La migrazione prosegue da ieri ad oggi: il caso dell’Europa, di Olivier Hanne

La migrazione prosegue da ieri ad oggi: il caso dell’Europa

La crisi dei rifugiati, subsahariana o siriana, che ha segnato gli spiriti nel 2015, tende a farci dimenticare i lenti cambiamenti dei flussi contemporanei. Tuttavia, la questione della migrazione può essere compresa serenamente solo attraverso queste tendenze durature …

Nel secondo dopoguerra, i principali movimenti migratori hanno interessato minoranze etniche minacciate nei nuovi confini a seguito della divisione del continente tra i due blocchi. Di fronte all’URSS, 3 milioni di tedeschi provenienti da Polonia, Romania e Cecoslovacchia hanno cercato di trovare rifugio in Occidente, soprattutto nella RFT. In trent’anni, più di 10,7 milioni di europei dell’Est hanno compiuto questo spostamento verso l’Occidente.

Allo stesso tempo e durante i Trent’anni gloriosi (1945-1973), la necessità della ricostruzione dell’Europa e poi le esigenze di lavoro dovute allo sviluppo industriale hanno spinto Stati e imprese a fare appello all’immigrazione di lavoro che era ancora stagionale. Quasi 10 milioni di persone sono state colpite da questi movimenti migratori all’epoca: turchi e jugoslavi per la Germania, algerini, italiani, portoghesi e spagnoli per la Francia. Il numero dei profughi per motivi politici è ancora insignificante, ridotto a esuli in fuga dal comunismo. Era anche il tempo del rimpatrio delle popolazioni europee dalle colonie ormai indipendenti, movimento che coinvolse, nel caso della Francia, più di un milione di “Pied-Noirs”.

L’immigrazione sta cambiando

Con la recessione che ha prolungato lo shock petrolifero del 1973 fino all’inizio degli anni ’90, la maggior parte dei paesi europei limita l’ingresso dei migranti, forza lavoro troppo competitiva per i cittadini. Anche se gli stranieri sono incoraggiati a tornare nel loro paese di origine, la legislazione autorizza comunque il ricongiungimento familiare (1974 in Francia), trasformando così l’immigrazione per lavoro stagionale in immigrazione di insediamento familiare permanente. Appare quindi una doppia tensione: tensione alle frontiere per rallentare il flusso continuo di candidati al miraggio economico europeo; tensione interna per determinare se assimilare culturalmente gli stranieri stanziali o semplicemente integrarli economicamente.

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Gli anni 1970-1980 sono anche quelli di un boom di richieste di asilo politico dovuto alla cronica instabilità dei giovani paesi indipendenti del Terzo Mondo. Di fronte alla violenza nell’Africa subsahariana, l’Europa è vista come una zona privilegiata di rifugio, più degli Stati Uniti. Le richieste di asilo ricevute in Europa occidentale sono passate da 180.000 nel 1987 a 437.000 nel 1990. Carestie e siccità ripetute nel Sahel hanno lanciato i primi migranti climatici sulle strade del nord.

La continua attrazione dell’Europa per i paesi poveri arriva in un momento in cui la demografia del vecchio continente sta collassando e l’invecchiamento è in aumento, ma questo inverno demografico europeo sta portando a una presa d’aria migratoria.

Crescono i flussi intraeuropei

Per molto tempo c’erano stati flussi intraeuropei, italiani, portoghesi o spagnoli in Francia, italiani in Svizzera o Germania, jugoslavi o turchi in Germania. Ma tendono a diminuire (tranne gli ultimi) con lo sviluppo dei paesi di partenza.

La fine dell’URSS nel 1991 provocò nuove inflessioni. L’Unione Europea tende quindi a valorizzare i migranti del continente a scapito degli altri. La Germania riunificata diventa l’El Dorado per i migranti dei Balcani e dell’Europa centrale, in particolare per gli 1,3 milioni di Aussiedler , questi di lingua tedesca che risiedono nell’Europa orientale e che possono pretendere di tornare nella “madrepatria” .

 

Con l’egemonia americana, il nuovo clima geopolitico sembra suggerire che sia arrivato un tempo di pace duraturo, così che il numero dei richiedenti asilo nell’Europa occidentale è crollato della metà a 270.000 in 1997. I rifugiati accolti sono ora meno di origine africana e asiatica che di origine europea e, più precisamente, jugoslava. I conflitti nell’ex Jugoslavia tra il 1990 e il 1995 hanno costretto 4,6 milioni di persone a lasciare il loro paese e 700.000 hanno trovato rifugio nell’Europa occidentale. Allo stesso tempo, Grecia e Italia accolgono gli albanesi in fuga dalla dittatura e dalla violenza sociale.

L’Unione Europea, che si è poi costruita come un tutto politico con gli accordi di Maastricht (1992), poi con l’entrata in vigore degli accordi di Schengen (1995), accetta la libertà di circolazione al suo interno mentre pretende di porre un freno ingressi dall’esterno. Negli anni ’90 la Francia ha concesso in media 80.000 permessi di soggiorno di lunga durata. Il principio della globalizzazione accetta il liberalismo commerciale e la libertà di movimento, ma lo limita per quanto riguarda gli immigrati non europei. C’è qui una fragilità dottrinale dell’UE, le cui conseguenze erano evidenti dopo il 2011: poiché avevamo accettato l’anima della globalizzazione, perché rifiutarne i benefici ai migranti africani e asiatici?

Il miraggio della “fortezza Europa”

La realtà delle condizioni economiche, il rallentamento della crescita, la riluttanza dell’opinione pubblica verso l’immigrazione facilitano l’attuazione di restrizioni più severe, tanto che l’Ue viene quindi qualificata come “fortezza Europa”. Ma a causa dell’umanesimo delle istituzioni europee e della necessità di manodopera, il controllo delle frontiere non ha un aspetto rigido e impermeabile. Quindi, l’immigrazione illegale dal Ghana, Il Benin o la Nigeria non transitano via terra, ma attraversano gli aeroporti di Cotonou e Lagos. I candidati alla partenza volano a Parigi, Bruxelles e Londra più legalmente del mondo, con visti turistici, rapidamente obsoleti e non rinnovati. Molti presentano una richiesta di asilo e rimangono nel territorio dopo un rifiuto da parte dell’amministrazione. C’è quindi una grande tentazione per i respinti dall’asilo di provare altri metodi: matrimonio bianco, malattia, nascita di un bambino in terra francese …

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Gli anni ’90 sono stati caratterizzati da una forte tensione tra i crescenti flussi di immigrati clandestini dai paesi del sud e dai tentativi di chiudere le frontiere da parte dell’UE, in particolare con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht nel novembre 1993. .

 

Vengono quindi visualizzati i punti di attraversamento e di transito in cui accorrono i migranti, alle prese con dogane, forze di polizia e barriere elettroniche. Lo Stretto di Gibilterra, l’enclave spagnola di Ceuta, l’isola italiana di Lampedusa, il tunnel sotto la Manica e il Calaisis diventano luoghi sintomatici di massiccia immigrazione, con il suo corteo di ingiustizie e brutalità. Tra il 1990 e il 1996, l’Italia ha visto raddoppiare il numero di immigrati illegali, passando da 570.000 a quasi 1,1 milioni.

Poi il fenomeno non fa che peggiorare. Nel 2005, su 191 milioni di immigrati nel mondo, 41 milioni risiedevano nell’Unione Europea, nonostante la pretesa delle istituzioni al controllo migratorio. Gli immigrati illegali sono circa 2 milioni di persone. La migrazione netta – la differenza complessiva tra il numero di immigrati e quello degli emigranti (vedi articolo a pagina 53) – rappresenta quindi l’80% dell’aumento demografico dell’Unione. La proporzione di immigrati nella popolazione della Francia metropolitana è passata dal 5% nel 1946 al 9% nel 2017, di cui il 41% ha acquisito la nazionalità francese (dati: INSEE e OCSE). Queste statistiche indicano che il dinamismo demografico europeo viene prima di tutto dall’immigrazione.

 

Gli ingressi dei migranti non sono più di natura temporanea, ma sono durevoli e mirano a stabilirsi. Il ricongiungimento familiare – garantito dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo – è diventato il primo motivo per una soluzione duratura, molto prima del lavoro o dell’asilo politico. Gli immigrati interessati non sono ammessi nel territorio per le loro capacità o per la volontà di integrarsi, ma perché rispondono a criteri coniugali o familiari oggettivi. I 45.000 matrimoni misti  (1) celebrati ogni anno sul territorio francese (17% del totale dei matrimoni), sommati ai 45.000 matrimoni celebrati all’estero, costituiscono la normale via di accesso al diritto di soggiorno. Pertanto, l’85% delle ammissioni permanenti in Francia sono di diritto, e quindi sfuggire all’interpretazione del potere esecutivo.

Questa immigrazione è essenzialmente extraeuropea. Nel 2014, il 44% dei sei milioni di immigrati che vivono nella Francia continentale proveniva dall’Africa, il 36% dall’Europa (Insee). Nel 2003, 215.000 persone sono immigrate in Francia, rispetto alle 156.000 del 1998. Tutte queste cifre vanno contro le idee ricevute su un’Europa chiusa ai flussi migratori.

Come comportarsi?

I governi che pretendono di lottare contro il fenomeno in realtà hanno poco controllo su tali movimenti. La politica europea di controllo è però regolarmente ridefinita e rivalutata, anche dal Trattato di Amsterdam (ottobre 1997) e dai vari vertici, fino alla creazione nell’ottobre 2004 dell’agenzia Frontex . La sua vocazione era quella di coordinare la sorveglianza delle coste e dei confini dell’UE, ma è stata subito criticata per la sua incapacità di impedire gli ingressi illegali e per le sue libertà assunte nei confronti dei diritti dei migranti. Di fronte all’aumento dei flussi clandestini che era difficile interrompere a causa della legislazione e della mancanza di mezzi, dal 2005 si è reso necessario decidere di distribuire le persone per quote nazionali.

Secondo la cosiddetta procedura Dublino II (2003), qualsiasi domanda di asilo deve essere esaminata nel primo paese dell’Unione europea in cui la persona è entrata. Tuttavia, di fronte all’impossibilità di applicare questo quadro, nel 2010 è stato istituito un Ufficio europeo di sostegno per l’asilo, che trascende le politiche nazionali. Una simile riorganizzazione amministrativa ha avuto la conseguenza di liberare la gestione della migrazione dalle autorità nazionali e di affidarla a funzionari europei, irresponsabili nei confronti dell’opinione pubblica e dell’elettorato.

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Di fronte al rischio di surriscaldamento, soprattutto nell’opinione pubblica, i governi francesi, conservatori o progressisti, hanno utilizzato la procedura delle fughe alla frontiera, il cui numero è salito da 9.000 nel 2001 a 24.000 nel 2007, quindi 36 800 nel 2012. Tra il 2002 e il 2005, molti paesi europei hanno proceduto a regolarizzazioni massicce: 220.000 in Francia, 720.000 in Grecia. Italia e Spagna hanno regolarizzato 700.000 persone ciascuna, una nel 2002 e l’altra nel 2005. Da 25 anni sono stati regolarizzati 3 milioni di clandestini in Europa. L’attrazione europea, nonostante la crisi economica, non è mai stata così forte. I tassi di partenza dal Marocco verso l’Europa raggiungono il 15% degli uomini normodotati.

Gli anni 2000 confermano quindi la tendenza ereditata dal decennio precedente, ovvero che le masse migratorie che arrivano in Europa generalmente rispondono alle richieste dei paesi dell’UE, a prescindere dalla retorica anti-immigrazione dei politici.

La crisi del 2005

La crisi recente fa parte di tendenze di lunga durata, aggravate dalla destabilizzazione del Sahel e del mondo arabo-musulmano a seguito della primavera araba del 2011-2012. Infatti, il numero di rifugiati e migranti illegali che arrivano in Europa via mare è esploso in pochi anni:

 

2011: 70.000

2012: 22.500

2013: 60.000

2014: 219.000

2015: 1.005.500

(Fonte: IOM, International Migration Office)

 

Questo boom è eccezionale, perché contrasta con la vecchia tendenza dell’immigrazione clandestina, che utilizzava rotte terrestri e aeree spesso legali, consentendo il superamento dei visti di soggiorno.

Nei media, la crisi migratoria è iniziata il 19 aprile 2015, quando una nave di migranti è naufragata al largo dell’isola italiana di Lampedusa, uccidendo 700 persone. Quasi 10.000 persone sfortunate sarebbero state salvate dalla marina italiana solo nel fine settimana dell’11-12 aprile. Dal 2000, 22.000 persone sono morte in circostanze simili, fuggendo dalla guerra e dalla miseria nel continente africano. Al di là del dramma umano, la crisi dei rifugiati è un evento importante che può sconvolgere la geopolitica del Medio Oriente e ricostruire le società europee.

La copertura mediatica della crisi migratoria iniziata nell’autunno del 2015 è stata impressionante quanto la portata del fenomeno. I dati ufficiali – necessariamente incompleti – mostrano 350mila migranti irregolari che entrano nell’Unione nei primi mesi dell’anno. Il numero di domande di asilo ricevute tra aprile e giugno 2015 è stato di 213.200, con un aumento dell’85% rispetto allo stesso periodo del 2014.

Il numero di migranti in arrivo via mare è passato da 219.000 nel 2014 a 239.200 nel 2015, di cui il 56% sbarcato in Grecia, il 42% in Italia e il 2% in Spagna. La Germania ha ricevuto una media di 30.000 richieste di asilo al mese da gennaio ad agosto 2015. I migranti hanno preferito i Paesi Bassi, la Lettonia, l’Austria e la Germania piuttosto che la Francia (30.000 richieste in soli 6 mesi). ). Ma le richieste alla Germania sono improvvisamente raddoppiate a settembre, ora ammontano a 63.000, a causa della dichiarazione del 19 agosto 2015 del cancelliere Angela Merkel che annunciava che il paese dovrebbe eventualmente accettare 800.000 candidati. asilo. Forse fraintesa, questa frase ha avuto l’effetto di un richiamo aereo tra i siriani ancora in Turchia, che la vedevano come un invito a entrare nell’Unione Europea.

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Arrivati ​​in colonne di diverse centinaia di persone, guidati dai loro smartphone e nutriti durante il viaggio da trafficanti e operatori umanitari europei, i migranti siriani hanno lasciato i loro campi in Turchia per attraversare il Mar Egeo. Arrivati ​​in Grecia, hanno rapidamente travolto le capacità di accoglienza del Paese, già in crisi economica e politica. Poi Monaco divenne in poche settimane il fulcro della migrazione siriana verso l’Europa. Il 14 settembre, di fronte all’impossibilità di accogliere questo flusso regolare, Berlino ha annunciato il ripristino dei controlli alle frontiere, appena un mese dopo che Angela Merkel aveva causato l’accelerazione delle partenze dalla Turchia e dalla Grecia.

Una … battuta d’arresto temporanea?

La crisi migratoria del 2015 non è solo una crisi dei rifugiati, perché è la logica continuazione dei cambiamenti migratori iniziati 20 anni fa. Solo che molti candidati all’ingresso nell’UE si sono uniti al movimento dei siriani per mimetizzarsi e approfittare delle promesse di benvenuto della Germania. L’impossibilità di controllare l’afflusso improvviso è stata una porta aperta per chi, dai Balcani, ad esempio, attendeva il momento propizio per tentare l’avventura dell’emigrazione.

La portata del fenomeno ha appena superato l’anno 2015, dal momento che il numero di ingressi è diminuito dal 2016, sotto l’effetto di politiche più restrittive, un migliore coordinamento del controllo delle frontiere con la Turchia, le vittorie militari di Bashar el -Assad in Siria e l’operazione francese Barkhane nel Sahel:

 

2016: 390.400

2017: 186.700

2018: 144.100

(Fonte: IOM)

 

Occorre quindi qualificare l’espressione stessa di “crisi dei rifugiati”, perché implica un maremoto involontario, brutale e duraturo, mentre gli eventi del 2015 – certamente eccezionali nella loro portata – sono stati portati dalla Legislazione europea e 30 anni di politica migratoria. La crisi del 2015 è l’albero che nasconde la foresta da flussi migratori regolari e potenti.

Si tratta di matrimoni tra un individuo francese e uno straniero; possono però essere della stessa origine, come i giovani maghrebini che cercano un coniuge “nel sangue”. Non sono quindi sempre la prova dell’integrazione nella società ospitante.

 

La confusione dei termini porta alla confusione delle analisi. Uno è l’uso della parola “rifugiato” insieme a “migrante”, “immigrato” o “immigrato”. Tuttavia, il termine rifugiato si riferisce proprio a uno status riconosciuto dalla Convenzione di Ginevra (28 luglio 1951), e designa ”  qualsiasi persona che teme a ragione di essere perseguitata a causa della sua razza, della sua religione, della sua nazionalità, della sua appartenere a un certo gruppo sociale o delle sue opinioni politiche, che è al di fuori del Paese di cui è cittadino e che non può o, per questo timore, non vuole rivendicare la protezione di questo Paese  ”. Il rifugiato è, de facto, legalmente tutelato e può beneficiare di una carta di soggiorno valida dieci anni, a condizione che l’amministrazione del paese ospitante gli conceda lo status in questione. I rifugiati riguardano il 7% dei migranti internazionali (15 milioni di persone, secondo l’Alto Commissariato per i Rifugiati).

D’altra parte, un migrante – sia che si chiami immigrato o immigrato – è molto concretamente qualcuno che cambia paese per un periodo indefinito e per un motivo tutto suo. Il termine può designare sia un immigrato legale che un immigrato illegale, e quindi non comporta alcuno status o altra protezione se non quella che il Paese ospitante è disposto a fornire, secondo le sue regole particolari.

Tuttavia, la confusione tra migrante e rifugiato nella recente crisi tende a cancellare tutte le sfumature migratorie ea suggerire che la massa umana che si è trasferita tra febbraio e ottobre 2015 doveva necessariamente ottenere lo status di rifugiato. Ancor di più, la fusione si è diffusa sui media a tutti i migranti giunti in Europa nello stesso periodo, mentre molti obbediscono ai vecchi flussi, che gli stati hanno sempre cercato di controllare.

Questi risultati sono confermati dai dati sull’origine dei richiedenti asilo nell’Unione Europea nel 2017 (Frontex): su 649.000 richiedenti, il 23% proveniva da zone di guerra (Siria, Iraq), il 16,3% da paesi segnata da violenze localizzate (Afghanistan, Eritrea, Nigeria), e tutte le altre nei Paesi poco sviluppati (Pakistan, Albania, Bangladesh…), che non esclude specifiche forme di oppressione politica o religiosa. Le vittime di guerra sono quindi rare … Ma i media hanno reso popolare il termine “rifugiati politici” che mantiene la confusione.

E su scala globale?

Dagli anni ’90 e per un effetto della globalizzazione, tutte le regioni del globo sono state colpite dalla migrazione internazionale. Ogni anno il 3% della popolazione mondiale, ovvero 240 milioni di persone, diventa migranti, vale a dire lascia il proprio paese per un altro. La maggior parte delle migrazioni rimane nazionale, tuttavia, con 740 milioni di migranti interni secondo l’UNDP (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo). Ci sono tanti cinesi che migrano in Cina quanti sono i migranti internazionali.

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L’Europa rimane ancora la prima regione di accoglienza con più di un terzo dei migranti, seguita da Asia (28%) e Nord America (23%). Nonostante i dibattiti sull’aumento dei rifugiati climatici e politici, il motivo della partenza è principalmente economico: in tre quarti dei casi si va in un Paese più sviluppato. Poiché le regioni ospitanti sono rinomate anche per il loro sistema sociale e politico, l’attrazione economica è accompagnata da altre motivazioni (fuga dall’autoritarismo, vittime della segregazione etnica, problemi ambientali, ecc.). Tuttavia, l’estrema povertà non è più l’unico motivo dei flussi e la percentuale di laureati tende ad aumentare: 60 milioni di migranti partecipano alla fuga dei cervelli, la fuga di cervelli, soprattutto in Nord America; Il 31% dei laureati dell’Africa subsahariana emigra …

A differenza degli anni 1960-1980, il Paese ospitante non è necessariamente situato nell’emisfero settentrionale, perché i flussi da Sud a Sud sono notevolmente aumentati e diversificati, con il 63% dei migranti oggi. I divari di sviluppo tra i paesi del Sud giustificano questa evoluzione: gli afgani trovano in Iran stabilità e lavoro, i porti della Costa d’Avorio e il petrolio della Nigeria attirano i sub-sahariani. Le persone generalmente migrano all’interno della loro regione o del loro continente: egiziani in Arabia Saudita, lavoratori dall’Asia centrale alla Russia. Ciò significa che il miraggio occidentale, se esiste ancora, tende ad evaporare. Alcuni paesi attraggono persino migranti da paesi più ricchi, come i pensionati francesi in Marocco o gli ingegneri cinesi in Africa, accompagnato da coorti di lavoratori sfollati per alcuni mesi in siti tropicali. Si sono quindi verificati fenomeni complessi, e vediamo persino agricoltori brasiliani migrare in Paraguay mentre i coloni paraguaiani si stabiliscono nell’Amazzonia brasiliana …

Sebbene incompleta, la chiusura dei confini dei paesi del Nord porta alla formazione di regioni di transito dove la questione migratoria è subappaltata a Stati forti, come la Turchia, il Maghreb o il Messico. I migranti sono di stanza lì in attesa di raggiungere un giorno l’El Dorado, rimanendo senza diritti o futuro garantito.

https://www.revueconflits.com/immigration-analyse-theorie-europe-etude-olivier-hanne/

Eisenhower e il maccartismo, di George Friedman

A proposito di guerre intestine americane_Giuseppe Germinario

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Cosa stiamo leggendo: Eisenhower e il maccartismo

La vera pace non arriverà in Medio Oriente finché i pacificatori trascureranno questo problema.

Di: George Friedman

Ike: un eroe americano
Di Michael Korda

Il libro di Michael Korda è un eccellente studio di Dwight D. Eisenhower, sia come persona che come comandante supremo alleato della guerra contro la Germania, nonché del processo attraverso il quale divenne presidente. Avendo letto molto su Eisenhower, normalmente avrei poche novità da dire. Ma qualcosa mi ha veramente colpito in questo libro: l’affermazione che questo particolare eroe di guerra e forza politica fosse un devoto comunista.

L’accusa proveniva dalla fazione maccartista dei repubblicani che ha sostenuto Robert Taft per la nomina del loro partito. Volevano distruggere la reputazione di Ike. Nel 1952, Joseph McCarthy era una figura significativa nella politica e nella società americana. Ha terrorizzato tutte le aree della vita americana, distruggendo le vite dei cittadini e dei nemici politici allo stesso modo per migliorare la posizione politica della sua fazione. Era guidato dalla creazione di un sistema in base al quale chiunque poteva essere identificato come comunista. La paura di McCarthy significava la disponibilità a sottomettersi alla sua fazione.

Essere comunista nel 1952 era problematico, ovviamente. Un membro del Partito Comunista per definizione ha sostenuto il movimento comunista internazionale guidato dall’Unione Sovietica. Il capo dell’Unione Sovietica era un assassino di massa. Proprio come qualcuno guarderebbe un nazista americano con disgusto, guarderebbe un comunista allo stesso modo.

Ma McCarthy e i suoi seguaci non si sono concentrati sui membri dei partiti comunisti. Si sono concentrati sui comunisti chiaramente troppo intelligenti per essere membri. Eisenhower stava correndo contro Taft, e McCarthy non lo voleva. Credeva che dimostrare che Eisenhower era comunista lo avrebbe fermato. La prova, ovviamente, era sempre indiretta. In questo caso, era un’immagine di Ike che stringeva la mano al maresciallo sovietico Georgy Zhukov in una riunione tenuta poco dopo la resa tedesca. La cordiale stretta di mano indicava chiaramente amicizia. E poiché George Marshall, capo di stato maggiore dell’esercito, ha autorizzato l’incontro, chiaramente era lui stesso un comunista, ed entrambi erano conniventi per consegnare Berlino a Stalin.

Non ha funzionato contro Ike, ma ha funzionato contro tanti altri, ponendo fine alle carriere di persone così varie come gli scienziati e l’élite di Hollywood. (Oggi li chiameremmo “cancellati”.) C’erano, in effetti, agenti comunisti negli Stati Uniti, ma l’equipaggio di McCarthy non se ne preoccupava. McCarthy si preoccupava di spaventare i deboli e i potenti con la capacità di accusare, e quindi di condannare i cittadini per una parola pronunciata in un modo che fosse in sintonia con il comunismo. Sono stati accusati di qualcosa di cui pochi erano colpevoli e l’accusa è stata sufficiente per distruggerli. Ci è voluto un idiota per credere che Eisenhower fosse un comunista, ma ci sono voluti leader spietati e spietati per usare quegli idioti.

C’è una tradizione di evitamento che fa parte della storia americana. Diverse sette religiose evitavano o punivano coloro che avevano violato le loro regole. Nathaniel Hawthorne ne ha scritto magnificamente. È un passatempo americano, condiviso da tutte le convinzioni politiche e religiose, praticato anche da chi scenderà dal palco.

I tre momenti del populismo, di Pascal Gauchon

I tre momenti del populismo

Non c’è bisogno di tornare ai Gracchi o all’antica Roma: si rischierebbe l’anacronismo. Affinché il termine “populismo” emerga, dobbiamo aspettare la rivoluzione francese, il popolo deve diventare sovrano. Pertanto, la definizione di populismo sta interamente nella radice della parola: si tratta di difendere gli interessi del Popolo, ancor più di assicurarsi che sia davvero il sovrano, che detenga effettivamente il potere e che ‘nessuna forza può sostituirlo.

 

Immediatamente si fecero le domande: contro chi difendere il Popolo? E come dovrebbe essere definito? I greci distinguevano il Laos , la massa di soldati nell’Iliade, ethnos , uomini discendenti dalla stessa origine e che condividono costumi comuni, e demos , un gruppo di uomini soggetti alle stesse leggi. Il secondo termine si riferisce all’idea di nazione che, in una Michelet, è associata a quella di Popolo. Ci riporta alla Rivoluzione francese . Da allora il populismo si è svolto in tre fasi.

 

Il momento russo e americano

 

Gli esperti concordano sul fatto che le culle del populismo sono i grandi spazi della Russia zarista e dell’Occidente americano. In Russia, i narodnik (da narod , persone); negli Stati Uniti, il People’s Party, fondato nel 1891 (vedi pagina 44). Qui i populisti mettono radici nel mondo contadino. Questo ha fatto guadagnare loro la reputazione di retroguardia, persino movimento reazionario. In Russia, i marxisti dell’RSDLP (1) rifiutano l’idea che i moujikspossono formare una classe rivoluzionaria, hanno occhi solo per il proletariato. Negli Stati Uniti, il fallimento elettorale di Bryan associato ai populisti portò all’emergere di una corrente qualificata come progressista, di cui lo storico Richard Hofstadter fece l’esatto opposto del populismo; accusa quest’ultimo di essere provinciale, complottista, nativista, anti-intellettuale. Una rivolta reazionaria.

Tuttavia Lenin trattenne dai socialisti rivoluzionari, eredi dei populisti , l’idea che, per vincere, fosse necessario mobilitare i contadini poveri. Per quanto riguarda gli Stati Uniti , altri analisti (2) vedono nel populismo l’erede di Jefferson, difensore dei “diritti umani” contro il progresso capitalista e incarnazione della sfiducia di Washington e del potere centrale. Possiamo vedere cosa conteneva questo “vecchio” populismo nella modernità e persino nella preveggenza.

 

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Il momento del periodo tra le due guerre

 

Dopo il 1919 il populismo assume un nuovo volto. Dovremmo qualificare i fascismi europei come “populisti”? Dopo aver lasciato il Partito socialista, Mussolini aveva lanciato il Popolo d’Italia e si potevano trovare nel “Movimento fascista (3)  ”, il fascismo prima della presa del potere, punti in comune con il populismo. Ma la marcia su Roma (1922) fu possibile solo grazie a un compromesso con le élite in atto che portò al mantenimento della monarchia. Non appena è al posto di guida, il fascismo ha poco a che fare con il populismo, comunque tu lo definisca.

È il latinoamericano che è diventato il suo terreno preferito. Nel periodo tra le due guerre, ha assunto forme di sinistra (Messico di Cardenas) o di destra (Brasile di Vargas, ispirato all’Italia di Mussolini). In Argentina, la giornalista Eva Duarte mobilita la folla dei “sans-shirts” ( descamisados ) a favore del generale Peron, eletto presidente nel 1945 e diventato suo marito alla fine dell’anno. Peron chiede una terza via tra comunismo e capitalismo liberale, il giustizialismo; adottò molte misure sociali, praticò il patriottismo economico e mantenne rapporti burrascosi con gli yankee . In preda a crescenti difficoltà economiche, fu rovesciato da un colpo di stato nel 1955.

Cosa ci insegna l’America Latina sul populismo? Innanzitutto è necessario, come tutti i populismi, contro le élite ritenute incapaci, qui i grandi proprietari di terre e miniere. In particolare, questi proprietari e i politici che portano al potere sono accusati di servire interessi stranieri. Il simbolo era l’ambasciatore degli Stati Uniti in Argentina, Spruille Braden, preso la mano nella borsa finanziando gli avversari di Peron che appare costantemente a Hitler. Tanto che la campagna elettorale del 1945 è stata effettuata al suono dello slogan Braden no, Per n SI .

Il populismo assume quindi l’aspetto di un nazionalismo che combatte le élite acquisite all’estero, egli ritiene. Allo stesso tempo ha portato al potere nuove élite, classi medie urbane, sindacalisti, funzionari pubblici e, naturalmente, i militari che hanno svolto un ruolo essenziale in tutti i movimenti del tempo. Il subcontinente dimostra la complessa relazione tra le nozioni di populismo e di élite.

La Guerra Fredda mette fine al movimento populista. Castro poteva essere assimilato ai populisti quando salì al potere, ma si mosse verso il comunismo e si pose sotto la protezione sovietica, come se si potesse sfuggire alla tutela americana solo ponendosi sotto un’altra tutela. Con l’anticomunismo, i soldati latinoamericani che avevano costituito la spina dorsale dei regimi populisti istituirono dittature filoamericane, spesso si unirono al liberalismo economico (Cile), che non si poteva qualificare come populista.

 

Il ritorno del populismo

 

Populismo negli anni dal 1960 al 1990 non c’è quasi più dubbio, almeno nei paesi sviluppati che si arricchiscono, anche dopo la crisi del 1973, dove le disuguaglianze regrediscono, almeno fino alla fine degli anni 1960, dove le élite sono difficilmente contestate. In Francia, “l’elitarismo repubblicano” consente l’ascesa di tecnocrati che sono visti come efficienti e disinteressati. Nel mondo dominano le ideologie comuniste o capitalista-liberali, che non lasciano spazio a una “terza via”.

Il movimento ha ripreso vigore negli anni 90. Lo spiegano tre fenomeni, peraltro collegati: la globalizzazione, l’aumento delle disuguaglianze e la scomparsa dell’URSS. La minaccia comunista aveva portato la classe dominante a sviluppare lo stato sociale per evitare la rivoluzione. La paura è scomparsa e le élite non sono più pronte a fare le stesse concessioni. Ancora una volta sono in cattedra, accusati di formare “una iperclasse mondiale” e di monopolizzare gran parte della crescita a scapito dei più poveri. La crisi finanziaria del 2008 ne completa il discredito. Conosciamo il resto, dalla Brexit alle elezioni americane.

Da questa breve storia si possono trarre alcune conclusioni.

Innanzitutto dimostra l’estrema diversità del populismo, di sinistra o di destra, tradizionalista o rivoluzionario, che mobilita i contadini, gli operai o le classi medie, arriva al potere con la forza o con le urne ed è cacciato dalle urne. o con la forza. Questa varietà potrebbe aver messo in dubbio l’esistenza del populismo: ciò che è rimasto alla fine, un termine vago, quasi nulla, un insulto …

Tuttavia, ci sono punti in comune tra tutti i movimenti populisti: la presenza di un leader carismatico; la contestazione delle élite accusate di non preoccuparsi più del popolo-nazione; la capacità di fare affidamento sugli ambienti più svantaggiati mentre attrae ampie porzioni della classe media e persino nuove élite, in una logica transclassista estranea al marxismo; la critica del capitalismo liberale; dubbi sul funzionamento della democrazia che si sospetta sia stata confiscata da funzionari eletti.

Il rapporto con la democrazia è uno degli aspetti più originali del populismo. Potrebbe anche essere definito come estremismo democratico, pretende di essere una democrazia ideale contro la democrazia reale che è generalmente rappresentativa (vedi pagine 44-45). Ecco perché ci sono momenti populisti: si verificano quando la democrazia è in crisi, quando le disuguaglianze sociali peggiorano, quando le élite preferiscono i loro beni al bene comune e ostentano la loro ricchezza e il loro senso di superiorità. Tale era il caso nell’ultimo terzo del XIX °  secolo, nel periodo tra le due guerre e di oggi.

Per tre volte il populismo ha coinciso con tre grandi depressioni che il mondo occidentale ha attraversato dal 1873, e reflusso accompagna ripresa economica della fine del XIX °  secolo e dopo la seconda guerra mondiale. Finché la crescita economica, il progresso sociale e la solidarietà nazionale non riprenderanno, il populismo avrà un futuro luminoso nonostante i fallimenti subiti nel 2017.

 

  1. Partito Socialdemocratico dei Lavoratori della Russia fondato nel 1898 e diviso tra bolscevichi e menscevichi.
  2. Gene Clanton, Charles Postel.
  3. Secondo la formula di Renzo De Felice.

L’uomo di paglia! Joe Biden, il candidato fantoccio- conversazione con Gianfranco Campa

La convenzione democratica ha designato Joe Biden come sfidante di Donald Trump alle prossime elezioni presidenziali americane. Una convenzione che ha rivelato come fattore determinante di coesione del Partito Democratico l’avversione viscerale a Trump. In nome di questa crociata ha raccolto intorno a sé tutto e il contrario di tutto, a cominciare dai neocon repubblicani; ha rivelato la forte presenza di una componente radicale, ma anche che la gestione del partito è ancora saldamente in mano alla sua vecchia componente liberal. Ne è venuta fuori una passerella di vecchie volpi, poco intenzionate a lasciare il passo, ma prive di ogni respiro programmatico e suggestione politica. La conclusione non poteva che essere un vuoto di idee e di programmi, l’esorcizzazione dell’avversario politico e il ripescaggio di personaggi ampiamente ridimensionati durante le primarie e mantenuti in vita grazie all’omertà mediatica di cui hanno goduto. Ne ha fatto le spese Tulsi Gabbard, l’unico personaggio in carne e ossa, nello scenario democratico, capace di gridare al Re Nudo https://www.youtube.com/watch?v=Cfp_IIdVnXs&fbclid=IwAR1bdDKBqAwgZtyZ4oG4zQAKZ7OtHC7MAed23awH8jRBQz94Q2Xs-R9RVto. Più le idee saranno confuse, più lo scontro politico futuro assumerà le sembianze di una guerra per bande. In Italia ne sappiamo già qualcosa. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

Predatori, sciacalli e saltimbanchi. Tre ritratti di famiglia, di Giuseppe Germinario

L’incalzante accelerazione delle dinamiche politiche sta scompaginando gli equilibri esterni tra le formazioni statuali e la coesione e il dinamismo stessi delle formazioni sociali; a prescindere dal loro esito metterà sempre più a nudo profilo e peculiarità delle classi dirigenti e delle élites. Viste le diverse loro dinamiche quelli positivi si potranno apprezzare ed individuare soprattutto nel tempo. I negativi, specie i più spregevoli, non richiedono l’attesa paziente; emergono in tempo reale, spontaneamente. Bolle d’aria tanto leggere ed effimere nell’aspetto, tanto leste a spargere la flatulenza a contatto con l’atmosfera. Nel presente immediato e fuggevole del nostro paese tornano in auge le figure delle iene ovvero, nello scalino inferiore della gerarchia, dello sciacallo e quella del funambolo. Tra i primi si vedono al momento primeggiare addirittura due famiglie storiche del paesaggio politico-economico della nazione, anche se il gruppo sarà sciaguratamente destinato ad infoltirsi appena emergerà la spessa coltre di polvere nascosta sotto i tappeti dei vari comitati di esperti e d’emergenza da covid. Dei primi si fatica, purtroppo, ad individuare la pressoché unica loro funzione positiva nel ciclo vitale: la detersione dell’ambiente dalle carogne e dai resti putrefatti. Del secondo si resta abbagliati dalla capacità di sopravvivenza alle giravolte le più disinvolte ed improbabili; circonvoluzioni la cui abilità risulta tanto difficile da valutare vista la nostra scarsa conoscenza dei suoi effettivi strumenti di lavoro e del suo ambiente operativo, non si sa se dotato quest’ultimo di forza di gravità naturalmente significativa o di vuoto cosmico, quanto indispensabile da soppesare per qualificare il nostro un funambolo o un saltimbanco.

Si sta parlando, pare ovvio, delle famiglie Agnelli e Benetton da una parte e di Giuseppi Conte dall’altra.

Ora una breve disamina delle due tipologie:

PREDATORI PARASSITI

la similarità della funzione attualmente svolta dalle due famiglie imprenditoriali non deve indurre ad una eccessiva omologazione di giudizio.

Intanto rimane la diversità di lignaggio. Degli Agnelli il retaggio delle generazioni non si perde certo nei millenni, ma ha raggiunto comunque una consistenza secolare sufficiente a far appannare il ricordo e le tracce del peccato originale dal quale spesso e volentieri nascono le fortune degli aristocratici. Quello dei Benetton risale appena agli anni ‘60.

I primi, ormai alla quarta generazione, grazie a sapienti combinazioni matrimoniali, riescono ad intravedere l’olimpo della finanza internazionale e ad occupare qualche posticino d’ascolto nei salotti buoni europei e newyorchesi; i secondi hanno gestito le proprie senza allargare significativamente gli orizzonti e i connubi se non per gustare il piacere un po’ grezzo del possidente nei grandi spazi della Pampa in particolare.

I primi hanno coltivato le proprie virtù imprenditoriali nella meccanica, un settore maturo ma di tutto rispetto, pur con qualche addentellato, per lo più con licenza per conto terzi, in alcuni settori strategici; cosa che ha loro consentito, grazie alla fedeltà atlantica in tempi non sospetti, qualche impertinenza come la produzione dei G91 con motori inglesi, non ostante la contrarietà americana e qualche balzo oltre la cortina di ferro.

I secondi hanno fondato la propria fortuna sul tessile, un settore non proprio di punta nel XX secolo.

I primi, grazie anche alle discrete benemerenze acquisite durante l’ultima guerra, hanno saputo mettere bene a frutto le connessioni d’oltreoceano e coltivare l’arte delle connivenze e delle influenze nei più diversi apparati dello Stato, compresi quelli militari e dell’ordine pubblico; i secondi hanno coltivato la stessa ambizione, ma a quanto pare non sono riusciti ad andare molto oltre le collusioni con i settori amministrativi e di controllo strettamente inerenti le loro attività.

Gli Agnelli_Elkann hanno mantenuto con pervicacia il loro core-businness manifatturiero e ormai prevalentemente finanziario, a partire dalla scellerata gestione Romiti, relativamente autonomo dalle concessioni pubbliche. Si sono altresì rivelati diabolicamente abili nel calibrare quantità e qualità delle ricorrenti richieste di interventi pubblici: con gli attori politici di prima grandezza, nella fattispecie lo stato federale statunitente, hanno venduto la propria sopravvivenza con un ingente prestito pubblico restituito perfettamente nei tempi previsti in cambio della fusione con la Chrysler, un azienda ancora più agonizzante della FIAT, al prezzo della generosa cessione della propria tecnologia motoristica e di automazione industriale a quell’epoca ancora valide e del pagamento di lauti interessi sulle relative obbligazioni, talmente alti da compromettere le future possibilità di investimento in ricerca del gruppo. Il prezzo, evidentemente, per poter essere accolti anche formalmente al di là dell’Atlantico. Con gli attori politici di terza fila, in particolare lo Stato della natìa Italia, hanno saputo sfruttare la cieca prodigalità dei contribuenti e la benevolenza delle politiche infrastrutturali e normative, si badi bene, non per sviluppare l’Azienda e mantenerne il cuore e il cervello in Italia, ma per dilazionare tra gli osanna i tempi del drammatico ridimensionamento produttivo. Un miracolo di prestidigitazione assecondato dalla arrendevole suggestionabilità degli astanti. Una cecità cronica ed inguaribile di questi ultimi che ha impedito di cogliere i numerosi segnali legati al trasferimento dei centri decisionali e delle tecnologie, alla cessione, in esatta concomitanza delle mirabilie sul futuro dell’auto a trazione elettrica, della Magneti Marelli e probabilmente di COMAU sino al capolavoro odierno della concessione della garanzia pubblica sui prestiti appena una settimana prima della cancellazione di tutti gli ordini di componentistica dalle aziende italiane. Il segnale che l’accordo con il gruppo PSA non è altro che la cessione di un fardello in cambio del salvataggio della componentistica francese ai danni di quella italiana, attualmente più sviluppata ma meno tutelata politicamente. Almeno nel settore auto la famiglia pare destinata, a meno di sussulti, ad assumere il ruolo di controfigura buona ad introitare i finanziamenti a scatola chiusa degli stati più “distratti”. È la loro particolare visione e funzione della difesa degli interessi nazionali.

I Benetton non dispongono di una visuale così ampia e articolata. Nel giro di pochi mesi si sono visti offrire, senza competitori reali, la gestione della rete autostradale approfittando del disastro gestionale dell’ANAS, delle condizioni capestro a carico del cedente del contratto di concessione e dello smantellamento e della colpevole inefficienza dell’apparato di controllo per succhiare rendite da capogiro da ripartire tra alleati potenti a spese della corretta gestione e della sicurezza della rete. Il tessile e abbigliamento, a queste condizioni passano in secondo piano e con essi gran parte della rete di produttori e lavoratori nazionali sui quali avevano costruito credito, rispetto e prestigio in terra veneta.

Anche nel campo politico-culturale le due lasciano una impronta diversa, anche se ormai sempre più sbiadita. I primi hanno saputo promuovere ed alimentare alla bisogna gli orientamenti più diversi ed antitetici, spaziando da destra a sinistra. Hanno saputo accattivarsi e pugnalare i sindacati; hanno alimentato e fruito delle ideologie e delle correnti culturali più libertarie, come di quelle conservatrici e di quelle più retrive. Ne hanno curato in maniera certosina anche i risvolti editoriali. I Benetton no, sono rimasti molto più legati ad un particolare canovaccio fatto di un cosmopolitismo multicolore di una varietà pari a quella delle tonalità dei loro tessuti, ma tanto inconsistente culturalmente, quanto protervo nei fatti e nelle persone portatrici del loro messaggio; esaurito il quale non possono che mostrare nuda e cruda la loro protervia ed insensibilità. Lo si è visto anche nella mancata minimale di accortezza, quando hanno dovuto affidarsi a nuovi consulenti specializzati per riuscire a porre decentemente, anche se con colpevole ritardo, le opportune ed appropriate condoglianze alle vittime del crollo del ponte di Genova. Hanno dimenticato l’umanità dell’antica civiltà contadina, ma ne hanno conservato la rozzezza e la grettezza.

Le “sardine” potrebbero essere considerate il loro prodotto culturale conclusivo, sempre che riescano a durare più di un loro manifesto pubblicitario.

In un aspetto cruciale i primi si sono rivelati meno adeguati e più disarmati dei secondi: nella regolazione riservata delle proprie controversie familiari e in almeno un caso delle proprie tragedie personali. Segno dell’allentamento inesorabile del legame patriarcale.

Due famiglie che hanno avuto una iniziale funzione propulsiva, pur se accuratamente incanalata, ma che hanno inibito e poi apertamente contrastato il salto necessario al paese a partire dagli anni ‘70. La crescita delle dimensioni aziendali assimila sempre più l’attività imprenditoriale ad un gioco di strategia politica. La loro mutazione è stato lo specchio dell’involuzione del nostro paese.

Non sono gli unici responsabili di questa situazione e, probabilmente, nemmeno ormai i più determinanti. Fanno parte però a pieno e diverso titolo di quella classe dirigente e di quei centri di potere.

IL FUNAMBOLO

Occorre a questo punto qualche chiarimento su questa insolita associazione tra predatori_parassiti e giocolieri. L’evoluzione subita dalle due famiglie imprenditoriali rappresenta il classico esempio di come l’impoverimento progressivo e traumatico di una classe dirigente e di un ceto politico sufficientemente ambizioso, capace e sagace riesca a trasformare la natura e l’indole degli attori geoeconomici e politici. Le condizioni oggettive sono state certamente sfavorevoli, a cominciare dalla disastrosa gestione delle partecipazioni statali e dal contesto geopolitico sconvolto dall’implosione del blocco sovietico. A questo purtroppo ha corrisposto un ceto politico tanto furbo, quanto malaccorto e inadeguato da cadere senza resistenza ai richiami delle magnifiche sorti e progressive del globalismo senza stati e da darsi prontamente una giustificazione morale sufficiente ad accogliere i benefici personali connessi a quelle modalità di apertura.

Giuseppe Conte è un epigono di questa progenie con alcune peculiarità destinate a garantirgli probabilmente una sopravvivenza, non necessariamente sullo stesso scranno, più longeva rispetto alle tante meteore che si sono avvicendate negli ultimissimi anni.

Ha rivelato doti di furbizia e circospezione inediti tra le fila degli ultimi arrivati sul proscenio politico, merito senza dubbio delle sue frequentazioni curiali d’oltretevere; uno dei pochissimi ad evitare l’ostensione compiaciuta dei suoi pellegrinaggi negli Stati Uniti. Sarà per le mancate risposte che deve ancora sulle complicità italiane nella costruzione del Russiagate; sarà per l’incertezza sull’esito di uno scontro politico così cruento in quel di Washington; sarà soprattutto perché in quanto pupillo della Segreteria Vaticana, piuttosto che dei Boyscouts, non sente il bisogno e la necessità di investiture pubbliche, sta di fatto che è riuscito a costruirsi una immagine propria.

Ha rivelato doti di equilibrio e di adattamento miracolose. Più che di Giuseppe, tanti Giuseppi capaci ognuno di cogliere l’attimo per apparire e proferire secondo l’esigenza del momento, glissando sulle posizioni dei Giuseppi precedenti; tutti concordi però sullo speranzoso “andrà tutto bene”. Ha certo potuto contare sulla smemoratezza e accondiscendenza del sistema mediatico; ha potuto fondare la propria autonomia apparente e la propria funzione di contrappeso sul precario equilibrio di partiti ancora poco predisposti ad una alleanza e a schieramenti più definiti. Ha messo a frutto la posizione di commis di seconda fila; il serbatoio da cui di solito attingono forze politiche emergenti prive di personale all’altezza degli incarichi da occupare. Riesce a rosicchiare brillantemente e ricorrentemente nuovo tempo contrabbandando l’opportunità e l’utilità immediata di scelte strategiche disastrose per l’Italia. Non ha ancora superato due limiti comportamentali che gli impediscono di raggiungere definitivamente la postura se non la sostanza dell’uomo di stato; manchevolezze che potrebbero farlo scivolare sulla classica buccia di banana: la sua insopprimibile indole levantina e curiale a confortare ostentatamente con una pacca sulle spalle la vittima designata e ad affettare eccessivamente le proprie giustificazioni e coerenze di comportamento. L’antitesi di un ex-emergente ormai in ombra:Matteo Renzi.

Occorre scavare un po’ più a fondo per cogliere qualche tratto più netto della condotta di Giuseppe Conte e intravedere un possibile punto di arrivo. Una cartina di tornasole potrebbero essere i suoi legami con Angela Merkel e soprattutto Emmanuel Macron.

https://italiaeilmondo.com/2020/06/02/attenti-a-quei-due-di-giuseppe-germinario/

https://italiaeilmondo.com/2017/01/22/203/

Sulla Unione Europea Conte può giocarsi probabilmente le carte migliori. Le risorse del MES e soprattutto del Recovery Fund sono per il paese una trappola a medio termine in cambio di ossigeno nell’immediato, sempre che queste siano disponibili in tempi e nella consistenza ragionevoli. Sono una trappola perché condizioneranno e costringeranno il paese in una logica di degrado, squilibrio e dipendenza irreversibile per tre ordini di motivi: per la logica interna alle modalità di utilizzo dei fondi strutturali, per la dipendenza dai circuiti finanziari interni e l’isolamento politico dell’Italia in Europa, per la mancanza di risorse finanziarie aggiuntive, di una classe dirigente sufficientemente ambiziosa e di un apparato tecnico-amministrativo in grado di contrastare queste dinamiche in ambito comunitario e di condurre una politica di potenza e di forte coesione interna in senso lato in grado di ribaltare gli equilibri almeno europei. È probabile che quest’ultimo fattore spinga per inerzia il Governo nel tradizionale utilizzo delle risorse scivolando in una logica consolidata di spesa assistenziale e di investimenti dispersivi e casuali incapaci di modificare positivamente la struttura socio-economica del paese; renderebbero così superfluo e libererebbero dalla seccatura di una imposizione esplicita di un intervento autoritativo dei paesi egemoni per il tramite della UE. Le prime indicazioni confermano questa dinamica consolidata fatta di interventi neutri sulle infrastrutture, di incentivi generici alle aziende e di investimenti sulla ricerca sganciati dal consolidamento e dalla creazione di piattaforme industriali autoctone. La retorica sulla istruzione e sulla ricerca come volano autoreferenziale, sulla messa in sicurezza di un territorio in realtà ingestibile a costi ragionevoli se non ripopolato di gente e di attività, sull’economia verde e sulla stessa digitalizzazione priva del controllo dei dati e dei processi di comando diventano così il cappello ideologico e la cortina fumogena di un declino assolutamente infelice e malinconico che consentiranno comunque la sopravvivenza di una élite così miserabile. Nel Mediterraneo la posizione dell’Italia rischia invece di precipitare in tempi drammaticamente ravvicinati. La politica elusiva di Conte soprattutto in Libia ha rafforzato altri interlocutori ben più determinati a cogliere gli spazi offerti dal multipolarismo e dalla rinuncia e dalla delega offerta dagli Stati Uniti di Trump. L’Italia ha già perso con l’affossamento del South-Stream, grazie anche all’atlantismo peloso della Germania la quale in nome delle sanzioni contro la Russia e della fedeltà alle direttive americane sta rischiando di acquisire il controllo della rete dei metanodotti europei. L’estromissione dal TAP e dai giacimenti del Mediterraneo rischiano di stringere definitivamente il cerchio e con questo compromettere l’esistenza stessa dell’ENI e un minimo di autonomia delle forniture energetiche e di presenza geopolitica nel Mediterraneo. Nella stessa logistica interna, legata all’intermodalità dei porti e della rete stradale e ferroviaria, tutta la retorica progressista dell’Italia come hub europeo rischia di liquefarsi di fronte all’asse tedesco e sino-turco teso ad occupare i nodi nevralgici della rete italiana. La combinazione dell’eventuale assenza delle risorse europee e della precipitazione della crisi nel Mediterraneo sono i fattori che rischiano di far naufragare la proficua tattica dilatoria di Conte & Company fondata sull’emergenza sanitaria e sulla fratellanza europea. Un emergenzialismo sfruttato più per garantire la sopravvivenza di una élite e di un ceto arroccato che a perseguire un disegno totalitario ed autoritario fuori dalla portata di questi centri di potere. Nel qual caso Giuseppi da funambolo si rivelerebbe saltimbanco ed andrebbe ad infoltire la ormai fitta schiera di leader politici italiani improvvisati emersi e naufragati nel breve volger di un mattino. Già la gestione del cosiddetto “esproprio” dei soddisfatti Benetton ha offuscato, anche se non irrimediabilmente, la sua abilità di giocoliere. Le dinamiche politico-economiche di questi ultimi anni hanno messo in chiaro come l’assenza di strategie politiche autonome abbiano pregiudicato l’esistenza e la funzione della grande industria strategica; adesso sta arrivando il momento della piccola e media industria della componentistica. Quando arriverà il momento della media industria più intraprendente, le cosiddette multinazionali tascabili, allora forse sarà chiaro a tutto il paese e alla opposizione sovranista-liberista, un vero ossimoro politico e fors’anche al ceto politico e alla classe dirigente in pernne dipendenza dalla benevolenza europea il motivo dello scivolamento drammatico di questo paese e delle sue cause. Sarà troppo tardi e molto più doloroso un eventuale recupero.

Intervista a Thomas Gomart – Russia, Cina, Stati Uniti: chi è di troppo?

Intervista a Thomas Gomart – Russia, Cina, Stati Uniti: chi è di troppo?

Direttore IFRI, il principale centro studi francese per le relazioni internazionali fondato da Thierry de Montbrial, Thomas Gomart riceve Hadrien Desuin di Conflits nel suo ufficio per discutere della Russia e delle sue relazioni con gli Stati Uniti e la Cina. Thomas Gomart ha appena pubblicato The Return of Geopolitical Risk, The Strategic Triangle Russia, China, United States , Paris, Institut de l’Entreprise, 2016, 56 p., Prefazione di Patrick Pouyanné.

Conflitti: vedete che la globalizzazione del commercio si scontra con il ritorno della geopolitica.

Il “commercio gentile” di Montesquieu è ormai vissuto. Il commercio ha iniziato a ristagnare nel 2009-2010 mentre lo scambio di informazioni continua a crescere in modo esponenziale. La globalizzazione sta accelerando in termini tecnologici ma si sta restringendo in termini politici e istituzionali. È un ritorno alla logica del potere. La comunità imprenditoriale ha visto mercati emergenti, non potenze emergenti, una sfortunata assenza.

 

Conflitti: il triangolo tra Russia, Cina e Stati Uniti ha continuato a strutturare il mondo dal 1971, ma oggi non è di troppo la Russia in questo trio? 

Il 1971 vede il viaggio di Nixon in Cina. Il segmento debole del triangolo è quindi la Cina. E Nixon ci va proprio per indebolire l’URSS. 45 anni dopo, il segmento debole è la Russia, che sta lottando per rimanere nel trio. Tuttavia, la Cina continuerà a crescere, gli Stati Uniti sono in un declino molto relativo e la Russia continua a ripiegare. Cina e Stati Uniti: 35% della ricchezza mondiale, Russia meno del 3%. Nel 1991, le economie cinese e sovietica erano comparabili. Oggi l’economia russa rappresenta il 20% dell’economia cinese. La Russia sta cercando di tenere il passo con Washington e Pechino con risorse paragonabili a quelle di Francia e Regno Unito. “Povero potere”, è in una fortissima distorsione tra le sue ambizioni e i suoi mezzi.

 

Da leggere anche:  Cina, Stati Uniti, UE: chi vincerà la guerra?

Conflitti: la Russia aveva annunciato un perno per l’Asia che le sanzioni europee potrebbero accelerare.

Gli occidentali non sono riusciti ad ancorare la Russia nella loro struttura euro-atlantica alla fine della guerra fredda. Grazie a legami storici, culturali e umani di ogni tipo, l’Unione Europea è il principale partner commerciale della Russia con il 50% del suo commercio estero. Fondamentalmente è la porta della Russia verso la globalizzazione. Le sanzioni chiudono questa porta, ma le élite russe ragionano molto di più delle nostre in termini geopolitici. Per loro, la Russia è anche una potenza del Pacifico che deve partecipare al perno mondiale verso l’Asia.

 

Dopo l’annessione della Crimea, la Russia vuole dimostrare di essere una grande nazione che sta costruendo una partnership con la Cina, in particolare nel campo energetico. Ma l’asimmetria tra i due paesi è enorme! Inoltre, l’ultimo conflitto militare russo-cinese risale al 1969, è ancora nella memoria. Il perno della Russia verso il Pacifico deve quindi essere qualificato e inteso anche come una narrazione o “discorso” geopolitico.

Conflitti: c’è lo stesso una complementarità energetica russo-asiatica che pesa molto …

Certamente con la Cina ma anche con il Giappone e la Corea. Putin ritiene che il principale successo della sua politica estera sia il trattato sul confine sino-russo del 2005. Presso l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, russi e cinesi cooperano per la stabilizzazione dell’Asia centrale, fino al Iran. Ma l’80% della popolazione russa vive in territorio europeo e continua a guardare ad ovest anche se cerca alternative. Ci riuscirà? Non ne sono sicuro.

 

Conflitti: ”  Ho preso la Russia come il generale de Gaulle ha preso la Francia  ” ha dichiarato una volta Vladimir Poutine. In che misura la sovranità di Putin è una versione russa del gollismo? 

Non siamo riusciti ad andare oltre la visione di un Putin gollista o cechista. Per i circoli diplomatici e intellettuali, Putin è un cechista che non riuscirà a uscire dalla sua matrice. Per gli ambienti economici e militari, è un gollista che ha restaurato la grandezza del suo paese. Non puoi confrontare. Fondamentalmente, la Russia non ha alleanze, cosa che la Francia gollista non aveva.

Leggi anche:  Nient’altro che la Terra: la geopolitica gaulliana prima di de Gaulle

 

In effetti, abbiamo un problema geopolitico con la Russia e la Russia ha un problema geoeconomico con noi. La gestione della crisi ucraina è stata delegata alla Commissione Europea, quando l’Unione Europea non è un attore geopolitico. Inoltre, Bruxelles ha incoraggiato l’integrazione regionale in tutto il mondo, ad eccezione dello spazio post-sovietico.

Queste sono due contraddizioni molto forti che hanno reso improbabile una partnership con la Russia. Inoltre, l’Europa è molto a disagio con potenze come Russia e Turchia.

Quanto a Putin, prova una grande condiscendenza nei confronti del progetto europeo in cui non crede. La Brexit non può che ancorarlo a questa convinzione.

Conflitti: anche i paesi dell’Europa centrale hanno spinto per il confronto …

Abbiamo un’Europa composita, tutti usano l’Unione europea per promuovere i propri interessi. Questi piccoli paesi hanno un peso che non avrebbero mai potuto avere al di fuori dell’Unione. Il partenariato orientale è influenzato, ad esempio, dall’influenza polacco-svedese. Questa questione del vicinato europeo ha forti risonanze storiche con due parole non dette: Turchia e Russia.

Conflitti: energia, militare e digitale sono tre grandi potenze che strutturano il mondo secondo te, perché hai scelto il digitale? Stiamo parlando di una “bomba digitale”, non stiamo fantasticando sulla guerra digitale?

Sul digitale, gli Stati Uniti dispongono dei principali attori. Per parafrasare John Connally e la sua formula del dollaro , potresti dire ”  Internet è il nostro sistema, ma è un tuo problema  “. Internet è il centro nevralgico del sistema mondiale. Chi domina Internet domina il centro nevralgico e quindi domina il mondo. Internet è anche il mezzo principale per mantenere il controllo sui suoi principali alleati giapponesi ed europei.

https://www.revueconflits.com/entretien-russie-chine-etats-unis-qui-est-de-trop-hadrien-desuin/

Memo quotidiano: poteri medi e persone prive di potere, di George Friedman

Qui sotto un breve resoconto delle inquietudini che attraversano il mondo. Una breve considerazione: checché ne pensino il Senatore Fiano e il Partito Democratico tutto l’Europa non è più un’isola felice esente da conflitti militari già dagli anni ’90; il fattore di pace interna piuttosto che l’Unione Europea è stata comunque la NATO, con tutti i vincoli di dipendenza e sottomissione connessi. Una pace interna che comunque non ha evitato sanguinosi conflitti interni agli stati, in particolare quelli più sensibili all’influenza russa. Nelle more, pare che in Bielorussia alcuni cecchini stiano sparando alla folla dagli edifici circostanti. Un canovaccio già sperimentato in Ucraina e in Siria, prodromo di un colpo di mano imminente. La Russia si farà cogliere questa volta di sorpresa? Quanto influirà la crisi di entrate da gas e petrolio sulle sue modalità di risposta? Intanto la Francia ha posizionato in Grecia, di fronte alla Turchia altri due Rafale e una fregata, a tutela della libertà di navigazione nel mar Egeo. Pare meno disposta dell’Italia a farsi mandar via da quelle acque. La fregata LIMNOS (classe ELLI) della Marina Nazionale greca ′′ è stata colpita ′′ da una nave della Marina turca. Il PD continua a chiamare tutto questo pace_Giuseppe Germinario

Memo quotidiano: poteri medi e persone prive di potere

Recensioni settimanali di ciò che è sui nostri archivi.

A cura di: Geopolitical Futures

Potenze medie nell’Indo-Pacifico . Martedì, il Giappone ha accettato di prestare al Vietnam circa 345 milioni di dollari per acquistare sei navi da pattugliamento marittimo giapponesi . Il Giappone ha distribuito navi della guardia costiera usate nel sud-est asiatico negli ultimi anni, ma quelle nuove sono considerate un sostanziale miglioramento per il Vietnam in un momento in cui le sue acque costiere sono soggette a una maggiore pressione cinese. Come abbiamo spiegato , la maggior parte della competizione per il controllo nel Mar Cinese Meridionale si svolge nella cosiddetta zona grigia. E questa è un’area in cui il Giappone è forse anche meglio attrezzato degli Stati Uniti per aiutare gli Stati richiedenti del Mar Cinese Meridionale. Nel frattempo, l’India ha incoraggiato la Russia a essere maggiormente coinvolta negli affari indo-pacifici, proponendo, ad esempio, un meccanismo di consultazione trilaterale che coinvolge il Giappone .

Questi tipi di giocatori di medio livello nella regione sono tutti limitati in quello che possono fare per bilanciare l’azione della Cina, e interessi fortemente contrastanti renderanno difficile formare qualsiasi tipo di fronte unito contro Pechino . Ma per paesi come il Vietnam e l’India che temono di essere coinvolti nel fuoco incrociato di un grande conflitto di potere a somma zero tra Cina e Stati Uniti, più siamo, meglio è.

Disordini bielorussi, continua . Continuano le proteste in Bielorussia contro i risultati delle elezioni presidenziali . Le forze di sicurezza hanno usato granate stordenti e hanno sparato proiettili di gomma per disperdere i manifestanti. Il ministero degli Interni ha confermato che le autorità hanno ucciso un uomo che avrebbe tentato di lanciare un ordigno esplosivo. Ha anche annunciato che più di 2.000 persone sono state detenute in varie città del paese.

L’opposizione si sta comportando come previsto. Gli ex candidati alla presidenza Andrei Dmitriyev e Sergei Cherechen intendono presentare un reclamo alla Commissione elettorale centrale contestando i risultati delle elezioni. Nel frattempo, Svetlana Tikhanovskaya, la candidata dell’opposizione più popolare, ha lasciato la Bielorussia per la Lituania, dove ha ringraziato i cittadini bielorussi per la partecipazione alle elezioni, sottolineando che “il popolo bielorusso ha fatto la sua scelta”, invitando i suoi sostenitori a rispettare la legge piuttosto che affrontare la polizia .

I governi occidentali, compreso Washington, hanno espresso preoccupazione per la situazione. Alcuni hanno condannato il presidente Alexander Lukashenko per aver utilizzato violenza politicamente motivata, mentre altri hanno chiesto il dialogo per risolvere la questione.

Intelligenza aggiuntiva

DA  CTHULHU (MORBUS) SU  CORTESE   RICHIESTA  DI MASSIMO MORIGI: VERBA VOLANT SCRIPTA  MANENT 

DA  CTHULHU (MORBUS) SU  CORTESE   RICHIESTA  DI MASSIMO MORIGI: VERBA VOLANT SCRIPTA  MANENT   

 

https://www.fondazioneluigieinaudi.it/i-verbali-del-comitato-tecnico-scientifico/, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20200807150916/https://www.fondazioneluigieinaudi.it/i-verbali-del-comitato-tecnico-scientifico/

 

 

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https://www.fondazioneluigieinaudi.it/wp-content/uploads/2020/08/verbale-n-14-del-1-marzo-2020.pdf, Wayback  Machine: http://web.archive.org/web/20200807150959/https://www.fondazioneluigieinaudi.it/wp-content/uploads/2020/08/verbale-n-14-del-1-marzo-2020.pdf

 

 

https://www.fondazioneluigieinaudi.it/wp-content/uploads/2020/08/verbale-n-21-del-7-marzo-2020.pdf, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20200807151011/https://www.fondazioneluigieinaudi.it/wp-content/uploads/2020/08/verbale-n-21-del-7-marzo-2020.pdf

 

 

https://www.fondazioneluigieinaudi.it/wp-content/uploads/2020/08/verbale-completo-CTS-n-39-del-30-03-2020.pdf, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20200807151025/https://www.fondazioneluigieinaudi.it/wp-content/uploads/2020/08/verbale-completo-CTS-n-39-del-30-03-2020.pdf

 

https://www.fondazioneluigieinaudi.it/wp-content/uploads/2020/08/verbale-completo-CTS-n-49-del-09-04-2020.pdf, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20200807150947/https://www.fondazioneluigieinaudi.it/wp-content/uploads/2020/08/verbale-completo-CTS-n-49-del-09-04-2020.pdf

 

 Cthulhu – R’lyeh, A.D. MMXX, post Midsummer Night’s Dream

i successi di Giuseppi, il loro lato oscuro commentati dal professor Augusto Sinagra

Giuseppe Conte non fa che declamare i propri successi. In uno stato di stallo continua comunque a protrarre il proprio insediamento. L’orizzonte pare incerto quanto fosco_Giuseppe Germinario

Libro – Il Medio Oriente in fase di ristrutturazione (5/5) Volume 5: dall’Iraq alla Libia, l’instabilità si diffonde_ di Eugène Berg

Sappiamo che il Medio Oriente, in uno spazio relativamente piccolo, concentra un massimo di domande di natura geopolitica, antagonismi multipli, nonché questioni politiche, religiose, economiche, sociali e culturali. Nessuno spazio al mondo come quello tra il Mediterraneo, il Mar Nero, il Mar Caspio, il Mar Rosso e il Mar Arabico ha così tante guerre, conflitti, scontri e sconvolgimenti. Da qui il grande interesse che si lega all’opera monumentale di Gérard Fellous dedicata alla regione del Medio Oriente, a differenza di qualsiasi altra.

A giudicare da cinque volumi, in oltre 2.500 pagine ampie e ben documentate che coprono tutti i paesi, tutte le domande relative a questa vitale area geopolitica alla confluenza di tre continenti.

Gérard Fellous ha seguito nella sua carriera giornalistica le evoluzioni geopolitiche dei paesi del Medio e del Medio Oriente, alla guida di un’agenzia di stampa internazionale. Esperto per le Nazioni Unite, l’Unione europea, il Consiglio d’Europa per i diritti umani e l’Organizzazione internazionale della Francofonia, è stato consultato da numerosi paesi arabo-musulmani. Il segretario generale della Commissione consultiva nazionale per i diritti umani (CNCDH) a nove primi ministri francesi, tra il 1986 e il 2007, ha trattato, in simbiosi con la società civile, le questioni della società sottoposte alla Repubblica.

Senza essere in grado di darne una spiegazione nella sua totalità, prendiamo in considerazione gli elementi essenziali, esaminando i cinque volumi, che costituiscono altrettanti punti di riferimento essenziali.

Volume 5: dall’Iraq alla Libia, l’instabilità si diffonde

Qualsiasi analisi geopolitica del Medio Oriente negli anni 2000 dovrebbe essere preceduta da un interrogatorio sulle cause del fallimento dell’ondata della “Primavera araba” che si è conclusa nel caos politico generalizzato. Divenne presto chiaro che la democrazia la cui nascita o rinascita si riteneva spontanea, vale a dire immediata sulle ceneri di dittature vacillanti, non poteva sociologicamente mettere radici in questa regione che non aveva basi politiche. ricezione. Già nel 1962, lo storico Ernest Renan vide nell’Oriente musulmano un “islamismo (che) si sta lentamente abbattendo; al giorno d’oggi si sgretola con un crollo (…) perché l’islamismo può esistere solo come religione ufficiale; quando si riduce allo stato di una religione libera e individuale, perirà. L’islamismo non è solo una religione di stato …) è la religione che esclude lo stato. “Proiettandosi nella visione di uno scienziato sul futuro del mondo arabo-musulmano, scrisse:” L’Oriente … non ha mai conosciuto una via di mezzo tra l’anarchia completa degli arabi nomadi e il dispotismo sanguinario e senza compensi. L’idea del bene pubblico, del bene pubblico, è totalmente carente. All’alba del 21 ° secolo, in campo economico, c’era confusione tra democrazia e selvaggio liberalismo, alla maniera dei ragazzi di Chicago, in un momento di crisi durante il quale il Medio Oriente iniziò a impoverirsi dopo aver perso il suo status esclusivo di riserva energetica globale. “L’Oriente … non ha mai conosciuto una via di mezzo tra l’anarchia completa degli arabi nomadi e il dispotismo assetato di sangue e senza compenso. L’idea del bene pubblico, del bene pubblico, è totalmente carente. All’alba del 21 ° secolo, in campo economico, c’era confusione tra democrazia e selvaggio liberalismo, alla maniera dei ragazzi di Chicago, in un momento di crisi durante il quale il Medio Oriente iniziò a impoverirsi dopo aver perso il suo status esclusivo di riserva energetica globale. “L’Oriente … non ha mai conosciuto una via di mezzo tra l’anarchia completa degli arabi nomadi e il dispotismo assetato di sangue e senza compenso. L’idea del bene pubblico, del bene pubblico, è totalmente carente. All’alba del 21 ° secolo, in campo economico, c’era confusione tra democrazia e selvaggio liberalismo, alla maniera dei ragazzi di Chicago, in un momento di crisi durante il quale il Medio Oriente iniziò a impoverirsi dopo aver perso il suo status esclusivo di riserva energetica globale.

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Le “Rivoluzioni arabe” furono effimere, anche tra le popolazioni più impegnate, come in Tunisia. Il “Nuovo Medio Oriente”, che era già stato progettato da George Bush, Jr. durante il suo intervento in Iraq (aprile 2003), ancora una volta tanto atteso è diventato un immenso caos violento e l’intera regione è entrò in un periodo geopolitico di “barbarie”. La distruzione dell’Iraq non è senza ragione. In Occidente, leggere l’evolversi del Medio Oriente nella continuità dei modelli di decolonizzazione è stato un errore di prospettiva secondo l’autore. Non solo il Medio Oriente musulmano è stato impermeabile alla democrazia che l’Occidente postcoloniale credeva di poter stabilire sulla scia dell’indipendenza nazionale, ma in realtà questa regione è oggi segnata da un ritorno al tribalismo, al clanismo e ad una “guerra” di essenza religiosa. Il futuro di molti paesi della regione era difficile da prevedere entro il 2018.

La “primavera araba”, tutt’altro che un’ondata di democrazia

L’Occidente avrebbe fatto un malinteso interpretando l’avvento della “primavera araba” come un’onda democratica che avrebbe attraversato il mondo orientale. Non è bastato abbattere i despoti siriani iracheni, libici, tunisini o egiziani in modo che, in modo schiacciante, come i fiori di primavera, la democrazia attecchisca trionfalmente sul terreno del “diritto all’autodeterminazione”. “. Le fenditure sociali e confessionali separano gli oppositori dai sostenitori del regime e, man mano che i conflitti insorgono, con la loro violenza conseguente, le solidarietà comunitarie hanno avuto la precedenza sulle questioni sociali e politiche. “

Il mese di settembre 2012 segna un cambio di stagione, passando bruscamente da una “primavera araba” a un “inverno islamico” in Tunisia, Egitto, Libia e altrove nel mondo arabo-musulmano. Questa glaciazione comportava un triplo pericolo. Legittimare i rami più estremisti dell’Islam, come il salafismo wahhabita. La violenza della strada araba, con l’assassinio dell’ambasciatore americano in Libia, la distruzione di premesse diplomatiche in diverse capitali e fino alla comparsa, il 15 settembre 2012, nel cuore di Parigi, di alcune donne interamente velati di nero e con una preghiera di strada, erano opera dei salafiti.

Accreditare l’idea di un “complotto” occidentale contro l’Islam. La regione trovò difficile ammettere che le difficoltà economiche e finanziarie in cui erano precipitate le “rivoluzioni” e le popolazioni liberate erano le uniche responsabili delle dittature da cui si erano liberate. Gli oppositori di questa “primavera araba”, vale a dire le vecchie classi dirigenti, immediatamente designarono come capro espiatorio il potere americano, accusato di essere all’origine di tutti i mali di un mondo profondamente arabo. Diviso. Da parte sua, Hassan Nasrallah, capo dell’alleato sunnita di Hezbollah dell’Iran sciita, ha sollevato la tensione nella via libanese, il giorno dopo la massiccia mobilitazione popolare cristiana durante la visita ufficiale di Papa Benedetto XVI a Beirut.. Avanzamento dell’opinione pubblica nella regione e oltre nel mondo occidentale, il concetto di “blasfemia”, con l’obiettivo di frenare la libertà di espressione e di opinione.

Il peso delle maggiori potenze

Tuttavia, il peso delle maggiori potenze nella regione: Iran, Arabia Saudita, Turchia si farà sentire a lungo su tutta la regione. Il regime teocratico di Teheran continuerà a sostenere i suoi sostenitori in Siria e Iraq, e utilizzerà le sue “armi armate”, tra cui gli Hezbollah libanesi, per espandere la sua influenza regionale. Così il suo leader Nasrallah, aveva annunciato ufficialmente il coinvolgimento militare dei suoi combattenti nei quattro angoli della regione mentre ritirava le sue armi pesanti nelle sue roccaforti in Libano, al fine, al momento opportuno, di integrarsi nella vita politica regionale e di riattivare le diversioni in altre aree di conflitto, come contro Israele, al fine di riunire il mondo arabo musulmano, attorno al nucleo duro delle comunità sciite. Ex presidente Barak Obama, dopo aver sperato di ottenere una sospensione dell’opzione militare nucleare iraniana e aver promesso che la pressione diplomatica ed economica su Teheran potesse essere allentata, fece una scommessa rischiosa che il suo successore Donald Trump non voleva correre il rischio, quando si è allineato con il sunnita Umma guidato da MBS. La Turchia è diventata un elemento destabilizzante rivendicando una posizione di leader sunnita regionale. Siamo sempre più riluttanti a fidarci di un regime islamico conservatore diviso tra impegni nei confronti della NATO, cooperazione “con il Cremlino o piani falliti di accoppiamento con l’Unione europea. stava facendo una scommessa rischiosa sul fatto che il suo successore Donald Trump non volesse correre il rischio, quando si è allineato con la Sunni Umma guidata dall’Arabia Saudita di MBS. La Turchia è diventata un elemento destabilizzante rivendicando una posizione di leader sunnita regionale. Siamo sempre più riluttanti a fidarci di un regime islamico conservatore diviso tra impegni nei confronti della NATO, cooperazione “con il Cremlino o piani falliti di accoppiamento con l’Unione europea. stava facendo una scommessa rischiosa di cui il suo successore Donald Trump non voleva correre il rischio, quando si è allineato con la Sunni Umma guidata dall’Arabia Saudita di MBS. La Turchia è diventata un elemento destabilizzante rivendicando una posizione di leader sunnita regionale. Siamo sempre più riluttanti a fidarci di un regime islamico conservatore diviso tra impegni nei confronti della NATO, cooperazione “con il Cremlino o piani falliti di accoppiamento con l’Unione europea.

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Molti altri paesi stanno attraversando momenti difficili. Il Libano trattiene il fiato, evitando qualsiasi provocazione, mentre si è dotato di un presidente cristiano e di un governo sotto il dominio degli sciiti e sotto il peso politico di Hezbollah più che mai all’avvio del Iran. Infine, va in “bancarotta” finanziaria sotto le pressioni del suo sistema bancario egemonico.

All’inizio del 21 ° secolo, i paesi del Mashreq e del Maghreb possono essere classificati in cinque categorie: – quelli in cui Iran e Arabia Saudita si confrontano direttamente, come in Iraq e Yemen; Territori profondamente squilibrati, come il Libano e la Palestina ; – I paesi sunniti che entrano nel nuovo secolo, come quelli del Golfo, dell’Egitto o della Giordania. – i paesi del Maghreb che, per la prima volta, si trovano ad affrontare tensioni frontali in Medio Oriente, in particolare in Libia, ma anche in Tunisia e Algeria, dove gli islamisti pesano ogni giorno di più; – Con un nuovo caso, quello di Israele, che allo stesso tempo sta stringendo legami sempre più stretti con i paesi sunniti e affrontando gli attacchi multipli e diversificati dall’Iran.

Quali istituti di mediazione o di pacificazione possono essere mobilitati in queste circostanze? Il Gulf Cooperation Council – GCC, creato nel 1981, composto da Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar è bloccato a causa della disputa tra Arabia Saudita e Qatar scoppiata nel giugno 2017 Non possiamo dire che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump che abbia designato l’Iran e Daesh come il nuovo “asse del male”. “E ha insistito su” l’importanza di fermare il finanziamento del terrorismo “, un obiettivo” primordiale “, necessario per” screditare l’ideologia estremista “. Ha elaborato un piano generale per sollevare la regione dal caos. Sottovalutando la profondità dello shock sunnita-sciita e sottostimando gli sviluppi nella regione, il presidente americano ha risvegliato antagonismi regionali ancestrali e virulenti. Aveva contribuito allo scoppio della crisi diplomatica che ha destabilizzato i paesi del Golfo. QATAR in panchina. Riyadh ha immediatamente proclamato che “il Qatar accoglie favorevolmente vari gruppi terroristici a destabilizzare la regione, come la Fratellanza dei Fratelli Musulmani, lo Stato Islamico (Daesh) e Al Qaeda. Il 5 giugno 2017, l’Arabia Saudita, il Bahrain e gli Emirati Arabi Uniti hanno messo il Qatar in panchina nell’Umma sunnita. Questi paesi hanno espresso una linea particolarmente ostile all’Iran, accusato di approfittare delle crisi in Siria e Yemen per interferire nei paesi arabi sunniti. Ma il Qatar, il Kuwait e l’Oman hanno assunto posizioni più sfumate, cercando di non tagliare tutti i legami con il mondo sciita. Aveva contribuito allo scoppio della crisi diplomatica che ha destabilizzato i paesi del Golfo. QATAR in panchina. Riyadh ha immediatamente proclamato che “il Qatar accoglie favorevolmente vari gruppi terroristici a destabilizzare la regione, come la Fratellanza dei Fratelli Musulmani, lo Stato Islamico (Daesh) e Al Qaeda. Il 5 giugno 2017, l’Arabia Saudita, il Bahrain e gli Emirati Arabi Uniti hanno messo il Qatar in panchina nell’Umma sunnita. Questi paesi hanno espresso una linea particolarmente ostile all’Iran, accusato di approfittare delle crisi in Siria e Yemen per interferire nei paesi arabi sunniti. Ma il Qatar, il Kuwait e l’Oman hanno assunto posizioni più sfumate, cercando di non tagliare tutti i legami con il mondo sciita. Aveva contribuito allo scoppio della crisi diplomatica che ha destabilizzato i paesi del Golfo. QATAR in panchina. Riyadh ha immediatamente proclamato che “il Qatar accoglie favorevolmente vari gruppi terroristici a destabilizzare la regione, come la Fratellanza dei Fratelli Musulmani, lo Stato Islamico (Daesh) e Al Qaeda. Il 5 giugno 2017, l’Arabia Saudita, il Bahrain e gli Emirati Arabi Uniti hanno messo il Qatar in panchina nell’Umma sunnita. Questi paesi hanno espresso una linea particolarmente ostile all’Iran, accusato di approfittare delle crisi in Siria e Yemen per interferire nei paesi arabi sunniti. Ma il Qatar, il Kuwait e l’Oman hanno assunto posizioni più sfumate, cercando di non tagliare tutti i legami con il mondo sciita. Riyadh ha immediatamente proclamato che “il Qatar accoglie favorevolmente vari gruppi terroristici a destabilizzare la regione, come la Fratellanza dei Fratelli Musulmani, lo Stato Islamico (Daesh) e Al Qaeda. Il 5 giugno 2017, l’Arabia Saudita, il Bahrain e gli Emirati Arabi Uniti hanno messo il Qatar in panchina nell’Umma sunnita. Questi paesi hanno espresso una linea particolarmente ostile all’Iran, accusato di approfittare delle crisi in Siria e Yemen per interferire nei paesi arabi sunniti. Ma il Qatar, il Kuwait e l’Oman hanno assunto posizioni più sfumate, cercando di non tagliare tutti i legami con il mondo sciita. Riyadh ha immediatamente proclamato che “il Qatar accoglie favorevolmente vari gruppi terroristici a destabilizzare la regione, come la Fratellanza dei Fratelli Musulmani, lo Stato Islamico (Daesh) e Al Qaeda. Il 5 giugno 2017, l’Arabia Saudita, il Bahrain e gli Emirati Arabi Uniti hanno messo il Qatar in panchina nell’Umma sunnita. Questi paesi hanno espresso una linea particolarmente ostile all’Iran, accusato di approfittare delle crisi in Siria e Yemen per interferire nei paesi arabi sunniti. Ma il Qatar, il Kuwait e l’Oman hanno assunto posizioni più sfumate, cercando di non tagliare tutti i legami con il mondo sciita. Questi paesi hanno espresso una linea particolarmente ostile all’Iran, accusato di approfittare delle crisi in Siria e Yemen per interferire nei paesi arabi sunniti. Ma il Qatar, il Kuwait e l’Oman hanno assunto posizioni più sfumate, cercando di non tagliare tutti i legami con il mondo sciita. Questi paesi hanno espresso una linea particolarmente ostile all’Iran, accusato di approfittare delle crisi in Siria e Yemen per interferire nei paesi arabi sunniti. Ma il Qatar, il Kuwait e l’Oman hanno assunto posizioni più sfumate, cercando di non tagliare tutti i legami con il mondo sciita.

E il coronavirus in tutto questo?

Alla fine del suo quinto volume, Gérard Fellous, studia in profondità il modo in cui il coronavirus colpisce i paesi della regione in cui le carte vengono rimescolate. La regione non era preparata ad affrontare questa “bomba a orologeria” costituita dall’impatto economico che ha colpito, in modo molto diseguale, tutti i paesi del pianeta. Le forti tensioni politiche e militari hanno complicato, più che altrove, le prospettive di cooperazione tra Stati per sopravvivere alla destabilizzazione della salute. Le conseguenze economiche della pandemia si sono aggiunte alle altre tensioni per mettere in pericolo la sopravvivenza di alcuni Stati o almeno la stabilità già scossa del tutto. La situazione è stata aggravata dai continui handicap che sono stati, per decenni, le carenze e l’incompetenza degli Stati che non hanno riserve finanziarie per alcuni, né dirigenti formati, organizzazioni amministrative o ricercatori scientifici per affrontare questa nuova sfida sanitaria. .

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Le economie di molti paesi della regione sono o “economie di guerra” come in Siria o Yemen, o alla fine della loro corda, come in Iraq, Giordania o Egitto, o fallite come in Libano o Iran. Rimasero le petromonarchie del Golfo le cui risorse finanziarie e riserve di petrolio le proteggevano dal collasso ma che, nella maggior parte dei casi, potevano perdere la fiducia dei loro partner economici internazionali e quella delle popolazioni di origine straniera. molti che non supportano la gestione opaca di questi paesi. La credibilità economica e finanziaria di tutti i leader della regione era di nuovo caduta di livello dopo le smentite e i travestimenti delle realtà della pandemia. Un’altra conseguenza del deterioramento delle economie dei paesi arabi della regione,

Il debito estero della maggior parte di questi paesi è fissato in dollari e le valute nazionali perdono valore, i rimborsi di questi governi sono aumentati in modo esponenziale, causando drastici tagli ai bilanci nazionali. L’accesso limitato e condizionato di questi paesi ai mercati finanziari ha solo peggiorato la situazione dei loro disavanzi. Questi paesi non sono in grado di ridurre i loro debiti, diverse centinaia di milioni di persone si uniranno ai ranghi dei più poveri del pianeta, secondo la Banca mondiale. Ha quindi chiesto una moratoria sul debito, in modo che questi paesi possano liberare le proprie risorse per affrontare le loro difficoltà economiche. L’influenza del Coronavirus potrebbe ristagnare più a lungo nei paesi più poveri, quindi migrare tra gli emisferi meridionali e settentrionali

https://www.revueconflits.com/livre-moyen-orient-restructuration-irak-libye-instabilite-printemps-arabe-eugene-berg/

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