolitico una reinterpretazione di Walter Benjamin alla luce del concetto di ‘iperdecisionismo’, un iperdecisionismo benjaminiano che va addirittura oltre  il  decisionismo del giuspubblicista fascista Carl Schmitt risolto in funzione katechontica e non  rivoluzionaria come invece in Benjamin (cfr ancora  Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico: Lo Stato di Eccezione in cui Viviamo è la Regola e La Democrazia che Sognò le Fate (Stato di Eccezione, Teoria dell’Alieno e del Terrorista e Repubblicanesimo Geopolitico) ) e ‘stato di eccezione permanente’ e ‘iperdecisionismo’ benjaminiani assunti in pieno  dal Repubblicanesimo Geopolitico che nella Stimmung del loro contraddittorio e dialettico rapporto con la legge (qualsiasi movimento rivoluzionario sviluppa sempre un contradditorio rapporto con la legge: proprio come nella  katargēsis  paolina vorrebbe, attraverso un diktat originario e ad legibus solutus, cioè assoluto, abolire la vecchia legge ma, al tempo stesso, conservarne i suoi principi ordinatori in una nuova legge, ma da negarsi nel momento stesso che viene resa vigente) ben si riflettono nel tortuoso e tormentato precedere della lettera di S. Paolo ai romani.

«In his interpretation […], Kurt Weinberg has suggested that one must see the figure of a “thwarted Christian Messiah” in the shy but obstinate man from the country (Kafka’s Dichtungen, pp. 130-31). The suggestion can be taken only if it is not forgotten that the Messiah is the figure in which the great monotheistic religions sought to master the problem of law, and that in Judaism, as in Christianity or Shiite Islam, the Messiah’s arrival signifies the fulfillment and the complete consummation of the Law [evidenziazione nostra]. In monotheism, messianism thus constitutes not simply one category of religious experience among others but rather the limit concept of religious experience in general, the point in which religious experience passes beyond itself and calls itself into question insofar as it is law (hence the messianic aporias concerning the Law that are expressed in both Paul’s Epistle to the Romans and the Sabbatian doctrine according to which the fulfillment of the Torah is its transgression)  [evidenziazione nostra]. But if this is true, then what must a messiah do if he finds himself, like the man from the country, before a law that is in force without signifying? He will certainly not be able to fulfill a law that is already in a state of suspension, nor simply substitute another law for it (the fulfillment of law is not a new law) [evidenziazione nostra]. […]  This is precisely the situation that, in the Jewish tradition (and, actually, in every genuine messianic tradition), comes to pass when the Messiah arrives. The first consequence of this arrival is that the Law (according to the Kabbalists, this is the law of the Torah of Beriah, that is, the law in force from the creation of man until the messianic days) is fulfilled and consummated [evidenziazione nostra]. But this fulfillment does not signify that the old law is simply replaced by a new law that is homologous to the old but has different prescriptions and different prohibitions (the Torah of Aziluth, the originary law that the Messiah, according to the Kabbalists, would restore, contains neither prescriptions nor prohibitions and is only a jumble of unordered letters). What is implied instead is that the fulfillment of the Torah now coincides with its transgression. This much is clearly affirmed by the most radical messianic movements, like that of Sabbatai Zevi (whose motto was “the fulfillment of the Torah is its transgression”). From the juridico-political perspective, messianism is therefore a theory of the state of exception – except for the fact that in messianism there is no authority in force to proclaim the state of exception; instead, there is the Messiah to subvert its power [evidenziazione nostra].» (Giorgio Agamben, Homo sacer. Sovereign Power and Bare Life, Stanford University Press-Stanford, 1998, pp.37-38). Con  quest’ultima citazione agambeniana veniamo allora a chiudere rapidamente il nostro discorso sulla longue durée delle vere ragioni del perché la Chiesa cattolica oggi come ieri ha un rapporto conflittuale con i grandi agenti strategici che dominano la politica internazionale (oltre naturalmente i già accennati contrasti geopolitici contingenti velocemente riassunti nella presente comunicazione come in Perché la Chiesa Cattolica viene attaccata dall’Onu ) . Detto brutalmente: oggi come ieri i grandi agenti strategici non potranno mai accettare una grande organizzazione spirituale ma anche secolare in cui una parte così fondamentale del suo essere la principale, se non l’unica,  agenzia di senso etico e comportale presente sullo scenario geopolitico derivi direttamente dalla  paolina  katargēsis messianica col suo dialetticamente rivoluzionario (rivoluzionario anche al di là della consapevolezza che ne ha la Chiesa) rapporto con la legge, proprio quella legge sulla quale i grandi agenti strategici, mentre ne operano lo svuotamento di fatto, vorrebbero operare, a scopo di continuazione dei rapporti di forza a loro favorevoli, una sua deificazione e mummificazione per l’eternità ( e l’esempio più clamoroso e chiaro di questa deificazione e mummificazione sono le retoriche sullo stato di diritto, la democrazia rappresentativa e i diritti umani). E  quelle dottrine che, come il Repubblicanesimo Geopolitico, sono basate  su una loro katargēsis rivoluzionaria che mai accetterà un rapporto morto e reverenziale con la legge sono destinate, proprio come la Chiesa cattolica, ad una eterna lotta contro questi agenti strategici conservatori. Il Repubblicanesimo Geopolitico si propone quindi come il primo grande agente strategico che storicamente opera a favore di una dialetticamente consapevole katargēsis rivoluzionaria. L’irrisolto rapporto con la legge ha connotato i duemila anni di vita del cristianesimo come in ultima istanza, oltre ad essere l’innesco delle rivoluzione stesse,  ha minato alle basi i tentativi rivoluzionari che dal XVIII secolo fino ad oggi sono stati uno dei principali motori (pur se fallimentari nel loro esito) della storia umana (se la rivoluzione non ossifica e deifica la legge, seppur rivoluzionaria, viene subito spazzata via; se invece lo fa forse sopravvive ma nega le sue stesse ragioni e poi, alla fine, sparisce lo stesso sotto il peso delle sue contraddizioni). Chiaramente non possiamo pretendere che il successo possa arridere solo in virtù della consapevolezza della presenza di una ineliminabile contraddizione ma, come la storia della Chiesa e quella dei movimenti rivoluzionari ben dimostra, questa sensibilità sulla presenza del “thwarted Christian Messiah” – conscia o inconscia, chiaramente o confusamente espressa  non importa –  ha impedito che il discorso rivoluzionario, religioso, culturale o sociale che fosse, cadesse per sempre nel ridicolo e in un definitivo oblio. E al Repubblicanesimo Geopolitico questo al momento basta e avanza.

 

Massimo Morigi – 29 agosto 2017

 

PERCHÉ LA CHIESA CATTOLICA VIENE ATTACCATA DALL’ONU 

Di MASSIMO MORIGI del 9 aprile 2014

La Chiesa cattolica è la più antica – e ormai unica – “agenzia di senso” globale ancora in dotazione ed operativa in un mondo in cui tutte le narrazioni politiche della modernità hanno fallito e stanno lasciando un panorama di autentica devastazione. In questo quadro, per quanto riguarda il perimetro delle (post)liberaldemocrazie occidentali, si cerca di riempire lo spazio geopolitico dell’ ideologia con quelle che viene definita “noopolitik” (politica di conquista a livello planetario delle menti e delle intelligenze: la propaganda di vecchia memoria ma enormemente potenziata rispetto al passato dalla nascita di internet e da più scaltrite conoscenze della psicologia delle masse), la cui apparente ragione sociale è la difesa dei diritti umani, una difesa che in realtà non è altro che la copertura per l’aggressione prima mediatica (ed eventualmente, in seguito, anche militare) di quei paesi che non si vogliono piegare al Washington consensus. Papa Francesco ha poi, da parte sua, avuto il coraggio di opporsi con tutte le sue forze – e con successo – all’aggressione alla Siria e alla “strategia del caos” che gli Stati uniti volevano applicare anche su questo paese mediorientale, sempre con la scusa della difesa dei diritti umani. E, a questo punto, fa la sua comparsa la ridicola commissione dell’ONU che non solo accusa la Chiesa di ogni possibile nequizia sessuale ma che anche vorrebbe imporre alla Santa Sede una sua particolare ideologia “politically correct” in materia di morale sessuale. Al di là delle considerazioni che si potrebbero fare in merito ad un tentativo di delegittimazione di stampo mafioso-totalitario contro la Santa Sede, rimanendo su un piano più asettico, c’è solo da notare che anche da questo episodio emerge in tutta evidenza che tutto l’impianto politico, ideologico ed infine anche istituzionale che ha retto a livello interno ed internazionale le cosiddette liberaldemocrazie dopo il secondo conflitto mondiale ha definitivamente cessato non solo diciamo di essere efficace ma anche minimamente credibile. Ed è altrettanto evidente che nel contrastare questo vuoto culturale e politico la Chiesa cattolica non solo non deve essere lasciata sola ma deve essere affiancata anche da apporti che se, apparentemente, hanno più a che fare con quello che deve essere dato a Cesare piuttosto che a Dio, cionondimeno affondano le loro radici, come il repubblicanesimo geopolitico, in una concezione di vita e di cultura che è nata nello stesso terreno sul quale ha prosperato la religione che ha dato forma alla civiltà occidentale.

PER PRECISARE ANCORA MEGLIO IL CAMPO DEL NEMICO DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO, di Massimo Morigi

Proseguono le spigolature a proposito del “repubblicanesimo geopolitico” con un commento attuale DELL’AUTORE al testo 

SEMBRA POCO, MA FORSE È MOLTO, VERAMENTE MOLTO

Di MASSIMO MORIGI

 

«Diventa sempre più necessaria una nuova politica estera italiana e la creazione di una struttura statuale in grado di resistere a questo nuovo tipo di guerra, rafforzare la solidarietà europea e limitare drasticamente le attività delle fondazioni, ONG , Think Tank e tutti gli altri strumenti di sovversione miranti –  nei fatti – a disgregare il nostro stato. La Patria è finita a puttane da un bel pezzo. Ne riparleremo dopo averli cacciati.»: agli URL https://corrieredellacollera.com/2017/07/22/marco-tullio-cicerone-e-tajip-erdogan-democrazie-gemelle-con-suggerimenti-per-noi-di-antonio-de-martini/, http://www.webcitation.org/6s8qrEbxM e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com%2F2017%2F07%2F22%2Fmarco-tullio-cicerone-e-tajip-erdogan-democrazie-gemelle-con-suggerimenti-per-noi-di-antonio-de-martini%2F&date=2017-07-22.  In sede di commento di “PER PRECISARE ANCORA MEGLIO IL CAMPO DEL NEMICO DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO”  ora sull’ “Italia e il Mondo” avendo evidentemente fiducia sulle potenzialità prassistiche del Repubblicanesimo Geopolitico e a fine gennaio 2015 sul “Corriere della Collera” (agli URL https://corrieredellacollera.com/2015/01/29/italia-lelezione-del-presidente-della-repubblica-affidata-a-cricche-il-grande-baratto-ci-privano-della-sovranita-politica-in-cambio-della-indulgenza-individuale-come-nei-paesi-dellest-degli-an/, http://www.webcitation.org/6s8qXhvlw e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com%2F2015%2F01%2F29%2Fitalia-lelezione-del-presidente-della-repubblica-affidata-a-cricche-il-grande-baratto-ci-privano-della-sovranita-politica-in-cambio-della-indulgenza-individuale-come-nei-paesi-dellest-degli-an%2F&date=2017-07-22),  penso che non vi possa essere miglior incipit della citazione  della chiusa dell’articolo di Antonio de Martini appena pubblicato dallo stesso De Martini sempre sul “Corriere della Collera” e che invito tutti  ad andare a leggere nella sua interezza perché accanto a considerazioni di filosofia politica (che sottoscrivo in pieno e  che sono riassunte nelle ultime parole citate) contiene anche considerazioni di geopolitica mediorientale che fanno da coerente quadro alla visione filosofico-politica che con queste brevi parole intendo sviluppare. In effetti, sulle ragioni teoriche esposte in “PER PRECISARE ANCORA MEGLIO IL CAMPO DEL NEMICO DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO” molto poco o molto ci sarebbe da aggiungere. Molto poco sul piano fattuale perche la politica italiana e la politica internazionale hanno mostrato sul piano fattuale, nonostante siano passati pochi mesi dall’articolo,  una ulteriore violentissima e travolgente deriva verso quella politica di inflazione dei diritti messa in atto dalle classi dirigenti liberaldemocratiche per gabbare quei poveri “agenti omega-strategici” ai quali vengono sempre più sottratti diritti sostanziali e spazi reali e concreti di possibilità di azione pubblica e personale (spazi vitali sostanziali e concreti di azione che per il Repubblicanesimo Geopolitico, che può essere definito anche “Lebensraum Repubblicanesimo”, sono l’unico vero indicatore non metafisico ragionando sul quale ha senso parlare di libertà), per non menzionare il “trascurabile” dettaglio che la retorica sui diritti umani è proprio quell’elemento che non permettendo una reale e seria lotta contro il “terrorismo”,  la criminalità organizzate e,  per ultimo ma fondamentale,  la squilibrata distribuzione delle risorse fra la popolazione risulta così essere, de facto, la miglior formula per comprimere questi residui spazi di libertà degli “agenti omega-strategici” perché impedendo questa retorica la possibilità di mettere in atto politiche repressive e/o di proiezione geopolitica veramente violente ed efficaci (oltre, al contrario di quelle che vengono messe oggi in atto dalle moderne democrazie, con obiettivi concreti di azione sociale e non fantasmatici tipo la difesa della democrazia interna ed internazionale), rende possibile, accanto alla diuturna  ripetizione ad nauseam  del mantra su sacri principi scaturiti dalla rivoluzione francese, l’instaurazione di uno stato di eccezione permanente vista l’inefficacia (voluta) di queste farlocche risposte politiche (inefficaci per combattere il “terrorismo” ma, ovviamente, molto efficaci attraverso lo “stato di eccezione permanente” per consolidare il potere delle classi dirigenti liberaldemocratiche). Molto, al contrario, ci sarebbe da dire sul piano teorico, perché un pensiero che si proponga concretamente di tracciare le mappe degli amici e dei nemici della Weltanschauung  liberaldemocratica non dovrebbe assolutamente fare a meno di tutta una serie di autori, segnatamente i pensatori controrivoluzionari, vedi Joseph-Marie de Maistre, Louis de Bonald, Juan Donoso Cortés per finire con Charles Maurras, molti dei quali ebbero una importanza fondamentale nello sviluppo del pensiero realista del giuspubblicista fascista Carl Schmitt e autore al quale il Repubblicanesimo Geopolitico, pur respingendo la sua Katechontica  visione reazionaria e dialetticamente monca – e anzi presentandosi, in veste di “acceleratore” benjaminiano, come la sua polare antitesi –,  deve importantissime suggestioni nella sua inedita visione realista. E per chiudere l’ancora molto non detto teorico sul Repubblicanesimo Geopolitico e sul tracciamento delle sue “amity lines”, mi limiterò ad aggiungere che in “GLOSSE AL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO” di prossima pubblicazione un autore controrivoluzionario viene in verità citato. Si tratta di Edmund Burke. Le ragioni di questa ruolo di primazia riservato a Burke è dato dal semplice dato di fatto che in sede di iniziale costruzione teorica del Repubblicanesimo Geopolitico (e siamo tuttora in questa fase) e nella elaborazione del suo pensiero rivoluzionario era sì  necessario scegliere autori anche antirivoluzionari ma la cui natura katechontica contro i venti della rivoluzione dell’ ’89 non fosse sostanzialmente toccata da nessuna venatura di tipo mistico che avrebbe inevitabilmente “intorpidito”, almeno a livello di recezione del messaggio,  l’impostazione realistica e dialettica del Repubblicanesimo Geopolitico (dialettica che, al contrario di quando crede l’ingenuo realismo, essendo basata su un radicale immanentismo, è l’assoluto rifiuto del misticismo). Lasciandoci quindi alle spalle i problemi teorici e le sue apparenti – o reali ? –  contraddizioni (ma come, nelle “GLOSSE” di prossima pubblicazione si è ancora in una fase teoricamente meno avanzata rispetto a queste parole che le precedono e che, in aggiunta, si limitano ad indicare un futuro svolgimento rispetto alle future “Glosse” ma non lo sviluppano ?), torniamo allora alle proposte concrete di De Martini sottoscritte da noi in pieno su come effettualmente combattere i nemici che il Repubblicanesimo Geopolitico – ma, ancor meglio, su come  un elementare buon senso politico animato da un autentico amor di Patria deve intendere la futura azione politica. Ed  è quindi allora venuto il momento di dire a chiare lettere che fra i grandi agenti interni ed internazionali politici ed economici che restringono sempre più i residui spazi di azione degli agenti omega-strategici  basandosi sulla tronfia retorica dei diritti umani e politici (che riducono, insomma, il Lebensraum di azione dei “poveracci” dal punto di vista economico e del potere politico, e per non avere l’impressione di volersi tirar fuori da questa torma di disgraziati, anche della classe intellettuale e per una trattazione più approfondita di questi agenti omega-strategici si rimanda volentieri alla nostra “TEORIA DELLA DISTRUZIONE DEL VALORE”) ci sono anche le ONG che solo un deficiente (politico, per carità) non capirebbe che sono strumenti in mano agli agenti alfa-strategici (grande potenza imperiale occidentale con relativi reggicoda emersi più o meno vittoriosi dalla seconda guerra mondiale,  grande finanza, politici asserviti al sistema liberaldemocratico) per distruggere i popoli e quel poco che rimane ancora dei loro  spazi di libertà (la libertà, per intenderci, come pensata dal Repubblicanesimo Geopolitico o Lebensraum Repubblicanesimo e non certo la libertà mitologica liberaldemocratica, capostipite Benjamin Constant). C’è nello scenario politico italiano ed internazionale qualcuno che non in preda a misticismi reazionari o al delirium tremens del “terrorismo” (funzionale alla permanenza dello status quo) che intenda far sua questa consapevolezza di riscrittura ab imis delle categorie (e dell’azione) del politico? Aspettando allora lo scioglimento (o meglio, l’ulteriore sviluppo) di tutti i nodi e le  contraddizioni teoriche segnalate anche in questo articolo, la migliore prospezione di una feconda unione fra pensiero e azione è stata allora indicata anche  dall’autore citato all’inizio inizio di queste parole e che per non eccedere in piaggeria non nomino per l’ennesima volta. Sembra poco ma forse è molto, veramente molto … 

Massimo Morigi – 22 luglio 2017

QUI SOTTO IL TESTO DI RIFERIMENTO

Per precisare ancora meglio, per porre la base per un futuro dibattito e per perimetrare il campo del nemico del Repubblicanesimo Geopolitico: la costituzione materiale dell’Italia si esprime attraverso un regime di libera ed autorizzata conflittualità fra diversi gruppi oligarchici totalmente irresponsabili e in cui questa irresponsabilità viene dissimulata attraverso l’uso ideologico del concetto di ‘democrazia’, un uso ideologico che trova il momento di sua massima espressione nelle contese elettorali formalmente libere ma sostanzialmente del tutto inutili nel mettere in discussione l’irresponsabilità dei gruppi dirigenti.
Sotto questo punto di vista, la “democrazia” italiana ha profonde analogie con la “democrazia” degli ex paesi del socialismo reale, nella quale l’ideologia della dittatura del proletariato e la sua pratica – ed antinomica – traduzione nella cosiddetta democrazia popolare era solo un feticcio per nascondere gli scontri fra i vari gruppi di potere operanti all’interno del partito unico comunista (in certi casi era anche consentito un vero e proprio pluripartitismo ma senza possibilità teorica e pratica di contestare il sistema oligarchico e ciò configura ancor più profonde analogie col sistema italiano e, più in generale con le democrazie elettoralistiche occidentali) e, come nel sistema italiano, rispondenti solo verso il loro interesse di gruppo ed irresponsabili rispetto al soggetto – il proletariato nei sistemi socialisti, il popolo senza aggettivazione di classe sociale nelle democrazie rappresentative – in nome e per conto del quale esercitavano il potere pubblico.
A differenza che nei paesi del socialismo reale, in Italia esiste ancora una certa libertà di espressione politica e, soprattutto, nell’esercizio dei diritti afferenti alla sfera personale (attenzione questa libertà di per sé non significa affatto democrazia, un dispotismo illuminato può ben permettere lo ius murmurandi ed anche una notevole tolleranza rispetto a stili di vita non omologabili a quelli della maggioranza della popolazione).
É peraltro di empirica evidenza che anche questa libertà – e in questo aspetto la situazione italiana segue un trend del tutto analogo alle altre più consolidate e tradizionali democrazie elettoralistico-rappresentative dei paesi maggiormente sviluppati – sta subendo nel nostro paese un singolare fenomeno: una forte contrazione a livello di esercizio dei diritti politici e una apparente espansione per quanto riguarda i diritti afferenti alla sfera personale (un aumento e una sempre più marcata sottolineatura politico-ideologica dei cosiddetti diritti alla “diversità”).
Insomma, disvelando il trucchetto delle oligarchie irresponsabili potremmo sintetizzare: nella democrazia dei postmoderni vi togliamo sempre maggiori quote di potere (democrazia puramente elettoralistica e, in Italia, ancora peggio che altrove, dove non si scelgono i propri rappresentanti e dove la maggiore carica dello stato è fornita attraverso una elezione di secondo grado) e in, cambio, vi riempiamo di chiacchiere in merito a fantomatici diritti alla diversità, che, apparentemente, significano maggiore democrazia ma, in realtà, di per sé sono solo in grado di definire una situazione di dispotismo illuminato, dove i moderni despoti, le oligarchie irresponsabili, sono ben felici di concedere al popolo alcuni infantili divertimenti e trasgressioni fra le lenzuola (e qualche sollievo dagli ingenui sensi di colpa derivanti dalle strutture di dominio che si giustificavano e poggiavano sulla polarizzazione sessuale e non ancora, come oggi, sul totale nascondimento, attraverso l’ideologia democratica, delle oligarchie e degli agenti strategici dominanti).
Massimo Morigi – 29 gennaio 2015

LA NUOVA POLITICA ESTERA DELLA GERMANIA E LE CRISI NELL’EST EUROPA, di Massimo Morigi_ Testo del 5 febbraio 2014

Proseguono le spigolature di Massimo Morigi sul “Repubblicanesimo Geopolitico” con una breve introduzione dell’autore

«Non appena la terra fu compresa nella forma di un globo reale, non solo miticamente, ma quale dato di fatto scientificamente esperibile e quale spazio praticamente misurabile, si aprì subito un problema del tutto nuovo e sino ad allora inimmaginabile: quello di un ordinamento spaziale di diritto internazionale dell’intero globo terrestre. La nuova immagine globale dello spazio richiedeva un nuovo ordinamento globale dello spazio. Questa la situazione che emerse in seguito alla circumnavigazione della terra  e delle grandi scoperte dei secoli XVI e XVII. Contemporaneamente si iniziava con ciò l’epoca del moderno diritto internazionale europeo, che si sarebbe conclusa solo nel secolo XX. La scoperta del Nuovo Mondo provocò subito anche l’accendersi della lotta per la conquista delle terre e dei mari facenti parti di esso. La divisione e la ripartizione della terra divennero allora in misura crescente una faccenda riguardante tutti gli uomini e le potenze coesistenti sullo stesso pianeta. Vennero ora tracciate linee per dividere e ripartire la terra intera.»: Carl Schmitt, Il nomos della Terra nel diritto internazionale dello “Jus Publicum Europaeum”, Milano, Adelphi, 2006, p. 81.
Nel secondo  capitolo del Nomos della Terra, “La conquista territoriale di un nuovo mondo”, al suo primo paragrafo, “Le prime linee globali (Dalla “raya” attraverso la “amity line”, alla linea dell’emisfero occidentale)”,  Carl Schmitt inizia così a tracciare la logica storico-genetica della nascita delle amity lines. Da una parte la lotta delle grandi potenze cristiane per accaparrarsi la maggior quota possibile delle nuove terre conosciute attraverso le scoperte geografiche cinquecentesche. Dall’altra la necessità di arrivare fra queste potenze ad una sorta di entente cordiale per la spartizione di queste terre. La risultante fra queste due spinte contrastanti (lotta di rapina fra le potenze cristiane per strapparsi le nuove terre e necessità di addivenire ad un accordo di spartizione) fu la nascita delle cosiddette  amity lines, amity lines che nell’argomentare schmittiano rivestono una doppia natura, potevano cioè essere semplici accordi di spartizione territoriale, insomma accordi alla stregua del Trattato di Tordesillas fra Spagna e Portogallo, oppure l’amity line può avere un significato più metapolitico, può essere cioè il riconoscimento dell’alterità fra il mondo cristiano e le nuove terre e genti da conquistare e questa alterità aveva la conseguenza che contro questo mondo ogni forma di aggressività era consentita mentre nella lotta fra le potenze per la conquista dello stesso la guerra doveva seguire delle regole, insomma la guerra fra potenze doveva assumere la forma di iustum bellum e la potenza che si batteva contro un’altra assumeva  così  la natura di  iustus hostis, un nemico che per quanto avverso era riconosciuto nella sua dignità di cristiano e  contro il quale non era così consentito impiegare l’indiscriminata violenza che poteva e doveva essere esercitata contro il nemico dimorante nei territori al di là delle amity lines. Erano cosi state poste le basi per quel ‘Nomos della terra’ che verrà sconvolto dalle due guerre totali del Novecento scatenate per Schmitt per responsabilità delle due potenze talassocratiche Inghilterra e Stati uniti, potenze le quali proprio per la loro natura marina e liquida non potevano riconoscere né una divisione more geometrico del globo terrestre né giusti nemici o giuste guerre caratterizzanti l’ormai sorpassato nomos della terra  perché per Schmitt la mentalità marittima  può solo mettere in atto azioni di sregolata  pirateria ai danni del nemico (ciò che per Schmitt sono state la prima e seconda guerra mondiale ai danni della Germania da parte dell’Inghilterra  e degli Stati uniti) e ripudiare la guerre en forme del Nomos della terra implicante “giusti nemici” e non nemici da annientare nati con le due guerre totali novecentesche e quindi mettere al bando farisaicamente la guerra (e da questo farisaico ripudio della guerra en forme, la nascita del nemico dell’umanità, nel Novecento storicamente rappresentato dalla Germania che aveva perso le due guerre mondiali).  Da questa lunga premessa schmittiana, la grammatica elementare per comprendere gli elementi di continuità fra la situazione descritta nell’articolo “La nuova politica estera della Germania e le crisi nell’est Europa”, scritto nel febbraio del 2014, e l’odierna situazione dell’estate del 2017, dove a differenza che nel 2014 sembra che apparentemente le posizioni della Germania e degli Stati uniti stiano sempre più divaricandosi. Certamente, come magistralmente insegna Gianfranco La Grassa, il quadro internazionale è in via di una progressiva ed incalzante frantumazione e questo processo dal 2014 ad oggi non ha fatto altro che accentuarsi ma il punto è, e qui il pensiero di Schmitt, può veramente venirci in soccorso per comprendere la situazione, che non è affatto detto che la frantumazione all’interno del vecchio perimetro delle alleanze debba necessariamente portare ad una sorta di guerra totale all’interno fra i vecchi soci dello stesso. Insomma, all’interno del vecchio perimetro dell’alleanza occidentale è possibile e verosimile che si costituisca una sorta di amity line che, se apparentemente assume le movenze della guerra politica e/o militare (allo stato la seconda ipotesi è veramente molto remota), si tratta di una guerra en forme tipica del periodo della nascita e sviluppo delle amity lines. Ma purtroppo da questa ipotesi di evoluzione del quadro internazionale non deriva alcunché  di buono per il nostro paese, perché in questo quadro l’Italia rischia veramente di fare la fine di quel mondo extracristiano per il quale non valevano amity lines e guerre più o meno in forma. Questi  paesi fuori dal perimetro della cristianità e all’esterno delle amity lines dovevano subire guerre di depredazione delle risorse e guerre di sterminio e/o genocidiare. E se qualcuno pensa che magari il brave new world della democrazia potrà sì implicare gerarchie certamente dure ma ha definitivamente abbandonato queste pratiche barbare, noi da modesti geopolitici invitiamo a considerare quello che è accaduto negli ultimi anni dal punto di vista economico all’Italia con la distruzione della sua capacità produttiva a vantaggio del capitale straniero e dal punto di vista dello stravolgimento dell’assetto demografico-culturale, quello che si continua a perseguire favorendo sul nostro territorio il flusso e la permanenza di popolazioni allogene, flusso indiscriminato e permanenza culturalmente assimilabile solo in un demente delirio multiculturale alla united colors of Benetton o lucidamente desiderabile solo in un cosciente e criminale disegno di cancellazione dell’identità storico-culturale italiana tali da poter dire che in Italia si rischia di mettere in atto un novello tipo di genocidio, un genocidio che al contrario di quelli novecenteschi non contempla lo sterminio di una popolazione ma il suo annegamento e il suo azzeramento a dosi omeopatiche attraverso l’immane afflusso di nuove popolazioni allogene (quindi genocidio  per diluizione attuato sotto regime “democratico” e degli universalisti diritti umani anziché genocidio per sterminio  e con il mito della razza o dell’uomo nuovo tipico dei totalitarismi novecenteschi). Il tutto con la benedizione interessata delle potenze la cui vicendevole aggressività è regolata e delimitata  dalle nuove amity lines post guerra fredda e che fra  litigi ed accordi tipici della guerre en forme di un mondo sempre più multipolare, grandemente  prediligono  per compiere le loro incontrollate e violente  scorrerie assai poco en forme ma tipiche dell’ hobbessiano homo homini lupus la presenza di territori coloniali dove tutto è consentito ai danni di questi territori. E l’Italia fa purtroppo pienamente parte di questi nuovi tristi e sempre più depredati territori coloniali dell’era post caduta muro di Berlino e di un mondo sempre più frantumato e multipolare.

Massimo Morigi – 30 giugno 2017

Gli interventi sul “Corriere della Collera” di Antonio de Martini sulla crisi Ucraina – e sulla prossima crisi della Moldova che già si intravvede – ci offrono una doppia chiave di lettura in merito al delinearsi e disporsi delle forze che si contendono il dominio dello scenario internazionale.
In primo luogo, come peraltro rilevato da più osservatori, c’è da rilevare che la Germania sta definitivamente abbandonando il ruolo di gigante economico ma nano politico a favore di una politica che al posto della vecchia Ostpolitik, consunto ricordo di una Germania ancora divisa, intende piuttosto sposare l’ancor più vecchio – e carico di lugubri e tragici ricordi – Drang nach Osten che fu uno degli slogan non solo della criminale politica nazionalsocialista ma anche la linea guida della politica guglielmina riguardo l’Europa orientale, che già nei piani di guerra della Germania imperiale doveva essere completamente asservita (vedi il September Programme che fra le altre cose, tipo l’annessione del Belgio, contemplava ad est la creazione di stati satelliti completamente sottomessi alla Germania ed in funzione anti-russa).

Massimo Morigi, Repubblicanesimo Geopolitico Copiaincolla II dal “Corriere della Collera” e dall’ “Italia e il Mondo”, in Internet Archive da Domenica 31 maggio 2017, pagina 8 di 11

Oggi, a differenza che nel September Programme e nel Drang nach Osten, questa spinta verso oriente non viene più effettuata dalla Germania manu militari ma in modo indiretto sobillando tumulti verso quelle aree dell’ex impero sovietico che si mostrano più credulone – ed anche più corrotte nelle loro classi dirigenti – riguardo alle “magnifiche sorti e progressive” assicurate dall’ingresso nell’Unione europea (alla quale non a caso è stato conferito il premio Nobel per la Pace …).
E con ancor maggior differenza che nel passato novecentesco, in quest’opera di tentata disgregazione dell’area di influenza russa in Europa, la Germania viene spalleggiata dagli Stati uniti, ai quali non sembra vero di aver trovato finalmente un attivo proconsole che nell’area del Vecchio continente la possa appoggiare nella sua “strategia del caos”, peraltro praticata in altre aree con alterne fortune.
La seconda considerazione riguarda, more solito, la totale disinformatzia di cui ha goduto l’evento in questione. Come al solito (vedi primavere arabe, vedi caso Siria) nessun mass media e nessun intellettuale – tranne le solite pochissime eccezioni – ha proferito una sillaba su quello che sta realmente accadendo in Ucraina, sulle forze che si stanno scontrando e sugli interessi che realmente sono sul tappeto. E a costo di ripeterci ancora, questo occultamento della verità se è da un lato è spiegabile con l’ “umano, troppo umano” di coloro che operano nei mezzi di informazione (mezzi di informazione che anche all’estero, contrariamente a quanto si crede, sono anch’essi quasi totalmente funzionali al rincretinimento delle masse), dall’altro richiama in campo la necessità di fuoruscita dagli idola fori ereditati dalla seconda guerra mondiale.
Il Repubblicanesimo Geopolitico è il tentativo di operare questa fuoruscita e in nome di un autentico e concreto praticato percorso di libertà vuole far sì che il disvelamento delle menzogne ideologiche che hanno prosperato all’ombra dei nobilissimi concetti della tradizione politica occidentale non porti il ripiombare – de facto – nelle vecchie forme di autoritarismo.
Un’impresa per la quale, come tutte le evidenze stanno a mostrarci, è veramente molto vocata – mutatis mutandis – l’Unione europea e prima di tutti il caposcalo di zona agli ordini degli Stati uniti, che risponde a nome di Repubblica Federale di Germania.
Massimo Morigi – 5 febbraio 2014

APOPTOSI DELLA DEMOCRAZIA, di Massimo Morigi

Ancora una spigolatura di Massimo Morigi risalente a gennaio 2014. I fatti sono ovviamente datati, il tema attuale_Giuseppe Germinario

 

APOPTOSI DELLA DEMOCRAZIA O APTOSI DEL MITO DEMOCRATICO?

di Massimo Morigi_ COMMENTO

 

Nell’articolo “Apoptosi della democrazia” inteso a suscitare indignazione per la vicenda dell’oro della Banca d’Italia si affermava che il  furto legalizzato di quest’oro da parte del sistema bancario nazionale profilava, de facto, una morte programmata della democrazia, l’apoptosi della democrazia appunto. Ora in sede di questo auto commento all’articolo non volendo tornare sui motivi del perché la mobilitazione contro il blocco politico- finanziario nazionale non abbia avuto alcun riscontro e volendo soffermarci invece sulle affermazioni teoriche contenute in “Apoptosi della democrazia”, ci sarebbe da dire che, per coloro che abbiano seguito i ragionamenti sul “Repubblicanesimo Geopolitico” gentilmente ospitati dall ‘ “Italia e il Mondo”, dal punto di vista del “Repubblicanesimo Geopolitico” stesso sarebbe più corretto parlare, anziché  di ‘Apoptosi della democrazia’, di ‘Apoptosi del mito della democrazia’. In effetti, chi avanzerebbe questa osservazione sarebbe completamente nel giusto e sia per ulteriormente consolidare questo corretto profilo pubblico del Repubblicanesimo Geopolitico presso la platea dei suoi osservatori sia per ancora approfondirlo dal punto teorico, vedremo come alla fine anche la vicenda dell’ oro della Banca d’Italia si possa ricollegare con le considerazioni politiche e filosofiche sulla nascita e sviluppo del modello “democratico”  occidentale e sul sostegno mitologico che questo ha da subito avuto bisogno che fanno da sfondo a tutti i ragionamenti del Repubblicanesimo Geopolitico. Il mito della rivoluzione, iniziato con la rivoluzione francese –  e che stancamente si trascina fino ai giorni nostri –  sta dentro e dà forma alla modernità politica occidentale ma come ogni mito cela una realtà sotto mentite spoglie così il mito della rivoluzione è il travestimento e quindi cela e rivela al tempo stesso ciò che è stato sempre dentro e ha dato forma alla modernità politica occidentale stessa: e cioè il conflitto strategico. Questa affermazione di per sé non sarebbe particolarmente qualificante per comprendere le caratteristiche peculiari della nostra modernità politica, come abbiamo infatti più volte affermato il conflitto strategico informa ed è la natura stessa, solo per rimanere al “politico” e non trascolorare in tutte le altre  manifestazioni della realtà, della società (per chiarire per l’ennesima volta il concetto: per noi tutta la realtà è, in ultima analisi, conflitto strategico, per noi nulla è escluso dal momento pantocratore del conflitto strategico, per il quale è persino superfluo rinviare a Gianfranco La Grassa e a questo proposito ci permettiamo di segnalare, fra gli altri,  la nostra “Teoria della Distruzione del Valore” e il di prossima pubblicazione “Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico) ma nella modernità politica occidentale, a differenza che nelle forme politiche più arcaiche, dopo la soluzione di continuità della rivoluzione francese che ha comportato l’uccisione di un re consacrato non in virtù di un giudizio divino (morte in battaglia, morte naturale od anche procurata ma una uccisione che poteva essere sempre mascherata come una sorta di decreto della divinità) ma di una deliberazione tutta palesemente e manifestamente politica, c’è stata l’impellente necessità di dare una sorta di travestimento simildivino all’orrenda vicenda dell’uccisione del monarca. Da questa necessità di nascondere la natura puramente conflittual-strategica della rivoluzione, ecco allora nascere per arrivare stancamente fino ai nostri giorni il mito della rivoluzione e con questo mito nascere anche la pretesa metafisica dell’esistenza  sempre simildivina  di diritti umani e politici la cui esistenza e doverosità di applicazione andrebbe al di là di qualsiasi contingenza storica e sistema politico (e da qui l’imperialismo diritto-umanistico e democraticistico che ha sostituito il cristiano dovere di convertire le genti pagane e che è la nuova sgangherata versione del “fardello dell’uomo bianco”). Ma se il mito della rivoluzione, con tutti i suoi annessi e connessi democraticistici e dirittoumanistici (o nella versione dei defunti paesi socialisti di dittatura del proletariato) è arrivato al capolinea (mito della rivoluzione al capolinea più per i  fatti storici post caduta del muro di Berlino che per vera ed approfondita conoscenza teorica, mito dei diritti umani e politici di natura simildivina al capolinea per ora solo a livello di analisi teorica, nella quale il Repubblicanesimo Geopolitico rivendica il suo ruolo di primo piano, mentre a livello di massa si continua a praticare, anche se in forme distratte e degradate, vedi il proliferare dei diritti, specialmente quelli di genere e legati alla diversità sessuale, il culto dei diritti umani), non deve arrivare assolutamente al capolinea quello che è l’autentico lascito per il futuro di questa tradizione, vale a dire la fortissima tensione culturale, politica, filosofica e psicologica generata dalla necessità di travestire con vesti divine (lo ripetiamo: mito della rivoluzione, con complementare mito della democrazia  e dei diritti umani e politici) un conflitto strategico portato agli estremi e che ha comportato l’uccisione non giustificata da nessun intervento  divino di tipo tradizionale di un re consacrato, la decapitazione di Luigi XVI di Borbone.  Abbandonando quindi la credenza nel  mito di una rivoluzione che  permette tramite i suoi idola fori dei diritti umani e democraticistici di perpetuare  le pratiche di potere dei  sempre eterni stessi oligarchici  agenti strategici, questa tensione di occultamento del factum horribile dell’uccisione ingiustificata del re consacrato ci conduce allora alla vera origine della nostra modernità politica, e cioè al prodursi di un conflitto strategico, la cosiddetta rivoluzione francese e poi le altre che la hanno seguita, che per poter essere accettabile ha dovuto creare, visto che aveva gettato nel cesto oltre la testa del re ghigliottinato anche ogni tradizionale trascendenza, delle sub trascendenze (mito della rivoluzione, mito della democrazia e dei diritti politici ed umani) che non avendo però la blindatura a prova di realtà dell’originale trascendenza hanno generato due secoli di continue crisi politiche (e di crisi del mito stesso). Compito  del Repubblicanesimo Geopolitico è quindi cogliere l’autentico nucleo rivoluzionario ed imperituro della tradizionale rivoluzionaria occidentale sotto il duplice aspetto che si è qui cercato di enucleare. Da un lato, rendendosi conto che non tutto per tutti può essere non diciamo pubblicamente svelato  (la straussiana “ermeneutica della reticenza” anche prima dell’esplosione della rivoluzione informatica della comunicazione ha sempre avuto una sapore più di nostalgia archeologica che di vera possibile e praticabile proposta politico-filosofica) ma accettato, non rifiutare ed anzi utilizzare la tensione generata da un mito rivoluzionario e oggi democratico sempre al di sotto delle sue aspettative presso la maggioranza di vasti  e trasversali strati della popolazione (siano questi sezioni della popolazione spiccatamente non intellettuali o ceto intellettuale vero e proprio non importa: la tendenza all’illusione e a non volere vedere il conflitto strategico è equamente suddiviso in tutte le classi ed i ceti). Dell’utilizzo di questa tensione generata dalla credenza nel mito e dalla delusione della continua sua  smentita da parte dei fatti (e in cui l’analisi teorica ancora clemente concede, esplicitamente o implicitamente, l’esistenza di un tempo, non il nostro, dove il mito era forse una realtà, in un atteggiamento simile a coloro che, criticando la chiesa cattolica odierna, si rifanno miticamente alla chiesa delle origini) è un chiaro esempio l’articolo che costituisce lo spunto di questo commento, “Apoptosi della democrazia”, dove prendendo lo spunto dalla vicenda dell’oro della Banca d’Italia, si afferma che in Italia si sta assistendo all’ “Apoptosi della democrazia”, cioè alla morte programmata della democrazia, mentre se si fosse stati teoricamente ancora più affilati si sarebbe dovuto dire che si sta assistendo all’ “Apoptosi del mito democratico”. Dall’altro lato il cogliere il nucleo veramente fondante della nostra modernità politica consiste proprio nel disvelare pubblicamente che questo nucleo è un conflitto strategico che ha per sempre bruciato (o per meglio rappresentarlo storicamente storicamente: ha tagliato la testa) la possibilità di un ritorno ad una qualsiasi trascendenza politica e in cui la natura  della sua radicale immanenza sta proprio nella dialettica di una filosofia della prassi che pratichi il suo gioco politico utilizzando le tensioni generate dal mito (tentativo di questo utilizzo ma non disvelando la natura del mito, l’articolo “Apoptosi della democrazia”) e anche denunciando la natura tutta mitologica del misto stesso (il presente commento). La conclusione che non conclude è che non è certo la prima volta che una arretrata situazione politica (nel caso specifico quella italiana, evidentemente) ha dato origine ad un profondo rinnovamento teorico e a promettenti (ancorché drammatici) sviluppi politici. Ogni riferimento a personaggi storici e a situazioni che per rispetto all’intelligenza dei lettori non vengono neppure nominati è puramente non casuale. 

Massimo Morigi – 8 giugno 2016

 

Con il tentativo da parte del sistema bancario nazionale di derubare il popolo italiano dell’oro della banca d’Italia (e con le totalmente assenti reazioni da parte della politica e dei media a questa mostruosità, de facto genocidiaria contro gli italiani), le oligarchie politico-finanziarie del nostro paese hanno finalmente mostrato il loro vero volto, e cioè hanno palesato l’intenzione di instaurare un processo di morte programmata di quanto ancora rimane della democrazia italiana.

Possiamo così dire che la situazione italiana sta introducendo un’inedita variabile nei processi degenerativi delle democrazie già descritti in dottrina.
Se finora la scienza politica classificava fra i processi che pongono fine alla democrazie o violenti assalti contro l’ordine costituito o un lento scivolamento verso unità decisionali più efficienti e potenti di quelle nominate attraverso il principio della rappresentanza (in altre parole le tecnoburocrazie che prevalgono sui parlamenti e gli esecutivi, in un processo definito da Crouch postdemocrazia), oltre, come già detto, segno di un proposito di schiavizzazione e/o annientamento del popolo, il furto dell’oro della banca d’Italia non può che essere interpretato altrimenti – tralasciando ogni altra considerazione “catastrofica” per la storia del nostro paese ma limitando l’analisi su un piano meramente politologico – come la manifestazione di una volontà programmata all’uccisione della democrazia e, prendendo a prestito il concetto noto in biologia come apoptosi – che contempla un processo ove le cellule, anziché per malattia, per trauma o per senescenza possano morire in virtù di un loro specifico programma che pone termine alla loro esistenza –, come una sorta di inedita ‘apoptosi democratica’, una morte programmata della democrazia portata
Massimo Morigi, Repubblicanesimo Geopolitico Copiaincolla II dal “Corriere della Collera” e dall’ “Italia e il Mondo”, in Internet Archive da Domenica 31 maggio 2017, pagina 6 di 11

avanti per la prima volta nella storia della democrazia occidentale da parte di quelle stesse élite politiche e finanziarie che precedentemente svolgevano il ruolo di “Lord protettore” del sistema pluralistico.
A questo punto, veramente le “categorie del politico” ereditate dal Novecento si dissolvono come neve al sole e le reazioni a questo nuovo quadro devono tenere conto dell’elementare dato di fatto che l’ ‘apoptosi democratica’ non è nemmeno giustificabile come l’antidemocratico scivolamento verso un sistema maggiormente efficiente anche se non democratico (il processo postdemocratico) ma non significa altro che la riduzione in schiavitù del popolo. Che fare quindi?
In primo luogo essere consapevoli del processo e svincolarsi da qualsiasi forma di sottomissione anche mentale da un quadro politico-culturale sorto dopo la seconda guerra mondiale e che oggi non è altro che una cortina fumogena per impedire di prendere consapevolezza del definitivo (e voluto) decesso del vecchio canone politico liberaldemocratico.
In secondo luogo, sembrerà poco ma in realtà è moltissimo, contrastare democraticamente questo processo di ‘apoptosi democratica’ laddove esso si è manifestato in maniera così spudorata e violenta.
Si tratta, in altre parole, di essere presenti alla manifestazione di fine maggio in occasione della prossima assemblea della Banca d’Italia. Non è una manifestazione contro l’ennesimo scandalo politico italiano ma è il primo atto per dire che abbiamo capito che questo sistema ha esaurito il suo ciclo storico e che se si vuole non solo la sopravvivenza ma l’ampliamento della sfera delle libertà repubblicane (secondo il programma del Repubblicanesimo Geopolitico) un altro deve prendere il suo posto. E l’aurora di questo nuovo sistema repubblicano è anche cominciare a dire a chiare lettere che l’oro della banca d’Italia appartiene, come la sua cultura ed identità, al popolo italiano e che chi vuole mettergli le mani sopra deve essere trattato come i criminali processati a Norimberga, che per la loro folle volontà di potere e rapina distrussero popoli ed etnie. Come si propongono oggi di fare gli attuali ingegneri dell’ ‘apoptosi democratica’ e ladri dell’oro degli italiani.
Ma noi rinviamo al mittente queste intenzioni lottando, piuttosto, per l’apoptosi (“robustamente” assistita e sorretta dalla nostra consapevole iniziativa) di questa classe dirigente.
Nessuno escluso.
Massimo Morigi – 24 gennaio 2014

SERVE UNA NUOVA NORIMBERGA, di Massimo Morigi

Prosegue lo zibaldone, datato, di Massimo Morigi con testi e note che possono aiutare alla comprensione del suo “repubblicanesimo geopolitico”_ Germinario Giuseppe

Una chiosa allo scritto

A distanza di alcuni anni da “Serve una nuova Norirmberga” una considerazione spicca fra i vari ragionamenti che possono essere fatti e si tratta dell’elementare ammissione di un fallimento perché laddove si proponevano terribili azioni politico-giudiziarie, la nuova Norimberga appunto, e con tanto di mobilitazione popolare per impedire la rivalutazione truffaldina del patrimonio delle banche a danno dell’oro della Banca d’Italia, la proposta non ha prodotto ad oggi dal punto di vista politico alcunché di significativo, a meno che non si considerino politicamente significative le reazioni “bloggistiche” del sottoscritto e di pochi altri, ma queste, come viene naturale concludere visto il deprimente esito della vicenda “nuova Norimberga” e mobilitazione popolare davanti alla Banca d’Italia, alla fine sono più da classificare fra le invettive modello vox clamantis in deserto che fra le azioni di natura politica che, come il più elementare buon senso suggerisce, devono suscitare un minimo di seguito. Questo per quanta riguarda il fallimento politico di coloro che cercarono – e fra questi il sottoscritto – facendo leva su una indignazione popolare che mai ci fu sull’argomento di far nascere qualcosa di politicamente concreto che si lasciasse dietro alle spalle le solite truffaldine logomachie della politica che, indisturbate, sono proseguite fino ai giorni nostri. E anche se l’indignazione popolare generale verso la oscena commistione fra potere politico e potere finanziario non c’è mai stata, nel frattempo ci sono state diverse piccole indignazioni popolari dei truffati dal fallimento degli istituti di credito toscani e veneti e quindi cosa concludere su questo punto? Colpa di chi non ha saputo comunicare con i giusti mezzi e con la giusta energia il messaggio o colpa del popolo che protesta solo quando si sente direttamente toccato nei suoi interessi? Si tratta, è vero, di una domanda retorica ma la cui risposta, evitando la retorica, può fornirci anche degli schiarimenti dal punto di vista della teoria politica. In breve. Se la risposta retorica alla domanda retorica implicherebbe il dire che prima di giudicare un popolo non reattivo bisognerebbe giudicare noi stessi (insomma, si tratterebbe in questa risposta di rappresentare una sorta di paternalismo bonario e democratico dove l’autonominato intellettuale rifiuta “democraticamente” di dannare il popolo insensibile e fa questa “democratica” concessione proprio perché gli è consentito di autonominarsi guida, benché fallace e debole, delle masse), la risposta invece teoricamente più significativa abbandona il terreno dei ruoli che personalmente si rivestono (o, meglio, che si vorrebbero rivestire) per andare invece a comprendere perché azioni politiche che viste con un minimo di distacco e senso critico devono essere definite criminali non vengono percepite dalle popolazioni che vivono nelle cosiddette democrazie rappresentative come tali e comunque sono giudicate di una gravità inferiore rispetto ai crimini che vengono compiuti in tempo di guerra e dai regimi autoritari. E la risposta che dà il Repubblicanesimo Geopolitico è che la forma di governo democratica gode di una sorta di bonus ideologico che recita più o meno così: 1) In democrazia, cioè laddove è il popolo a comandare, il popolo, pur potendo fare errori sul breve periodo, non potrà mai prendere decisioni sbagliate se questa azione decisionale si proietta in tempi ragionevolmente lunghi e 2) L’intrinseca bontà delle forme di governo democratico è garantita dagli universalistici diritti politici e dell’uomo nati dalla rivoluzione francese che hanno presieduto storicamente alla nascita delle moderne democrazie e che oggi non consentono che all’interno di queste democrazie si verificano quei crimini e quei soprusi che erano prima della rivoluzione francese il marchio dell’ancien régime e nel XX secolo dei regimi autoritari e/o totalitari. Come più volte ripetuto, è chiaro che questo è un racconto che non sta più letteralmente in piedi e il Repubblicanesimo Geopolitico intende rappresentare la critica più spietata a questo obnubilamento politico e teorico. Nei prossimi interventi sul Repubblicanesimo Geopolitico che verranno ripresi dall’ “Italia e il Mondo” emergerà sempre, insomma, l’intreccio fra le illusioni ideologiche della democrazia e le concrete pratiche di potere dei grandi agenti strategici che attraverso queste illusioni ideologiche esercitano il loro potere. E il far emergere con i giusti nessi queste pratiche di potere con i loro strumentali fantasmi ideologici penso consenta, infine, anche di non rifiutare la retoricità della domanda iniziale ma di darle uno sbocco positivo che non si rifugi in una semplice algida teoria della dinamica del potere: non si tratta, allora, di autonominarsi intellettuali più o meno severi o più o meno accomodanti ma si tratta di innestare un processo politico-cognitivo – e quindi anche retorico, come Gramsci aveva ben capito quando nei Quaderni del carcere disegna la figura e il ruolo di mito del moderno Principe – che sulla conoscenza a livello di massa della natura conflittuale della politica e della società inneschi il rivoluzionamento e rovesciamento di quei rapporti di forza e di quei fantasmi ideologici che permettono di dire che quello che accade nei regimi cosiddetti democratici non è mai un crimine ed è, comunque, sempre meglio per forza di cose (per forza, cioè, diciamo noi, dell’illusione ideologica democraticistica) di tutto quello che nel bene e nel male è storicamente accaduto prima che sorgessero le democrazie. Ma nihil sub sole novum: un certo Clausewitz, un certo Hegel, un certo Marx, e, infine, un certo Antonio Gramsci. À suivre …
Massimo Morigi – 2 giugno 2017

Il testo

Per spiegare la oscena realtà che si cela dietro il proposito di rivalutazione della quote della Banca d’Italia, che è stato bocciato dalla BCE, solo poche righe. Tramite questo provvedimento squinternato verrebbe rivalutato il capitale sociale di Bankitalia finora gestito fiduciariamente al 95% dalle banche italiane ex pubbliche (valore attualmente segnato nei bilanci al prezzo di 156.000 euro). Il decreto mira a tramutarlo da quota di partecipazione con valore simbolico a quota proprietaria (da segnarsi a patrimonio) rapportata al valore reale della Banca d’Italia, valore reale rappresentato dai diritti di signoraggio e dalle sue riserve auree raccolte da sei generazioni di Italiani. Questo significa, in pratica, che il popolo italiano (NOI) non sarebbe più il possessore delle riserve auree della Banca d’Italia ma lo diverrebbero gli istituti di credito che “partecipano” al suddetto “aumento” di capitale: detto in altre parole, si tratta di un furto ai danni del popolo italiano per sostenere con una semplice scrittura contabile la tradizionale sottocapitalizzazione delle banche italiane. Ma non siamo di fronte al solito esempio di malcostume della nostra vita pubblica. Questo tentativo di furto dell’oro della banca d’Italia non è l’ennesimo scandalo politico ma, molto più semplicemente, il più grande crimine contro il nostro paese e il nostro popolo compiuto da quando ha raggiunto la sua unità; un crimine che per la sua gravità suona come il preannuncio della dissoluzione di ogni parvenza di legittimità democratica per l’attuale sistema politico oligarchico ed instaura, de facto, uno stato di eccezione (o meglio, lo conferma, perché la decisione della Consulta in merito all’incostituzionalità dell’attuale legge elettorale già delegittimava tutto il sistema politico uscito dalle ultime elezioni) e richiama l’esigenza di istituire un tribunale speciale tipo Norimberga per giudicare questi disegni criminosi. In attesa Massimo Morigi, Repubblicanesimo Geopolitico Copiaincolla II dal “Corriere della Collera” e dall’ “Italia e il Mondo”, in Internet Archive da Domenica 31 maggio 2017, pagina 4 di 11 che la magistratura si muova con i suoi riconosciuti senso dello Stato e leggendaria tempestività e che il dibattito politico riesca a produrre una decisione in merito alle coppie di fatto (o che scelga, à la carte, quale sia il migliore sistema elettorale) rimaniamo attivi e fiduciosi nella reazione degli italiani. Fate circolare questa notizia e mandate la vostra adesione a [indirizzo e. mail cancellato per questa riedizione dell’articolo, ndr] per organizzare una manifestazione in occasione della prossima assemblea della Banca d’Italia che si terrà a fine maggio. Vogliono gli azionisti? Ebbene, ci saremo. Massimo Morigi – 4 gennaio 2014

*La prima parte di Repubblicanesimo Geopolitico Copiaincolla dal “Corriere della Collera” e dall’ “Italia e il Mondo” è leggibile e scaricabile agli URL Internet Archive https://archive.org/details/RepubblicanesimoGeopoliticoCopiaincollaDalCorriereDellaColleraE e https://ia801609.us.archive.org/19/items/RepubblicanesimoGeopoliticoCopiaincollaDalCorriereDellaColleraE/RepubblicanesimoGeopoliticoCopiaincollaDalCorriereDellaColleraEDallitaliaEIlMondo.pdf, per ResearchGate all’ URL https://www.researchgate.net/publication/315516889_REPUBBLICANESIMO_GEOPOLITICO_COPIAINCOLLA_DAL_CORRIERE_DELLA_COLLERA_E_DALL’ITALIA_E_IL_MONDO : DOI: 10.13140/RG.2.2.26753.66407 e per Academia.edu all’URL https://www.academia.edu/32001089/REPUBBLICANESIMO_GEOPOLITICO_COPIAINCOLLA_DAL_CORRIERE_DELLA_COLLERA_E_DALLITALIA_E_IL_MONDO. A pagina 11 Gepoliticus Child di Salvador Dalì.

LEBENSRAUM, NOOPOLITIK, ITALIA E CINA – Di Massimo Morigi

 

Proseguiamo con la pubblicazione di una serie di riflessioni datate, legate a contingenze politiche, di Massimo Morigi. Non si tratta, ovviamente, di una opera sistematica, ma di spunti tesi a suscitare discussione e ragionamento_ Giuseppe Germinario

A fronte della Cina che ha appena annunciato che verrà posta una restrizione sulla pena di morte ed una revisione sulla politica demografica, sono sempre più conclamati, in entrambe le sponde dell’Atlantico, i casi che dimostrano un apparente inevitabile declino delle democrazie rappresentative, una decadenza in cui l’avventurista politica turbobellicista statunitense (vedi caso Siria) fa benissimo il paio con l’avventurista politica economica europea attraverso la quale, il continente al quale è stato assegnato il premio Nobel per la pace, non si è peritato, per cervellotiche e criminali decisioni della sua ascarizzata tecnoburocrazia continentale, di ridurre letteralmente alla fame la parte sud del continente. Perché trattiamo nello stesso post due fatti che apparentemente non sembrano avere alcun legame fra loro? Molte semplicemente perché la Cina sta sempre più puntando, oltre che sugli aspetti materiali della geopolitica, anche sulla noopolitik, sta puntando cioè anche alla conquista di quel Lebensraum costituito dalle rappresentazioni culturali, ideali e/o ideologiche che fino a poco tempo fa era un elemento di grave handicap internazionale per un Celeste Impero governato dal partito unico comunista ma che ora, viste le male parate interne ed internazionali delle democrazie rappresentative occidentali, si presenta come uno spazio ormai del tutto abbandonato. È quindi di tutta evidenza che se il primo frutto della evoluzione postdemocratica delle democrazie rappresentative si presenta come un’affermazione delle burocrazie ed oligarchie irresponsabili, la seconda conseguenza sarà non solo l’immiserimento fino al decesso delle libertà politiche a livello interno ma anche, a livello geopolitico, la definitiva scomparsa di qualsiasi appeal del modello liberaldemocratico, apparentemente vincitore dopo la caduta del muro di Berlino, per i paesi emergenti. “L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni” si presenta quindi molto meno neutrale e spoliticizzata di come l’avrebbero voluta le élite postdemocratiche di entrambe le sponde dell’Atlantico. Noi in Italia, per cominciare a pensare in termini geopolitici e di

noopolitik, dovremmo cominciare di smettere di pensare che la salvezza possa venire puntando sulla vecchio quadro internazionale emerso dal secondo conflitto mondiale e condotti, in questo devastato scenario, da una classe dirigente che ha delegato la sovranità nazionale alle tecnoburocrazie europee. In mancanza di questa (rivoluzionaria) presa di coscienza, l’unica noopolitik che ci sarà consentita saranno gli spettacoli di varietà sui “mitici” anni Sessanta (dove tutto andava bene perché il quadro internazionale non ci poteva permettere che andassero male).

 

 

 

18 NOVEMBRE 2013

STATO DI ECCEZIONE, LIQUEFAZIONE GIURIDICA DELLA COSTITUZIONE ITALIANA ED ELEZIONI EUROPEE – Di Massimo Morigi

 

L’Italia è entrata tecnicamente in quello in termini giuspubblicistici viene definito ‘stato d’eccezione’. Questa è l’ineluttabile conseguenza della sentenza della Consulta in merito alla legge elettorale che ha portato alla elezione dell’attuale Parlamento e questo è il factum horribile che tutti gli osservatori hanno rimosso, arrivando costoro ad affermare che il Parlamento in seguito alla sentenza sarebbe politicamente delegittimato, giudizio corretto ma parziale perché si svolge unicamente lungo categorie moral-politiche avendo omesso di sottolineare il fatto – assolutamente più grave – che il Parlamento è pure giuridicamente decaduto. A parziale scusante della cecità dei commenti (suscitati ovviamente dall’intento di mantenere inalterati i vecchi privilegi oligarchici ma anche dal sincero terrore che tutto crolli e in questo novero si inserisce anche l’atteggiamento del Presidente della Repubblica che all’insegna del Tout va bien Madame la Marquise e sottolineando unicamente l’inderogabilità della riforma del sistema elettorale e così ignorando la terribile crisi sistemica intende mettere al riparo la stessa prima carica dello stato – eletta da un Parlamento originato da una procedura elettorale giudicata incostituzionale – dallo stato di eccezione generato dalla sentenza della consulta), bisogna tenere presente che il nostro sistema politico-istituzionale prima ancora che entrare nell’attuale conclamato ‘stato d’eccezione’ è da tempo che sperimenta prove tecniche di sospensione e/o aggiramento de facto della vigenza delle norme che (avrebbero dovuto) regolare la vita della repubblica parlamentare italiana. E, oltre alla continua decretazione d’urgenza che ha completamente esautorato il Parlamento e che ha conferito all’esecutivo una sorta di funzione dittatoriale, il primo e più grave esempio del continuo “autogolpe” che da tempo si infligge il nostro sistema politico-istituzionale è stato il conferimento di quote sempre maggiori di sovranità alle istituzioni politiche e agli organi tecnici dell’Unione europea, un processo che se in linea di principio consentito dalla Costituzione (Art. 11 Cost. : “L’Italia ripudia la guerra come strumento di

offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità [sottolineatura nostra] necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”), questo non poteva avvenire a detrimento dei diritti politico-sociali di cui godevano i cittadini italiani (come è successo durante la presente crisi economica dell’eurozona, dove le decisioni assunte sono state direttamente imposte dalle tecnoburocrazie europee cui nessun procedimento elettivo democratico aveva conferito questo ruolo e dove queste decisioni hanno direttamente leso i diritti politico-sociali degli italiani e quindi la possibilità di ampliare – in realtà la si è ridotta – la sfera di libertà del popolo, ampliamento che dovrebbe essere la vera “teleologia” di ogni sistema democratico degno di questo nome (esprimendoci nei termini del Repubblicanesimo Geopolitico questa “teleologia” viene definita anche come Republican Increased Common Domination ma questa inedita terminologia del già noto concetto di empowerment non deve nascondere l’elementare fatto che è sempre stato di tutta evidenza che un sistema democratico che abdica al fondamentale ‘principio di speranza’ di migliorare le condizioni spirituali e materiali del suo popolo non è più, de facto, un sistema democratico e che invertendo il processo di espansione degli spazi di libertà a favore di agenti sovranazionali che assumono quote sempre più crescenti di sovranità ma che non assumono l’onere di onorare lo scambio fra soggezione e libertà/protezione dello Stato originario, si genera per i popoli sottomessi a questo processo una situazione con profonde analogie con quella descritta da Hannah Arendt per gli apolidi nel suo saggio sul totalitarismo – cfr. Hannah Arendt, Le Origini del Totalitarismo, Torino, Edizioni di Comunità, 1999, pp. 410-418 -, i quali sono in possesso solo dei teorici diritti umani ma, concretamente, né di diritti politici né sociali, che possono essere garantiti solo da uno Stato che concretamente ha

storicamente contrattato col popolo questi spazi di libertà). Partendo quindi dalla constatazione dell’ autogolpe che si è inflitto il sistema politico-istituzionale italiano, giungo alle conclusioni e alla risposte. L’attuale ‘stato di eccezione’ italiano ha caratteri terribilmente drammatici non solo in ragione del mancato suo riconoscimento da parte delle oligarchie politico-finanziarie (vecchia pratica che – come si è sottolineato – è la cupa nota di fondo della nostra vita pubblica ) ma anche in ragione del fatto che nella nostra repubblica parlamentare se la legittimità giuridica dell’elezione del Parlamento viene colpita a morte, vengono colpiti a morte anche il Governo e la Presidenza della Repubblica che dal Parlamento sono stati messi in carica. Insomma lo ‘stato di eccezione’ italiano non trova alcun sovrano che possa assumersi né l’onere di decretarlo formalmente né di prendere provvedimenti per poterne uscire (ricordo ancora da una precedente nota che “Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione” , Carl Schmitt, Teologia Politica, in Le categorie del ‘politico’, a cura di G. Miglio, e P. Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972, p. 33). E allora? E allora non essendoci un vero sovrano che possa prendersi carico dello ‘stato di eccezione’ ma solo, come è accaduto in passato, una serie di sovrani abusivi, tutto è possibile, in quanto la situazione non può nemmeno definirsi come uno stato di rottura della Costituzione ma, bensì, di vera e propria liquefazione costituzionale perché, parlando in linea di diritto, gli attuali strumenti da essa indicati per agire – anche se con una terminologia e costruzione dell’articolo non adeguate ed incomplete per descrivere e fronteggiare lo stato di eccezione (Art. 78 Cost.: “Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari”) – per effetto della sentenza della Consulta sono anch’essi entrati in uno stato di caducazione giuridica. Nelle pagine del “Corriere della Collera” citate a premessa della presente nota, sono apparsi interessantissimi post con varie ed intelligenti soluzioni per uscire dall’attuale crisi e anch’io ho voluto dare il mio contributo suggerendo che nel

brevissimo periodo le elezioni europee potrebbero essere una ottima occasione per tentare di diffondere ad una vasta platea le idee comuni presenti in questo blog. Tutto ancora valido ma con un “piccolo” corollario. L’attuale crisi del parlamentarismo italiano ha raggiunto con l’attuale ‘stato di eccezione’, caratterizzato dalla liquefazione costituzionale, il suo momento più drammatico e con sbocchi, vista la debolezza evidenziata in Costituzione di un sovrano che possa farsi carico della soluzione (fra l’altro storicamente minato da quella tara per la quale Giuseppe Maranini coniò il termine di partitocrazia) e visto che questo stesso sovrano (il Parlamento in prima battuta e poi il Governo, ex Art. 78 Cost.), per gli effetti a cascata della sentenza della Consulta, è stato messo fuori gioco, assolutamente imprevedibili. Sono pertanto necessarie delle forze che possano costituire il momento generatore – pena la morte definitiva della democrazia italiana e il trionfo delle oligarchie politico-finanziare – del ‘nuovo sovrano’ che difenda la libertà e la democrazia. Bene quindi quanto da noi detto e proposto. Ma con la consapevolezza aggiuntiva – mi rendo conto che non è cosa da poco – che gli odierni tempi straordinari pongono le premesse per altrettanto straordinarie future azioni politico-culturali a difesa dell’attuale (sempre più declinante) legalità democratica e contro il sempre più impetuoso imbarbarimento oligarchico.

8 dicembre 2013

SOVRANO È CHI DECIDE SULLO STATO DI ECCEZIONE – di Massimo Morigi (scritto il 2 dicembre 2013)

SOVRANO È CHI DECIDE SULLO STATO DI ECCEZIONE – di Massimo Morigi
“Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione.” (Carl Schmitt, Teologia politica, in Le categorie del ‘politico’, a cura di G. Miglio, e P. Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972, p. 33). Tutta la costruzione giuridica dell’UE invece di concentrarsi su questo elementare dato di fondo rilevato dal giuspubblicista di Plettenberg, ha preferito muoversi lungo la linea Kelsen di rimozione del problema della sovranità. Si è così ottenuto che il popolo, che è il titolare della sovranità democratica, ha di fatto perso sempre più potere (gli sono state sottratte quote sempre più crescenti di ‘Dominio Repubblicano Diffusivo’ per esprimerci nei termini del Repubblicanesimo Geopolitico), essendo che questo potere era basato su una base giuridica sempre più svuotata (la sovranità, appunto) mentre il potere stesso ha subito una sorta di translatio loci dal popolo alla burocrazia e alla finanza (nazionali e/o transnazionali che siano), la cui azione non è giustificata da una forma defunta di sovranità (quella democratica) ma in base a puri criteri di efficacia. E così, nonostante la sua rimozione dalla dottrina giuspubblicista prevalente, la sovranità si è ricostituita avendo nuovi titolari: la burocrazia e la finanza. Come si è visto nella ultima crisi finanziaria dove a decidere in Europa sullo stato di eccezione (cioè sui provvedimenti da prendere per farvi fronte) non è stata la politica ma questi luoghi in cui era migrata la sovranità. Rispondendo quindi a Stefanini in merito a quale sia l’interesse italiano oggi, si può dire che l’interesse italiano – anche se con maggiore urgenza che nelle altre nazioni europee dove la politica non ha raggiunto l’indecenza del nostro paese – è “ritraslare” il potere e la sovranità verso il popolo. Fra pochi mesi avranno luogo le elezioni per il parlamento europeo. Pur con il dovuto disgusto verso la retorica e la disinformazione “democratica” (di fatto totalmente autoritaria) che da sempre accompagna la costruzione di questa Europa e i suoi appuntamenti elettorali, non sarebbe il caso di pensare di approfittare di questa occasione per uscire dal campo della pura analisi per cominciare ad avventurarci nella prassi? E in Italia non potrebbero essere
protagonisti di questo tentativo coloro che non da ieri ma ancor quando si pensava che questo sistema fosse in grado di dispensare libertà e benessere hanno sempre sostenuto che il potere del nostro paese è meno che altrove in mano al popolo ma di coloro che pretendono di agire in loro nome e loro conto sequestrandone di fatto la sovranità?

2 DICEMBRE 2013

WALTER BENJAMIN, IPERDECISIONISMO E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO: LO STATO DI ECCEZIONE IN CUI VIVIAMO È LA REGOLA*, DI MASSIMO MORIGI – Prosegue il dibattito

Prosegue il dibattito su

WALTER BENJAMIN, IPERDECISIONISMO E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO: LO STATO DI ECCEZIONE IN CUI VIVIAMO È LA REGOLA*, DI MASSIMO MORIGI

Massimo Morigi

« Il cortesissimo ( ed acuto) Fabio Falchi mi cita dove affermo che “lo strumento che permette di unificare nella teoria e nella prassi questi due campi apparentemente distinti è il conflitto dialettico-strategico” e quindi conclude che “Quindi natura e cultura non sono realtà identiche , dato che devono essere unificate (sono cioè realtà distinte non irrelate/separate). L’unificazione è appunto un processo storico (inevitabile a mio avviso). ” Purtroppo questa conclusione, ovviamente solo per quanto riguarda l’interpretazione del mio pensiero, è errata. Quando io parlo di “strumento”, l’affermazione deve essere interpretata dialetticamente, vale a dire che lo strumento interpretativo del conflitto strategico è la chiave che ci permette di interpretare la realtà ma è, al tempo stesso, la struttura della realtà stessa. E che questa debba essere l ‘ “interpretazione autentica” (m viene un po’ da ridere ad impiegare questo linguaggio da leguleo ma Fabio Falchi, la cui indulgenza ed ironia immagino sia pari alla sua giustissima acribia, spero sappia sorriderne) lo si deduce bene dalle parole finali al mio commento alla sua benevola recensione: “In altre parole per il Repubblicanesimo Geopolitico la suddivisione fra natura e storia o fra natura e cultura è totalmente artificiosa e lo strumento che permette di unificare nella teoria e nella prassi questi due campi apparentemente distinti è il conflitto dialettico-strategico. ” Unificare nella teoria e nella prassi significa che come processo astrattamente logico esistono la teoria e la prassi ma che la vera conoscenza e la vera azione si verificano quando riusciamo a superare questa ipostatizzazione logica; vera conoscenza e vera azione esistono, insomma, quando impieghiamo nella teoria come nella prassi il metodo dialettico. E la divisione fra natura e cultura è, a modestissimo giudizio dello scrivente, non altro che il frutto della predetta ipostatizzazione. Vi è, inoltre, un punto fra le intelligenti osservazioni di Fabio Falchi che dovrebbe essere molto approfondito ed è quando si afferma che “anche le formiche si fanno la guerra ma non fanno rivoluzioni o colpi di Stato”. Sinceramente sui colpi di stato della formiche non ho molto da dire ma fra gli animali che hanno raggiunto un maggior livello di evoluzione rivoluzioni e colpi di stato esistono eccome, e esistono pure linguaggi diversi, quindi diverse tradizioni culturali, fra gruppi di animali della stessa specie ma cresciuti in luoghi diversi. Non faccio esempi perché facilmente reperibili e sottolineo questo punto solo per mettere in dubbio le troppo salde certezze fra l’ontologica suddivisione fra natura e cultura e non tanto per controbattere alle pur legittime osservazioni di Falchi in merito all’uomo come animale politico e non, mi si passi il termine, “bellico” (natura bellica dell’uomo, sia detto per inciso, che io non sostengo, io sostengo che l’uomo è un animale “strategico”, e sono sicuro che Falchi, pur probabilmente non condividendola, colga pienamente questa sottile differenza). Infine, chiedo scusa se è parso che io abbia voluto accusare Falchi, siccome sviluppa una linea di pensiero in alcuni punti non conforme alla mia, di avere un atteggiamento da “tabula rasa” rispetto alla tradizione marxiana e marxista. E chiedo scusa non tanto perché tale atteggiamento sia, a mio giudizio, del tutto assente dal suo argomentare ma per il semplice motivo che anch’io mi ci posso ritrovare (tanto per essere chiari: quando, come il sottoscritto, si afferma che la la visione della classe operaia come classe intermodale in grado di originare una palingenesi del sistema capitalistico non è altro una immanentizzazione della soteriologia cristiana, direi che la compagnia di demolizione o gli sgombera cantine stanno bussando alle porte). Il punto è dove sgomberare e demolire e mi auguro che su questo si continui per molto ancora a (dialetticamente) dibattere. Massimo Morigi – 19 marzo 2017 »

 

Fabio Falchi

Io condivido in buona misura quanto sostiene Morigi nella sua ultima risposta, ma occorre fare due brevi precisazioni per capirsi meglio.
1) Il mio esempio riguardo alle formiche non deve essere frainteso. Con questo esempio ho solo voluto segnalare che le formiche sono sì animali sociali che si fanno le guerre tra di loro ma non per questo sono animali politici. Vale adire che il conflitto che davvero conta per comprendere il Politico (a mio giudizio s’intende) è la stasis, la lotta intestina , la guerra civile, piuttosto che la guerra in generale. Non è cioè qui in gioco tanto la differenza tra l’uomo e gli altri animali (ché pure l’uomo è animale, sia pure razionale, simbolico, economico, politico etc.) , ma la questione del rapporto (già evidenziato da Heidegger contro Schmitt) di quello tra l’Essere-insieme e l’Essere-contro che si verifica con la dicotomia amico vs nemico. Quindi anche per me l’uomo è animale politico ma non necessariamente un animale “bellico”. Riguardo infine agli animali più evoluti, risulta anche a me che vi possono essere (ad esempio tra i macachi) dei conflitti che portano ad un rivolgimento sociale e ad un mutamento della gerarchia all’interno del gruppo (non sono un esperto, ma non credo  che si possa parlare di rivoluzioni o di colpi di Stato, anche perché manca lo Stato; comunque sia, anche in questo caso mi pare che il Politico sia più connesso alla stasis che al polemos, che è appunto quello che mi premeva evidenziare).
2) Io non penso ad una natura da una parte e alla cultura da un’altra con il Politico in mezzo , ma fin dall’inizio come dure realtà uni-ficate ma in perpetuo divenire (un processo dialettico quindi, se si preferisce). Pertanto, è forse la nozione di natura che è diversa nel mio discorso, dato che non rimanda alla biologia bensì alla natura intesa “grosso modo” come la intende Aristotele. La natura umana, per lo Stagirita, è una (vi è identità di specie, cioè di “forma sostanziale”) ma si esprime e articola in modi diversi e perfino incompatibili tra di loro.  In base a questa prospettiva allora si può affermare che noi non siamo differenti dai Greci o dagli aborigeni australiani per natura ma per cultura. Nondimeno, non vi è una natura umana disincarnata (un universale astratto) ma sempre, per così dire, avvolta nelle differenze ( ossia è una realtà “particolare” in senso culturale, storico,  politico nonché sotto il profilo individuale/personale). In definitiva, in quest’ottica, il concreto modo di articolarsi della natura umana  non è “dato” (non si sviluppa in base ad una “legge di natura”) nel senso che è un processo  storico e politico (in quanto la natura comunitaria dell’uomo è “aperta”, si può cioè es-primere in modi diversi).
Chiaramente, anche se la mia posizione non coincide con quella difesa da Morigi, sono il primo a riconoscere l’importanza della sua riflessione sul repubblicanesimo geopolitico.

 

Repubblicanesimo Geopolitico. 3a parte Alcune Delucidazioni Preliminari Di Massimo Morigi

Se però l’analisi del potere di Hannah Arendt risulta essere assolutamente realistica (il potere non è il male ma è la benzina della società), la filosofa politica ebrea tedesca naturalizzata statunitense non fu altrettanto puntuale nell’analizzare le problematiche del potere relative alla moderne democrazie rappresentative, in quanto il suo punto di riferimento della polis greca se assolutamente illuminante per quanto riguarda l’analisi fenomenologica del potere, non è assolutamente proponibile come modello per le moderne società industriali (e la Arendt ne era assolutamente consapevole) e la sua mitizzazione della rivoluzione americana – con l’idea di una riproposizione come futuro soggetto politico, mutatis mutantis, delle piccole comunità americane di origine che erano state alla base della voglia di libertà e laboratorio politico della rivoluzione e delle prime forme di democrazia del nuovo continente –, se ancora fondamentale per capire le dinamiche dominio-potere-libertà risulta ancora una volta improponibile come reale modello alternativo alla democrazia rappresentativa. Arrivo quindi rapidamente alla conclusione intorno alla domanda di cosa sia il Repubblicanesimo Geopolitico. Il Repubblicanesimo Geopolitico intende riempire questa lacuna nella consapevolezza molto elementare ma fondamentale che la partita della libertà non si gioca né in astratti enunciati (libertà come non interferenza di matrice liberale o libertà come non dominio del (neo)repubblicanesimo) ma nei concreti rapporti di forza (e quindi nei concreti spazi di libertà) che si sviluppano all’interno della società. Con questa enfasi sui rapporti di forza fra le classi, sembrerebbe però essere dalle parti di una riedizione del
marxismo vecchia maniera. Errore e per due semplici motivi. Primo perché nel Repubblicanesimo Geopolitico l’accento è messo sul potere come energia generatrice di libertà mentre il marximo classico vuole una società dove i rapporti di forza siano estinti (fine della storia, estinzione dello stato). Secondo perché se per il marximo l’agente generatore di una società più libera è il proletariato, per il Repubblicanesimo Geopolitico l’agente per una maggiore libertà sono proprio quelle forze ed energie (quindi anche il proletariato ma pure le forze che vi si contrappongono) che scontrandosi originano una dialettica del potere che è alla base per un concreto e non astratto ampliamento della sfera della libertà (sottolineo che questa della conflittualità come origine della libertà e/o della forza di una comunità politica non è certo molto originale discendendo direttamente da Machiavelli e dalla sua spiegazione della forza militare degli antichi romani, la quale, secondo il Segretario fiorentino, discendeva direttamente dalla lotta fra patrizi e plebei che trovava una sua valvola di sfogo nella espansione territoriale di Roma). E queste forze ed energie per il Repubblicanesimo Geopolitico possono trovare la loro piena espressione solo a condizione che il quadro geopolitico in cui questa comunità vive la sua esperienza storica sia favorevole a che questa comunità possa irrobustire la sua identità e, di conseguenza, progettare e lottare per sempre maggiori spazi di libertà. Dove Mazzini parlava di una missione dell’Italia una volta che fosse stata riunificata geograficamente e spiritualmente, sarebbe assai singolare non vedere in queste parole la consapevolezza che una nazione non può vivere – e quindi essere libera – senza che abbia un’idea della sua collocazione fra le altre comunità politiche del mondo, senza che possa disporre di un suo Lebensraum, non solo geografico e materiale ma anche culturale e spirituale (quello di Lebensraum, cioè spazio vitale, è un concetto che venne coniato da Friedrich Ratzel e sviluppato dalla geopolitica tedesca e per questo ha subito una sorta di damnatio memoriae. Ora il fatto che il nazismo abbia sviluppato una sua
versione criminale del Lebensraum non significa che questo concetto non sia fondamentale per la geopolitica e quindi per il Repubblicanesimo Geopolitico, tanto che il Repubblicanesimo Geopolitico potrebbe anche essere chiamato Lebensraum repubblicanesimo se non fosse per il fatto che il concetto di Lebensraum è ancor oggi appaiato all’imperialismo guglielmino e al male assoluto del nazismo e – per ironia della storia, se pur rifiutato dalle accademie politologiche e filosofico-politiche del secondo dopoguerra – impiegato come strumento di analisi fondamentale per dirigere l’azione geopolitica delle potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale. Il Repubblicanesimo Geopolitico, invece, intende impiegarlo per i suoi scopi di libertà). Quando Mazzini criticava Marx questo non avveniva per una sorta di cecità nei confronti delle condizioni della classe operaia ma avveniva nella consapevolezza che la dinamica dello scontro delle classi sociali – e quindi della libertà – non poteva essere compressa nelle formulette che si riassumevano nella credenza parareligiosa della classe operaia come “classe intermodale” e quindi come unico agente per la trasformazione rivoluzionaria della società. Mazzini fu sempre accusato di misticismo. In realtà non era affatto un mistico ma, piuttosto, un dialettico che era consapevole che la partita della libertà poteva essere vinta solo con una generale crescita culturale (e quindi politica) di tutta la società. Quando Mazzini preconizzava l’edificazione per la sua nuova Italia di “scuole, scuole, scuole”, non designava per sé il ruolo di futuro ministro della pubblica istruzione ma era semplicemente consapevole che la libertà italiana doveva passare attraverso l’innalzamento culturale del popolo. Oggi questa dimensione culturale è entrata a pieno vigore nel lessico della geopolitica e si chiama noopolitik, quella noopolitik che presa molto sul serio dal Celeste Impero, rischia di qui a pochi anni, assieme ai suoi fattori di eccellenza economica, di rendere la Cina la prima superpotenza a dispetto degli standard terribilmente mediocri, almeno se comparati a quelli delle cosiddette
democrazie rappresentative occidentali, nel campo dei diritti politici. Ora, senza voler ripercorrere tutti quegli autori e personaggi storici in cui il momento geopolitico fu fondamentale (Garibaldi fu un geopolitico “pratico”, il nazionalismo italiano ebbe una sua versione di destra tipicamente autoritaria mentre la matrice democratica del nazionalismo è impensabile senza considerare il Maestro di Genova, l’interventismo democratico era mazzinianamente animato da una profonda, anche se rudimentale, consapevolezza repubblicana e geopolitica che la libertà del nuovo Stato – e quindi dei suoi cittadini – non era al sicuro senza la demolizione degli Imperi centrali, l’impresa fiumana ben lungi dall’essere stata uno stolto rigurgito del peggior nazionalismo come da certa stereotipata storiografia, diede voce – ed azione – alla consapevolezza geopolitica di matrice mazziniana diffusa fra gli strati più umili della popolazione – ma non per questo non certo politicamente meno avvertiti –, che l’astratto wilsonismo era un attentato non solo contro la potenza di una nazione, l’Italia, che aveva vinto la guerra ma anche contro la sua libertà nel consesso delle nazioni e, quindi, al suo interno, anche contro il suo sviluppo in una società sempre più libera. E quanto fossero avanzate le concezioni politiche e sociali dei “fiumani” guidati da D’Annunzio, volentieri si rimanda alla misconosciuta Carta del Carnaro), la tragedia dell’Italia attuale è che la sconfitta nel secondo conflitto mondiale, assieme alla giusta ridicolizzazione del fascismo, trascinò nel disastro anche quel Repubblicanesimo Geopolitico che era stato una delle componenti fondamenti del suo Risorgimento e della sua riunificazione e che aveva ben compreso che la libertà non poteva essere scissa dalla sua componente spaziale-geografica (2). Rimane da rispondere al quesito posto da Roberto Stefanini sulla rappresentazione della situazione che si fa il Repubblicanesimo Geopolitico. Se per rappresentazione della situazione s’intende il quadro delle relazioni internazionali, il Repubblicanesimo Geopolitico sente una profonda affinità, e prende robusti spunti oltre che dai già
citati padri della geopolitica, dalla dottrina delle relazioni internazionali che oggigiorno va sotto il nome di costruttivismo e che ha per caposcuola Alexander Wendt. Famoso il titolo del saggio di Alexander Wendt Anarchy is What States make of it, e cioè che l’anarchia del sistema internazionale non è una meccanica legge di natura ma dipende dalle scelte, a loro volta influenzate dalla storia e dalla cultura, che le singole nazioni compiono di volta in volta. Il costruttivismo, insomma, sottolinea l’importanza dei cosiddetti dati “sovrastrutturali” e volitivi nel determinare la dinamica del sistema internazionale. Da questo punto di vista, il Repubblicanesimo Geopolitico è completamente d’accordo col costruttivismo ma con una piccola rivendicazione, non per sé stesso – ci mancherebbe – ma per chi prima ancora del costruttivismo e con feroce volontà attuativa pensò in questi termini: il solito Giuseppe Mazzini. Se per rappresentazione della situazione si intende, invece, il giudizio sullo stato di salute della democrazia in Italia e nelle altre cosiddette democrazie rappresentative, il giudizio è già stato espresso in altri interventi sul “Corriere della Collera” ma, in estrema sintesi, si riassume nella conclusione che quello che i media – ed anche un pensiero politico asservito a necessità che con la ricerca della verità e dell’espansione della libertà hanno poco a che spartire – oggi chiamano democrazia non è altro che un regime ove le oligarchie finanziarie sostengono e foraggiano un teatrino dove ancora si consente di scegliere attraverso formalmente libere elezioni la rappresentanza politica ma in cui questa rappresentanza politica è totalmente irresponsabile rispetto al suo elettorato ed è spogliata, de facto, di qualsiasi potere decisionale (questo teatrino del potere e della falsa libertà politica è comune a tutte le cosiddette democrazie rappresentative occidentali. Proseguendo con l’immagine, possiamo dire che, allo stato attuale, la democrazia è una recita fatta dai politici su un palco gentilmente fornito dalle oligarchie finanziarie. In Italia poi, per non farci mancare niente, gli attori sono pure degli scadenti
guitti). Questo giudizio, peraltro, non è proprio un’esclusività del Repubblicanesimo Geopolitico ma è condiviso anche dalla parte meno corrotta dell’attuale mainstream della scienza politica (Colin Crouch, Robert Dahl tanto per citare qualche autore). Al contrario però di coloro che vedono la postdemocrazia e/o la poliarchia come un destino inevitabile per le democrazie rappresentative occidentali, il Repubblicanesimo Geopolitico non si rassegna all’avvizzimento della democrazia per il semplice motivo che se gli uomini per pigrizia possono essere sordi sulla loro libertà, la storia è un’ottima sveglia e che, se inascoltata, può portare a traumatici e tragici risvegli. È la storia del nostro paese che è tutto un susseguirsi di momenti alti e di altri di tragica miseria. È persino inutile dire in quale momento il Repubblicanesimo Geopolitico ambisca a collocarsi. Sembrerebbe, è vero, una missione impossibile, per non dire connotata da un’assoluta ed insopportabile hubris. Se il Repubblicanesimo Geopolitico fosse una semplice nuova elaborazione di scuola sui temi (neo)repubblicani ciò sarebbe assolutamente vero. Ma ovviamente la pretesa – o meglio la speranza – del Repubblicanesimo Geopolitico non è di essere la solita accademica variazione sul tema (neo)repubblicano ma modestamente, anche se con molto orgoglio, è di non essere altro che l’ennesima espressione di quel moto profondo che nasce dal cuore della nostra storia e civiltà e che si riassume nella ricerca di una sempre maggiore espansione della libertà. Ora e sempre.
Ravenna-Coimbra, 26 novembre 2013

NOTE
(1) In questa risposta [sul “Corriere della Collera”] sul Repubblicanesimo Geopolitico ho originariamente omesso qualsiasi citazione dei vari Nozik, Friedrich von Hayek, Dworkin
e Rothbard come autori di riferimento in merito al canone liberale. La ragione è molto semplice. Tutti questi autori, chi più da “sinistra” chi più da “destra”, ci restituiscono un’immagine talmente caricaturale del liberalismo – e talmente priva di qualsiasi riferimento alla nozione di “conflitto strategico” (concetto coniato da Gianfranco La Grassa nell’ambito del suo fondamentale rinnovamento del marxismo e dell’interpretazione del filosofo di Treviri ma il cui campo semantico rimanda direttamente a Machiavelli) – che da parte di un pensiero, come il Repubblicanesimo Geopolitico, che intende seriamente e radicalmente superare il pensiero liberale è consigliabile, almeno in sede divulgativa come può essere quella di un blog, piuttosto che lasciarsi andare a facili, scontate – seppur giustificate – ironie, lasciar perdere ed ignorarli del tutto. Insomma, i lettori dei blog politici (o, meglio, tutti coloro che vogliono costruirsi una vera cultura politica e comprendere quindi anche la grandezza, seppur da superare, del liberalismo) se vogliono “perdere” tempo, affrontino Tucidide, Machiavelli, Hobbes, Adam Smith, Ricardo, Carl von Clausewitz, Hegel, Marx, Mazzini, Mosca, Pareto, Benjamin Constant, Alexis de Tocqueville, Carl Schmitt, Sorel, Lenin, Antonio Gramsci, Hannah Arendt, Friedrich List, Schumpeter, John Maynard Keynes, per finire con i padri della geopolitica Alfred Thayer Mahan, Halford John Mackinder e Friedrich Ratzel piuttosto che i moderni pedestri, feticistici ed irrealistici propagandisti nominati sopra di un liberalismo visto come una sorta di sistema eterno, immutabile e al di sopra della storia (e di un individuo come una sorta di onnipotente Robinson sociale), servi sciocchi di quegli agenti strategici, che coperti dalle enunciazioni ideologiche (un tempo socialiste e liberali oggi solo liberali) ad usum della manipolazione del consenso hanno inteso le varie organizzazioni socioeconomiche in cui venivano ad operare (socialiste e liberaldemocratiche e oggi solo liberaldemocratiche) come il campo di battaglia sul quale scontrarsi per ottenere la supremazia. Agenti strategici che,
insomma, da veri propri leviatani hobbessiani hanno fatto sempre un sol boccone, strumentalizzandoli e trattandoli come carne da cannone, dei vari Robison sociali del liberalismo e dei vari Stakanov del socialismo reale. È inutile aggiungere che il Repubblicanesimo Geopolitico sia dal punta di vista conoscitivo che da quello politico è unicamente inteso a far uscire dal loro “stato di minorità” questi illusi Robinson liberali e i tuttora persistenti – e perdenti – cultori del fu Stakanov del defunto socialismo reale.
(2) Fondamentale per comprendere sul piano teorico questa dialettica spazio/libertà, Democratic Ideals and Reality. A Study in the Politics of Reconstruction, London, 1919 di Halford Mackinder, il fondatore accanto a Thayer Mahan della geopolitica, e al quale si deve la comprensione che la democrazia è nata e si sviluppata grazie all’insularità della Gran Bretagna e che quindi il wilsonismo – oggi si direbbe l’esportazione della democrazia – era un assoluto non senso,

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