PER UNA AUTONOMIA NAZIONALE, a cura di Luigi Longo

PER UNA AUTONOMIA NAZIONALE BISOGNA ROMPERE LA SERVITÙ VOLONTARIA VERSO GLI STATI UNITI D’AMERICA

a cura di Luigi Longo

Propongo la lettura dello scritto Conflitti tra stati e autonomia nazionale. Perchè? di Gianfranco La Grassa apparso su www.conflittiestrategie.it il 12/11/2021.

Premetto che riprenderò il costruendo paradigma del conflitto strategico di Gianfranco La Grassa in un altro scritto complessivo e sistematico. Il conflitto strategico, visto in una logica multidisciplinare, rappresenta una lettura approfondita, originale ed altra della conoscenza, dell’interpretazione e della progettualità della coda della realtà. E’ chiaro che occorre avere acutezza nell’individuare il sapere che illumina e avvolge gli altri saperi assumendo a base dell’analisi i rapporti sociali reali e il loro sistematico insieme nazionale e mondiale, soprattutto in questo periodo di decisivo sviluppo della fase multicentrica che la cesura storica della guerra batteriologica da Covid-19 ha accelerato. Il conflitto strategico apre nuove strade teoriche e pratiche.

Vengo, ora, allo scritto proposto. E’ una riflessione stimolante che inizia a fare chiarezza sulle seguenti questioni principali: 1) la distinzione tra lo stato (gli strumenti degli agenti strategici dominanti articolati sull’intero territorio nazionale, la robusta catena di fortezza e di casematte di Antonio Gramsci) e la nazione (il territorio della comunità con la sua storia, il suo rapporto sociale, la sua cultura, la sua lingua, il suo paesaggio, il suo costume, la sua natura, eccetera); 2) il conflitto tra gli agenti strategici delle varie nazioni europee non si gioca intorno ad una idea di sviluppo autonomo dell’Europa (qualunque sia la forma dello stare insieme che le diverse nazioni si vorranno dare) ma si consuma nella corsa di posizione privilegiata verso la servitù statunitense. Preciso che divido gli agenti strategici in: quelli che pensano le strategie, quelli che gestiscono le strategie e quelli che eseguono le strategie; 3) la necessità di rompere con la servitù volontaria verso gli USA (potenza dominante in declino che è per un mondo monocentrico a sua immagine e somiglianza) e la possibilità della costruzione di relazioni con l’Oriente (Russia e Cina, potenze in ascesa che sono per un mondo multicentrico); 4) l’autonomia nazionale per la costruzione di un modello di sviluppo che renda possibile stabilire nuove relazioni interne e mondiali a partire da una nuova idea di Europa (bisogna andare oltre il progetto statunitense dell’Unione Europea che è sempre più sostituito dalla nuova NATO come strumento degli Usa nel conflitto strategico della fase multicentrica); 5) le riflessioni critiche dell’esperienza rivoluzionaria del secolo scorso (soprattutto quella russa e quella cinese) e sul tipo di società che sono diventate oggi (a prescindere dall’eterogenesi dei fini che è un concetto a me poco simpatico) che nulla hanno a che fare né con il socialismo né tantomeno con il comunismo; 6) il conflitto per scalzare gli agenti strategici esecutori e servili (per esempio, Mario Draghi è un esecutore e per questo è un pericolo per gli interessi nazionali con le sue articolazioni sociali: la sua storia a partire dagli anni Novanta del secolo scorso è illuminante per le funzioni svolte) per costruire una vera autonomia nazionale in grado di guardare a Oriente per il consolidamento della fase multicentrica (nell’attesa della costruzione di una Europa in grado di essere un soggetto politico autonomo capace di costruire relazioni altre nel rispetto della diversità tra l’Occidente e l’Oriente?); 7) lo stabilizzarsi della fase multicentrica aprirebbe il conflitto all’interno delle singole potenze per la messa in discussione delle relazioni di potere e di dominio che dominano i rapporti sociali, storicamente determinati, a vantaggio di una esigua minoranza delle popolazioni.

Credo che si possa ragionevolmente affermare che la questione fondamentale si sposta nella Politica, intesa come azioni strategiche per l’acquisizione del potere e del dominio nel senso che il potere degli agenti strategici delle diverse sfere sociali (economica, politica, culturale, eccetera) si indirizza, nel conflitto, verso la costruzione di un blocco egemone per il dominio dell’intera società. Tale dominio non è mai definitivo ma temporalmente dinamico proprio a causa del continuo e ineliminabile conflitto per conquistare il potere e il dominio sociale (rimanendo nell’ambito dell’ordine simbolico maschile). E’ nel suddetto blocco egemone che si gioca l’egemonia degli agenti strategici espressione della potenza di fuoco rappresentata simbolicamente dal denaro accumulato con tutti i mezzi legali e illegali (Vincenzo Ruggiero). Le relazioni nelle diverse sfere sociali hanno un comune denominatore che è dato dal rapporto di potere che nelle diverse sfere (economica, politica, eccetera) si configura in maniera diversa tra chi ha gli strumenti (che variano da fase a fase della storia umana sessuata) per conquistare il potere (la minoranza) e chi non ha niente (la maggioranza).

Chi si deve far carico, nel breve-medio-lungo periodo, di queste questioni: una forza nuova, un nuovo principe sessuato o altro?

L’importante è non scordare la lezione attuale di Karl Marx quando afferma: << È né più né meno che un inganno sobillare il popolo senza offrirgli nessun fondamento solido e meditato per la sua azione. Risvegliare speranze fantastiche […] lungi dal favorire la salvezza di coloro che soffrono, porterebbe inevitabilmente alla loro rovina: rivolgersi ai lavoratori senza possedere idee rigorosamente scientifiche e teorie ben concrete (corsivo mio, LL) significa giocare in modo vuoto e incosciente con la propaganda, creando una situazione in cui da un lato un apostolo predica, dall’altro un gregge di somari lo sta a sentire a bocca aperta: apostoli assurdi e assurdi discepoli.

In un paese civilizzato non si può realizzare nulla senza teorie ben solide e concrete; e finora, infatti, nulla è stato realizzato se non fracasso ed esplosioni improvvise e dannose, se non iniziative che condurranno alla completa rovina la causa per la quale ci battiamo. L’ignoranza non ha mai giovato a nessuno! (Hans Magnus Enzensberger, a cura di, Colloqui con Marx e Engels, Einaudi, Torino, 1977, pag. 53).

CONFLITTI TRA STATI E AUTONOMIANAZIONALE. PERCHE’?

di Gianfranco La Grassa

1. Tratto normalmente Stato, paese o anche nazione quasi si trattasse di sinonimi. So che non è così, ma per quanto riguarda quanto devo dire in merito al problema dell’autonomia nazionale, credo si capisca comunque il discorso. Ammetto di non sapere mai con precisione che cosa debbo intendere con la parola Stato. Mi sembra che se ne parli sempre in modo metafisico o quasi; e in ogni caso come ci si riferisse ad un vero e proprio soggetto, di cui si possa disquisire quasi avesse volontà, desideri, intendimenti, finalità, ecc. propri, esattamente come quando si parla di un singolo individuo umano o di un determinato gruppo sociale, insieme di individui espletanti funzioni specifiche o che assuma decisioni in comune. Diciamo pure che per Stato si potrebbe intendere un grande raggruppamento di individui, in genere con ben preciso insediamento territoriale definito da confini, spesso (ma non sempre) unito da una sola lingua, che accetta un dato complesso di regole di comportamento fissate da leggi e il cui non rispetto viene sanzionato mediante un sistema di perseguimenti e di punizioni posto in atto da organi unanimemente accettati nel loro funzionamento a tali fini.

Preferirei tuttavia che si specificasse meglio il complesso, strutturato, di apparati che costituisce quello che chiamiamo Stato, sia nell’esercizio dei compiti relativi all’intero territorio posto sotto la sua potestà sia in quello decentrato nelle diverse parti in cui è suddiviso quest’ultimo. In particolare, darei la massima rilevanza a quegli apparati addetti all’esercizio della Politica, intesa quale insieme organico di mosse – che possiamo definire strategia – compiute per raggiungere determinate finalità all’interno di un dato paese così come all’esterno d’esso, nei confronti degli altri paesi. Un conto è quella che potremmo definire l’amministrazione di determinati affari riguardanti il coordinamento d’insieme di una data comunità territoriale (suddivisa in diversi gruppi sociali); un altro è il vero potere di esplicare la Politica diretta all’interno o all’esterno di quel paese. Il controllo degli apparati dotati di tale potere è il vero oggetto della lotta che si svolge tra diverse associazioni di individui (partiti o altri organismi di vario genere).

Di questi apparati (di potere) si dovrebbe soprattutto discettare per meglio definire i compiti che si pone chi intende perseguire l’autonomia del proprio paese. In questi ultimi anni si era diffusa una particolare concezione, che tuttavia mi sembra oggi un po’ in decadenza. Si sosteneva la fine della funzione degli Stati nazionali. Con ciò s’intendeva sostenere precisamente che quegli apparati di potere (interno ed esterno), di cui ho appena detto, non avevano più alcun reale compito in quanto ormai il potere in questione spetterebbe ad organismi sovranazionali, in particolare di carattere finanziario; vere massonerie che ormai comanderebbero in tutto il mondo o quasi. A tali organismi dovrebbero ribellarsi tutti i cittadini (le “moltitudini”), senza più distinzione di questo o quel paese (di tutto il mondo appunto). Tale tesi, che sembra voler essere una sorta di versione aggiornata e moderna dell’antico “internazionalismo proletario” (essa è in genere propagandata da vecchi arnesi della pseudo rivoluzione sessantottarda e sue propaggini ulteriori), mira di fatto a salvaguardare il potere di quei gruppi che, all’interno di ogni paese, controllano gli apparati statali in questione (sia rivolto all’interno che verso l’estero). I “vecchi arnesi” sono ormai parte integrante, e subordinata, dei gruppi dominanti.

In realtà, in ogni paese (o nazione, se si preferisce) vi sono gruppi dominanti dotati di potere (decisionale), che controllano gli apparati statali di cui stiamo parlando; questi sono costantemente in funzione, per nulla superati e riposti in un qualche museo. Il problema è diverso. Esistono complessi (e spesso ben mascherati) legami internazionali tra i vari gruppi decisionali nei diversi paesi. E tali legami assicurano a quelli attivi nei paesi preminenti – oggi sopra tutti stanno gli Stati Uniti – un particolare potere di “influsso” (chiamiamolo così) sui gruppi decisionali di paesi che si pongono in una determinata filiera di potere via via discendente; per cui abbiamo gruppi che potremmo definire subdominanti, subsubdominanti, ecc. fino a quelli via via sempre più subordinati. I gruppi di potere nei vari paesi, anche i più subordinati, hanno pur sempre capacità decisionali nell’ambito degli apparati statali appositamente addetti alla Politica, alla strategia, alle mosse da compiere per giungere a certe finalità interne ed esterne. Semplicemente, i loro poteri decisionali si subordinano a quelli dei gruppi dominanti di altri paesi, secondo una gerarchia che muta di fase storica in fase storica; e ha gradazioni differenti anche nell’ambito di ognuna di queste fasi.

Tanto per fare un “banale” esempio, i gruppi decisori italiani sono sempre stati subordinati a quelli statunitensi dalla fine della seconda guerra mondiale. E oggi siamo sempre in quella fase storica iniziata nel 1945, in cui sono stati creati vari organismi per sanzionare la supremazia Usa, fra cui la NATO e poi le varie organizzazioni intereuropee, fino a questa indecorosa UE. Tuttavia, il grado di subordinazione dei gruppi decisori italiani ha avuto un netto scatto in crescita con la fine della prima Repubblica, con la sporca operazione di falsa “giustizia” denominata “mani pulite” e tutto ciò che ne è seguito. E oggi appare in ulteriore continuo accrescimento.

Bene, una volta chiarito questo punto, e dichiarata pura mistificazione la tesi della fine degli Stati nazionali, passerò ad un altro ordine di considerazioni. In effetti, la nostra attuale attenzione ai problemi dell’autonomia nazionale potrebbe sembrare un semplice cambiamento di impostazione teorica. In quanto marxisti, eravamo interessati un tempo alla lotta di classe e al problema dell’abbattimento e trasformazione della società capitalistica; ci siamo oggi innamorati della geopolitica, dell’interazione tra Stati? Oppure siamo stati folgorati da una visione nazionalistica e quindi abbandoniamo ogni discorso di conflitto (in verticale) tra classi per abbracciare quello (in orizzontale) tra comunità nazionali? Non è affatto questa la nostra effettiva posizione.

2. Personalmente, continuo a ritenere importante, in linea di principio, la struttura dei rapporti sociali (rapporti tra diversi gruppi in cui è suddivisa la società). Proprio per questo, malgrado la mia critica non marginale al marxismo, continuo tuttavia ad avere grande attenzione per tale teoria della società. E, sempre in linea di principio, la ritengo più avanzata rispetto all’individualismo tipico delle teorie liberali. Tuttavia, in Marx è fondamentale, nella costituzione di società, la sfera produttiva. In una sua lettera a Kugelman (mi sembra del 1864) si afferma che anche i bambini sanno che, se non si producesse nulla per un breve periodo di tempo, ogni società verrebbe a dissolversi. E’ quindi logico che i rapporti sociali per questo pensatore decisivi sono quelli di produzione. E simili rapporti si annodano intorno al problema della proprietà (potere effettivo di disposizione) o meno dei mezzi produttivi. In base a quest’ultima, Marx distinse, nella società capitalistica, la classe borghese (i proprietari) e quella proletaria (o operaia) solo in possesso della propria capacità lavorativa da vendere in qualità di merce come ogni altro bene circolante nella società in questione. Da qui – corro perché ho scritto in proposito ormai centinaia di pagine – deriva l’ipotesi della dinamica capitalistica che avrebbe condotto infine ad una borghesia assenteista rispetto alla direzione dei processi produttivi, mentre in questa sfera sociale si sarebbe andato consolidando un corpo di produttori associati; dal massimo gradino dirigente fino all’ultimo di carattere esecutivo. Già nel grembo del capitalismo, quindi, si sarebbe formata la condizione base della nuova società socialista, primo gradino di quella comunista.

Nulla di tutto questo si è storicamente verificato; in nessuna delle società a capitalismo avanzato si è mai andato costituendo il “lavoratore collettivo cooperativo” (i produttori associati) così come previsto da Marx. E, soprattutto, le rivoluzioni più radicali si sono avute in società a prevalenza contadina e non operaia. Il cosiddetto socialismo del XX secolo – o quanto meno la “costruzione” (solo presunta purtroppo) dello stesso – si è rivelato essere una società estremamente verticistica, in cui la sfera produttiva era completamente sottomessa alla direzione di quella degli apparati del potere strettamente politico. Non intendo qui diffondermi su che cosa è stata questa particolare formazione sociale venuta a crearsi con le rivoluzioni guidate da partiti comunisti in paesi sostanzialmente precapitalistici. Mi sembra comunque evidente che non si è creata alcuna società socialista nel senso marxiano del termine. Lascio perdere i tentativi di diffondere l’idea (del resto tarda, ultimo sbiadito tentativo di difendere l’indifendibile) che si trattava di un “socialismo di mercato” (questa la definizione data della Cina odierna da alcuni “ritardati”).

Di fronte al fallimento storico di un movimento rivoluzionario guidato da una specifica teoria – del resto ormai molto modificata rispetto all’originale e ridotta a pura agitazione di tipo ideologico con presa sempre minore fino al suo azzeramento – ho proposto già da tempo l’abbandono del principio guida della proprietà o meno dei mezzi produttivi, andando invece nella direzione della Politica intesa appunto quale conflitto tra le strategie di più gruppi sociali in cerca di una supremazia nel controllo dei vari apparati funzionanti nelle diverse sfere sociali: produttiva, politica, ideologico-culturale. Credo che questo mutamento abbia effetti abbastanza positivi nella considerazione realistica delle lotte sociali sussistenti all’interno della società in cui viviamo; anche perché fa vedere come gli “attori” in conflitto non siano, prevalentemente, quelli attivi nella sfera produttiva, ma vi siano invece svariati rapporti, e spesso piuttosto stretti, tra agenti in opera nelle diverse sfere per la conquista di una supremazia sociale complessiva. Tuttavia, è ovvio che la teoria del conflitto tra strategie non consente alcuna divisione netta tra le classi in lotta, riducendole a due soltanto. E non pone in luce alcuna dinamica, intrinseca all’attuale formazione sociale di tipologia capitalistica, diretta alla sua trasformazione in altra nettamente differente che possa pensarsi quale fase di transizione ad una qualsiasi forma di socialismo o comunismo.

I gruppi sociali, insomma, non possono essere definiti classi nel senso in cui queste erano intese nel marxismo in base al criterio, rivelatosi piuttosto semplicistico, della proprietà o meno dei mezzi produttivi. Inoltre, tali gruppi non possono mai ridursi a due; a meno che il conflitto diventi tanto acuto da spingere vari gruppi ad allearsi tra loro in modo che, alla fine, si trovano a confrontarsi due schieramenti contrapposti, che non saranno mai comunque due classi in lotta, ma due coacervi di gruppi riunitisi per le concrete esigenze “di combattimento” in quella particolare fase storica e in quella determinata formazione sociale, in cui si è prodotto un contrasto così netto e ormai irrisolvibile con semplici mediazioni. Vi è di più. Si possono verificare – per contingenze non riconducibili all’intenzione consapevole di trasformare quella data formazione sociale in un’altra considerata superiore – dei cosiddetti “sollevamenti di masse”, causati dal malcontento e disagio sociale particolarmente acuti, in genere susseguenti all’incapacità ormai manifesta di coloro, che hanno in mano gli apparati del potere, di saperli gestire in modo minimamente appropriato ai bisogni complessivi di quella società. Questi sollevamenti non produrranno mai effetti stabili e di reale trasformazione, se nel loro ambito non agiscono dati nuclei dirigenti dei “malcontenti”, che possono allearsi, in genere solo temporaneamente, per dare risposta alla gravità della crisi provocata dalla suddetta incapacità dei vecchi nuclei al potere.

In ogni caso, sia se si producono, abbastanza raramente, situazioni così estreme sia se ci si trova in una situazione di più “normale” e non sconvolgente conflitto tra strategie per ottenere la supremazia (in base ad esigenze di lungo periodo o invece per risolvere problemi di portata momentanea e d’ambito ristretto), non si è in presenza del semplificato scontro tra dominanti e dominati di cui troppo spesso si blatera. In un certo senso esiste un confronto, più o meno serrato, tra gruppi sociali con maggiori o minori (in certi casi magari nulle) prerogative decisionali. Tuttavia, nel reale conflitto, sempre condotto in base alla Politica (cioè secondo varie linee strategiche), si enucleano alcune élites dirigenti, che tendono a rappresentare più gruppi sociali. E anche quando si tratti di gruppi formati principalmente da “non decisori”, le loro dirigenze partecipano comunque, con maggiore o minore forza, alle decisioni sociali di maggiore portata. Esempio tipico ne è la lotta sindacale. I nuclei dirigenti di quei gruppi situati alla base della piramide sociale (i cosiddetti ceti lavoratori) non sono certo privi di qualsiasi potere decisionale in merito a questioni interessanti l’intera collettività di quel dato paese.

3. Giungiamo adesso al problema centrale che ci interessa. E che ci interessa – almeno per quanto mi riguarda e riguarda, credo, anche coloro che con me hanno dato vita a “Conflitti e Strategie” – proprio in quanto abbiamo dovuto prendere atto del fallimento delle finalità poste al movimento delle cosiddette “masse popolari” da una data concezione dello sviluppo sociale, quella concezione che è appunto il marxismo. Si è dovuto prendere atto che non c’è stata finora alcuna effettiva possibilità di evoluzione dell’attuale società verso strutture di rapporti da definire oltre-capitalistiche. Quello che abbiamo sempre chiamato capitalismo (e così continuiamo a denominarlo) si è andato indubbiamente trasformando profondamente rispetto al suo punto di partenza; o anche semplicemente considerando l’ultimo secolo. Tuttavia, alcuni suoi moduli non si sono modificati; non si è certo giunti al rivolgimento della sua configurazione piramidale caratterizzata dalle concentrazioni imprenditoriali e dal correlato assetto degli apparati politici, fortemente verticistico anche nei paesi dove si ciancia sempre di “democrazia parlamentare” e si esaltano le periodiche “chiamate al voto”, che si fanno passare per espressione genuina della “volontà popolare” in grado di governare gli affari del paese, sempre invece nella sostanza affidati a contrapposizioni tra date élites.

Intendiamoci bene. Nessuno di noi svaluta quelle lotte sociali che mirino a migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle più vaste “masse” situate nei gradini medi e bassi della piramide sociale. E dobbiamo ammettere che oggi, anzi, quelle lotte stentano perfino a mantenere vecchie “conquiste” in tema di benessere. Di conseguenza, un rilancio di queste lotte sarebbe senz’altro visto da tutti noi con estremo favore. Tuttavia, dobbiamo rilevare alcuni semplici fatti. Simili lotte diventano sempre più difficili, sono viepiù spezzettate e condotte spesso in modo da lasciare largo spazio a quella divisione tra strati sociali medio-bassi che favorisce i vertici della società (il ben noto “dividere per imperare”). E’ però un caso che ciò avvenga? E soprattutto nella presente fase storica (che dura da due-tre decenni)? Non posso dilungarmi nella considerazione delle condizioni storiche che avevano consentito un qualche elevamento della posizione degli strati sociali in questione. Noto solo che l’attuale peggioramento di tale posizione dimostra a iosa come non si fosse compiuto alcun decisivo passo in direzione dell’indebolimento di quella società denominata capitalismo.

Si è dovuto constatare un fatto ancora più rilevante per le nostre convinzioni ideologiche (e anche teoriche). Sia l’iniziale successo (relativo) di certe lotte sociali, sia la loro crescente irrilevanza attuale, sono fondamentalmente dipesi dalla predominanza di fatto che sempre hanno mantenuto gli Stati Uniti dalla seconda guerra mondiale in poi. Credevamo che il mondo bipolare fosse un contrasto tra capitalismo e socialismo. Siamo stati messi in crisi dalla rottura tra Urss e Cina, ma non abbiamo interpretato correttamente (e non sappiamo farlo ancora adesso) che cosa in realtà fosse accaduto. Abbiamo preso il successo di certe lotte anticoloniali (vedi Vietnam) come si trattasse di un allargamento del campo “socialista”; un allargamento durato l’espace d’un matin, con conflitto tra Vietnam e Cina e poi il progressivo spostarsi di quel paese verso l’orbita statunitense (sia pure dopo il crollo dell’Urss, che comunque non è stato un caso “sfortunato”). Oggi dobbiamo prendere atto – in una considerazione di più lungo periodo; ed è su questo che la storia deve essere “misurata” nei suoi effettivi andamenti – che gli Stati Uniti sono stati sempre il perno più solido dell’andamento degli affari mondiali.

In definitiva, è ora di ammettere infine che non esiste più da molto tempo (ammesso che sia mai esistita nei termini pensati dai marxisti) la lotta di classe su cui tante speranze erano un tempo riposte. Non esiste soprattutto un antagonismo tra due grandi blocchi sociali alternativi, foriero di trasformazioni anticapitalistiche. Nei paesi a capitalismo sviluppato – che ha conosciuto varie trasformazioni da giudicarsi interne a quel certo “modulo” sociale – si sono verificati contrasti, anche assai forti a volte, che sono sempre stati di tipo redistributivo; soprattutto di reddito, in parte anche di potere. E’ tuttavia mancato proprio l’effetto che alcuni attribuivano a tale conflitto, la trasformazione in senso anticapitalistico. Chiunque ancora ne parli – ormai alcuni rimasugli di dementi – va proprio ignorato. Ripeto che questo tipo di lotte va appoggiato proprio per quello che può al massimo conseguire: la difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei ceti medio-bassi, oggi in deciso peggioramento. E sempre con la precisa consapevolezza che simili conflitti sono diretti da determinati gruppi dirigenti politici e sindacali, i maggiori beneficiari degli eventuali risultati positivi dello scontro, oggi piuttosto rari.

Cosa invece si nota nettamente nell’attuale fase storica? I conflitti più acuti e più significativi sono quelli tra Stati. Di conseguenza, diventa in un certo senso scopo preminente seguire gli eventi di quella che è la politica internazionale, l’interrelazione tra i diversi Stati, lo stabilirsi di determinati rapporti di forza tra essi, il loro eventuale modificarsi i cui effetti ricadono immediatamente anche sull’andamento dei sistemi economici. Tuttavia, abbiamo già ricordato come gli Stati siano un insieme organico di svariati apparati, di cui alcuni sono quelli adibiti all’effettivo uso del potere (mentre altri hanno un carattere più propriamente amministrativo, diciamo così). E’ allora rilevante la comprensione dei contrasti in atto tra quei gruppi d’élite che si battono per il controllo e l’uso di tali apparati. Poiché questo “battersi” è appunto la Politica, è un intreccio tra differenti strategie svolte per conquistare la supremazia, i gruppi d’élite (se tali sono effettivamente) debbono essere strettamente correlati con dati nuclei in cui si elaborano le strategie. E poiché le mosse della Politica mirano al successo nell’ambito di uno scontro tra le varie élites, la segretezza è d’obbligo; e ogni venir meno della stessa o è una di queste mosse o è lo sgretolamento della “copertura” (lo sbucciarsi della “corteccia”) dovuto ad un acuirsi del combattimento tra due o più “attori”.

Del resto ho già ricordato un fatto ben noto a chiunque segua minimamente le vicende politiche. Non esistono élites dirigenti dei gruppi sociali nei diversi paesi, che non siano variamente interrelate tra loro in senso economico, politico, culturale. E certamente nel nostro paese, e più generalmente in tutti i paesi europei, in misura maggiore o minore queste élites sono strettamente collegate con quelle statunitensi, ponendosi nei loro confronti in una situazione di maggiore o minore subordinazione. In questo senso, gli Stati Uniti sono ancor oggi il centro di un ampio sistema mondiale di paesi; in particolare, hanno la guida, per quanto a volte appena mascherata, dell’intera UE che, come già detto, è in definitiva un’organizzazione parallela a quella della NATO. E’ impossibile seguire le vicende politiche interne di un qualsiasi paese europeo senza tener conto dei rapporti di subordinazione rispetto al paese predominante. Questo è particolarmente valido per l’Italia, paese la cui subordinazione è di alto livello e va crescendo. E continuerà a crescere per quanto diremo subito appresso.

4. Con quanto appena sostenuto, sia pure succintamente, abbiamo svelato il “segreto” della nostra pretesa preferenza – soltanto temporanea e secondo me obbligata dai “fatti” – per la politica internazionale e per il tema dell’indipendenza o autonomia di singoli paesi; ma non certo per spirito nazionalistico, ci mancherebbe altro! Abbiamo semplicemente preso atto della fine della ormai “mitica” lotta di classe; e constatiamo che attualmente sono in ribasso perfino le lotte sindacali per la semplice “redistribuzione”, pur anche soltanto nel tentativo di evitare l’arretramento delle cosiddette “conquiste sociali” di alcuni decenni fa. Dopo circa mezzo secolo di mondo bipolare e con i pericoli, spesso esagerati e montati a bella posta, relativi alla “guerra fredda”, si è avuto il “crollo” del campo sedicente socialista ed è sembrato che ci si avviasse verso una sorta di monocentrismo Usa. La sensazione è durata poco e ormai, malgrado sia ancora predominante quel paese, pare assai probabile che ci si avvii intanto verso un multipolarismo per quanto ancora imperfetto. Il caos nel mondo va accentuandosi come sempre avviene in epoche del genere; più volte ho fatto il paragone con la fine del secolo XIX.

In una situazione simile, è del tutto evidente un crescente impegno degli Stati Uniti per accentuare la presa sull’Europa e scongiurare quanto indubbiamente sembra serpeggiare al suo interno con il rafforzarsi di movimenti detti “euroscettici”; per quanto essi sembrino ancora abbastanza deboli e del tutto confusionari. Il “Trattato transatlantico” (TTIP) dal punto di vista economico (che ha sempre riflessi politici), gli sconvolgimenti, più o meno ben riusciti, suscitati nel Nord Africa e in Medioriente, la crisi ucraina (dopo il primo approccio in Georgia), l’impulso dato alle organizzazioni islamiche “estremiste” poi ovviamente combattute (con forti ambiguità e senza ancora una conclusiva decisione), le situazioni estremamente confuse e di sostanziale stallo (pur assai sanguinoso) in Libia e Siria, così come altre egualmente poco chiare (in Egitto come in Turchia o Iran, ecc.),sono operazioni che avranno certo motivazioni legate ai rapporti di forza nelle aree interessate; e tuttavia non vi è dubbio che il principale obiettivo degli Stati Uniti è, in ultima analisi, il mantenimento della presa in Europa e l’isolamento massimo possibile della Russia.

Se veniamo al nostro paese, credo che esso sia abbastanza importante per le suddette finalità perseguite dagli Stati Uniti. La posizione geografica dell’Italia è in tutta evidenza significativa per le operazioni nelle aree investite, non sempre direttamente, dagli Usa (con l’Amministrazione Obama ci si è largamente serviti di “sicari”). Tuttavia, con l’operazione “giudiziaria” che mise fine alla prima Repubblica (solo dopo il crollo del campo “socialista”) si è reso del tutto manifesta la funzione che a noi spetta nelle intenzioni americane di tenere strettamente agganciata l’Europa. Dobbiamo essere decisamente affermativi in proposito. L’Europa è l’area in cui ancora si giocheranno i destini del probabile prossimo scontro policentrico per conquistare una nuova centralità preminente (uno scontro non temporalmente vicino, meglio essere espliciti in proposito). E l’Italia è paese fondamentale per il controllo europeo. Ci sono forti tendenze – a mio avviso tutte ben finanziate da chi di dovere – a sostenere l’ormai irreversibile decadenza europea e la crescente dipendenza italiana. Sia chiaro che l’ultimo premier (il ben noto sedicente tecnico sempre in linea da dove soffia il vento) è in realtà un commissario di poteri stranieri e soprattutto americani.

Mai si era visto in quest’area e in questo paese un degrado sociale (e culturale) come quello odierno. Tutto questo avviene però proprio perché l’Europa (e, al suo interno, l’Italia) sono aree di importanza decisiva per gli Usa nel loro tentativo di restare preminenti; anzi di arrivare un giorno a porsi in una situazione di sostanziale monocentrismo, magari attraverso un futuro regolamento generale di conti. In questa fase, la pressione Usa sul nostro paese è massima, anche se non viene solitamente rilevata perché ovviamente non si esprime con le vecchie modalità. Di conseguenza, nella presente fase storica di non breve momento, chiunque straparli di lotta anticapitalistica, inganna scientemente quelle minoranze che cominciano a rendersi conto della situazione di degrado e sfascio sociale (e anche istituzionale), in cui ci hanno condotto le forze politiche padrone  dell’andamento degli “affari” nel nostro paese.

Non ci sono per nulla prospettive di superamento del capitalismo in Italia (e in Europa); e nemmeno si saprebbe in che direzione si dovrebbe andare in una simile fantasiosa prospettiva. Ripeto che nessuno (di noi) si oppone a che i ceti medio-bassi difendano le proprie condizioni di vita aggredite dal potere esistente. Questo però non significa avere la forza (e le idee) in grado di abbattere il capitalismo (e di quale si sta parlando, del resto, se non a vanvera?). E non c’è nessuna difesa possibile se restiamo un paese governato da élites che si pongono nella relazione di subordinazione rispetto a quelle del paese predominante. E’ di una evidenza palmare che il primo passo da compiere è (diciamo sarebbe) togliere il governo ai servi del potere statunitense. E vorrei essere preciso. Quando parlo in questo contesto di governo non mi riferisco soltanto a quelle forze politiche che hanno in mano la direzione dell’Italia. Tutte quelle oggi in campo sono invischiate in quel gioco elettorale che fa dimenticare ogni problema di reale potere, con il mero scopo di conquistare favori nell’“opinione pubblica” onde migliorare la propria posizione all’interno dell’attuale struttura politica, comunque sempre subordinata alla predominanza degli Stati Uniti.

Ecco allora spiegato perché è indispensabile battersi oggi per un minimo di autonomia nazionale (lo ripeto: senza ideologie nazionalistiche!). E per porsi in quest’ottica, è necessario dedicare i nostri sforzi soprattutto all’analisi degli intrecci internazionali tra i vari paesi; nelle loro filiere di predominanti, subdominanti, subsubdominanti….ecc. fino alle ultime propaggini della subordinazione, laddove siamo tutto sommato situati noi italiani. E mi sembra lampante che passi in avanti di questa autonomia sarebbero favoriti dall’affermarsi crescente della tendenza al multipolarismo. Quindi ci si deve battere per il rafforzamento delle relazioni – non solo economiche, bensì proprio politiche e di collegamento tecnico-scientifico e di “Informazione” e magari anche militari – con i paesi che hanno maggiori prospettive “oggettive” di ergersi quali antagonisti degli Stati Uniti; e fra questi, a mio avviso, il principale è la Russia (senza per questo trascurare la Cina). Nessuna particolare simpatia per questo paese e nessuna particolare antipatia per gli Stati Uniti. Semplicemente, è necessario battersi per l’accentuarsi del multipolarismo e, dunque, per la nostra autonomia. Multipolarismo e indipendenza sono in relazione biunivoca. E sono il primo compito per la fase attuale.

5. C’è poco da aggiungere, io credo. Ritengo auspicabile – nella fase storica che viviamo e che non sarà di breve momento – una politica tesa all’autonomia dei paesi europei rispetto a quello ancora oggi preminente, pur se a mio avviso procediamo, in modo certo non lineare e continuo, verso una situazione multipolare. Qualcuno potrebbe obiettare che sarebbe bene allora battersi per una profonda revisione dell’attuale organizzazione dell’Europa Unita in modo da ottenere l’effetto voluto. Credo che ci si avvierebbe lungo una strada fallimentare. La UE non mi sembra affatto riformabile per come è nata e si è andata configurando sulla base dell’accettazione di una chiara subordinazione – sia pure con accenti diversi nei vari paesi – agli Stati Uniti. Mi sembra anche non molto chiara l’agitazione di alcuni movimenti per l’uscita del proprio paese dalla UE e dall’euro.

Il problema centrale è la lunga subordinazione che, soprattutto i più sviluppati paesi europei (quelli “occidentali”), hanno dovuto subire rispetto agli Usa. Bisogna invertire questo processo – economico, politico, culturale – di dipendenza. Per far questo, nei vari paesi europei devono crescere movimenti consapevoli della difficoltà e complessità di tale compito, che comporterà infine la necessità di abbattere con energia i governi del servilismo. E’ un processo che va sviluppato all’interno dei vari paesi; e che, se avrà successo, lo avrà in modi e tempi specifici per ognuno d’essi. Ogni movimento dovrà rispettare le caratteristiche del proprio paese, delle proprie popolazioni (e, in questo senso, tornerà utile anche l’analisi delle differenti strutture dei rapporti sociali).

I movimenti di autonomia devono senza dubbio ricercare il reciproco collegamento nel contesto europeo, ma senza mai dimenticare le differenze del proprio paese rispetto agli altri; pena il diffondersi di una nuova “mistica” europeista che ha già prodotto in passato i guasti che vediamo oggi sotto i nostri occhi. E’ stata proprio la propaganda di questa idea di una generica Europa unita a consentire il prevalere nella nostra area di élites dirigenti che – oggi finalmente è venuto in chiara luce – si sono piegate, spesso con pingui finanziamenti, agli intendimenti e voleri degli Stati Uniti. Alcuni si saranno anche “venduti”, ma altri hanno superficialmente creduto che, come si erano fatti gli Stati Uniti d’America, si potessero fare quelli d’Europa, i cui paesi hanno ben più complessa e “antica” storia. E sono sempre stati in costante antagonismo d’interessi; per molto tempo perfino bellico, oggi con altre modalità. Pur sempre politiche, lo si tenga presente. Chi insiste sui problemi del dominio della finanza e altre superficialità consimili, è al servizio – consapevole o meno – degli interessi dei gruppi subdominanti europei legati ai dominanti statunitensi.

Ulteriore problema. Malgrado molti paesi europei siano economicamente piuttosto avanzati, è altrettanto evidente la loro debolezza politica e – perché voler essere pacifisti ad oltranza – bellica. Ogni movimento che si batta per l’autonomia del proprio paese – lo ripeto ossessivamente, autonomia soprattutto in direzione degli Usa – dovrà non soltanto cercare i collegamenti con i propri simili europei, bensì sviluppare precise politiche verso est; in particolare nei confronti della Russia. Inutile nascondersi che simili politiche potrebbero un giorno provocare il passaggio dalla tendenza multipolare all’affermarsi di un reale policentrismo conflittuale, con tutti i rischi che ben conosciamo dal XX secolo. Se si teme questo, è inutile mettersi sulla strada dell’autonomia; si resti subordinati come lo si è adesso.

E veniamo così all’ultimo punto. Ci sono molti sciocchi che credono ad un’Italia di benessere diffuso sulla base del turismo, sfruttando i suoi mari blu, i cieli azzurri, le cosiddette bellezze paesaggistiche (come se altrove mancassero), i suoi cibi (che nemmeno gli italiani più giovani sanno ormai apprezzare); e altre litanie del genere. Se l’Italia rimane a questo livello, resterà pure tranquillamente subordinata; e avvizziranno progressivamente in essa tutti quei settori che consentono il maggiore sviluppo di un qualsiasi paese nell’epoca moderna (a meno che non si tratti di quei paeselli, magari isole, che sono piccole oasi per i “ricchi del mondo”). E mancando l’autonomia e il tipo di sviluppo ad essa connesso, inutile anche pensare a chissà quali possibilità di lotta sociale per difendere le proprie condizioni di vita, soprattutto da parte dei già più volte ricordati ceti medio-bassi.

Lasciamo perdere per favore la lotta anticapitalistica; abbiamo una concezione arretratissima di capitalismo, ancora primonovecentesca se va bene. Non abbiamo assolutamente l’idea di quel che dovrebbe essere una società non più capitalistica (a parte le ubbie anti-grande finanza diffuse oggi). Ho però sostenuto che è approvabile la resistenza dei ceti meno abbienti di fronte ad un chiaro peggioramento delle prospettive nei nostri paesi detti avanzati. E’ bene mettersi in testa che in un periodo di multipolarismo in accentuazione, si amplifica il “caos” nelle relazioni internazionali; e non solo politicamente, ma pure economicamente. In poche parole, quella che chiamiamo crescita (aumento del Pil) non conoscerà andamenti travolgenti per molto tempo. Molti finalmente cominciano ad arrivare a simili conclusioni. Tuttavia, la debole (o nulla) crescita non impedisce uno sviluppo, cioè un miglioramento di certe strutture sociali e

l’arresto del progressivo smantellamento delle “conquiste” ottenute già da tempo.

Tuttavia, non vi sarà nulla di tutto questo se si cede sul punto dell’autonomia propria, dello sviluppo di settori innovativi che la subordinazione invece sacrificherà sempre più. Cari “amici delle lotte sociali”, volete che possano essere ancora condotte almeno in un certo grado? Ebbene, battetevi per l’autonomia del paese rispetto all’attuale piatta subordinazione agli Stati Uniti. Battetevi per una diversa politica internazionale. Invece di fissarvi sul superamento del capitalismo (che si supera da solo in sempre nuove forme che vi lasciano poi a mani, e testa, vuote), concentratevi sull’attuale evoluzione dei rapporti di forza tra Stati (paesi), in modo da giocare nel suo ambito con opportune politiche di “nuove alleanze” al fine di non veder peggiorare gravemente le condizioni del vostro paese e, dunque, dei ceti sociali in esso meno favoriti.

E con questo fervorino finale, veramente Amen.

http://www.conflittiestrategie.it/conflitti-tra-stati-e-autonomia-nazionale-perche

CONOSCENZA E IDEOLOGIA, FEDELTA’ E RINNEGAMENTO, di Gianfranco La Grassa

CONOSCENZA E IDEOLOGIA, FEDELTA’ E RINNEGAMENTO

Come chiarì Althusser siamo sempre dentro un’ideologia; scopriamo quella di altri, di epoche passate soprattutto, mettiamo in luce ciò che quell’ideologia tendeva a mascherare, ma altri dovranno poi far risaltare la nostra e quali problemi essa ha occultato o quanto meno distorto.

Diceva Schumpeter, con analogia riferita agli aeromobili, che l’ideologia è come l’attrito dell’aria: frena il movimento, obbliga ad un surplus di energia consumata per muoversi, anzi per accelerare il movimento stesso, ma consente poi di alzarsi da terra e prendere il volo. Nel suo significato positivo, l’ideologia è dunque un punto di vista da cui guardiamo ai “fatti” e ai “processi”; un punto di vista che dipende pure da una “scelta di campo”, da una “presa di partito”. Nelle analisi del mondo che ci circonda e in cui ci muoviamo dobbiamo per quanto possibile mantenere un atteggiamento “oggettivo”, tendenzialmente spassionato, ma non possiamo attenerci ad una oggettività assolutamente imparziale che consenta di riprodurre la realtà così com’essa è. Nessuna completa “asetticità” è possibile, nessuna esclusione esaustiva delle nostre “passioni”, che sono invece un alimento della ricerca, stimolano l’intuizione di nuove “verità” (in effetti, di nuovi “punti di vista”), selezionano il materiale concreto che ci si affastella davanti, guidano la disposizione dei vari pezzi da noi scelta nel tentativo di ricostruire il quadro complessivo della situazione, ma sempre secondo l’angolo d’osservazione preferito, ecc. ecc.

I “fatti” e “processi”, che non possiamo riprodurre così com’essi sono, hanno comunque “qualcosa di duro”, di irriducibile e non piegabile ai nostri voleri di interpreti; qualcosa che sfugge al senso e alla direzione che ad essi attribuiamo. Questo “qualcosa” si afferma sempre con il passare del tempo. Anche quando inizialmente, e talvolta a lungo, la nostra interpretazione sembra reggere, appare piuttosto soddisfacente, sempre inizia poi, con il passare del tempo, la constatazione che la nostra presa su tali “fatti” e “processi” si è fatta labile, è come una mano che cerca di afferrare un pesce direttamente nell’acqua in cui guizza. L’atteggiamento scientifico è quello che al più presto rimette mano all’“amo” e ci consente così di acquisire il prima possibile la sensazione del mutamento intervenuto, di avvertire la crescente incongruità di date ipotesi e la necessità di intraprendere un’altra strada, sforzandoci di intuire nuove direzioni via via corroborate da indizi, che cogliamo però perché abbiamo cambiato l’angolo del “fascio d’osservazione”. E in questa nuova presa di coscienza mai verrà meno il lato ideologico, riflesso delle nostre rinnovate passioni.

Solo la cristallizzazione in dottrina di vecchie ipotesi, la loro trasformazione in “Principi Immutabili”, crea l’ortodossia e le eresie, la fedeltà e il rinnegamento. Quest’ultimo si configura quasi sempre come tradimento, svendita ad altro punto di vista, ad altra scelta di campo, ad altra presa di partito. Può sembrare che, tutto sommato, il fedele sia meno riprovevole del rinnegato. Certo, dal punto di vista del giudizio sui singoli individui è così; e quando possibile, i rinnegati vanno puniti nel modo più drastico. Tuttavia, la fede incrollabile in qualcosa di ormai morto non consente più una prassi adeguata ai “nuovi tempi”, favorisce quindi anche il rinnegamento che sorge sempre dal crollo di quella fede, con il suo corollario di abietto cinismo privo di qualsiasi passione, di qualsiasi emozione, di qualsiasi volontà di comunque creare il nuovo, il “più grande”, ecc. Va dunque rifiutato e considerato esiziale il mero rinnegamento di quanto si era “creduto” in epoche passate; ma creduto in base ad una riflessione, che sempre deve restare aperta alla problematizzazione ed essere mossa da un “punto di vista” e da una “scelta di campo”. Si rinnega solo quando non ci si apre più ad alcuna nuova riflessione, quando semplicemente si abbandona una fede e si passa al nemico d’essa; punto e basta.

Quando i ripetuti fallimenti, lo sbriciolarsi della nostra prassi retta da vecchie ipotesi, diventano ormai fin troppo evidenti, non vi è alcun rinnegamento nel ripensarle, nel problematizzarle, nel tentare nuove vie che implicano riflessione critica e formulazione – cauta e non dogmatica, non tetragona a possibili cambiamenti perfino in corso d’opera – di nuove ipotesi, che diciamo teoriche solo perché non attengono all’immediatezza del vivere quotidiano, perché si sforzano di attribuire nuove “strutture” (di rapporti) a “fatti” e “processi” di cui cerchiamo nuovamente di venire a capo. Solo gli ossificati, gli sclerotizzati, non distinguono tra il rinnovamento scientifico, anche soltanto tentato, e il rinnegamento puro e semplice. Noi però dobbiamo evitare l’interlocuzione sia con gli sclerotizzati che con i rinnegati, due facce della stessa medaglia, rappresentata dal fallimento e perdita di presa della vecchia prassi guidata dal superato e ormai inservibile impianto teorico.

Oggi molti “ultrarivoluzionari”, tipo i ben noti “sessantottardi”, sono passati completamente nel campo di coloro che essi ritenevano reazionari e addirittura da eliminare. Questi ultimi hanno pure essi mutato le loro posizioni e le loro strutture di potere. Non sono però riusciti a modificare di molto la loro teoria sociale (ed economica), intrisa dell’ideologia “robinsoniana” che si rifà al primato del singolo individuo, la cui “libertà” andrebbe difesa da ogni tentativo di suo indebolimento. Questa concezione, il liberalismo, è in uso fin da troppo tempo e sta procurando progressivamente il degrado della nostra società. L’individuo – che è tale, nessuno lo nega – è sempre immerso in una complessa rete di rapporti ed è da questa “socialmente determinato” come sosteneva del tutto giustamente Marx. I suddetti “ultrarivoluzionari” non hanno capito un accidenti di questo scienziato e lo hanno visto solo come il profeta di una società più “giusta”, priva di conflitti e antagonismi, pervasa da uno spirito di totale comunità. Alla fine essi hanno dovuto prendere atto che la strada intrapresa da certe rivoluzioni “contro il capitale” ha seguito tutt’altro percorso; allora questi ribaldi hanno rinnegato quanto attribuito da dissennati a Marx e sono di fatto tornati alla vecchia ideologia liberale; taluni magari con qualche “mal di pancia” mai però produttivo se non ….di quanto produce il “mal di pancia”.

Tra Marx – con la sua teoria della “determinazione sociale” degli individui, che restano tali, ognuno diverso dagli altri, ma tutti astretti in quella struttura di rapporti sociali specifica di una data epoca storica – e i banali liberal-liberisti, con la loro ideologia “robinsoniana”, non vi è dubbio dove deve cadere la scelta di chi vuol riprendere in mano le sorti della nostra ormai devastata formazione sociale d’inizio del XXI secolo. E chi effettua la scelta secondo me corretta non può però credersi libero da ogni influenza ideologica, a cui lo spinge appunto l’infame e ormai orrida organizzazione sociale che i liberali vogliono continuare a propagandare; e che sempre più serve soltanto a coprire il loro reale cammino verso la soppressione di ogni opposizione a ceti dominanti scellerati e distruttori della nostra plurisecolare civiltà, della capacità di pensiero tipica dell’essere umano.

Tuttavia, chi resta convinto della superiorità di Marx – e anche però di una serie di acute intuizioni leniniane – deve prendere atto di una serie di loro errori di previsione in merito al futuro svolgimento dei processi sociali. Gli errori di previsione sempre si rileveranno ex post poiché ribadisco l’impossibilità di appropriarsi esaustivamente della caotica realtà in cui ci muoviamo; dobbiamo per forza creare schemi (teorici) di interpretazione che la stabilizzino e ci consentano un movimento ordinato. Basta essere consci che questi schemi durano il tempo che durano, poi bisogna adeguarli ai mutamenti del tutto imprevisti del “caos reale”. Quando si parla di “errori teorici” di questo o quello scienziato sia chiaro che ci si riferisce a quanto questo “caos” ci ha sorpreso per la direzione presa dai processi reali. Nell’epoca di quello scienziato, i suoi schemi teorici erano probabilmente realistici, erano quanto di più appropriato egli poteva elaborare. Bisogna solo capire che “il tempo passa” e spesso “l’uomo non se n’avvede”.

Quindi impegniamoci a correggere quelli che definiamo, non proprio in modo corretto, “errori”. Se le previsioni marxiane non si sono realizzate, ci sono evidentemente degli “errori” nella sua elaborazione; datata a “metà del secolo XIX”. Resta a mio avviso la sua decisa (e per me enorme) superiorità rispetto all’insulso individualismo “robinsoniano” dei liberali. Resta la “determinazione sociale” dei vari soggetti (individui) che compongono ogni data forma di società nell’evolvere delle diverse epoche storiche. E resta, aggiungo, la fondamentale differenza dell’“animale” uomo che – solo lui – produce sempre un “di più” rispetto a quanto serve per la semplice sopravvivenza biologica. E lo produce grazie a quella sua caratteristica definita “pensiero”; proprio quella che gli attuali ceti dominanti tendono a far degenerare.

Diamoci da fare, infine; il nostro ritardo è enorme e in parte colpevole.

elezioni americane durante e dopo_ V atto con Gianfranco Campa

Due staff che per il momento procedono in parallelo, ma che non tarderanno a convergere e collidere. Trump si sta muovendo con il suo staff legale e sta riposizionando alcune pedine importanti nei dipartimenti. Biden ha allestito la task force che dovrà gestire la transizione; la sua composizione parla da sola riguardo alle intenzioni e alle forze che lo stanno sostenendo. Nel frattempo comincia a muoversi la piazza. Uno dei due sarà di troppo, ma chi sarà obbligato a vincere è soprattutto Biden_Giuseppe Germinario

NB_Intanto tra la fase di registrazione e quella di pubblicazione di questa conversazione si susseguono le novità: Biden si aggiudica l’Arizona, Trump la Georgia; gli organi ufficiali si affannano a certificare la regolarità delle elezioni; il Vaticano e soprattutto la Cina riconoscono Biden alla Casa Bianca.

NB_Scorrendo siti, servizi di informazione on line e su supporto cartaceo scopriamo con piacere e soddisfazione di essere spesso e volentieri fonte di informazione e di ispirazione. Scopriamo con minore soddisfazione che in tanti casi il flusso viene riportato in maniera sin troppo fedele senza che però ci sia un riferimento esplicito al testo originario. Sottolineiamo che la produzione di questo sito poggia esclusivamente sulla ricerca e sull’impegno del tutto volontario e gratuito dei redattori senza alcun sostegno finanziario, pubblicitario e organizzativo esterno. Ci aspettiamo almeno un riconoscimento morale esplicito. Indicare nei testi il link originale non costa nulla; è un piccolo segno di sportività e di correttezza in un panorama che vede anche gli organi di informazione apparentemente più autorevoli e rispettabili liberarsi progressivamente dalle fatiche dell’impegno di ricerca originale e ridursi a meri riproduttori di veline e gossip del mainstream internazionale. Non si sono ancora accorti che nell’era della tanto decantata globalizzazione le distanze non sono più garanzia di opacità

Trump-Biden, duello all’ultimo sangue_ con Gianfranco Campa

Con il confronto televisivo a Cleveland è iniziata la fase conclusiva della campagna elettorale per l’elezione del Presidente degli Stati Uniti e di parte delle camere elettive. La posta in palio è enorme ed influirà pesantemente sulle scelte strategiche in politica estera ed interna. A questo non corrisponde un livello di dibattito appena accettabile. Prevalgono in maniera sfrontata i colpi bassi, il gioco sporco, i calcoli nei posizionamenti istituzionali. E’ il segnale evidente di uno scontro che non prevede prigionieri e che certamente non si esaurirà il 3 novembre prossimo; in qualche maniera prescinderà addirittura da esso. Gianfranco Campa ci offre il suo punto di vista condito di particolari succosi; in particolare la perla offertaci nel finale della conversazione_Buon ascolto con un po’ di pazienza in alcuni punti di ascolto poco nitidi, Giuseppe Germinario

 

ELEMENTI DI TEORIA DELLE CRISI ECONOMICHE, di Gianfranco La Grassa

ELEMENTI DI TEORIA DELLE CRISI ECONOMICHE

 

  1. Dovrei essenzialmente parlare della crisi del 1929. E’ ovvio che ogni avvenimento storico ha una sua singolarità specifica e va inquadrato nell’epoca del suo verificarsi. Do però per scontata la conoscenza di tutto il “contorno” storico della crisi del 1929, solitamente considerata la più grave delle crisi che comunque, in forme e con intensità diverse, coinvolgono il nostro sistema sociale detto capitalistico e ne arrestano il tendenziale sviluppo. Per larga parte del 1800, nell’epoca del capitalismo detto di concorrenza, le crisi erano fenomeni verificantisi all’incirca ogni 8-10 anni con caratteristiche molto simili fra loro. Negli ultimi decenni, in specie dopo la seconda guerra mondiale, la situazione di crisi appare meno regolare nelle sue cadenze e nelle sue forme di manifestazione, ma ciò non esclude che si cerchi sempre di cogliere le caratteristiche comuni di fenomeni diversi, comunque appartenenti alla “classe” di quegli accadimenti in grado di interrompere lo sviluppo capitalistico e di provocare anche, come appunto nel caso del 1929, netti arretramenti produttivi accompagnati da gravi sconvolgimenti dei circuiti economici e finanziari, e da sconquassi sociali di notevoli proporzioni con le loro brusche ricadute politico-istituzionali (per tutte si pensi all’ascesa del nazismo nel 1933, non certo causata dalla crisi ma senz’altro da questa favorita).

Prima di entrare direttamente nel discorso sulla crisi, con riferimento particolare a quanto accadde nel 1929 e anni successivi, voglio ricordare – poiché ciò avrà una sua utilità in seguito – la possibilità di catalogare tale fenomeno in due tipologie fondamentali. La prima trova la sua principale esemplificazione nel periodo 1873-96; si tratta di una sostanziale (lunga) stagnazione, non di un vero e proprio brusco tracollo economico-finanziario. Normalmente, si considera quel periodo storico come la fase di passaggio dal capitalismo di prevalente concorrenza a quello di prevalente mono(oligo)polio. Una fase non caratterizzata da troppo gravi sconvolgimenti (e arretramenti) economici, ma da ritmi di sviluppo estremamente bassi interrotti da inversioni di tendenza di non drammatiche dimensioni. Insomma, un’epoca il cui trend dovrebbe essere rappresentato graficamente da una linea quasi orizzontale. La seconda tipologia è appunto quella che si manifestò con particolare acutezza nel 1929: ad una punta di boom di notevole portata, che aveva fatto (stra)parlare di una ormai ininterrotta epoca di grande prosperità capitalistica, seguì una brusca e accentuata caduta di tutti gli indici economici, pur a partire dalla crisi di Borsa a New York ufficialmente iniziata il giovedì 24 ottobre e aggravatasi decisamente nel famoso “martedì nero” (il 29). Tale caduta dilagò praticamente in tutti i paesi capitalistici – con il prodursi di gravissimi disagi sociali susseguenti anche alla vastissima disoccupazione della forza lavoro – e poi si stabilizzò a livelli produttivi molto bassi fin praticamente al 1933. Vedremo più avanti che tipo di “ripresa” si verificò a partire da quell’anno.

Va ancora ricordato il carattere più generale della crisi capitalistica: il suo essere caratterizzata da una sovrapproduzione, poiché provoca impoverimento delle più larghe masse popolari nell’ambito di una sempre più elevata potenzialità produttiva del sistema economico, cui non corrisponde l’aumento della capacità di acquistare come merci i beni prodotti. Grandi quantità di questi ultimi restano quindi invendute e le varie unità produttive (le imprese capitalistiche) soffrono perdite (invece che godere di profitti) e dunque diminuiscono la produzione; molte chiudono e spesso vanno pure in fallimento, licenziando così mano d’opera. Diminuisce di conseguenza la massa salariale e cade ulteriormente la domanda dei beni di consumo e dunque anche quella dei beni di produzione (cioè gli investimenti delle imprese); così la crisi si generalizza e avanza a macchia d’olio.

Tale tipo di evento fortemente negativo in termini economici, con riflessi sociali ovviamente drammatici, colpisce le società ormai basate sulla produzione industriale. Si tratta quindi di un fenomeno del tutto differente da quello tipico delle società precapitalistiche, in cui prevaleva nettamente la produzione agricola. In queste ultime, le “crisi” erano in genere vere carestie dovute ad andamenti climatici sfavorevoli, al diffondersi di gravi fitopatologie, alle distruzioni militari, ecc.; processi devastanti in società ad ancora scarsa evoluzione tecnologica, caratterizzate quindi da quella che oggi indicheremmo come un’assai bassa produttività del lavoro. Quelle “crisi” dipendevano da vera e propria penuria di beni prodotti;  nel capitalismo, al contrario, esse sono provocate dalla produzione “troppo” alta di beni, dove il “troppo” è semplicemente relativo alla capacità (ormai generalmente monetaria) d’acquisto della gran parte della popolazione.

 

  1. Nella teoria economica tradizionale di origine neoclassica, il cui inizio viene solitamente fatto risalire al 1870 (con Walras, Menger e Jevons), per oltre mezzo secolo non fu mai presa in considerazione una vera teoria della crisi. Solo pochi autori (Veblen, Schumpeter e qualche altro) trattarono la crisi come una dinamica intrinseca all’organizzazione del sistema economico capitalistico; in genere, la quasi totalità degli economisti accademici considerava tale fenomeno come dipendente da fattori estranei al sistema in questione, comunque del tutto erratici e casuali, del tipo delle ondate di ottimismo o pessimismo (non è che oggi non si faccia ancora ampio ricorso a simili spiegazioni che…..non spiegano nulla). Solo il marxismo diede risalto alla crisi quale evento che non può non verificarsi nell’ambito del sistema economico in questione. Tuttavia, per ragioni di “tempo e spazio”, non mi diffonderò sulla spiegazione marxista, anche perché essa non ha mai dato origine a effettive politiche economiche atte a combattere la crisi. L’unica ricetta (non del tutto marxista per ragioni su cui non posso qui diffondermi) fu quella della pianificazione statale dell’economia, ma in una situazione di totale rivoluzionamento sociale e politico-istituzionale e di abolizione formale della proprietà privata dei mezzi di produzione. Ricorderò comunque che, nel 1929, la crisi non toccò precisamente il paese sedicente socialista, l’URSS. Non m’imbarcherò comunque in una discussione su tale fatto e sui vantaggi e sopratutto svantaggi dell’economia pianificata poiché dovrei andare in una direzione del tutto diversa da quella che qui intendo affrontare.

In ogni caso, siamo oggi in un sistema capitalistico sostanzialmente rimondializzatosi, e dunque parlerò delle teorie che in campo capitalistico, una volta verificatasi la potente scossa del ’29, furono formulate con l’intento non solo di spiegare bensì anche di risolvere i problemi della crisi stessa. Ne parlerò in termini molto “intuitivi”, all’ingrosso, senza cercare una impossibile precisione che esigerebbe conoscenze e strumentazioni specialistiche. Mi guarderò bene dal tentare di riprodurre in sintesi il dibattito che si sviluppò per decenni. Tenterò soltanto di rendere sufficientemente chiara la logica di fondo dei ragionamenti afferenti alle posizioni fondamentali che si scontrarono sul problema della crisi e sugli strumenti di politica economica atti a contrastarla.
Quando si entrò bruscamente in una situazione critica nell’ottobre del ’29, data l’eccezionale portata e ampiezza del fenomeno e la sua durata, la teoria tradizionale si trovò in forte difficoltà nel fornire sia una spiegazione dello stesso sia una ricetta per ridurne la gravità e invertire la tendenza recessiva.

Fu all’inizio ampiamente sostenuto che il problema nasceva a causa delle “imperfezioni e rigidità” del mercato del lavoro. Senza entrare, come già detto, in particolari, si sosteneva che la forza sindacale dei lavoratori aveva ormai imposto un salario (prezzo della forza lavoro in quanto merce) al di sopra della sua produttività. Bisogna aggiungere “marginale”. Cercherò di spiegare brevemente il problema. Debbo necessariamente fare un détour che assomiglierà un po’ ad una lezione, noioso quindi ma necessario. A differenza dei “classici” (Smith e Ricardo in testa), che consideravano il valore dei beni prodotti in base al tempo di lavoro occorso nel produrli – e il prezzo effettivo, in base all’andamento della domanda e dell’offerta, oscillava attorno al valore; questa considerazione in merito a detta oscillazione vale per tutti gli economisti, di qualsiasi tendenza siano nel concepire il valore dei beni – i neoclassici lo pensavano in base alla quantità di bene a disposizione del consumatore in relazione all’intensità del suo bisogno di quel bene. Ma questa intensità, e dunque l’utilità del bene per il consumatore, diminuisce man mano che la quantità del bene a sua disposizione aumenta. L’ultima unità del bene disponibile ha quindi una certa utilità, detta appunto marginale; ed è questa a misurare il valore attorno a cui oscillerà il prezzo di quel bene (ovviamente sommando la domanda di tutti i consumatori che ne hanno bisogno.

Ciò che vale per il consumo, vale pure per la produzione. Se consideriamo i due fattori fondamentali di quest’ultima – il capitale (strumentazione e materie prime; per inciso, noto che qui, a differenza che in Marx, il capitale è cosa e non rapporto sociale) e il lavoro – si ha anche qui una produttività ad un certo punto decrescente delle diverse unità di tali fattori impiegate nel processo produttivo. E la produttività dell’ultima dose impiegata dei fattori è sempre quella detta marginale. I fattori hanno un prezzo unitario d’acquisto (il costo insomma). Quando la produttività marginale di quel fattore equivale a detto prezzo, l’imprenditore smette di acquistarlo poiché, ovviamente, ogni unità in più determinerebbe una diminuzione del suo utile. Quindi la crisi era determinata dalle eccessive richieste (sindacali) di aumento dei salari, che ad un certo punto andavano al di sopra della produttività marginale del fattore lavoro. Ergo: bastava ridurre i salari e la crisi si sarebbe risolta con comune soddisfazione di entrambe le figure cardine del processo produttivo: imprenditori (i capitalisti) e lavoratori salariati non più disoccupati. Questa ad es. era la tesi di Pigou, antagonista poi delle tesi di Keynes.

Evidentemente, l’abbassamento del salario diminuiva, sì, il costo di produzione per l’imprenditore, ma diminuiva nel contempo la massa salariale a disposizione del complesso dei lavoratori pur se poteva momentaneamente aumentare la convenienza – per ogni singolo imprenditore, attento al rapporto prezzo di vendita del bene prodotto e costo di quest’ultimo – di assumere lavoro. In realtà, uscendo dalla considerazione del singolo (sia consumatore che produttore) – quindi dalla tipica visione microeconomica dei neoclassici (liberisti puri) – e andando invece a quella macroeconomica del complesso della domanda e dell’offerta, si poteva ben supporre un aggravamento della crisi in atto, che vedeva un eccesso di produzione non assorbito dalla domanda. Diminuendo i salari, l’effetto complessivo (macroeconomico) sarebbe stato un ulteriore calo della domanda di beni di consumo; quindi una crescente sovrapproduzione “relativa”. Allora, gli imprenditori avrebbero ridotto la produzione e dunque pure gli investimenti, cioè la domanda di beni di produzione; subito quella delle materie prime (capitale circolante) e, alla lunga, anche quella degli strumenti produttivi (capitale fisso, di cui si sarebbe trascurato l’ammortamento).

In effetti, ci sarebbero stati sia meno profitti da investire sia la riduzione della profittabilità di detti investimenti data la caduta della domanda (di beni di consumo come di produzione). La crisi si sarebbe allora avvitata sempre di più, si sarebbe entrati in un circolo vizioso di continuo aggravamento della situazione. Entrò dunque in crisi la spiegazione tradizionale dei neoclassici liberisti puri, secondo cui la “causa iniziale”, cioè il motore della crisi, sarebbe stata la crescita dei salari al di sopra della produttività (marginale) del lavoro, con riduzione dei profitti imprenditoriali o addirittura il verificarsi di forti perdite. La “colpa essenziale” sarebbe quindi stata dell’eccessiva forza dei sindacati dei lavoratori; questi ultimi si sarebbero dovuti accontentare di salari più bassi. Alcuni cominciarono però a rilevare quanto già detto: i salari più bassi implicavano riduzione della domanda di consumo con conseguente ulteriore aggravarsi della crisi, che vedeva l’accumularsi di merci invendute per mancanza di una corrispondente capacità d’acquisto delle stesse. Da qui partì l’inversione della politica seguita e dunque il lancio del New Deal all’inizio del 1933 non appena eletto Roosevelt. E tale politica fu poi sistematizzata con l’importante opera teorica di Keynes uscita nel 1936.

Non si smise comunque di “brontolare” contro il New Deal da parte dei neoclassici tradizionali. Venne pure posta in evidenza la centralizzazione oligopolistica dei capitali – fusione di più imprese, incorporazione di quelle fallite da parte delle “sopravvissute”, accordi per sospendere la competizione e dividersi pacificamente le quote di mercato, e via dicendo – che la crisi avrebbe favorito accelerandone le conseguenze. Questo processo, in base alla teoria neoclassica (liberista), era trattato quale fattore che aggravava la rigidità dei mercati, indeboliva gli “spiriti animali” imprenditoriali e la spinta all’innovazione con ulteriore caduta della domanda per investimenti, dunque rallentamento dell’attività produttiva e licenziamento di forza lavoro in esubero, conseguente diminuzione anche della domanda di beni di consumo, e così via, con l’avvitamento del consueto circolo vizioso tipico della crisi. Probabilmente anche Schumpeter – il da lungo tempo teorico dell’importanza cruciale dell’innovazione imprenditoriale – ristette su questa posizione e non accettò veramente le tesi keynesiane.

Si noti bene: con questi aggiustamenti di certi neoclassici, si invertiva il rapporto causa-effetto della crisi. Qui si parte dalla caduta degli investimenti (domanda di beni di produzione) dovuta al mutamento della “forma di mercato”; niente più la “virtuosa” competizione in esso, non più affidamento alla sua “mano invisibile” che sollecita gli “spiriti animali” con affollarsi di innovazioni (di prodotto e di processo nel contempo). Qui, la colpa della crisi non era più semplicemente delle eccessive pretese dei sindacati che avevano spinto il salario al di sopra della produttività marginale del lavoro. Le imprese erano divenute troppo mastodontiche e la funzione imprenditoriale si era appannata nel gioco degli accordi per evitare concorrenza e spartirsi “pacificamente” i mercati. Le tesi sviluppate dall’ex trotzkista Burnham nel 1941 sulla “rivoluzione manageriale” – caratteristica tipica del capitalismo statunitense, una nuova formazione sociale rispetto al “capitalismo borghese” dell’Inghilterra all’epoca in cui Marx lo studiò, formulando la teoria espressa ne Il Capitale – erano molto più congrue e facevano giustizia dell’opinione secondo cui l’oligopolio aveva reso meno vitale il sistema capitalistico. Semmai risaltano le tesi leniniane del 1916 (nel saggio sull’imperialismo), secondo cui il monopolio non aveva eliminato la concorrenza, ma l’aveva “portata ad un più alto livello”, quello del conflitto tra grandi imprese per la conquista di sempre più ampie quote di mercato (quarta caratteristica dell’imperialismo nel saggio di Lenin), conflitto nettamente subordinato a quello in atto tra le maggiori potenze per le “sfere di influenza” (quinta caratteristica).

 

  1. Appunto con il New Deal rooseveltiano vennero seguite politiche di ampia spesa pubblica (statale) per opere infrastrutturali: strade, porti e aeroporti, dighe e canali di irrigazione, risanamento urbano di considerevoli dimensioni, ecc.; insomma tutto quello che spesso viene denominato capitale fisso sociale. Accanto a questo, vi fu, in particolare negli USA con il NIRA (National Industrial Recovery Act), la garanzia di un salario minimo; ufficialmente per fini di solidarietà sociale, ma in realtà per rallentare la brusca riduzione della domanda complessiva (di beni di consumo). Qui si vede appunto che le “nuove” tesi (ancora non formulate teoricamente, ma praticamente applicate) si basavano sulla crisi come caduta dei consumi, cui sarebbe seguita poi anche quella degli investimenti delle imprese in difficoltà per la riduzione dei ricavi rispetto ai costi. Quindi chi lanciò il New Deal si era già reso conto (in pratica) che, in mancanza di domanda sufficiente dei loro beni, le imprese riducono la spesa sia in capitale circolante sia ancor più in quello fisso (cadono perfino gli ammortamenti e non soltanto i nuovi investimenti).

Nel 1936 uscì il fondamentale libro dell’economista inglese Keynes – Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta – che diede fondamento teorico a quanto praticamente perseguito tramite la spesa pubblica in deficit, tipica del New Deal. Da allora, si sostenne per alcuni decenni che la crisi veniva combattuta e vinta tramite l’intervento dello Stato nella sfera economico-produttiva. Anche in tal caso, cerchiamo di capire la logica sottintesa ai ragionamenti teorici che si opposero frontalmente ai dettami della scuola neoclassica tradizionale. Innanzitutto, va chiarito che Keynes non propugna alcun intervento per limitare la portata del “libero mercato”. Inoltre, l’economista di Cambridge non parlava di spesa con finalità sociali (tipo pensioni, sanità, ecc., cioè il cosiddetto “Stato sociale”, che si affermò nell’Europa occidentale dopo la guerra mondiale). Nemmeno si sosteneva che non dovessero in nessuna misura ridursi i salari; anzi, tramite l’inflazione che, almeno inizialmente, veniva promossa tramite la spesa pubblica, una certa riduzione dei salari reali si verificava e ciò non era considerato certo dannoso, poiché alleviava comunque i compiti delle imprese dal lato dei costi di produzione.

Tuttavia, la causa principale della crisi – ma nei paesi capitalistici opulenti, ad alto livello di capacità produttiva di reddito – non era attribuita all’eccessiva altezza dei salari, cioè all’esorbitante (presunta) forza raggiunta dalle organizzazioni sindacali nella contrattazione del prezzo del lavoro. Keynes, inoltre, non prende nemmeno in considerazione il problema del mono(oligo)polio; parte anzi dalla presupposizione di una libera concorrenza, si attiene ai concetti marginalistici tradizionali, ma si riferisce a grandezze globali, aggregate, nel senso di variabili complessive attinenti all’economia “nazionale”. Si parla, ad es., di consumo, risparmio, investimento, ecc. in quanto dati relativi alla totalità dei consumatori, risparmiatori, investitori, ecc. esistenti in un determinato territorio (in genere un paese; comunque, ci si può anche limitare ad una regione di un paese o invece allargarsi ad un insieme di paesi di una certa area geografica, ecc.). Per questo si parla della teoria economica keynesiana come di una macroeconomia, in contrapposizione alla microeconomia della teoria neoclassica tradizionale.

Man mano che cresce il reddito nazionale – somma dei redditi di tutti gli individui viventi in un dato territorio, in genere quello nazionale, senza riguardo alla loro collocazione in date classi o gruppi sociali – aumenta la quota (percentuale) del reddito risparmiata rispetto a quella consumata. La teoria neoclassica tradizionale riteneva che tutto il reddito risparmiato fosse anche investito. Quando il risparmio aumentava, si supponeva che diminuisse adeguatamente il saggio di interesse
(prezzo dei prestiti), per cui gli imprenditori si facevano dare a credito – con l’intermediazione delle banche – tale risparmio per effettuare gli investimenti, che sono appunto domanda di beni di produzione. Quindi, qualunque fosse la dimensione del prodotto (reddito) nazionale, la domanda era comunque della stessa entità dell’offerta, visto che quella di beni di investimento assorbiva la parte di reddito risparmiata (la parte consumata è ipso facto domanda di beni di consumo). Si sarebbe sempre realizzata la cosiddetta legge di Say per cui l’offerta dei beni (e dunque la produzione da cui dipende l’offerta) crea la sua propria domanda; non potrebbe perciò mai esserci crisi di sovrapproduzione, la merce prodotta non resterebbe mai invenduta per carenza di domanda.

Per Keynes, invece, vi è un livello della produzione nazionale, nei paesi ad alto sviluppo capitalistico, in cui si verifica comunque un eccesso di risparmio, che non viene assorbito dall’investimento degli imprenditori (privati) per quanto bassi siano i saggi di interesse sui prestiti; proprio perché la domanda privata di consumo non tiene dietro all’offerta di beni divenuta “troppo” elevata qualora ci sia il pieno impiego dei fattori produttivi, data l’elevata capacità produttiva raggiunta dall’insieme del sistema. La domanda complessiva dei privati (consumi più investimenti) non tiene allora dietro allo sviluppo (grazie pure agli avanzamenti tecnologici) della potenzialità produttiva di reddito, in cui cresce più che proporzionalmente la parte risparmiata rispetto a quella consumata. E’ quindi la debolezza di questa domanda complessiva (C+I) la causa reale della crisi che poi certamente, una volta scoppiata, si avvita su se stessa facendo regredire il livello della produzione fino al punto in cui, nuovamente, l’intero risparmio, pur esso ovviamente diminuito, trova di fronte a sé un adeguato (ma assai calato) investimento in beni di produzione. Va rilevato, ed è cruciale, che nella crisi la debolezza della domanda induce la diminuzione della produzione e questa accresce la disoccupazione dei fattori produttivi; quella del fattore lavoro ha forte evidenza perché è socialmente squassante, ma la “disoccupazione” colpisce anche il “fattore capitale”, cioè l’insieme dei mezzi produttivi. Quando le imprese chiudono i battenti o diminuiscono fortemente la loro attività, cade anche la domanda di beni di produzione (quella detta investimento)

In definitiva, la causa fondamentale della crisi risiede nella carenza, evidentemente relativa, della domanda a livelli di reddito elevati, tipici di economie con elevate capacità produttive, quindi tecnologicamente assai avanzate; ecco perché la crisi scoppia soprattutto nel bel mezzo di una raggiunta opulenza ed altezza del tenore di vita. Se vi è relativa debolezza della domanda privata (di beni di consumo e di investimento), è necessario che lo Stato effettui una sua spesa (pubblica) che vada a sommarsi a quella dei singoli cittadini, una spesa che quindi supplisca alla deficienza di quella dei privati. Ecco la ragione dell’intervento statale in economia; non certamente per una pianificazione della produzione, come propugnato dai marxisti e comunisti, il che esigerebbe la soppressione della proprietà privata (dei mezzi produttivi) e del mercato. Mercato e proprietà privata non vengono minimamente toccati, tutto resta come prima dal punto di vista politico-istituzionale, e da quello della preminenza dei ceti imprenditoriali e della subordinazione del lavoro salariato nella società capitalistica.

Lo Stato spende, cioè effettua domanda apprestando le opere infrastrutturali già considerate. Il problema che si pone è però: di che tipo di spesa deve trattarsi? Secondo i principi tradizionali (oggi ripresi con vigore) del mantenimento di un pareggio del bilancio statale (o almeno di un deficit da contenersi il più possibile), lo Stato, se vuol spendere di più, deve dotarsi dei mezzi a ciò necessari tramite un accrescimento dell’imposizione fiscale. Così agendo, però, si provoca la diminuzione del reddito dei cittadini, e dunque della loro domanda, al fine di accrescere quella pubblica. I conti non tornano. Si dà con una mano e si toglie con l’altra. La domanda (spesa) statale deve essere in deficit di bilancio. E nemmeno è tanto utile che lo Stato, per poter spendere, accresca il suo debito con l’emissione di titoli (i bot ad es.; a breve e a lungo termine) perché è bene che l’organo “pubblico” si ritenga libero, anche in tempi lunghi, dal dover rimborsare alcunché. Puramente e semplicemente, si stampa moneta e la si mette in circolazione finanziando le imprese che dovranno dedicarsi alla costruzione di infrastrutture (decise ovviamente in sede governativa).

Secondo la tradizionale teoria quantitativa della moneta, quando lo Stato mette in circolazione una più alta massa di moneta, i prezzi delle merci salgono (inflazione). Secondo la teoria keynesiana ciò è vero solo nel caso che i fattori produttivi (lavoro e capitale) siano pienamente occupati e non si possa perciò accrescere – almeno nel breve periodo, in mancanza di aumento delle potenzialità produttive dovuto ad investimenti e nuove tecnologie – la quantità prodotta e offerta. Quando invece c’è la crisi, i fattori sono disoccupati; è però essenziale, come sopra considerato, che lo sia il lavoro così come il capitale (mezzi di produzione). Debbono esserci milioni di lavoratori a spasso e migliaia di imprese chiuse, ma potenzialmente in grado di riaprire i battenti, con macchinari che hanno solo bisogno di essere lubrificati e rimessi in movimento. L’importante è solo che riparta la domanda dei beni, perché allora le imprese riprendono a produrre, riassumendo forza lavoro. Può anche esserci, in un primo momento, un certo rialzo dei prezzi, ma si tratta di inflazione leggera e temporanea, poi i fattori prima “disoccupati” entrano progressivamente in piena produzione.

La spesa pubblica per infrastrutture, insomma, dà impulso all’attività di una serie di imprese che debbono – tanto per fare un esempio – fornire cemento, acciaio, vetri, infissi, mobilio, ecc. per costruzioni edili (non solo case evidentemente). E queste imprese debbono assumere lavoro (dirigente come esecutivo) per produrre; così facendo, distribuiscono salari a lavoratori prima disoccupati, che cominceranno a domandare beni prodotti, a loro volta, da altre imprese. Anche queste allora si riattivano, acquistando beni di produzione e pagando salari ad altri lavoratori prima disoccupati che, con il salario percepito, domandano altri beni di consumo e …..via di questo passo, in un circolo ora virtuoso di ripresa economica. Non entro qui sul discorso del moltiplicatore, che mi sembra nell’attuale contesto esplicativo superfluo. Si deve invece notare che, ricrescendo nuovamente grazie a questa politica di spesa pubblica il cosiddetto PIL, si accrescono ovviamente anche le entrate fiscali; in definitiva, si ridurrà progressivamente il tanto deprecato (dagli economisti odierni) debito pubblico.

 

  1. Dalla fine della seconda guerra mondiale iniziò il dominio della corrente keynesiana negli ambiti accademici (e non) di tutti i paesi capitalistici avanzati; e anche negli organismi che orientavano la politica economica internazionale nel campo “occidentale”. Le politiche anticicliche basate sull’aumento della spesa pubblica divennero una sorta di dogma, e si credé così di poter scongiurare ogni declino dello sviluppo capitalistico, che invece si ripresentò più volte, anche se mai con la gravità del 1929; la crisi fu ribattezzata recessione, volendo con tale termine indicare dei brevi periodi di arresto della crescita e di sostanziale stagnazione, senza però il presentarsi di fenomeni di eccessiva gravità economica e sociale.

Ci si accorse abbastanza presto, in particolare negli anni ’70, che la spesa pubblica poteva provocare fenomeni inflazionistici di rilievo, e che la sua funzione anticrisi non era poi così incisiva come supposto subito dopo la politica del New Deal e l’opera di Keynes che ne dava una fondazione teorica. Già nel 1979 in Inghilterra con l’avvento della Thatcher, e poi nel 1980 con Reagan negli USA, si riaffermarono correnti neoliberiste che ripresero le tesi di una politica fondata sul rispetto dell’equilibrio del bilancio statale, cioè su un rigore nell’effettuare la spesa pubblica non più affidata consapevolmente, come sostenuto da Keynes, alla crescita del deficit di detto bilancio. Bisogna ben dire che all’inizio si trattò comunque più di affermazioni di principio che reali, poiché, almeno negli Stati Uniti, la spesa statale aumentò notevolmente (per motivi militari soprattutto) e così pure il deficit di bilancio. Soltanto però nel secolo scorso e soprattutto finché non si disfece il sistema detto “socialista” (mai comunista come dicono ancor oggi di Cina, Corea del Nord, Cuba, ecc. dei perfetti ignoranti) e finì quindi l’antagonismo tipico del periodo “bipolare”. In ogni caso, oggi in quasi tutti i paesi avanzati il liberismo è di nuovo saldamente in sella ed è particolarmente degenerato anche rispetto a quello tradizionale pre-keynesiano. Si tenga presente che, nei paesi capitalistici europei, le politiche di spesa pubblica condussero al cosiddetto “Stato sociale”, in cui si svilupparono in particolare l’apparato pensionistico e quello sanitario, attualmente in fase di ridimensionamento continuo in tutti i paesi capitalistici avanzati, ove più ove meno.

La politica economica keynesiana, nella sua funzione anticrisi, non si basava comunque sulle spese sociali; essa propugnava semplicemente la spesa pubblica, l’intervento dello Stato nel settore economico per il rilancio di una produzione che si riteneva fosse entrata in crisi per carenza di domanda. Che la spesa statale assumesse connotati sociali, come in Europa occidentale, è stato fenomeno dovuto a motivi più politici che economici: alla presenza cioè del campo “socialista”, di robusti partiti comunisti in alcuni grandi paesi europei (Italia e Francia soprattutto), alla preoccupazione insomma di possibile acutizzazione della lotta sociale.

Pian piano ha cominciato a farsi strada, anche presso certi ambienti di economisti accademici, una considerazione più meditata relativa sia alla spesa pubblica negli anni di Roosevelt sia all’opera teorica di Keynes. Ci si è resi conto che, esauritasi sostanzialmente la crisi nei primi anni del New Deal (terminato nel 1937), il sistema capitalistico rientrò in una fase di stagnazione proprio mentre veniva pubblicata, nel 1936, la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta dell’economista inglese. Fu la seconda guerra mondiale a imprimere una decisa spinta economica agli Stati Uniti. Finita la guerra, iniziò la faticosa “ricostruzione” postbellica dell’Europa occidentale, favorita pure dal ben noto e decantato “Piano Marshall”, che non fu un gesto umanitario degli Stati Uniti ma un discreto propellente per l’economia di quel paese e soprattutto per il suo predominio assoluto nell’area ormai appartenente alla sua “sfera d’influenza”, cui apparteneva (e appartengono) i paesi capitalistici maggiormente sviluppati, compreso il Giappone nell’area asiatica.

Furono allora formulate – da critici radicals e, in particolare, da certe correnti del pensiero marxisteggiante – tesi di “keynesismo militare”. Sempre in omaggio alla convinzione che il sistema capitalistico, proprio al suo apogeo come opulenza, entra in difficoltà per l’insufficienza di domanda rispetto all’offerta e dunque alla produzione, si sostenne che a tale inconveniente le classi dominanti ovviarono con spese belliche di grande entità durante la guerra. Anche successivamente tali spese furono elevate per sostenere la competizione con l’URSS e per alimentare continue aggressioni statunitensi in svariate parte del mondo e in specie in quello denominato “Terzo”. I “riformisti” propugnavano soprattutto aumenti salariali (e spese sociali) per sostituire le funzioni della spesa militare con politiche che andassero a migliorare il tenore di vita delle popolazioni e rafforzassero il regime detto “democratico”; per alcuni si sarebbe anche potuta verificare, seguendo tali politiche, una pacifica transizione ad un “socialismo democratico” in quanto contraltare al sedicente comunismo dell’est, ritenuto troppo antidemocratico e autoritario.

La cosiddetta globalizzazione – cioè la rimondializzazione del capitalismo dopo gli eventi del 1989-91 – spazzò via molte illusioni. Si continuò ad oscillare – tipico il caso dell’Italia – tra due tesi opposte e poco consistenti. Da una parte, i neoliberisti attribuivano certe difficoltà economiche all’eccessivo debito pubblico, cui si doveva ovviare, in omaggio alla riaffermazione della necessità di un equilibrio del bilancio statale, con la riduzione della spesa pubblica. Da ottenersi soprattutto risparmiando su sanità e pensioni, le tipiche conquiste del cosiddetto Stato sociale. Bisognava insomma semmai aumentare la domanda dei privati (sia consumatori che investitori) restringendo invece l’intervento pubblico ritenuto fonte di rigidità burocratica e di soffocamento dello spirito imprenditoriale innovativo.

Dall’altra parte, vi fu chi – e fra questi vanno ricordati molti personaggi “di sinistra” – sostenne che, in un mondo ridiventato mercato globale in cui si acutizzava una forte competizione interimprenditoriale, era necessario essere particolarmente efficienti e produttivi; il che significava ridurre al minimo possibile i costi di produzione, effettuare spese per la ricerca di nuovi prodotti e di nuovi metodi produttivi, per creare migliori catene di distribuzione commerciale, ecc. Si doveva insomma diventare più competitivi in termini di costi, prezzi, qualità, e via dicendo. La crisi venne dunque ancora una volta considerata, da “destra” come da “sinistra”, non come qualcosa di intrinseco al sistema capitalistico, ma soltanto come una carenza di certe scelte politiche o di certe altre del tutto opposte.

In pratica, si può ben dire che la scienza economica dominante, praticamente l’unica al momento esistente, aveva (e ha tuttora) rinunciato ad ogni tentativo di trovare una spiegazione strutturale della crisi sempre latente in ogni sistema economico simile a quello, detto capitalistico, che ha iniziato ad affermarsi nel 1600-700, era in pieno sviluppo già nel secolo XIX e – pur con tutte le assai rilevanti modifiche intervenute nel frattempo, per cui si dovrebbe oggi cominciare a parlare di capitalismi e non di “capitalismo” – continua a permanere oggi in alcune sue forme decisive: imprese, mercati, concorrenza, innovazioni tecniche e di prodotto, decisiva importanza dei settori dello scambio mercantile (generalizzato) e della finanza, ecc.

Assistiamo così alla sostanziale incomprensione del tema della crisi nella “scienza” economica, sempre più ridotta ormai ad analisi empiriche di breve congiuntura e all’apprestamento di modelli da usare per tecniche di intervento politico-economico. Si torna ad affidare quindi le alterne vicende di un sistema complesso come quello capitalistico, ridivenuto mondiale, a variabili “soggettivistiche”: gli “spiriti animali” degli imprenditori privati, le ondate di fiducia (ottimismo) e sfiducia (pessimismo), ecc. Non si cerca per nulla una spiegazione scientifica, che non può non rinviare alla formulazione di ipotesi intorno agli elementi strutturali, di sistema, che provocano gli arresti dello sviluppo e il suo nuovo rinvigorirsi secondo cicli indubbiamente meno regolari di quanto si era supposto fossero fino alla metà del XX secolo (o poco dopo).

Faccio solo un esempio. Circa a metà anni ’90 del secolo scorso, entrò in una
lunga fase di crisi strisciante il Giappone, che all’inizio di quel decennio molti prevedevano sarebbe diventato in un periodo relativamente breve il più potente paese capitalistico al posto degli USA. Dopo oltre un decennio di stagnazione – con fenomeni di deflazione perfino dei prezzi, che per noi europei sono quasi inconcepibili, poiché non li abbiamo più vissuti dopo la crisi del 1929-33 – si cominciò a ritenere che ormai tale paese fosse destinato ad un inarrestabile declino. Improvvisamente, a qualche anno dall’inizio del secolo il Giappone riprese a crescere con buoni ritmi, senza che nessuno ne spiegasse in modo convincente i motivi. Ovviamente, non può non aver poi risentito della crisi iniziata nel 2008 e, proprio adesso, della “pandemia” che ci sta tormentando da pochi mesi. In ogni caso, ci si trova ormai da molto tempo in una vera impasse teorica, ed è inutile nasconderlo.

 

  1. Non mi sognerò in questa sede di nemmeno iniziare una discussione sulla possibile formulazione di una teoria delle crisi. Dirò soltanto quello che, a mio avviso, non si dovrebbe più ripetere perché è senza senso; inoltre, si possono sommariamente indicare quali direzioni di ricerca sembrano utili per tornare a riflettere con maggiore realismo alla teoria in questione. Naturalmente, il primo passo è l’ammissione che non esiste alcuna considerazione di tipo scientifico che non sia di carattere oggettivo (e dunque strutturale); se ci si riferisce solo alle scelte di politica economica, ad errori commessi – e che nessun essere umano può evitare di commettere – e addirittura all’ottimismo o pessimismo degli “agenti economici”, allora si è già abdicato a voler fare opera di scienza.

E’ innanzitutto indubbio che la crisi economica, conosciuta dal moderno mondo capitalistico, è l’interruzione e l’inversione di una tendenza allo sviluppo impetuoso delle forze produttive, uno sviluppo che, è inutile negarlo, nessun’altra società (precapitalistica) ha conosciuto. Inoltre, la povertà e miseria (relative), in ogni caso gravi disagi sociali oltre che economici, si verificano sempre nel bel mezzo di un aumento notevole delle capacità produttive del sistema economico, aumento provocato in modo particolare dai continui (per ondate successive) notevoli progressi delle tecniche produttive. Le crisi capitalistiche sono dunque l’esatto contrario dei quelle delle precedenti formazioni sociali, in cui c’era la carestia, legata a eventi di varia natura: siccità, malattie delle piante o invece diffuse epidemie, guerre devastanti, ecc. Nella nostra forma di società, come aspetto di evidenza empirica, si deve invece ammettere il periodico (ciclico) ripresentarsi di un “eccesso” di produzione in relazione alle capacità di acquisto di parti consistenti, maggioritarie, della popolazione.

Abbiamo già considerato, all’ingrosso, la tesi keynesiana di un risparmio crescente a fronte di un investimento (domanda di beni di produzione) che non è in grado di crescere in modo corrispondente. Da parte marxista, si sono prodotte più tesi; ancora una volta, chiedo di capirle approssimativamente poiché manca la possibilità di una loro spiegazione esauriente, che esigerebbe delle lezioni sulla teoria del valore e plusvalore. Si è sostenuto che la tendenza dei capitalisti (imprenditori) a massimizzare i loro profitti provoca una forte spinta allo sviluppo produttivo nel mentre vengono tenuti relativamente bassi i salari (retribuzioni del lavoro dipendente che sono un costo di produzione per le imprese), da cui tuttavia dipende gran parte della domanda di beni di consumo; anche secondo tale prospettiva teorica, si suppone il verificarsi di un netto scarto tra produzione (quindi offerta) e domanda (a partire dal lato del consumo). Un’altra interpretazione dello stesso processo prende pur sempre le mosse dal forte sviluppo economico in quanto causato dall’intenso progresso tecnologico dei processi produttivi, che dovrebbe provocare la caduta del saggio di profitto, cioè il rapporto tra profitti e capitale investito (sia in mezzi produttivi che in salari), in cui cresce soprattutto la quota del capitale fisso. Diminuisce perciò la convenienza dei capitalisti ad investire; per di più, si sostituiscono macchine a lavoratori, cresce quindi la disoccupazione e cala così pure la massa salariale e la domanda di beni di consumo.

Un aspetto evidente della crisi è la rottura dei circuiti dello scambio delle merci e di quelli finanziari (con in evidenza la Borsa valori). Ciò accadrebbe perché le decisioni di investire e sviluppare la produzione di queste o quelle merci provengono da tanti centri – le varie imprese capitalistiche – fra loro autonome, in mano a gruppi privati e fra loro in aspra competizione per la preminenza nei mercati. Non vi è quindi alcun coordinamento, si manifesta e si accentua la cosiddetta anarchia mercantile nei vari settori produttivi, si creano ingorghi e accumulo di merci invendute in alcuni di questi; la mancata realizzazione di adeguati ricavi in essi, a fronte dei costi sostenuti, contrae la domanda di merci prodotte da altre imprese e in altri settori, in cui si verifica allora lo stesso processo, con suo allargamento ed intensificazione fino al limite oltre il quale si innesca la crisi generale dei mercati.

Da queste tesi si generò la proposta relativa ad una pianificazione generale – che esigeva in primo luogo il superamento della proprietà privata delle imprese – che facesse di queste ultime parti interdipendenti di un sistema complessivo, fra loro coordinate da un unico centro decisionale, l’organo della pianificazione statale. Quest’ultima è andata incontro ad un sostanziale fallimento, portando alla stagnazione delle economie di quella tipologia e alla loro disgregazione finale. Tuttavia, anche nelle economie capitalistiche – in cui i mercati dei vari settori produttivi più importanti sono controllati da oligopoli, attorniati da piccole e medie imprese ad essi subordinate – si sarebbero dovuti produrre fenomeni di tendenziale coordinamento in base agli accordi intercorrenti tra le imprese oligopolistiche in oggetto; nel mentre gli Stati dei paesi capitalistici avrebbero dovuto assumere funzioni di programmazione (versione attenuata della pianificazione). La programmazione è fallita tanto quanto la pianificazione, e sono saltati pure gli accordi interoligopolistici; la competizione, con connessa “anarchia mercantile”, ha teso a svilupparsi nuovamente ed è oggi in via di tendenziale acutizzazione. Gli accordi eventuali tra grandi imprese – e le fusioni e centralizzazioni proprietarie attualmente in atto in tutto il mondo – sono solo un mezzo per tentare di migliorare le capacità competitive di certi gruppi economico-finanziari contro altri nella lotta per la preminenza nel mercato cosiddetto globale.

Si constatano al presente chiare difficoltà ad una generalizzata e robusta ripresa economica, pur facendo solo riferimento ai paesi a più alto sviluppo. Alcuni paesi, già sottosviluppati (tipo Cina e India), sono entrati in decisa crescita; soprattutto la Cina fra le due, anche se attualmente tale paese vede un po’ indebolito il suo ritmo di aumento del PIL. Altri paesi, tipo il Giappone, sono da tempo in fase di discreto sviluppo mentre la nostra Europa è andata incontro a crescita nettamente differenziata da paese a paese e oggi è in fase di sostanziale stagnazione. Si è continuato per non so quanto tempo a parlare di ripresa generale del sistema capitalistico rimondializzatosi, ma si è tutto sommato ancora in attesa che ciò si verifichi in modo deciso ed univoco. Non sembra sia da attendersi, salvo eventi al momento imprevedibili, una crisi del tipo del 1929, ma non è improbabile una fase di gravi difficoltà, con tendenziale (salvo eccezioni) stagnazione – caratterizzata magari da qualche breve impennata in alcuni paesi – un po’ come accadde nel 1873- 96. E oggi non vi è alcun passaggio da un sistema capitalistico concorrenziale ad uno mono(oligo)polistico, passaggio già avvenuto appunto da oltre un secolo.

 

  1. Il vero fatto è che non sono sufficienti le analisi e considerazioni di natura quasi solo economica. Un conto sono certe onde cicliche di moderata entità e di “congiuntura”; un altro le crisi di maggior momento, “catastrofiche” come nel 1929 o invece di lunga stagnazione come alla fine del secolo XIX. Quest’ultima non fu semplicemente dovuta al passaggio da una struttura dei mercati di tipo concorrenziale ad una di tipo oligopolistico; spiegazione “volgarmente” economicistica, limitata in tutti i sensi. Gli ultimi decenni di quel secolo rappresentarono piuttosto la transizione all’epoca detta dell’imperialismo. Alla preminenza dell’Inghilterra nell’insieme dei paesi in cui si era affermato il capitalismo – preminenza durata dal Congresso di Vienna (1814-15, detto della “Restaurazione”) fino a subito dopo la metà del secolo – seguì il suo lento (inizialmente) declino e la sempre più acuta lotta per la successione tra alcune grandi potenze, con l’intervento, in particolare, di Germania (nata nel 1871 dopo la guerra vittoriosa sulla Francia, condotta dagli Stati tedeschi guidati dalla Prussia) e USA (dopo la guerra civile del 1861-65 e la netta vittoria del Nord industriale sui “cotonieri” del Sud). Tale periodo, contrassegnato poi, nel secolo successivo, da due guerre mondiali oltre che dalla “grande crisi” del ’29, si chiuse nel 1945 con la netta predominanza degli Stati Uniti in campo capitalistico, mentre il lungo confronto interimperialistico tra le varie potenze provocò una serie di crisi politico-sociali – innanzitutto in Russia (prima guerra mondiale) e in seguito, dopo la seconda guerra mondiale, in molti altri paesi a partire dalla Cina – con la formazione del cosiddetto “campo socialista”.

In seguito al “crollo” di quest’ultimo e alla rimondializzazione del capitalismo, gli USA sono rimasti il paese predominante nel mondo. Tuttavia si assiste, con sempre maggior nettezza, non semplicemente (e banalmente) ad una ripresa di conflittualità e competizione tra grandi imprese – dette “multinazionali”, mentre hanno spesso una ben precisa collocazione nazionale del “gruppo di comando” – nel mercato mondiale, ma soprattutto ad un inizio di contrasti politici in varie aree geografico-sociali; in questo momento, un’area di notevole turbolenza è quella che va dal Nord Africa (Libia in testa) al Medio Oriente. Siamo chiaramente entrati in una nuova fase di tipo multipolare. Fin quando esisteva (ma per poco più di un decennio) un unico paese sostanzialmente predominante – gli USA, la cui supremazia era tanto economico-tecnica e finanziaria quanto politico-militare e spesso anche ideologico-culturale; una predominanza che si prolunga ancor oggi nei vari organismi internazionali: politici come l’ONU o economici come il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Banca Mondiale per lo Sviluppo, il WTO (Organizzazione mondiale per il commercio), ecc. – si è assistito ad un relativo coordinamento delle varie economie “regionali”. In tali condizioni non era facile l’esplodere di una crisi come quella del 1929. Quella crisi, pur di carattere eminentemente economico-finanziario, risentiva dello scontro aperto tra più potenze capitalistiche e faceva quindi parte dell’epoca caratterizzata dalla lotta interimperialistica, epoca conclusasi con la seconda guerra mondiale; la supremazia statunitense diede nuovo ordine e riorganizzò i rapporti interstatali nel campo detto “occidentale” (del capitalismo avanzato).

Per il prossimo decennio (e oltre) è più facile che si verifichino fenomeni di crisi strisciante, di stagnazione interrotta da brusche, ma brevi (e non generalizzate) impennate, dal declino di certi paesi e aree geografico-sociali mentre altri saliranno a gradini più alti di sviluppo capitalistico, ecc. Insomma, sembrerebbe più probabile per qualche tempo una serie di fenomeni (di crisi) somiglianti in qualche modo a quelli del 1873-96 più che a quelli del 1929-33; in realtà del 1929-39, perché la crisi era soprattutto d’ordine multipolare e policentrico ed entrò in fase di risoluzione con la lotta per la supremazia, risoltasi a favore degli Stati Uniti nel campo detto capitalistico. Per comprendere appieno tali fenomeni, penso sia molto riduttivo limitarsi all’analisi dei processi economici, alla considerazione (quantitativa) degli andamenti di consumi, risparmi, investimenti, innovazioni tecnologiche, rialzi o ribassi dei saggi di interesse o di quelli dei profitti in settori produttivi diversi, sbalzi delle quotazioni di Borsa, e via dicendo. Questi sono certo sintomi, segnali, importanti e vanno seguiti con attenzione. Bisogna però capire che la competizione, anche per quanto riguarda la conquista di maggiori quote di mercato, non è mai solo basata su costi, prezzi, qualità, catene di distribuzione, sistema di finanziamenti, ecc.; è indispensabile la potenza militare, l’influenza politica sui Governi di vari paesi (alcuni in posizione geografica cruciale), una capillare penetrazione culturale dei propri modelli di vita sociale in aree fondamentali.

Sull’analisi economica, certo da eseguire, prevale perciò quella geopolitica; l’attenzione per le quote di mercato delle varie (grandi) imprese va “sottomessa” a quella relativa alle sfere di influenza da conquistare (o riconquistare) e da mantenere. Far credere che staremo tutti meglio se ci attrezziamo ad una virtuosa competizione economico-imprenditoriale in un mercato globale, privo di qualsiasi impaccio e restrizione, è pura ideologia (liberista). E’ grave l’incredibile ignoranza odierna di sedicenti economisti circa le vecchie ricette keynesiane condite di spesa pubblica in pieno deficit di bilancio, che almeno possono attenuare certi fenomeni estremamente negativi. Tuttavia, è indispensabile superare del tutto l’economicismo, tipico della tradizione neoclassica (in ogni suo versante); e deve essere combattuta ogni falsa credenza in un modello di sviluppo fondato sullo strapotere di gruppi economico-finanziari, che desiderano soltanto di essere lautamente assistiti dallo Stato, “serviti” da apparati politici – nuovi nella forma e nel personale ma vecchi nella sostanza – del tutto incapaci di analizzare a fondo la vera causa dell’attuale crisi: il disordine legato alla netta crescita del multipolarismo. Sia ai gruppi economici che a quelli politici manca del tutto una visione ampia, di carattere strategico.

Qui però mi fermo, in questa discussione, perché altrimenti il discorso dovrebbe aprirsi ad una considerazione più nettamente politica; e certo non univoca né precisa perché molte, troppe, sono oggi le variabili scarsamente conosciute proprio a causa della cortina fumogena che le ideologie neoliberiste stanno diffondendo ormai da un bel po’ di tempo. Invito solo a riflettere, cercando nuove vie, non restando incantati di fronte alle fumisterie di TV e stampa. La storia non sarà “maestra di vita”, ma ci insegna comunque qualcosa. E quanto è successo a partire dalla fine del secolo XIX e fino ai nostri giorni – le due crisi economiche di tipologia differente già più volte considerate (1873-96, di stagnazione, e 1907 e 1929 di crollo finanziario e netto declino economico), le due guerre mondiali, il confronto tra campo capitalistico e (presunto) “socialista”, il poco più che decennale predominio statunitense e infine l’attuale multipolarismo – è decisivo per orientarsi di nuovo nel mondo attuale e per i prossimi decenni. Facciamo tesoro delle tante lezioni già ricevute; ma cerchiamo di andare avanti nell’interpretazione del mondo in cui ci troveremo ad operare, probabilmente incontrando crescenti  difficoltà.

Per il momento è tutto. Detto succintamente, ma credo con sufficiente chiarezza. Sottolineo che si deve attaccare a più non posso l’economicismo, l’assenza totale di ogni analisi dell’evoluzione politica e sociale in quest’epoca di sempre crescente disordine e conflittualità internazionale. Non si cerchi però, nel breve (e forse medio) periodo, di voler riproporre la “riscaldata minestra” del conflitto sociale o addirittura “di classe”. Siamo ancora, ma certo con forme nuove (come sempre avviene nella storia), al conflitto tra gruppi dominanti (e di fatto nazionali; non “nazionalisti”, specifico), a quella che in tempi passati e con differente sistema di interrelazioni mondiali fu definita “epoca dell’imperialismo” (in realtà, detto con definizione più generale, del conflitto policentrico). In quell’epoca si svilupparono le grandi rivoluzioni che si credé orientate al socialismo: “rivoluzione d’ottobre” durante il primo grande conflitto “interimperialistico”; quella cinese con il secondo grande conflitto (anche se la nascita ufficiale di quello Stato avvenne nel 1949). E anche le altre (Cuba, Vietnam, ecc.) furono favorite dalla situazione “bipolare” creatasi con la seconda guerra mondiale.

In definitiva, basta con il micragnoso e gretto (e dunque sviante) economicismo, la malattia degli intellettuali blanditi da una classe dominante come quella “occidentale”; ma in modo speciale da quella europea, infame e inetta come forse non è mai accaduto nella lunga storia delle società umane. Le nostre popolazioni, che ancora accettano simili ceti dirigenti sono al momento inermi e imbelli. Si formerà una Forza Nuova capace di fare piazza pulita, in senso veramente definitivo ed esaustivo, di tali ceti? Per il momento nulla si vede. E finché la situazione resterà come ormai è da alcuni decenni, la si smetta di sognare addirittura le rivoluzioni dei dominati; anche se questi dovessero avere qualche sussulto di ribellione (e di dubbi ce ne sono tanti), verrebbero schiacciati e massacrati in assenza di una effettiva direzione strategica al loro vertice. Si ricominci a ragionare.

storia e ricordi, di Gianfranco la Grassa

UN PO’ DI STORIA RECENTE PER GLI IGNARI

 

  1. Da qualche punto debbo cominciare questa mia breve (e fin troppo succinta) memoria della storia che abbiamo attraversato da molti decenni a questa parte. Intanto partirò da una premessa di tipo personale. Ho aderito al comunismo nel 1953. Mi trovai subito immerso nei dubbi e perplessità, direi perfino in opposizione, quando uscì l’articolo di Togliatti su “Nuovi Argomenti” nel 1956 con la “trovata” della “via italiana al socialismo”. In quell’anno fui contrario al XX Congresso del PCUS (tenutosi a febbraio) e poi ammirai l’intervento di Concetto Marchesi all’VIII Congresso del Pci (verso la fine del ‘56), in cui svillaneggiò Krusciov, il meschino ricostruttore delle vicende dello stalinismo in chiave puramente personalistica e come si trattasse del frutto di una psiche “disturbata” e tendenzialmente criminale; con metodo insomma del tutto simile a quello, criticato dai comunisti (almeno da quelli che conoscevano un po’ il marxismo), quando si parla di Hitler folle e “mostro”, ricostruendo la storia in base a simili fatue categorie interpretative. Ricordo che Togliatti andò a stringere la mano a Marchesi dopo l’intervento e ciò rinsaldò il mio atteggiamento critico di fronte a quello che ho sempre considerato l’opportunismo dell’allora segretario piciista. Nell’ottobre del ’56 fui senza esitazioni per l’intervento in Ungheria, non approvando però l’atteggiamento incerto dei sovietici (una prima mossa aggressiva frettolosa e poco giustificata, poi l’arresto dell’operazione, infine la repressione troppo brutale).

Accettai inoltre quel fatto per ragioni che oggi si direbbero “geopolitiche”. Ritenevo un disastro che si sbriciolasse il campo avverso a quello atlantico (guidato e comandato dagli Usa). Cominciai tuttavia a chiedermi quale “coincidenza” ci fosse tra il “socialismo” imparato sui testi marxisti e quello in atto. Si ammette sempre una discrepanza tra teoria e realizzazioni pratiche, tuttavia mi sembrava che fosse venuta in evidenza una distanza “leggermente” eccessiva. Fui poi disturbato dal comportamento dei vertici del PCI (della “via italiana al socialismo”) nei confronti di chi traballò e fu preso da naturali dubbi, come ad es. Di Vittorio, di cui si dice che fu perquisito a casa e intimidito da parte di una sorta di “polizia interna” (che a mio avviso era giusto esistesse, ma non per agire con somma rozzezza e brutalità) mossa da quello che si riteneva allora una specie di “ministro dell’interno” del partito (lo stesso che nel 1978, in costanza di rapimento Moro, fece il viaggio, detto ridicolmente “culturale”, negli USA). E’, però, soltanto un “si dice”, mi raccomando, non prendetelo per sicuramente vero.

L’anno successivo (’57), fui comunque sostanzialmente dalla parte del “gruppo antipartito” nel PCUS (Malenkov-Molotov-Scepilov-Kaganovič), perché Krusciov mi appariva un opportunista rozzo e furbastro. I quattro furono espulsi dal partito, dopo alterne vicende: iniziale maggioranza nella Direzione del partito e poi in minoranza nel successivo Comitato Centrale, convocato d’urgenza dal segretario e che, come sempre accade quando si passa ad un numero piuttosto consistente di “esseri umani”, era zeppo di tirapiedi silenziosi e conformisti. Ciò mi allontanò ancor di più dalle posizioni del PCI, sempre allineato con Mosca e dunque ormai con la mediocrità del krusciovismo.

Da allora accentuai la mia critica al partito in quanto “revisionista” (pensavo ad una riedizione, “riveduta e s-corretta”, del kautskismo) e mi avvicinai sempre più ai comunisti cinesi (allora non ancora divisi in “linea nera” di Liu-sciao-chi e “rossa” di Mao, divisione che avvenne nel ’66 con la “rivoluzione culturale”; è ovvio che le definizioni di “nera” e “rossa” erano di marca maoista). Quando nel ’60 si svolse a Mosca il Congresso degli 81 partiti comunisti (di tutto il mondo), si precisò la lontananza fra cinesi e russi e mi sentii viepiù consenziente con i primi. Infine vi fu la “crisi di Cuba” (ottobre 1962), su cui occorre un racconto a parte, data la somma di bugie raccontate. Nel 1963, si precisò con nettezza il dissidio ormai inconciliabile tra PCUS e PCC (in cui era ancora in auge Liu-sciao-chi) con il violento scambio di accuse contenute nelle lettere che si scambiarono i comitati centrali dei due partiti. Alle critiche al PCUS, i cinesi aggiunsero due importanti interventi (in specie il secondo) contro Togliatti e il PCI. Da allora ruppi in modo definitivo con il partito; per un bel po’ di tempo mi aggirai nella gruppistica (quella di tendenza m-l), da cui però mi allontanai nel corso degli anni ’70 (in specie dopo la morte di Mao nel settembre 1976).

Poiché ero però allievo del maggiore economista di tale partito (fra l’altro, l’unico citato assieme a Togliatti nel secondo degli interventi cinesi contro i comunisti italiani), in definitiva mantenni aperti i canali con esso e quindi ebbi modo di sapere molte “cosette”. In fondo ho avuto contatti amichevoli con membri dei vertici del PCI (sorprenderebbe sapere qualche “grosso” nome, che non posso fare), senza mai chiedere alcun favore ma solo notizie (assai interessanti e sovente non di dominio pubblico). Frequentai anche molto “Critica marxista”, fui pubblicato dagli Editori Riuniti, ecc. ecc. Tuttavia, ero nel contempo impegnato in tutto quell’ambaradan che fu detto “extraparlamentare”; vedevo come fumo negli occhi, perché ne rilevavo le ascendenze fondamentalmente anticomuniste (non solo antipiciiste), le correnti poi dette “operaiste” (e più tardi dell’“autonomia”) e fui più vicino ai cosiddetti emme-elle, ma certo con tanto sconcerto per la sclerosi e dogmatismo delle loro posizioni, salvo rarissimi casi.

  1. Passarono gli anni, morì nel giugno ‘63 il “Papa buono” (il primo della “S.S. Trinità” costituita da Giovanni XXIII, Kennedy e Krusciov), a novembre fu assassinato il presidente americano, nell’agosto ’64 morì Togliatti e in ottobre fu rimosso il leader sovietico. Si arrivò al fatidico ’68 (preceduto in Italia da un ’67 già turbolento) e anni successivi che, come ben si sa, furono definiti “anni di piombo” (quelli ’70 soprattutto) o del “terrorismo rosso”, mentre invece sono stati anni in cui quest’ultimo (indubbiamente messosi in moto dissennatamente) fu ampiamente infiltrato e sfruttato (insieme a quello, “secondario”, detto nero) per una serie di “giochi delittuosi” posti invece in atto dai vari Servizi dei paesi dei “due campi”. Venni a conoscenza abbastanza presto di quanto fosse falso il “racconto” che si stava facendo (e che continua ancor oggi!) di quel “terrorismo”. Ricordo intanto l’importante evento della repressione sovietica in Cecoslovacchia nel 1968, che questa volta condannai, ma più che altro per critica al cosiddetto “socialimperialismo” Urss e senza aderire minimamente alle idee, anzi aborrite, di Dubcek e soci; idee invece condivise da assai deboli “antirevisionisti”, in particolare dai “manifestaioli” in Italia che mostrarono fin da allora di non essere migliori dei piciisti. Alla fine degli anni ’60 iniziarono “discreti” contatti tra PCI e “ambienti statunitensi”; prese insomma avvio il lento e molto coperto trasferimento del PCI verso “ovest”. In un certo senso, se si vuol fissare una data, si deve indicare il 1969; detto “per inciso”, in quell’anno Berlinguer divenne vicesegretario.

Sembravano allora maggioritari nel partito gli “amendoliani” (il cui n. 2 era Napolitano), corrente (pur se non riconosciuta formalmente in nome dell’unità del partito, che si pretendeva ancora leninista) cui apparteneva anche il mio Maestro, corrente cui si deve l’espulsione di quelli de “Il Manifesto”. Il gruppo amendoliano era considerato appunto l’avversario principale (quello più “revisionista”) nell’ambito del piciismo. In effetti, detto gruppo era sostanzialmente socialdemocratico, critico del socialismo di tipo sovietico; peraltro con critiche non del tutto errate a quello che era un semplice statalismo esasperato, ormai incapace di promuovere un vero sviluppo. Vi era in esso una propensione ormai piuttosto evidente verso il capitalismo; solo moderata da più che fumosi e mai seriamente attuati propositi di sedicenti “riforme di struttura” e di “programmazione democratica” al posto della pianificazione statalista, con idee poco chiare circa la pretesa superiorità delle imprese “pubbliche” rispetto alle “private”. Insomma, fu evidente la debolezza teorica (del “marxismo all’italiana”) e anche l’ambiguità della loro linea politica. Gli “amendoliani” (almeno nella maggior parte) erano comunque contrari all’atlantismo (Usa) e quindi considerati tutto sommato filosovietici nell’ambito del PCI; furono dunque i più radicali avversari dei gruppuscoli extraparlamentari, che oscillavano tra il filo-maoismo (e la rivoluzione culturale) e il dubcekismo opportunista e filo-occidentale (soprattutto apprezzato da quelli del “Manifesto”).

Nel 1972 venne eletto segretario Berlinguer con l’appoggio di un composito assembramento di cui fece parte l’ormai “fu” (almeno per me) amendoliano Napolitano e la sedicente sinistra ingraiana, che aveva fili di collegamento con la gruppistica tramite i “manifestaioli”. Da allora, il cambio di casacca piciista procedette con più sicurezza e, nel contempo, prudenza; venne via via in evidenza l’“eurocomunismo”, l’ideologia che mascherava tale processo e cercava di dare dignità allo spostamento di campo nello schieramento internazionale.

  1. Nel 1967 vi fu il colpo di Stato dei colonnelli in Grecia (e venne ucciso in Bolivia il Che Guevara, altro argomento su cui occorrerebbe un discorso a parte). Tale colpo di mano militare fu chiaramente appoggiato dagli USA (nella sua politica “ufficiale”), mentre vide ovviamente contrario lo schieramento sovietico e l’insieme dei partiti comunisti occidentali. Quel regime non fu mai ben saldo, pur se si parlò di contatti con ambienti “destri” in Italia e qualcuno ebbe paura di eventi simili pure da noi (il cui unico risultato in definitiva fu il gustoso film di Monicelli “Vogliamo i colonnelli”). Nel 1973 il regime militare greco entrò in piena crisi e l’anno successivo ebbe termine; con l’instaurazione, però, di una “democrazia” apertamente filo-occidentale, di fatto filo-atlantica e pro-Usa, quindi avversaria del campo detto socialista. E questo era comunque il reale scopo perseguito dagli Usa con il colpo di Stato.

Le posizioni tra il 1967 e il ’74 nel nostro campo capitalistico sembravano molto chiare e nette: gli Usa per i colonnelli, l’Europa tiepida, in certi casi perfino antipatizzante ma senza troppo irritare il perno del campo stesso; i comunisti, orientati “ad est”, decisamente avversari dei militari. La politica è però sempre assai meno limpida delle sue apparenze e delle declamazioni “in pubblico”. Dati “ambienti statunitensi” (diciamo così, la qual cosa è in fondo sufficientemente corretta) si rendevano conto della debolezza del regime greco e quindi tramavano sotto traccia pure con l’opposizione “democratica” greca per preparare l’eventuale cambio di regime come poi avvenne. In queste trattative entrava pure una parte dei comunisti greci, la minoranza, mentre la maggioranza restava ostile e vicina all’Urss. La parte minoritaria costituì il “partito comunista dell’interno”, che si collegò con il nascente “eurocomunismo”, il cui centro direttivo si trovava nella parte ormai maggioritaria del PCI. Fu durante quel periodo che si accentuarono (almeno così si può arguire) i contatti tra i suddetti “ambienti statunitensi” e date correnti del PCI e, tramite queste, con il partito comunista greco dell’interno; colloqui non irrilevanti per quanto avvenne poi in Grecia nel 1974: caduta del regime, vittoria elettorale di “Nuova Democrazia”, partito appena fondato da Konstantinos Karamanlis, governo “democratico” (conservatore) che iniziò il suo iter filo-Nato.

In quegli anni, fra l’altro, ebbi modo di venire coinvolto di striscio nella vicenda. Nel 1971 avrei dovuto andare proprio in quel paese e incontrare qualcuno che apparteneva ai “comunisti dell’interno” (i futuri “eurocomunisti” con il PCI). Purtroppo, ho come soli testimoni le mie orecchie e la mia vista; non posso provare per conto di chi ci dovevo andare e chi dovevo incontrare. Da questa vicenda trassi però in seguito idee piuttosto precise su ciò che stava accadendo con i cambiamenti di campo in atto. Alla fine rifiutai di recarmi in Grecia perché mi sembrava troppo pericoloso, ma tutto sommato – come appunto capii meglio un po’ dopo – sarei stato protetto abbastanza (e proprio da certi “ambienti” USA) anche se certamente i colonnelli avrebbero masticato amaro e potevano quindi farmi qualche scherzo tipo “incidente” o qualcosa del genere.

In ogni caso, per quanto all’inizio assai sorpreso della proposta fattami di andare “laggiù” (io ero ben conosciuto come comunista e quindi certo non favorevole a quel regime), pian piano afferrai poi cosa stava avvenendo in certi ambienti dell’“opposizione” in Italia. Di più non posso chiarire, ma ebbi prove discrete di quanto sto raccontando circa gli spostamenti di “campo” in quel periodo. Non compresi comunque subito che aveva preso avvio, tra fine anni ’60 e inizio ’70, lo spostamento di almeno alcune frange della “destra” (amendoliana), che permisero l’ascesa a posizioni di comando nel PCI di coloro che furono fondamentali per il suo lento orientarsi verso l’atlantismo, sempre però assai ambiguo almeno fino all’accettazione della Nato, anche questa iniziata fin dal 1972, ma molto ambigua e “mascherata” per alcuni anni.

General Augusto Pinochet (L) poses with Chilean president Salvador Allende, 23 August 1973 in Santiago.
ANSA

  1. Ancora più rilevanti per comprendere dati fatti riguardanti il “comunismo” italiano (ma anche più in generale) – accaduti in quegli anni, che sono pure fondamentali per meglio valutare il nostro presente, a partire dal periodo susseguente al crollo dell’Urss, alla truffaldina operazione “mani pulite”, ecc. ecc. – furono gli eventi svoltisi nello stesso periodo in Cile. Cerchiamo di essere ordinati, cosa non tanto facile data la somma di eventi, tra cui si deve trascegliere tacendone una buona parte. Se non vado errato – ma certamente ricerche storiche finalmente oneste sarebbero necessarie – nella seconda metà degli anni ’60 vi fu notevole corresponsione di interessi tra settori Dc (con Moro in testa) e il presidente democristiano cileno Eduardo Frei. Gli accordi portarono fra l’altro alla nascita di un’agenzia stampa (con sede a Roma), che si espanse a tutto il Sud America, poi ai tre continenti del Terzo Mondo ed infine su scala globale, autonomizzandosi rispetto all’originario contesto (oggi non esiste più già da tempo). Ciò introdusse anche correnti imprenditoriali italiane in Cile e altri paesi sudamericani, ma non penso proprio che questo abbia infastidito più che tanto gli USA.

Nel 1970, Allende vince le presidenziali in Cile. Frei, da allora, si sposta nettamente verso gli Stati Uniti e certamente non si oppose (penso proprio il contrario) alla preparazione del colpo di Stato di Pinochet dell’11 settembre 1973. Credo non debba esservi nemmeno dubbio che la scelta di Frei abbia determinato frizioni con settori non irrilevanti della Dc italiana e con Moro in particolare. Nello stesso tempo, come già era avvenuto in Grecia, vi furono sicuramente “ambienti statunitensi” che non parteciparono alla preparazione del colpo di Stato, sempre per il principio che è sempre necessario esistano soluzioni di ricambio per l’eventualità della non riuscita di determinati progetti più “radicali”. Indubbiamente, la storia successiva dimostrò che il colpo di Stato di Pinochet fu più solido di quelli dei colonnelli greci, durò sedici e non sette anni. Tuttavia, non credo proprio che abbiano mai cessato di sussistere i suddetti ambigui ambienti negli USA; sempre pronti all’eventuale sostituzione di determinati progetti con altri di tipo detto (ridicolmente) “democratico”.

Il PCI – o meglio certi settori dello stesso, ormai a noi ben noti, già in azione con i comunisti greci (dell’interno) durante il regime dei colonnelli – si mosse in questa situazione che ancora una volta si presentò chiara nella sua “ufficialità”: condanna del colpo di stato da parte del partito italiano (assieme a tutti gli altri partiti comunisti), contrarietà anche di altre forze politiche nostrane (ed europee, contrarietà molto ben contenuta), appoggio smaccato a Pinochet da parte degli Stati Uniti, apparentemente in tutti i loro ambienti poiché è ovvio che le “forze di riserva” si tengano sempre ben coperte e tramino in gran segreto per l’eventualità di diverse soluzioni future. Subito dopo il colpo di Stato, esce in tre puntate (su “Rinascita”) un lungo articolo di Berlinguer (ricordo: segretario dal 1972 per la convergenza dei settori ex amendoliani, di cui già detto, e anche della sedicente corrente di sinistra, ecc. sul suo nome), in cui si condanna ufficialmente il colpo di Stato, si accusano dello stesso gli USA; però…..

Il però era un’apparentemente togliattiana valutazione intrisa di “realpolitik”, che taluni vollero assimilare alla scelta di Palmiro nella famosa “svolta di Salerno” del 1944, necessitata dai patti di Yalta e dal voler evitare la stessa sorte che toccò ai comunisti greci; sorte, lo si scorda sempre, che si compì per essi nel 1949 dopo aver avuto perfino il sopravvento in dati periodi, almeno fino al 1947. Anno in cui si ebbe la rottura tra Jugoslavia e URSS e l’uscita della prima dal Cominform; evento da cui conseguì l’impossibilità di adeguati aiuti (soprattutto dell’URSS) ai compagni greci poiché gli jugoslavi (geograficamente vicini a quel paese) li impedirono. Ci fu poi la sostituzione di Markos (notevole capo militare) con il molle Zachariadis al comando delle truppe comuniste greche con risultati complessivamente catastrofici: annientamento di vasti settori di queste ultime e uccisione di decine di migliaia di militanti.

Berlinguer, con “buon senso” (appunto tra virgolette), ricordò che comunque l’Italia era parte del campo capitalistico (l’“occidente”) strutturato attorno ad un’alleanza militare, la Nato, controllata dagli Stati Uniti. Per evitare che anche l’Italia corresse pericoli di tipo cileno, bisognava secondo il suo parere almeno in parte “abbozzare” e accettare realisticamente la nostra posizione atlantica. In un certo senso, si può dire che da qui parte, o almeno si rinforza, l’idea del cosiddetto “eurocomunismo”, da ritenersi in qualche modo il successore, riveduto e (s)corretto, dell’invenzione togliattiana denominata “via italiana al socialismo”. Qui si pensa meno in termini italiani, nazionali, e invece più europei. Sembrò un allargamento di visione prospettica; in realtà, significò che il Pci, sfruttando la sua posizione di maggiore partito comunista d’occidente (e il più “radicato tra le masse popolari” del proprio paese, chiara impostazione ideologica del problema), si candidò a far da organo di collegamento e traino di tutte le frazioni interne ai partiti comunisti occidentali – primi fra tutti quelli francese e spagnolo, ma con ramificazioni minori pure verso i partiti comunisti orientali (dunque pure in Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, paesi “socialisti” in genere) – frazioni ormai preoccupate dell’evidente (salvo che per alcuni “frastornati”) indebolimento dell’Unione Sovietica (soprattutto dovuto alla struttura sociale interna, non tanto quale potenza militare) e che dunque si prepararono cautamente al cambio di campo.

S’intensificarono, tramite alcuni “ambasciatori”, i rapporti tra Pci e i suddetti ambienti statunitensi (quelli delle “soluzioni alternative”), che culmineranno nel 1978, chiudendo solo la prima fase, con il viaggio dell’alto esponente del Pci negli Usa; un viaggio ridicolmente e inutilmente presentato (salvo forse che per la “base”, costituita dai soliti credenti) come culturale, mentre si ebbero molti riservati incontri ben più significativi e coinvolgenti. Riparleremo più avanti di questo viaggio, avvenuto in fortuita coincidenza con il rapimento Moro; fortuita in quanto coincidenza temporale, non ne sono invece sicuro quale rapporto causa/effetto. Le mene “atlantiche” del Pci non avrebbero avuto senso senza l’avvio di quello che fu il “compromesso storico” con la Dc, un compromesso tutt’altro che scevro di antagonismo e di insinuante tentativo piciista di arrivare un giorno a sostituirla come bastione di un regime solidamente pro-occidentale (cioè pro-Usa), nella sostanza meno ambiguo di Dc e Psi verso l’est europeo, gli arabi, ecc. (pur se, ufficialmente, il Pci restò a lungo vicino a personaggi come Arafat, ecc.). Comunque, è tutto da ricostruire storicamente, non come fatto da storici “di sinistra” cui deve andare tutto il nostro disprezzo.

In ogni caso, non mi sembra che la Dc sia rimasta complessivamente tranquilla. Credo che i settori più favorevoli all’avvicinamento del PCI agli statunitensi (e dunque al “compromesso storico”) fossero in sostanza guidati da Cossiga (comunque questi ne fu un esponente assai importante). Costui, dopo “mani pulite”, sembrò prendere negli anni ‘90 posizioni di contrasto con gli USA. Lui stesso rivelò che, quando nella stampa americana s’iniziò a fare troppo spesso il suo nome in merito a quell’operazione giudiziaria, ottenne infine il silenzio minacciando di fare cenno ai contatti tra Stati Uniti e mafia siciliana per favorire la costruzione della base a Comiso con una “opportuna” azione tesa a mitigare la contrarietà dei partiti del cosiddetto arco costituzionale. Non credo siano serviti tanto questi ricatti quanto i rapporti con “amici” statunitensi che zittirono quelli che lo importunavano. Non a caso, ben dopo “mani pulite”, nel ’99, Cossiga (per sua stessa ammissione) fu al centro delle operazioni trasformistiche che portarono al governo D’Alema, giudicato il migliore per un “corretto” comportamento italiano di appoggio incondizionato all’aggressione clintoniana alla Jugoslavia.

  1. Tornando indietro agli anni ‘70, credo che Moro avesse una buona conoscenza dei fatti e fosse molto sospettoso e prudente nei confronti dell’avvicinamento (conflittuale, e non lo si prenda per bisticcio di parole) tra PCI e certi ambienti democristiani, pure loro pronti a notevoli mutamenti di prospettiva su pressione di certi “ambienti” statunitensi. Per quanto posso capire, il dirigente diccì – poi rapito e ucciso; e la si smetta di dire dalle BR – fosse in ciò seguito da Fanfani, mentre Andreotti come al solito si “destreggiò”; pagò più tardi, ma anche da “mani pulite” in poi sopportò in silenzio e con pazienza che passasse la buriana, garantendo una segretezza (di quanto avvenuto negli anni ’70) che infine lo premiò, cosa non accaduta ad altri (ad es. a Craxi, che era stato a suo tempo favorevole a contatti tali da almeno cercare di salvare Moro). All’inizio degli anni ’70, il PSI faceva già da lungo tempo parte del cosiddetto centro-sinistra al governo, ma fu solo dopo il ’76 (ascesa di Craxi, ecc.) che si mise in più accesa competizione con il PCI; e anche la direzione del partito socialista prese atto, secondo la mia opinione, delle pericolose manovre del “nuovo” PCI di avvicinamento agli USA.

Nel ’76 vi fu però (sempre fortuita coincidenza?) la vittoria decisiva dell’“antifascismo del tradimento”, che falsa tutto il significato della Resistenza, divenuta “lotta di liberazione” in pieno appoggio agli “Alleati”, i nostri “liberatori”. Balle mostruose, se si pensa che, come ammise Cossiga (anche se poi ritrattò e negò), l’80% di quell’evento storico – limitato di fatto, nella sua vera rilevanza, al nord Italia (o poco più) quale autentica lotta partigiana e non chiacchiere dei savoiardi e badogliani, poi di fatto avallate almeno parzialmente dall’eccessiva “prudenza” togliattiana – fu guidato dai comunisti. Naturalmente, ci sono molti misteri da spiegare, a partire dalla frettolosa fucilazione di Mussolini con sparizione, almeno così si continua a dire, di importanti carteggi. La scusa fu che, altrimenti, gli Alleati lo avrebbero salvato. Proprio così? Soprattutto gli inglesi e Churchill lo volevano salvo? Non è che certi “comunisti”, magari, eseguendo gli ordini del comando del CLN (con aperta tendenza al compromesso togliattiano dei dirigenti comunisti in quel comando) fecero un favore agli “Alleati”, ma soprattutto agli inglesi, consegnando carteggi tra Mussolini e il premier inglese? Mah!

Resta il fatto che né Moro né Craxi si opposero (c’è da dire: “et pour cause”?) al totale travisamento della Resistenza; non lo potevano, d’altronde, giacché ridimensionava il ruolo dei comunisti, fatto che pensavano ad essi favorevole (sbagliando di grosso!). Furono fin troppo morbidi anche quando ci si prodigò nel dileggio del “fanfascismo”, nelle vignette di Craxi in camicia nera e orbace, ecc. E si trattava di un chiaro sintomo di come il nuovo (falso) antifascismo volesse sfruttare i meriti passati, approfittando di un ceto intellettuale infame che obnubilò ogni effettiva memoria storica, per accusare di fascismo chiunque intralciasse il “compromesso storico”, cioè la “riabilitazione atlantica” del PCI. L’“antifascismo del tradimento” – lanciato fra l’altro con “Repubblica”, giornale non a caso uscito proprio nel 1976 – fece dimenticare l’infamia di badogliani e savoiardi, fu patrocinato anzi da ambienti repubblicani, dichiaratisi semmai eredi di “Giustizia e Libertà” (che ebbe uomini insigni, sia chiaro, non i miserabili allignanti in quel giornalaccio), ben foraggiati dai “cotonieri” italiani, in particolare dalla Fiat e dagli eredi degli ambienti industriali italiani fascistoni fino al 25 luglio ’43 – effettiva caduta del “fascismo” al “Gran Consiglio” diretto da Achille Grandi con arresto di Mussolini e sua “custodia” al Gran Sasso, da cui fu liberato dai tedeschi scesi in Italia dopo il voltafaccia settembrino del Re e di Badoglio – per poi voltare rapidamente gabbana e innamorarsi dei “liberatori” (si dice che alcuni ambienti “industriali” abbiano iniziato segrete trattative con i già chiari vincitori della guerra già a fine ’42).

Quell’“antifascismo del tradimento” attaccò appunto i settori che più sospettavano e temevano il “compromesso storico”, ma che commisero l’errore di non prenderlo di petto con molta energia, cosa che alla fine li perdette. E li attaccò esattamente come fa oggi; chiunque si oppone alle sue losche trame, all’asservimento totale del paese agli Usa, è immediatamente tacciato di fascismo. Va dichiarato senza mezzi termini che questo “antifascismo” è da quarant’anni il veleno responsabile dello sbriciolamento politico, sociale e culturale d’Italia. Ha apportato danni, putrefazione, viltà estrema, servilismo. E’ veramente il più grande pericolo degenerativo che sta correndo il nostro paese dall’Unità ad oggi. O lo si ferma o si è perduti per molti e molti anni. Non lo si ferma, però, con l’altrettanto meschino e antistorico anticomunismo dell’attuale “destra”, né con il liberismo d’accatto; non ci siamo proprio. Occorre ben altra forza politica, che ancora non appare minimamente in formazione; soprattutto perché tre quarti di secolo di “democrazia” (del tutto falsa e imbelle) hanno istupidito anche gran parte della popolazione, perfino le masse più popolari.

 

  1. Dobbiamo fermarci un momento a pensare e analizzare, sempre via ipotesi, quanto stava avvenendo nel campo “socialista” centrato sull’Urss. Devo tralasciare tutta la questione del decisivo dissidio sovietico-cinese in cui s’inserì, nei primi anni ’70, l’azione Kissinger-Nixon, non raggiungendo grandi successi per gli ostacoli frapposti a quello che, io penso, verrà infine rivalutato come un non banale presidente americano, fatto fuori dall’FBI con il “Watergate” (su indicazione di ben precisi centri statunitensi portatori di altra strategia). Qui mi limito a considerare brevemente le difficoltà interne dell’Urss, che non potevano non riverberarsi sui paesi dell’area ad essa sottomessa.

Con la liquidazione di Krusciov (1964) si mise termine ad una serie di operazioni sconnesse e contraddittorie, che rappresentavano un grosso pericolo per la seconda superpotenza mondiale; sia per quanto concerne la coesione all’interno sia per il possibile sgretolamento della sua sfera d’influenza esterna. Tuttavia, si congelò la situazione sociale e politica, si dichiarò una soltanto formale e decrepita ortodossia ideologica, ormai priva di presa. Si cercò di tenere saldo un blocco sociale (ed è già tanto forse definirlo così) formato dai vertici del partito – con gli alti dirigenti dei grandi “Kombinat”, nominati da detti vertici politici per meriti di fedeltà, non certo per capacità direttive manageriali – e dagli strati inferiori, esecutivi, dei lavoratori salariati trattati ancora, del tutto stancamente, da Classe Operaia, il presunto soggetto operativo nella “costruzione” del socialismo (primo stadio) e poi comunismo. Il famoso principio marxista del socialismo, “a ciascuno secondo il suo lavoro”, venne interpretato in senso meramente quantitativo, in quanto durata e pesantezza del lavoro; non per la qualità, così come intendeva Marx che – oltre al fatto di pensare tale classe formata, insieme, “dal primo dirigente all’ultimo giornaliero” – aveva fatto distinzione tra lavoro “semplice” e “complesso”, un’ora del quale valeva quale multiplo dell’ora del primo. Vi erano operai delle mansioni inferiori che prendevano un salario (pur sempre basso) non inferiore a quello di molti quadri intermedi (o anche medio-alti, salvo i “boss” legati al partito) e perfino a quello di ricercatori in importanti centri di elaborazione scientifica e tecnica.

In un sistema industriale in crescita, è ormai dimostrato che gli operai, se si considerano tali solo quelli svolgenti mansioni prevalentemente esecutive o addirittura manuali (non l’“associazione dei produttori” di cui parlava Marx), diminuiscono di peso perfino numericamente, per non parlare del loro contributo ad una industrializzazione sempre più sofisticata. Crescono invece rapidamente gli strati intermedi (i “ceti medi”), e non soltanto in ambito strettamente produttivo. Ed infine, dato l’evidente fallimento totale di una cogente pianificazione – dall’alto e dall’esterno delle diverse unità produttive, che non vengono affatto a formare un tutto unico, compatto, omogeneo – diventa fondamentale lo strato manageriale: e non semplicemente tecnico, bensì specificamente dotato in senso “strategico”. L’Urss, durante il ventennio brezneviano, cristallizzò la pratica legata alla vecchia ideologia “rivoluzionaria” e andò incontro a “rendimenti decrescenti” con accelerazione esponenziale, mascherata solo dalla forza (in specie militare) raggiunta in passato e da una solo apparente unità del PCUS.

Fu infine l’insieme, sempre più ampio e massiccio pur se frastagliato, degli strati sociali intermedi – ignorati per sclerosi ideologica e politica, pure responsabile del forte indebolimento economico e dunque di una effettiva stagnazione, ecc. – a scardinare l’ordinamento sovietico e a creare nel contempo lo sfacelo sociale che distrusse l’Urss. Basta con la favola del “grande” presidente Reagan (attore scadente pur se interprete in film niente male, in specie western), che avrebbe stroncato il bastione del “socialismo” (chiamato, dagli ignoranti di tutti gli schieramenti, comunismo), obbligandolo ad un surplus di spese militari. Il crollo, una vera e propria implosione, fu dovuto invece al collasso del sistema complessivo, con una direzione politica legata a impostazioni superate e incapace di comprendere i processi di trasformazione di quella “formazione sociale”, definita del tutto impropriamente socialista. Alla morte di Breznev (1982), vi fu già un primo sussulto pre-distruttivo con l’elezione a segretario del partito di Jurij Andropov, che però morì nel 1984. Il pendolo tornò a segnare l’ora di uno stretto collaboratore di Breznev, Černenko, che si spense dopo sei mesi di segretariato (marzo 1985). Venne in auge allora Gorbaciov che restò fino alla dissoluzione dell’Urss (1991), liquidò l’intero campo “socialista” euro-orientale, organizzando fra l’altro il colpo di Stato (passato per rivolta popolare) di Iliescu in Romania. Questo più che mediocre personaggio, assurto indegnamente alla direzione dell’URSS, cercò perfino di creare zizzania in Cina, dove le sue mene (con alcuni ambienti interni al PCC e al segretario del partito, subito destituito) furono assai velocemente stroncate. Dopo, la situazione precipitò in URSS con Eltsin che dissolse l’Unione sovietica alla fine del 1991. Formatasi la Russia, assai più debole e con la perdita di alcune “Repubbliche”, le sorti cominciarono a risalire molto lentamente con Primakov, ma ormai da posizioni compromesse. Infine, la ripresa di quel paese si rinsaldò con Putin. Questa è già storia dei nostri giorni e dunque tornerò adesso indietro.

  1. Dopo la cacciata di Krusciov nel 1964, l’Urss tornò solo apparentemente compatta e unitaria. In essa, per i motivi sociali sopra accennati, permanevano correnti sotterranee di opposizione, anche dentro lo stesso PCUS. Correnti che, in qualche modo, erano perfino in buon rapporto con l’“eurocomunismo” o erano comunque interessate a compromessi con l’occidente, anche a “prezzi” molto bassi, talvolta di svendita. Esse furono a lungo strettamente controllate, ma la loro opera corrosiva cresceva lentamente ed in modo coperto e cauto; soprattutto tenevano contatti con le corrispondenti frazioni dei partiti comunisti euro-orientali, infarcite dei soliti opportunisti che annusavano i mutamenti di atmosfera (pur tenuti molto segreti) e si preparavano ad ogni evenienza. Le frazioni maggioritarie – e solo apparentemente padrone assolute dei partiti: dal PCUS a quelli dei “satelliti” – non avevano capacità manovriere di grande rilievo per le carenze politico-ideologiche già accennate; esse usavano la forza e conducevano – tramite la parte più fedele dei Servizi e di altri apparati addetti ad operazioni varie anche all’estero – manovre segrete e deformate in guisa da non farne afferrare con facilità gli scopi realmente perseguiti.

Dette manovre miravano certamente a colpire e mettere in difficoltà le trame degli interessati a cedimenti compromissori più o meno gravi con l’occidente capitalistico. Lo facevano, tuttavia, in modo assai contorto, giungendo perfino a promuovere esse stesse pericolosi compromessi con gli USA e i paesi del campo capitalistico mediante mosse morbide e prudenti, alternate a scelte improntate ad estrema durezza (anche militare). Inoltre, cercavano prioritariamente di scompaginare le correnti compromissorie interne all’Urss e al “suo campo”, ma si rivolgevano pure all’esterno di quest’ultimo, imbastendo più o meno cauti e coperti rapporti con frazioni interne di alcuni partiti comunisti euro-occidentali ormai schierati in senso “atlantico”; frazioni rimaste fedeli al presunto socialismo e quindi nettamente contrarie all’eurocomunismo, ma soprattutto a chi aveva preso il sopravvento nel Pci, il principale di questi partiti, conducendolo a sempre più invischianti (e conosciuti dai Servizi dell’est) rapporti con gli USA e trasformandolo perciò nei fatti in una vera centrale di cospirazione antisovietica. In tale opera da voltagabbana, le frazioni ormai nettamente maggioritarie nel PCI sfruttarono pure il dissidio russo-cinese e, solo parzialmente, la fronda “gruppuscolare” fintasi quasi maoista; ad es. quella del “Manifesto”, che salvo lodevoli ma rare eccezioni, era la più “corrotta” fra coloro che si richiamavano, impudicamente e senza arrossire, al comunismo. Da qui gli eventi italiani degli anni ’70, degli anni detti “di piombo”.

 

  1. Nel ’68, il gruppo – composto in prevalenza, se ricordo bene, da cattolici divenuti comunisti (ma pure da comunisti “laici”), comunque tutti “ragazzi” in gamba – facente capo ad una rivista di orientamento marxista-leninista, “Lavoro politico” (una delle pubblicazioni apprezzabili di quell’area), entrò nel Pcd’I (m-l), quello che pubblicava “Nuova Unità” e che di fatto era in stretto collegamento con le “Edizioni Oriente”, nate a Milano nel ’63 con il principale compito, almeno per quanto io abbia potuto constatare, di diffondere le pubblicazioni della “Guozi Shudian”, casa editrice cinese in lingue estere, dalla quale provenivano le più importanti pubblicazioni dei comunisti di quel paese, appunto tradotte in italiano. Tralascio i rapporti da me intrattenuti con quest’area, conclusisi con una discussione (pubblica), polemica, tenutasi a Padova alla fine del maggio ’68 (proprio il 31), subito dopo la quale (ma non a causa della quale, sia chiaro) me ne andai a passare piacevolmente circa quattro mesi a Londra.

Quando tornai in autunno, trovai il Pcd’I (m-l) in scissione, con formazione della cosiddetta “linea rossa”, l’imbarazzante (perché un po’ ridicola) nascita di una “Nuova nuova Unità”, di “Nuove Edizioni Oriente”, e via dicendo. Il gruppo di “Lavoro politico” fu attivo nella scissione e nella nascita di questa “linea rossa”; va però affermato con la massima nettezza che tale gruppo si attenne, nel suo complesso, alla più assoluta legalità senza sfizi di lotte d’altro genere. E’ però vero che una parte minoritaria d’esso (con nomi poi divenuti noti) uscì sia dalla rivista sia soprattutto dal Pcd’I (anzi dai due Pcd’I ormai); e, per quanto ne so, andò a Milano dove nel ’69 fondò, immagino assieme ad altri, il “Collettivo politico metropolitano”, che gettò fuori un opuscolo programmatico non irrilevante. Da tale organismo, mi sembra proprio chiaro, nacquero le future BR. Mi dispiace di non trovare più quell’opuscolo (qualcuno certamente lo avrà) e la risposta che ne diedi, certo a circolazione assai più ridotta e totalmente ignorata, che purtroppo non trovo più. Tuttavia, la mia risposta conteneva una serie di obiezioni a quel “programma”, che a me sembra si siano rivelate con il tempo sensate.

Ricordo bene, ricordo male? Quel che ricordo di quello scritto da me criticato è la formulazione di due previsioni fondamentali, entrambe errate e foriere di sviluppi molto negativi. Innanzitutto, quella di un non troppo lontano scoppio della guerra tra “imperialismo” (USA) e “socialimperialismo” (URSS); per cui bisognava, “leninisticamente”, giocare sulle contraddizioni tra i due nemici, confidando nella tenuta della Cina maoista, di cui per la verità nessuno (per quanto ne so) immaginava la brusca svolta subito dopo la morte del “grande timoniere”. Ovviamente, mi sembra chiaro, l’idea centrale era un recondito riferimento alla “Rivoluzione d’ottobre”, avvenuta appunto verso la fine della prima guerra mondiale e nel da Lenin definito “anello debole della catena imperialistica”, in cui crollò il regime zarista; l’Italia sarebbe stata il nuovo “anello debole” in questa prevista terza guerra mondiale. La seconda previsione, su cui però ho ricordi più imprecisi, è quella di un probabile o almeno possibile colpo di Stato in Italia; il che, credo, scontasse l’impressione ricevuta da quello verificatosi nel 1967 in Grecia. Devo dire che, ancora nei primi anni ’70, in molti “giocavamo” un po’ troppo con questo timore.

In ogni caso, fui subito comunque molto contrario e critico dell’idea di entrare in clandestinità prima ancora che l’evento si producesse. Ricordo bene che ero addirittura stupefatto di simili intenzioni. Si poteva capire l’attuazione di preparativi per l’eventualità, preparativi di vario tipo e soprattutto organizzativi; e, se volete, anche in riferimento alla creazione di alcuni “depositi d’armi”. Tuttavia, che si proponesse l’entrata in clandestinità anticipando le mosse “dell’avversario” mi sembrava una trovata balzana, per non dire di più. Dove la mia contrarietà si espresse ancora più netta e senza esitazioni fu sulla previsione di una guerra tra le due superpotenze (con i loro alleati/subordinati al seguito) con il ripetersi di un quadro simile a quello che permise l’“ottobre bolscevico”.

Non ero ancora stato a Parigi da Bettelheim (lo feci nel 1970-71). Tuttavia, ero già ben convinto dell’ingrippamento dell’Unione Sovietica, messo in luce a partire dal XX Congresso (1956) e aggravatosi negli anni successivi. Ricordo vivaci polemiche con coloro che insistevano addirittura sulla superiorità del “socialimperialismo” in quanto “capitalismo di Stato”, pensato quale gradino superiore (e ultimo o supremo) della società capitalistica, con riferimento un po’ scolastico ad una vecchia impostazione del marxismo “d’antan”. Ho succintamente accennato sopra ai motivi dell’indebolimento dell’Urss (per non parlare dei paesi “socialisti” euro-orientali, in netta difficoltà); li avrei approfonditi ben di più a Parigi, con anche una qualche informazione sulla solo apparente coesione di quei paesi, percorsi dalle correnti che condussero al crollo dell’89 (“campo socialista” europeo) e del ’91 con dissoluzione dell’URSS dopo qualche anno di “agonia” gorbacioviana, scambiata (non da me!) per ripresa del “socialismo”. Nel ’69-’70 non avevo quelle informazioni né avevo approfondito con Bettelheim la corrosa struttura sociale sovietica. Tuttavia ero già convinto della stasi di quel paese e dunque dell’improbabilità, per me pressoché assoluta, di uno scontro mondiale tra le due superpotenze; in realtà, ne esisteva ormai una sola di effettiva, gli USA.

  1. Arriviamo quindi al punto cruciale per quanto concerne la storia italiana di quell’epoca infelice e con il quale interromperò, almeno per adesso, questo racconto. Le direzioni dei partiti comunisti dei paesi euro-orientali avevano la sensazione di pericolo per opposizioni interne, ma soprattutto perché consapevoli di un’Unione Sovietica meno forte di quanto sembrava a prima vista. La rottura con la Cina – in continuo aggravamento, che non terminò nemmeno con la svolta post-maoista del 1976, subito dopo la morte di Mao con arresto della cosiddetta “banda dei quattro (fra cui la moglie di Mao) – rendeva i pericoli ancora maggiori. E bisogna ben dire che la politica Kissinger-Nixon di “apertura” ai cinesi e a una possibile pace in Vietnam – politica non certo fiorita all’improvviso nel 1972 con il viaggio nixoniano a Pechino, poiché occorreva prepararla, senza pubblicità, prima che apparisse alla luce del giorno – rendeva il pericolo ancora più grave. Diciamo pure che gli ostacoli frapposti dall’interno al presidente statunitense, e poi la sua eliminazione tramite il “Watergate”, diedero al “campo socialista” un periodo di respiro, consentendo fra l’altro all’Urss una stretta alleanza con il Vietnam, dove esisteva una minoritaria, ma forte, corrente filo-cinese nel partito comunista, sconfitta appunto dopo gli approcci tra Cina e Usa, che diedero un loro contributo a possibili sbocchi della guerra in Vietnam con gli accordi di pace di Parigi (gennaio 1973), finiti però male anche (e direi soprattutto) a causa delle difficoltà di Nixon. Quegli accordi condussero comunque al ritiro di buona parte delle truppe statunitensi dal Vietnam del sud; il che alla fine favorì la vittoria dei nordvietnamiti e la loro conquista di Saigon nell’aprile 1975. Il Vietnam riunito si schierò infine apertamente con l’Urss ed entrò in conflitto (perfino una breve guerra di un mese nel 1979) con i cinesi.

Ripeto che tali avvenimenti diedero solo una boccata d’ossigeno al “campo socialista” europeo centrato sull’Urss; e proprio grazie alla miopia di quegli ambienti statunitensi che misero in moto la manovra contro Nixon (con l’azione del Fbi, ecc.). In ogni caso, non si può pensare che i partiti comunisti euro-orientali non avvertissero che cosa stava avvenendo. Immagino che anche importanti settori del partito comunista sovietico (anzi maggioritari nel periodo brezneviano) stessero in allerta ben conoscendo l’azione corrosiva di quelle correnti più tardi (1985) responsabili della nomina di Gorbaciov a segretario del partito. E’ ovvio che la storia avrebbe avuto ben altro andamento se in Urss si fosse compresa la necessità di smantellare quella struttura politica che cristallizzava una situazione non più confacente alla “composizione sociale” ormai in formazione nel paese.

Fra l’altro, si sarebbero dovuti regolare, in qualche modo, i conti con la Jugoslavia (avamposto più importante di quanto non si creda, anche durante la direzione titoista, di varie manovre di “infiltrazione” nel blocco sovietico provenienti da “occidente”), accomodare i rapporti pure con la Romania (costretta a rapporti amichevoli con la Cina proprio dall’atteggiamento ostile dell’Urss, sfociato poi apertamente nell’aiuto fornito al colpo di Stato di Iliescu contro Ceausescu durante la “gestione” gorbacioviana). Meno importante l’attrito con l’Albania, comunque anch’essa schierata con la Cina, pur essendo invece critica nei confronti del maoismo; e ne fanno prova gli aiuti dati da Enver Hoxha alle frazioni di cosiddetta “linea nera” nei vari, pur irrilevanti, gruppuscoli m-l, soprattutto nei paesi euro-occidentali, Italia compresa.

La posizione di debolezza dell’Urss, accompagnata dalla presenza di correnti filo-occidentali nei paesi europei “socialisti”, rendeva in ogni caso più fastidiosa la presenza nei paesi europei della NATO di partiti comunisti (rilevanti comunque solo in Francia e ancor più in Italia) con tendenza a “sbandare” (ma così nettamente soltanto nel nostro paese) in senso dichiarato riformista, in realtà di sostanziale accettazione della formazione sociale esistente in occidente, quella che veniva ritenuta “il capitalismo” in aperto antagonismo con “il socialismo”; non mi soffermo sulla questione di detta schematica contrapposizione, a tutt’oggi non risolta da politici (e storici) incompetenti e faziosi.

Una Unione Sovietica forte – con il suo “campo” (sfera d’influenza) ben controllato, con un migliore sistema di alleanze (o di non inimicizia) con Cina, Jugoslavia, ecc. – avrebbe determinato un diverso andamento degli eventi storici; per quanto ci riguarda, sarebbero stati meno forti, e immagino meno determinanti, quegli influssi che invece si produssero negli anni ’70, i cosiddetti “anni di piombo”, in cui si è posto in forte risalto il dichiarato “terrorismo rosso” (e anche nero in certi casi) per coprire le mene internazionali condotte in varia guisa in quegli anni.

La situazione era invece quella appena delineata: l’Urss apparentemente molto forte, ma in posizione di sostanziale stallo rispetto agli anni della grande ascesa (soprattutto gli anni ’30), della vittoria nella seconda guerra mondiale, dell’allargamento del “campo socialista”, ecc. Nei paesi euro-orientali, i partiti comunisti (i loro vertici ovviamente) erano consapevoli delle difficoltà esistenti soprattutto al loro interno, ma comunque aggravate da quanto avveniva, sia pure in modo poco appariscente, nel paese centrale del sistema. Vi fu la succitata boccata d’ossigeno quando si pose in mora la politica nixoniana verso la Cina (e anche il Vietnam), si verificò la creduta grande vittoria dei nordvietnamiti contro il gigante statunitense e l’altrettanto sopravvalutata crisi interna statunitense a causa di quella guerra, ecc.

Un conto sono i “movimenti” che si credono sulla cresta dell’onda e blaterano di vittorie sull’imperialismo, in via di presunto indebolimento. Un altro sono i vertici politici delle varie organizzazioni che conoscono la POLITICA (le strategie del conflitto), sanno come questa deve essere condotta, sono ben informati circa le mosse segrete di cui quella vera si sostanzia; e di cui, invece, i poveri “giovinotti” di detti “movimenti” nemmeno avevano il più blando sentore. O forse sarebbe meglio dire che alcuni ne avevano un qualche sentore, ma secondo quanto avevano deciso di far sapere (e far credere) loro i vari “Servizi”, che sono una delle nervature cruciali di detta POLITICA, quella seria e non fatta di dissennate valutazioni degli effettivi rapporti di forza esistenti.

In nessun momento degli anni ’70, i partiti comunisti, sia all’est che all’ovest, crederono a ciò che magari sostenevano ufficialmente. All’est è probabile che si comprendessero le proprie debolezze e i pericoli che si correvano. E all’ovest forse pure. L’eurocomunismo, cioè in definitiva il suo nucleo centrale, il PCI (con i vertici in mano alla nuova maggioranza), non defletté certamente mai dal suo cauto, coperto, spostamento verso l’atlantismo. Tuttavia, credo che sia rimasta molto in ombra – per il solito motivo che la storia la raccontano i vincitori – l’esistenza, soprattutto proprio in Italia, di frazioni del tutto minoritarie, ma non proprio inconsistenti, in opposizione (anche all’interno di quel partito) a simili approcci verso gli Usa e l’occidente in genere. Non credo però ci fosse una effettiva consapevolezza delle manovre “eurocomuniste”. Purtroppo, la visione ideologica del tempo faceva credere che la lotta nell’ambito del movimento comunista fosse una sorta di ripresa dello scontro tra “neokautskismo” (neorevisionismo) e neoleninismo (in buona parte identificato con il maoismo); un errore non decisivo ma comunque rilevante per far prevalere gli ambienti più opportunisti e miserabili del PCI e dei partiti consimili in altri paesi europei.

Fu in ogni caso del tutto impossibile formare un fronte in qualche misura comune – al di là delle divergenze, non solo ideologiche ma pure politiche – tra tutti quelli che si opponevano ai piciisti degli anni ’70 e seguenti: chi perché appunto neoleninista, chi invece sostanzialmente socialdemocratico (ad es. gli “amendoliani”) ma comunque relativamente favorevole ad una “ostpolitik” e chi, come fu un po’ più tardi Craxi, semplicemente antagonista della supremazia del PCI sulla “sinistra” e sospettoso del “compromesso storico”, una buona leva per l’avanzata di tale partito, ormai degenerato, lungo la via di una politica filo-occidentale con tutto ciò che comportò più tardi. Tale divisione fra gli oppositori a quel PCI favorì, infatti, quel che accadde in seguito con il viaggio “culturale” di Napolitano negli USA nel 1978; e soprattutto dopo la fine del “socialismo reale” e dell’Urss. Quanto appena ricordato può forse in parte spiegare anche l’azione di certi Servizi orientali (io penso soprattutto a quelli della  DDR e della Cecoslovacchia) per mettere comunque delle “zeppe” tra i piedi del PCI nel suo spostamento a ovest. E tra queste, almeno a mio avviso, ci fu anche un almeno iniziale appoggio alla poco assennata “lotta clandestina” (non solo delle BR), poi ampiamente sfruttata, come già detto, nell’ambito di una conflittualità tra est e ovest, ecc. ecc.

  1. Mi fermerei per il momento a questo punto per non allungare eccessivamente il mio “racconto”. Tuttavia sia chiaro che bisognerà riflettere a lungo su quanto è poi accaduto dopo la “caduta del muro” e la dissoluzione dell’URSS. In particolare in Italia, dove si è verificato un vero rovesciamento dei precedenti assetti politici tramite quella viscida manovra giudiziaria (“mani pulite”), che si prolunga ancor oggi in una continua invasione della politica da parte della sedicente “giustizia” e della “Legge”. Di questo abbiamo parlato comunque più volte nei nostri interventi; così come stiamo seguendo i netti mutamenti della politica internazionale, in cui cresce il “multipolarismo” e si accentua un dissidio politico all’interno degli USA forse più acuto che in passato e che mi sembra delineare un certo declino di quel paese, pur ancora il più potente economicamente, militarmente e anche in termini di avanzamento tecnologico.

Siamo tuttavia a mio avviso in un’epoca di “transizione” ad altra, cui dovremo faticosamente riadattarci abbandonando vecchie convinzioni senza lasciarci trasportare in visioni avveniristiche, che nemmeno la fantascienza ha avuto il coraggio di predire con tanta improntitudine e “falsa coscienza”. Lancio un ultimo avvertimento: la storia di tutto il ‘900 è stata gravemente falsificata e distorta da politicanti e storici attivi soprattutto negli ultimi decenni e che si qualificano come “sinistra”. Le nostre popolazioni non sanno un bel nulla di ciò che è stato il nostro passato. Per “risaperlo” e valutarlo adeguatamente dobbiamo rovesciare il predominio di questi falsificatori, che stanno provocando una vera crisi di cultura, di tradizioni di cui non dobbiamo per nulla vergognarci; insomma ci stanno conducendo ad una crisi della nostra civiltà. Reagiamo.

tratto da facebook

 

 

 

 

UN POPOLO CON UN PASSATO MA SENZA UN FUTURO, VITTIMA DEL DRAGO MALEFICO, di Gianfranco Campa

 

UN POPOLO CON UN PASSATO MA SENZA UN FUTURO, VITTIMA DEL DRAGO MALEFICO.

Xinjiang è considerata, da parte del governo di Beijing, insieme alle regioni del Guangxi, Mongolia Interna, Ningxia e Tibet, una regione “autonoma.” In Occidente Xinjiang è conosciuto come il Turkestan Orientale per distinguerlo dal Turkestan Russo.

La regione di Xinjiang è un’area di maestose montagne e di vasti bacini desertici. La sua popolazione, dedita principalmente all’agricoltura e alla pastorizia è conosciuta con il nome di Uyghurs (Uiguri). Gli Uiguri sono di religione musulmana e, secondo l’ultimo censimento cinese, l’attuale popolazione Uigura supera gli 11 milioni. Invece, secondo fonti occidentali, la reale popolazione Uigura nel Turkestan Orientale supererebbe i 15 milioni. Gli Uiguri parlano un dialetto turco e sono considerati quindi di etnia turca. Lo Xinjiang ha la più alta concentrazione di musulmani nella Repubblica Cinese e per questo motivo i problemi degli Uiguri sono complicati da risolvere. La repressione già attuata sui religiosi Tibetani e Cristiani, con gli Uiguri si amplifica e diventa ancora più spietata.

Un po di storia: Xinjiang fu annessa al territorio cinese sotto la dinastia Qing nel XVIII secolo. Il Regno islamico Uiguro del Turkestan orientale mantenne la sua indipendenza fino alla invasione dell’Impero Qing (Manchu), avvenuta nel 1876. Tornò sotto il controllo locale in una forma semi-indipendente per gran parte del periodo repubblicano (1912-49) e fu incorporato nella Repubblica Popolare Cinese (RPC) dall’esercito comunista nel 1949. In quel periodo la piu grande maggioranza etnica era quella Uigura. Dopo gli Uiguri c’erano le comunità più piccole originarie dell’ Asia Centrale come ad esempio i Kazaki, i Mongoli e i Tagiki, oltre agli Han e Hui provenienti dalle province cinesi orientali.

Xinjiang occupa l’angolo nord-occidentale del paese. Xinjiang ha una estensione di 1.626.000 chilometri quadrati, piu o meno quattro volte l’Italia. Confina con le province cinesi di Qinghai e Gansu ad est,  il Kirghizistan e il Tagikistan ad ovest, l’Afghanistan e il territorio del Kashmir a sud-ovest, la regione autonoma del Tibet a sud, la Russia e la Mongolia a nord-est. Xinjiang è la regione più grande della Cina ed è anche la più ricca di risorse naturali, soprattutto gas e carbone; inoltre la sua posizione geografica è altamente strategica per la Cina. Una locazione importante per lo scambio commerciale e i rapporti con l’area centro asiatica ed europea.

Negli ultimi anni sono stati compiuti notevoli sforzi dal governo di Beijing per integrare l’economia locale con quella del resto del paese. Ma come è già capitato con la regione “autonoma” del Tibet-Chengguan, l’integrazione economica-sociale è accompagnata sempre da un consistente aumento della popolazione cinese a scapito della popolazione locale. Sono milioni i coloni Cinesi che si sono trasferiti nello Xinjiang, appropriandosi delle migliori terre, delle proprietà più appetibili e dei lavori più remunerati ed importanti a scapito degli Uiguri.

Nel caso dello Xinjiang, questa politica di “integrazione” ha portato risultati ben più drammatici rispetto “all’integrazione” del distretto di Chengguan. La sopravvivenza e il futuro degli Uiguri è messo in discussione da una repressione del governo cinese senza precedenti, soprattutto perché gli Uiguri non si sentono affatto cinesi e rivendicano totale indipendenza da Beijing. Di conseguenza questo ha portato negli anni a tensioni e violenze tra gli Uiguri e i Cinesi, con attacchi contro bersagli Cinesi da parte di separatisti Uiguri. Per questo motivo la repressione di Beijing è diventata violenta e sistematica. Xinjiang è ora considerata la regione piu militarizzata della Cina. Si calcola che un cittadino cinese su tre, che si è trasferito e vive in Xinjiang, appartenga alle forze di sicurezza governative.

Nel corso degli anni, gli Uiguri hanno subito pesanti discriminazioni e soppressioni culturali da parte dello Stato Centrale. Sono state messe in atto una moltitudine di politiche restrittive e persecutorie contro gli Uiguri. Si va dalla censura letteraria di qualsiasi documento che esprime supporto per il popolo Uiguro e critica per il governo Cinese, punibile con la pena di morte, fino al divieto di partecipare al pellegrinaggio alla Mecca, permesso solo agli ultra sessantenni anch’esso  con fortissime restrizioni.

Le moschee, quelle che non sono state rase al suolo, sono soggette a una sorveglianza dura e capillare.

Ai genitori Uiguri è vietato assegnare ai propri figli nomi musulmani tradizionali e i maschi adulti sono obbligati a radersi la barba.

Gli Uiguri non trovano pace neanche dopo la morte: nel tentativo di sradicare la sepoltura tradizionale Uigura e le sue tradizioni funebre, il governo cinese costringere gli Uiguri a cremare i propri cari.

L’attivista Uigura-Americana Rushan Abbas continua la sua crociata nel sollecitare l’opinione americana agli orrori e alla tragedia del popolo Uiguro: Sono cresciuta nella ricca cultura degli Uiguri, in una regione occupata dalla Cina comunista conosciuta come Xinjiang (noto anche come Turkestan orientale). Ho assistito alla repressione della Rivoluzione culturale in giovane età – mio nonno è stato incarcerato e mio padre è stato portato in un campo di rieducazione. Come studente della Xinjiang University, sono stata una degli organizzatori delle dimostrazioni a favore della democrazia a metà e alla fine degli anni ’80. Quando sono arrivata in America nel 1989, ho portato con me i miei ideali e le mie esperienze. Da allora, ho sempre fatto una campagna per i diritti umani della mia gente dedicando gran parte della mia vita al racconto della loro lotta e sopravvivenza”

Secondo il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti sarebbero circa 3 milioni gli Uiguri,  sottoposti a carcerazione in campi di concentramento nello Xinjiang. Dalle accuse per l’impiego di campi di concentramento, lanciate da organizzazioni di diritti civili, da espatriati Uiguri, dal governo Trump, il governo cinese si è difeso sostenendo che queste strutture, più o meno 44 campi, sono centri di formazione professionale che insegnano corsi come sartoria, assemblaggio elettronico e lingua cinese.

Il problema è che questi centri, secondo testimonianze attendibili, non sono altro che moderni campi di concentramento, completi di guardie armate, recinti di filo spinato con le persone che vivono dentro sottoposte a un regime di lavori forzati. All’interno i prigionieri sono indottrinati con la propaganda, costretti a rinunciare all’Islam, a mangiare carne di maiale e a bere alcolici in violazione delle loro convinzioni religiose. Se ciò non bastasse i detenuti sono soggetti a stupri e torture. Inoltre, migliaia di bambini Uiguri vengono separati dalle loro famiglie e spediti in orfanotrofi statali, dove crescono dimenticando l’identità Uigura e diventano fedeli membri del Partito Comunista Cinese.

Come se non bastasse, gli Uiguri sono anche vittime prescelte della cosiddetta tratta di organi. La raccolta di organi in Cina è iniziata negli anni ’60 ed è diventata un affare criminale sponsorizzato dallo stato cinese stesso. Un documentario cinese sull’espianto di organi: “Harvested Alive – 10 Years of Investigations”, sostiene che “Decine di migliaia di persone sono state giustiziate in segreto in Cina e i loro organi raccolti per la chirurgia del trapianto. Chi sono queste vittime? Queste persone sono per lo più Uiguri, tibetani, cristiani non affiliati alla chiesa statale e praticanti del Falun Gong, che sono stati incarcerati per ragioni politiche e religiose dal governo cinese “.

Nel nome della “lotta al terrorismo” la Cina ha trasformato l’intera provincia dello Xinjiang in un gigantesco regime di sorveglianza. Le telecamere si trovano ovunque: all’ingresso di supermercati, strade, scuole, aeroporti, stazioni ferroviarie e via dicendo. La polizia e l’esercito pattugliano l’intero territorio. Posti di blocco e controlli di identità sono sistematici, nessuno è escluso

La repressione degli Uiguri va anche oltre i confini Cinesi. Uiguri espatriati, fuggiti dalla Cina, vengono molestati e minacciati usando i famigliari rimasti nello Xinjiang come strumenti di ricatto. Sono molteplici le testimonianze di Uiguri residenti in Europa e in America, testimoni delle continue intimidazioni da parte del governo Cinese.

Ci sono anche migliaia gli Uiguri scomparsi, svaniti nel nulla. Purtroppo la maggior parte di questi nuovi “desaparecidos” in versione orientale, non hanno né un nome, né un cognome. Quei pochi a cui possiamo attribuire un’identità, sono parenti o amici delle famiglie di Uiguri residenti all’estero, che disperatamente sollecitano e invocano giustizia e aiuto ai governi e ai mass-media occidentali.

Fuggire dallo Xinjiang è diventato virtualmente impossibile. Chi è scappato lo ha fatto negli anni passati, ma ora la sorveglianza dei Cinesi è talmente ferrea, capillare da essere praticamente impossibile lasciare il paese. Lo Xinjiang come un’immensa prigione per milioni di persone di etnia e religione diversa da quella auspicata dal governo Cinese. Quelli che sono scappati lo hanno fatto attraverso il Kazakistan e la Turchia, dove molti Uiguri fuggiti dalla Cina si sono rifugiati.

I mass media dovrebbero in teoria essere cassa di risonanza, nel denunciare la Cina per la situazione e il trattamento riservato al popolo Uiguro, considerando che proprio i giornalisti occidentali non sono benvenuti nello Xinjiang. Pochi sono quelli che sono riusciti ad infiltrarsi, prendendosi rischi enormi.

Per anni la repressione contro gli Uiguri è rimasta nascosta agli occhi degli occidentali, ignorata dai politici e dai mass media, per ragioni politiche, per non compromettere i sostanziosi affari delle multinazionali Europee e Americane con la Cina. Politici comprati a suon di favori, in cambio di un silenzio lacerante, ai danni di popolazioni, culture e tradizioni perseguitate e sistematicamente soppresse; come gli Uiguri, così i Tibetani e i Cristiani.

Gli Occidentali, quegli stessi che si stracciano le vesti se ti permetti di criticare qualsiasi aspetto del mondo Musulmano, sono silenziosi o ignoranti di fronte alla tragedia degli Uiguri. Gli Occidentali, quelli che predicano i diritti civili e le violazioni di questi diritti, sono silenziosi o ignoranti sulla tragedia in atto nel Xinjiang. Gli Occidentali, quelli che predicano la pace e l’accoglienza, sono silenziosi o ignoranti di fronte a i campi di concentramento dello Xinjiang. Gli Occidentali, quelli che auspicano stretti accordi commerciali e finanziari con la Cina, sono silenziosi o ignoranti di fronte alla sistematica scomparsa della cultura Uigura.

Gli Occidentali che hanno sanzionato e criticato la Russia per apparenti violazioni sui diritti delle minoranze caucase, sono silenziosi o ignoranti di fronte alle violazioni dei diritti degli Uiguri. Gli occidentali che hanno sanzionato e criticato le orde Putiniane, colpevoli di aver “profanato” i confini di altri paesi, sono silenziosi o ignoranti di fronte alla violazione del territorio Tibetano e di quello di Xinjiang.

Anche le nazioni dell’Asia centrale non sono esenti da critiche. Dagli anni ’90 la Cina è presente negli ex Stati sovietici dell’Asia centrale (Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan) perché queste nazioni volevano che la Cina aiutasse le loro economie e scoraggiasse i russi dal cercare di dominare la regione come hanno fatto nel passato. Per decenni questi stati sono rimasti in silenzio di fronte alla tragedia degli Uiguri. Questa mancanza di coraggio da parte delle nazioni musulmane e da attribuire principalmente a i rapporti finanziari ed economici con la Cina. Paesi schiavi del denaro, sotto forma di investimenti cinesi come fonte di schiavitù. Paesi come il Pakistan, che lentamente si sta liberando dal giogo americano solo per aprirsi e incatenarsi a quello Cinese. La paura congela questi paesi al silenzio, per la consapevolezza che la Cina può ritirare, se vuole, gli investimenti promessi a seconda di come i paesi beneficiari si comportano nei confronti della Cina stessa. Però dall’altro lato, dovessero questi paesi asiatici/musulmani rompere con la Cina, per il governo di Beijing questo diventerebbe un problema enorme visto il crescente numero di investimenti economici fatto in questi stessi stati, incluso il mastodontico investimento dell’ OBOR (One Belt, One Road-Nuova Via della Seta).

A complicare le cose per i Cinesi si sono messi gli Stati Uniti del fastidioso, irritante, provocatorio, Donald Trump, che le regole della geopoltica e diplomazia internazionale tradizionale non le vuole proprio seguire. Un cavallo pazzo che corre per sè, senza allinearsi alla logica imposta dallo status-quo.  E cosi si è messo a minacciare la Cina, come aveva già fatto e tuttora fa`con la Corea del Nord e con l’Iran, dicendo di voler imporre sanzioni alla potenza asiatica per i campi di detenzione dove sono racchiusi gli Uiguri e dove vengono lavorati molti dei prodotti tessili destinati ad arricchire le collezioni di Gucci, Prada, Chanel, usando il cotone della regione dello Xinjiang.

Dovesse Trump passare dalle parole ai fatti; I fighetti e le fighette della moda del lusso, dovrebbero cominciare a rassegnarsi a pagare molto di più per i loro acquisti di marca.

Dopo l’aumento delle tariffe imposte a Beijing, ormai i dubbi sulla serietà delle minacce di Trump dovrebbero essere evaporate. Ironia della sorte; l’unico lumicino di speranza, l’ultimo, prima che cali il buio totale sul popolo e la cultura Uigura e offerto dell’ammazza draghi; Donald J. Trump, quello stesso Trump che era visto dal mondo Musulmano come una minaccia alla loro esistenza…

https://www.rfa.org/english/news/uyghur

https://uyghuramerican.org/

https://www.cnn.com/2019/05/12/middleeast/turkey-uyghur-community-intl/index.html

https://www.uyghurcongress.org/en/

https://www.thechinastory.org/keyword/xinjiang/

 

Gianfranco La Grassa: crisi economica, mutamenti geopolitici, conflitto strategico_Intervista su “scenari economici”

Gianfranco La Grassa ripropone in questa intervista la sua chiave di lettura delle dinamiche sociopolitiche in corso: la teoria del conflitto tra centri strategici. In Italia uno dei tentativi più riusciti di superamento delle categorie di pensiero politico dominanti nel XX secolo_Giuseppe Germinario

Gianfranco La Grassa: crisi economica, mutamenti geopolitici, conflitto strategico

https://scenarieconomici.it/intervista-esclusiva-a-gianfranco-la-grassa-crisi-economica-mutamenti-geopolitici-conflitto-strategico/

Per Scenari Economici, un’intervista esclusiva a Gianfranco La Grassa, già docente di economia politica nelle Università di Pisa e Venezia, studioso di marxismo e di strutture della società capitalistica. Autore di decine di saggi pubblicati con le più importanti case editrici italiane (Editori, Feltrinelli, Dedalo, ManifestoLibri, Mimesis) avendo traduzioni in varie lingue. Fra gli ultimi lavori pubblicati: Navigazione a vista. Un porto in disuso e nuovi moli (2015), Tarzan vs Robinson. Il rapporto sociale come conflitto e squilibrio (2016), L’illusione perduta. Dal modello marxiano verso il futuro (2017), In Cammino – Verso una Nuova Epoca (2018). Qui la sua bibiografia completa.

1. Nel nuovo anno uscirà il suo libro su “Crisi economiche e i mutamenti geo(politici)” per l’editrice Mimesis. La sua interpretazione dei fenomeni finanziari e di quelli economici in generale è molto differente da quella delle scuole di pensiero dominanti. Lei propone un diverso livello teorico per interpretare la crisi delle società capitalistiche, parlando di terremoti di superficie che interessano la sfera economico-finanziaria e di scontri in profondità che interessano quella (geo)politica-militare. Quest’ultimi sarebbero più decisivi perché attinenti alla “potenza”. Di cosa si tratta?

R. Di quello di cui si dice appunto nella domanda. Bisognerebbe certo partire da molto lontano. Con la fine dei rapporti di tipo schiavistico o servile (com’erano nel mondo antico e in quello feudale), nella società moderna – detta fin troppo genericamente capitalistica – si afferma sempre più nettamente la libertà ed eguaglianza dei diversi individui, fra i quali si generalizzano progressivamente delle relazioni basate sullo scambio di merci, considerato appunto il fondamento ultimo e decisivo di detta libertà ed uguaglianza. E’ questo processo (storicamente abbastanza lungo) a portare in evidenza la sfera produttiva (le merci si devono produrre), che nelle formazioni sociali precedenti era decisamente subordinata a quelle del potere politico (e militare) e ideologico-culturale. Non viene preso in attenta considerazione il fatto che la stragrande maggioranza dei componenti la società possiede una sola merce da scambiare: la propria capacità lavorativa (di vario genere), la cui “produzione” implica particolari processi d’ordine biologico, socio-culturale, ecc. abbisognanti d’altre merci fornite da chi controlla i mezzi tecnici (e organizzativi) della loro produzione. Ripeto che qui il discorso dovrebbe diventare molto lungo e impossibile in questa sede. Sintetizzando, diciamo che la particolare libertà ed uguaglianza, fondamento del sistema dei rapporti sociali capitalistici, porta nella sfera produttiva quel conflitto (detto, con eccessiva bonarietà, concorrenza) che nelle precedenti società era specifico delle altre sfere sociali già prima nominate. E tale tipo di conflitto – e lo si constata appunto benissimo nelle società in cui esso era concentrato soprattutto nella sfera politica (e bellica) – alterna fasi in cui un dato potere predomina, almeno in una determinata area territoriale e sociale, il complesso dei rapporti tra gruppi sociali, con altre fasi in cui s’indebolisce tale predominio (definiamolo “centrale”) di una parte sulle altre; da qui inizia il periodo di crescente “disordine globale” che esige uno scontro, più o meno lungo e con l’impiego di svariati mezzi, fino ad arrivare a quello decisivo e “d’ultima istanza” (bellico), che potrà condurre ad una nuova fase di preminenza di una parte (in genere diversa dalla precedente). Nella società capitalistica, tenuto conto di quanto detto molto sommariamente in merito al tipo di affermazione (mercantile e “concorrenziale”) della libertà ed eguaglianza degli individui (in genere raggruppati in date associazioni di “unione e alleanza”, ma sempre per libera scelta), la tipologia di conflitto appena considerata – con l’alternanza tra fasi di predominio di una parte e dunque di relativo “ordine” e “pace” e altre di esplosione del conflitto aperto con disordine globale – si estende alla sfera produttiva. Proprio per questo, ho sempre aderito alle tesi secondo cui le crisi economiche dipendono soprattutto dalla cosiddetta “anarchia mercantile”, che si afferma periodicamente con netta evidenza. Di conseguenza, mai mi ha convinto la tesi che le crisi si attenuassero con il formarsi di imprese oligopolistiche; anzi, più sono grandi e potenti i contendenti e più, alla fin fine, si arriverà a scontri di accentuata violenza e portatori di ampio disordine. Inoltre – ma questo l’ho potuto spiegare solo in numerosi libri e non posso sintetizzarlo qui – ritengo che le crisi economiche di notevole portata dipendano alla fine dall’indebolimento di un potere predominante “centrale” (cioè posto all’apice di una piramide che si allarga al controllo di un’ampia sfera territoriale e sociale, al limite il mondo nella sua globalità) con crescita di tanti altri poteri. Ma questo potere “centrale”, o invece l’insorgere di altri con l’acutizzarsi del reciproco conflitto, sono fenomeni che si manifestano, con principale e netta influenza sul resto, nella sfera politica (con le sue “diramazioni” belliche) e semmai, ma in subordine, in quella dell’egemonia ideologico-culturale.

2. La sua critica all’economicismo, che si erge a chiave di lettura esclusiva dei fenomeni sociali, è radicale. Lei, infatti, porta in primo piano la conflittualità tra gruppi dominanti in ogni sfera dell’agire umano: economica, politica e ideologica. Lei sostiene che la Politica, intesa come sapere strategico, serie di mosse per primeggiare e conquistare il potere, è prevalente in ogni ambito sociale. L’utilizzo di questo paradigma apre nuovi scenari interpretativi, anche rispetto alla vecchia analisi marxista. Dove conduce il suo pensiero?

R. Dove lo conduca non saprei dirlo, anche perché non sono Marx, in grado di condurre ad una teoria abbastanza conchiusa con una buona coerenza interna nei suoi passaggi tra premesse, argomentazioni intermedie e conclusioni. So che in effetti io – pur avendo letto moltissimo nei più svariati campi: scientifici, storici, filosofici – ho fatto una scelta marxista che quindi condiziona il mio pensiero anche nel momento in cui mi sono allontanato da quel pensiero, che resta il punto d’orientamento generale. Ho discusso il modello marxiano in dieci video-puntate che credo siano ben riuscite, e ho già approntato ben tre ridiscussioni critiche dello stesso. La premessa centrale di Marx credo si possa così sintetizzare. Senza produzione di una varietà di beni, storicamente sempre più ricca e mutevole, la nostra specie umana non potrebbe né saprebbe sopravvivere (cosa fin troppo ovvia). La sfera produttiva è caratterizzata da sistemi di rapporti, anche questi storicamente mutati (a volte lentamente, in dati momento in modo rapido e “rivoluzionario”); si tratta appunto dei rapporti sociali di produzione che costituiscono in un certo senso lo “scheletro” del “corpo” delle diverse società succedutesi nel tempo e che quindi hanno una loro forma “storicamente specifica”. Tale “scheletro” condiziona anche la collocazione (e perfino il funzionamento) dei diversi organi collocati in quel “corpo”. Qui sono cominciati i miei dubbi perché in definitiva è in quello “scheletro” che vengono poste le due grandi “classi” decisive per i mutamenti subiti dalle diverse formazioni sociali (sintetizzando: schiavista, feudale, capitalistica e quella che si sarebbe dovuta formare per gestazione interna a quest’ultima: socialista in quanto fase di transizione al comunismo, che NESSUN marxista ha mai dato per nato in una qualsiasi area del globo). In effetti, per Marx, le due grandi “classi” antagonistiche – con cui infatti egli inizia il “Manifesto” del 1848 scrivendo che tutta la storia è storia di lotte di classi: proprietari di schiavi e schiavi, feudatari e servi della gleba, borghesia (capitalisti) e proletariato (gli operai); in sintesi e generalizzando, tra i gruppi sociali dominanti e quelli dominati – si formano nella sfera produttiva (cioè nello “scheletro”) e sono costituite dai proprietari dei mezzi di produzione e dai produttori privi di quella proprietà. E sarebbe appunto la lotta tra queste due classi a marcare la storia umana e il succedersi delle varie forme di società. In effetti, ho pensato invece che il conflitto, causa delle trasformazioni dei rapporti sociali, non avvenga principalmente nella sfera produttiva. Non posso certo sintetizzare tutto l’arco del mio ragionare. Diciamo semplicemente (e con mancanza di molti passaggi intermedi, che si trovano soltanto nei miei libri, soprattutto da metà anni ’90 in poi) che il “conflitto è vita”, non esiste alcun tipo di esistenza vitale senza lo scontro, l’urto di “elementi contrapposti” tra cui scorrono più o meno violente cariche energetiche. D’altra parte, soprattutto nella nostra società umana, il conflitto è guidato dall’obiettivo della conquista della supremazia. E questa non si conquista senza lo studio e poi l’applicazione di una strategia, di una serie di mosse concatenate miranti a quell’obiettivo supremo. Ma le strategie appartengono a più parti in conflitto e dunque ognuna deve tener conto anche delle mosse delle altre. Inoltre, è assai importante l’analisi del “terreno”, del “campo”, in cui si svolge lo scontro. Allora, quello che indico come “conflitto strategico” riguarda ovviamente tutte le sfere sociali, anche quella economica (produttiva e finanziaria) e ideologico-culturale; e i soggetti in queste implicati perseguiranno i loro specifici interessi e stabiliranno alleanze e connubi con soggetti delle altre sfere. Tuttavia, a me sembra evidente che quella politica (con annessi apparati bellici e i vari Servizi, ecc.) sia quella di maggiore impatto per la vittoria nel confronto per la preminenza. E inoltre, mi sembra un po’ forzata l’idea che il conflitto avvenga direttamente tra dominanti e dominati. Credo che la storia veda assai più lotte tra dominanti (e quella moderna proprio tra Stati, tra vari paesi/nazione). Anche quando scoppia il malcontento delle cosiddette masse popolari si va al completo disordine e disgregazione se non vi sono gruppi dirigenti (anche tra i dominati) che guidano “strategicamente” l’urto tra fazioni. Le più grandi rivoluzioni finiscono sempre con l’emergere di nuovi gruppi dirigenti che, in definitiva, promuovono nuove stratificazioni sociali. E si torna ai dominanti e dominati. La stessa cosa avviene nell’arena internazionale, mondiale. Si alternano periodi di relativa calma (e sedicente pace) quando una parte (un paese ad es.) predomina e assicura un certo coordinamento generale, quello che i liberisti cantano come armonica globalizzazione mercantile e fine degli Stati nazionali (altro che il sedicente economicismo dei marxisti). Poi il predominante entra in declino, entriamo progressivamente nel cosiddetto multipolarismo e tutto inizia a scombinarsi investendo infine, nel mondo moderno (“capitalistico”) la sfera economica. Ecco allora le crisi in quest’ultima, che si risolveranno quando avverrà un nuovo decisivo scontro per la predominanza (“coordinatrice”).

3. Lei parla spesso di solidarietà antitetico-polare tra (neo)liberismo e (neo)keynesismo che propongono formule ormai ineffettuali, benché dirimenti, per affrontare le crisi. Mercato e Stato rappresentano i loro totem, anche se con qualche minimo aggiornamento. Considera questi due approcci persino più inadatti del marxismo (il cui totem fu invece la classe operaia) per rispondere ai problemi odierni. Ci può spiegare perché?

R. Anche questa risposta è un po’ complicata. Comunque, non ho mai creduto ad una vera teoria marxista delle crisi. I seguaci di Marx, quelli a mio avviso che più hanno impoverito la sua teoria di ben altra apertura, hanno inseguito visioni economicistiche particolarmente rozze e povere di contenuto, anche quando ben rivestite di formule matematiche (troppo spesso usate nelle scienze sociali per nascondere la propria pochezza d’intelletto). Mi sono dovuto sorbire i dibattiti sul “sottoconsumo” (alla Luxemburg) conditi con le tesi dell’“impoverimento assoluto” della classe operaia; anche questa ridotta dalla definizione marxiana del III libro de “Il Capitale” (cap. XXVII: “dal primo dirigente all’ultimo giornaliero”) alle semplici “tute blu”. Altri si sono dilettati con la “caduta tendenziale del saggio di profitto” dovuta ad un progresso tecnologico con capitale “fisso” in crescita e aumento quindi della “composizione organica del capitale” (C/V): capitale impiegato nei mezzi di produzione diviso per quello impiegato in salari, cioè per pagare i produttori di “valore” e “plusvalore” (dovuto al pluslavoro), che è il profitto capitalistico (e proprio per questo il capitale con cui si pagano i lavoratori è detto variabile, mentre l’altro è detto costante perché può solo riprodurre il suo valore). Chi sa qualcosa di marxismo ha capito ciò che sto dicendo, ma si tratta di cose noiose che è meglio dimenticare. Per me sta bene che si dibatta sulle crisi economiche tra liberisti e keynesiani; entrambi partono dalla teoria del valore come utilità e non come lavoro, che era la tesi dei “classici”, seguiti da Marx ma con un intento preciso che ho chiarito in mille altre occasioni (e certo non mi ripeto qui). Resto allibito dalle discussioni che sento in TV e nella stampa, dove è totalmente ignorato quanto mi avevano insegnato fin dal primo anno di Università sessant’anni fa. Tutti addosso a chi è contro l’“austerità” (necessaria per liberisti di scarsa levatura a salvarci dal debito pubblico, a ridurre il rapporto deficit/Pil), causa non ultima della caduta della domanda (globale: consumi più investimenti) con effetti di crisi. Ma su questo mi sembra si basi quanto mi viene chiesto nella domanda successiva.

4. Nei suoi interventi dice che la crisi del ‘29 non fu definitivamente superata grazie alle politiche espansive del New Deal ma solo in seguito alla guerra,  dalla quale il mondo uscì diviso in due campi contrapposti, ciascuno con un paese egemone a capo. In questa fase, Lei vede principiare lo stesso tipo di scollamento con il declino relativo degli Usa e l’emergere sulla scena mondiale di alcune potenze concorrenti ad est. Quali saranno i risvolti di questa nascente disputa?

R. Qui il discorso dovrebbe essere veramente lungo. Partiamo dal fatto che il New Deal del 1933 attenuò la crisi iniziata con crollo di Borsa nell’ottobre del ’29 e che raggiunse il suo acume (produttivo e non più semplicemente finanziario) nel ’32 con forte calo del Pil e con disoccupazione indicata a più del 30% della forza lavoro. Di fronte ai “superficiali” (diciamo così), che ancor oggi parlano di austerità e di necessità di contenere il debito e che trattano un paese (e lo Stato che lo rappresenta) come fosse un singolo soggetto, un “buon padre” che deve risparmiare per il bene della “famiglia”, si prese atto che le crisi capitalistiche non sono certo le carestie del Medioevo, ma sono invece caratterizzate da sovrapproduzione, in definitiva da carenza di domanda dei cittadini (dei “privati”, diciamo) non in grado di assorbire tutto quanto può essere prodotto in una situazione di piena occupazione dei fattori produttivi (capitale e lavoro in primo piano). Si ovvia a tale carenza con la spesa (domanda) statale e in deficit di bilancio; altrimenti, se si cerca il pareggio, si dà con una mano e si toglie con l’altra. Comunque, sarebbe certo interessante seguire la polemica tra il liberista Pigou (che attribuiva la crisi alle eccessive richieste sindacali comportanti un salario superiore alla produttività marginale del lavoro, tesi tipica della teoria neoclassica tradizionale) e Keynes, che insisteva appunto sulla carenza di domanda complessiva (consumi più investimenti) in un sistema capitalisticamente avanzato dove si manifesta un relativo eccesso di risparmio, non richiesto dai privati investitori anche a bassissimi tassi di interesse; per cui cade uno dei “pilastri” del neoclassicismo, cioè la “legge di Say”, secondo cui, in ogni caso, l’offerta (cioè la produzione) crea sempre la sua domanda, il che impedisce di afferrare i motivi della sovrapproduzione, caratteristica fondamentale della crisi economica dei sistemi di tipo capitalistico. Comunque dobbiamo sorvolare su tutto ciò e sulla fondamentale opera di Keynes del 1936 “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”). Diciamo solo che il New Deal (fortemente negletto da coloro che dibattono sulla crisi iniziata nel 2008 e non affatto superata come pensano tanti sciocchi odierni) ebbe effetti benefici e ridusse l’impatto della crisi per alcuni anni successivi al 1933. Indubbiamente però, direi già con il ’37, si manifestarono sintomi di “appesantimento” e ristagno con nuova preoccupante crescita della disoccupazione del lavoro. La situazione rimase, diciamo così, incerta fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, che risolse completamente quella crisi. Autori keynesiani (alcuni divenuti poi anche marxisti: penso a Baran e Sweezy e anche a Magdoff) ne diedero una interpretazione conseguente: eccezionale spesa per armamenti, prodotti che non vanno a “ingombrare” il mercato, dando però vita a profitti e salari con accrescimento della domanda complessiva, che imprime il rilancio della produzione non bellica, quella propriamente mercantile. Dopo la guerra e per un lungo periodo di tempo, nel campo detto capitalistico sembrò superata la crisi “classica” e si parlò al massimo di “recessioni”. La tesi, che mi sono permesso di pensare (e anche qualche altro, di cui non ricordo il nome, ne ha formulato una simile), è che ancora una volta si è data eccessiva rilevanza alla sfera economica, tralasciando quella a mio avviso più decisiva. Nel polo capitalistico del sistema detto bipolare, vi è stato il predominio netto degli Usa, di cui quel polo era la specifica sfera d’influenza. Non posso adesso diffondermi sull’argomento, ma quel predominio ha creato un intero sistema di paesi relativamente coordinato tramite generali influssi (anche economici quindi) promananti dal centro. Questo mi ha portato a ripensare il relativo monocentrismo inglese tra il Congresso di Vienna (1814-15) e la seconda metà di quel secolo, quando avanzano come nuove forti potenze gli Stati Uniti (dopo la decisiva guerra civile con schiacciamento dei cotonieri e forte sviluppo industriale) e la Germania (dopo lo scontro fondamentale con la Francia nel 1870-71). Inizia il periodo del crescente multipolarismo (nell’età detta dell’imperialismo, cioè dello scontro tra potenze per la supremazia). Si verifica un lungo periodo di stagnazione (non generale e non priva di modesti aumenti del Pil; 1873-95 all’incirca), nel mentre si è in piena seconda rivoluzione industriale. Ho assimilato a quel periodo quello iniziato nel 2008; ci si accorgerà prossimamente che la relativa stagnazione odierna (malgrado ci si bei dei tassi di crescita degli Usa e di quelli cinesi; in rallentamento come quelli giapponesi e, mi sembra, indiani) non è ancora superata. Il multipolarismo andrà avanti, crescerà la disarticolazione del sistema a causa di spinte ora centrifughe. A questo punto mi arresto e rinvio a miei testi teorici, che si susseguono già da tempo e che cercherò ancora di approfondire.

5. Lei critica aspramente l’ideologia statalista, al pari di quella del libero mercato. Spesso ha sostenuto che tra pubblico e privato non vi è molta differenza e che molto dipende, non dalla forma giuridica della proprietà, ma dalla visione dei gruppi strategici che guidano gli apparati di vertice istituzionali o imprenditoriali, di una determinata area o Paese. Quelli italiani ed europei, in particolare, come sono messi?

R. Diciamo, più specificamente, che non vi è sostanziale differenza tra impresa pubblica e privata. Nel senso che la prima non è certo dedita a interessi di carattere generale, riguardanti una intera collettività nazionale. Ogni gruppo dirigente di una qualsiasi iniziativa, avente il carattere dell’impresa di tipo capitalistico, deve utilizzare i metodi e perseguire le finalità proprie di tale iniziativa. Certamente, appare assai limitativo rifarsi al semplice scopo del “massimo profitto” (come sostenuto anche da parte di certo marxismo, a mio avviso abbastanza lontano dal pensiero di Marx). Tuttavia, è ovvio che una simile impresa deve puntare al suo rafforzamento; anche se può a volte accettare – per limitati periodi di tempo – di soffrire di perdite, questo deve avvenire in funzione di un indebolimento dei suoi competitori per riprendere poi in mano la situazione da posizioni di preminenza. L’impresa pubblica è importante in Italia perché si diffonde in settori strategici per motivi storici particolari. Nel 1933, proprio a causa della violenta crisi iniziata quattro anni prima, fu necessario il salvataggio di grandi banche come il Credito Italiano, la Commerciale, ecc.; nasce così l’IRI, che poi diventa controllore pure di industrie come AnsaldoTerniIlvaSIPSMEAlfa RomeoNavigazione Generale ItalianaLloyd Triestino di NavigazioneCantieri Riuniti dell’Adriatico e molte altre. IRI significa infatti “Istituto per la ricostruzione industriale”. Esso doveva essere transitorio, ma poi invece divenne definitivo; nel dopoguerra al settore imprenditoriale pubblico si aggiunsero Finmeccanica (1948), Eni (1953) ed Enel (1962). E nel 1962 quel settore giunse a controllare una buona metà dell’industria italiana. Proprio in quell’anno, con l’incidente/assassinio di Mattei, si può dire che parte l’attacco all’imprenditoria pubblica, che si accelera in particolare dopo la “distruzione” (via giudiziaria) della prima Repubblica. Una parte resiste ancora, ma l’indebolimento è stato forte. E quando si sente anche il nuovo governo parlare dell’importanza delle PMI (piccolo-medie imprese), del “made in Italy” (soprattutto moda e prodotti culinari), del turismo, ecc. si capisce che non ci rimetteremo in sesto tanto presto. E allora, ancora una volta, ci si rende conto come il problema centrale per il rafforzamento di un paese – anche della sua sfera economica – è essenzialmente politico; cioè riguarda quella strategia fatta di mosse mediante le quali si tenta di assumere la preminenza in una data area territoriale, diciamo geografico-sociale, più o meno estesa a seconda dei mezzi a disposizione dei diversi paesi. La politica, intesa in questo senso di “conflitto strategico”, riguarda tutte le sfere della società, anche quella economica (caratterizzata dall’impresa e mercato). Tuttavia, la potenza massima della politica (come strategia) si esprime negli apparati ad essa specificamente “dedicati”, al cui vertice c’è lo Stato. Ed è qui che si apre un discorso d’impossibile esaurimento in una intervista. Vi è la questione della politica (cioè del conflitto strategico) in campo internazionale e in quello interno; i collegamenti tra i due e la loro articolazione in termini di principale e secondario in differenti fasi storiche, tra cui molto importante è quella del crescente multipolarismo, com’è quella attuale. Concludo semplicemente manifestando il massimo disappunto (termine molto “morbido”) per come si sta sviluppando il dibattito in questo paese in merito al contrasto con la UE (parte di un confronto/scontro ben più vasto e di grande rilevanza). Tutto un arzigogolare intorno alle misure economiche governative (il tutto condito con menzogne spudorate dalla parte ancora prevalente in Europa e negli Usa, che sente il suo potere in forte crisi) senza alcun coraggio di dire: il problema è POLITICO, e se deve permanere un assetto internazionale ancora predominato da un paese (con i suoi servi privilegiati in Europa; Germania e Francia) o se bisogna “rovesciare il tavolo” con violenza e spostare gli assi delle varie alleanze. E qui mi fermo.

 


Il prossimo libro di Gianfranco La Grassa:

CRISI ECONOMICHE E MUTAMENTI (GEO)POLITICI

  • Editore: Mimesis
  • Collana: Eterotopie
  • Data di Pubblicazione: febbraio 2019

Descrizione

Questo libro nasce dall’esigenza di chiarire alcuni aspetti fondamentali delle crisi economiche mondiali, troppo spesso trascurati dai sedicenti esperti. Già il titolo contiene un intendimento ben preciso, che punta a tenere insieme due piani, quello economico e quello (geo)politico, da non separarsi perché, in verità, essi sono connessi quasi da un rapporto di causa ed effetto. Tuttavia, questa relazione appare rovesciata, in quanto non si utilizzano lenti teoriche ben calibrate per interpretarla, con l’economia che prende impropriamente il davanti della scena, nelle narrazioni ufficiali, rispetto alla politica. Si tratta di un errore, come quello commesso da chi guardando ad occhio nudo il sole crede che esso giri intorno alla terra. Ci vogliono strumenti analitici più raffinati per scoprire che è l’esatto contrario. I fenomeni finanziari vanno trattati come meri elementi segnalatori di sconquassi ben più sostanziali e profondi che avvengono a livello delle strutture sociali internazionali e nell’articolazione dei rapporti di forza tra aree di paesi, egemonizzate da poli di potenza in crescente attrito. La crisi sistemica si manifesta, epidermicamente, con le cadute in borsa, la volatilità dei titoli azionari, lo scoppio delle bolle speculative per poi riversarsi sui fattori reali quali l’arretramento della produzione, la crescita della disoccupazione, il fallimento degli operatori industriali. Ma questo è solo l’inizio di trasformazioni più vaste che toccano inevitabilmente l’architettura geopolitica del mondo. Il libero mercato, a maggior ragione in fasi di trapasso epocale come quella presente, è una esiziale ideologia di distorsione della realtà; ma lo è anche quella mistificazione dei fondamentalisti keynesiani che ritengono di poter superare la débâcle con un altro New Deal. Non fu quest’ultimo a risolvere il ’29, fu la II Guerra Mondiale dalla quale gli Usa emersero quale paese predominate dell’Occidente e l’Urss come il loro contraltare ad Est. La crisi non dipende dalla domanda, tanto meno dal sottoconsumo (in Keynes almeno si tiene conto dell’investimento nella domanda effettiva). La crisi, quando non è mera recessione, si sviluppa per processi storici inevitabili che riguardano la lotta per la supremazia tra agenti strategici in campo (geo)politico. Allorché questo conflitto si fa più acuto saltano le regole del gioco in ogni sfera sociale, a cominciare proprio da quella economico-finanziaria che rappresenta l’esteriorità del capitalismo. Ma chi si ferma a questa apparenza non coglie ciò che ci aspetta e non troverà soluzioni alle attuali difficoltà.

RIANDIAMO UN PO’ ALLA STORIA! , di Gianfranco la Grassa

RIANDIAMO UN PO’ ALLA STORIA! UN DIBATTITO NON INUTILE

tratto da http://www.conflittiestrategie.it/riandiamo-un-po-alla-storia-un-dibattito-non-inutile

  1. Nel 1972, su Critica marxista, uscì un articolo di Emilio Sereni, improntato allo “storicismo” tipico del marxismo italiano, che di fatto lanciò un dibattito sulla centralità o meno, nel marxismo, dello sviluppo delle forze produttive o invece della trasformazione dei rapporti di produzione, ai fini del passaggio da una formazione sociale all’altra, cioè da un modo di produzione, considerato il nocciolo fondamentale della formazione sociale, ad un altro. A Sereni rispose Luporini; e da lì iniziò appunto il dibattito che vide la partecipazione di molti studiosi marxisti, in particolare italiani e francesi, fra cui Althusser e alcuni della sua scuola. A quel dibattito partecipai anch’io, da poco tornato dal soggiorno a Parigi (all’EPHE, oggi EHESS) dove avevo studiato con Bettelheim, passato all’impostazione althusseriana dopo un periodo di maggiore ortodossia. In seguito a quel dibattito si formarono in Critica marxista alcuni gruppi di studio sui modi di produzione divisi per fase storica: quello antico (e schiavistico), quello feudale, quello capitalistico e il modo di produzione asiatico. Il terzo si sarebbe dovuto interessare anche della formazione sociale di transizione al socialismo. In definitiva, l’unico gruppo che funzionò fu quello sul modo di produzione antico (diretto da Aldo Schiavone), che pubblicò anche un volume con gli Editori Riuniti.

Quel dibattito, se seguito da qualcuno ignaro di marxismo e comunismo, poteva forse apparire quasi “teologico”. In ogni caso, non credo che la maggior parte dei “militanti di base” del Pci fosse in grado di capire che cosa si giocava in esso; anche se poi, alla fin fine, non fu giocato quasi nulla perché il Pci non era disponibile ad alcuna rimessa in discussione della propria linea, tanto più che la prevalenza nel partito stava andando alla nuova segreteria berlingueriana, addirittura interessata al “trasferimento” verso il capitalismo occidentale (io avrei dovuto capirlo fin dall’autunno del ’71 in seguito ad un importante incontro alle Botteghe Oscure; rimasi invece perplesso e afferrai il problema un po’ più tardi, comunque ben prima di altri e del famoso viaggio di un “plenipotenziario” piciista nel 1978, in costanza di rapimento Moro). In ogni caso, la nuova direzione del Pci non era per nulla intenzionata a disquisire su problemi come quelli dibattuti a “Critica marxista” nel ’72, riguardanti di fatto la lotta al capitalismo e la possibilità di transizione al socialismo. Tuttavia, è interessante comprendere il senso ultimo di quella discussione poiché si tratta, da una parte, di qualcosa di non irrilevante per la storia del comunismo e del suo pensiero; e poi perché serve a rendersi conto come, dietro a questioni apparentemente teoriche, considerate dai più astruse, si celino precise scelte di linea politica, che guidano poi determinate pratiche delle varie forze in campo.

Affinché si renda più comprensibile quanto si discusse allora ricordo brevemente, e non con intenti professorali, che le forze produttive venivano distinte in soggettive ed oggettive. Le prime riguardano la capacità lavorativa umana, con le sue prerogative e abilità specifiche (se ci sono); le seconde si riferiscono alle condizioni della produzione esterne a detta capacità lavorativa, quelle su cui quest’ultima si esercita (ad es. la terra o varie materie prime da essa fornite) o che l’assistono nella lavorazione come la strumentazione e la tecnologia (e quindi la scienza che ne è pur sempre alla base), ecc. Tale distinzione va ricordata perché la polemica contro la tesi del primato delle forze produttive si è spesso esercitata con riferimento a quelle oggettive – tutte le ciance sulla necessità di rallentare lo sviluppo e la stessa ricerca scientifica, tornando a tecnologie ritenute più blande e meno dannose per la natura – mentre esalta, in realtà relegandola al compimento di maggiori sforzi e fatica, la capacità di lavoro del “soggetto umano” (o dell’Uomo).

E’ bene tenere presente che quel dibattito era comunque condotto tra studiosi con una buona, o almeno più che discreta, conoscenza del marxismo, a differenza di quelli che seguiranno dopo l’infausto ’68 (scusate se ormai lo valuto abbastanza negativamente), una vera débacle per il Marx scienziato delle diverse formazioni sociali succedutesi nella storia della società umana; e, in particolare, di quella capitalistica. La conoscenza comune di allora consentiva una polemica a volte aspra, ma appunto condotta alla guisa di quelle dottrinarie interne ad un’unica religione; la discussione, cioè, avveniva in base ad una terminologia teorica in larga parte condivisa, caratterizzata soltanto da differenziazioni nell’interpretazione e nelle conseguenze pratiche che ne derivavano. In definitiva, nella polemica ci s’intendeva, si sapeva bene dove erano situati i punti di contrasto; e si era ben consci del significato politico del dissenso, non riguardante esclusivamente i “massimi sistemi”, le “alte concezioni” dell’Umanità e dei suoi “destini ultimi”.

Insomma, anche i filosofi marxisti, in quanto reali conoscitori di tale corrente di pensiero e delle sue finalità in tema di lotta per il comunismo, erano ben consapevoli della posta in gioco: la linea politica adottata dalle varie organizzazioni denominate comuniste. Oggi, tutto questo non esiste più. Ci sono filosofi vaneggianti e scienziati alla ricerca di nuovi paradigmi teorici per comprendere le dinamiche dell’attuale formazione sociale (o formazioni sociali), in cui solo dei visionari pseudocomunisti (o degli incalliti vetero-anticomunisti) possono credere esista ancora qualcosa da definirsi comunismo o anche solo socialismo. Il povero Marx è stato triturato e ricondotto al minuscolo cervello dei miseri e opportunisti intellettuali dell’ultimo mezzo secolo. Ogni discussione con simili personaggi appare ormai sterile; allora no, il contrasto tra marxisti aveva un senso e notevoli effetti pratici.

 

  1. Lo scopo politico della discussione, tralasciando i “tesori” di dottrina che comunque venivano esibiti, si può, credo, sintetizzare come farò qui di seguito. I teorici delle forze produttive – cioè del loro sviluppo in quanto molla decisiva (pur con la possibilità di qualche “azione di ritorno”: dai rapporti alle forze) della trasformazione dei rapporti sociali di produzione e dunque dell’intera società – sostenevano tale tesi per giustificare l’attendismo, l’accoccolarsi entro i meccanismi di riproduzione dei rapporti nelle società del campo capitalistico (“occidentale”), coadiuvando di fatto i loro gruppi dominanti con la scusa che non era ancora matura la trasformazione sociale per l’immaturità dello sviluppo delle forze in oggetto.

Ovviamente, questa tesi centrale era contornata da tutta una serie di altre argomentazioni, che fungevano da sua “cintura protettiva”, soprattutto tesa però a creare una fitta nebbia in cui non si intravedesse il nocciolo centrale: l’attendismo e il ripiegamento su posizioni di sostanziale supporto (subordinato) allo sviluppo capitalistico. Vi erano i discorsi sull’utilizzo della “democrazia” parlamentare (cioè elettoralistica, dunque nulla a che vedere con il preteso “governo del popolo”) per accrescere l’influenza delle “masse lavoratrici” sulle classi dominanti, considerate solo in quanto proprietarie private dei mezzi produttivi (e dei capitali monetari). Si trattava in realtà di captare i voti di queste masse per essere accettati all’interno dei gruppi di vertice e integrarsi nel sistema dei meccanismi (ri)produttivi del capitale, in modo che una parte dei dirigenti (in specie sindacali o di cooperative) potesse accedere alla proprietà capitalistica stessa, mentre l’apparato di partito sarebbe divenuto l’organo privilegiato di rappresentanza nella sfera politica di questi nuovi spezzoni di classe dominante. Non avvertite un che di odierno?

Un gran battage fu sollevato intorno al fumoso discorso concernente le “riforme di struttura” (cardine dell’altrettanto nebbiosa “via italiana al socialismo”), di cui mai si precisò con nettezza il significato e la portata; le proposte in merito furono appena abbozzate e tutto sommato avanzate per fare scena, e nascondere alla “base” il proprio progressivo cambio di casacca (scrissi sull’argomento un preciso articolo nei primi anni ’70, che è stato pubblicato qualche anno fa nel sito Conflitti e strategie). Infine vi fu il blaterare sull’appoggio all’industria “pubblica”, che doveva servire a contrastare, e dunque calmierare, le pretese arroganti del monopolio privato. In realtà, era più facile contrattare vie di collaborazione con i gruppi dominanti – chiedendo fra l’altro di essere accettati quale una delle loro rappresentanze nella sfera della politica – attraverso contatti con le frazioni dei partiti governativi aventi influenza sui (o che subivano l’influenza dei) gruppi manageriali delle grandi imprese “pubbliche”. Ve l’immaginate un membro del Pci, o un aderente stretto al partito, che facesse in quegli anni carriera nelle alte o almeno medio-alte vette delle grandi imprese private? Fiat, Pirelli, Olivetti o che so io potevano al massimo finanziare giornali e case editrici, in cui facevano “bella mostra” di sé intellettuali pseudo-comunisti: o di stampo riformista o di quel tipo “ultrarivoluzionario” che serviva a far meglio risaltare il “buon senso” del riformismo (su cui poi del resto è ripiegata la stragrande maggioranza degli “ultrarivoluzionari”). Invece, nelle imprese “pubbliche” si trovava, anche ai piani alti o medio-alti del management, un certo numero di individui addestrati nell’imprenditoria “rossa” (sic!); talvolta in modo palese, altre volte copertamente, ma comunque sempre ammessi nella stanza delle decisioni dei dominanti.

Questa era comunque la “cintura protettiva” – per subornare le “masse” – della più dotta tesi circa la centralità dello sviluppo delle forze produttive: tesi, però, nella versione in uso nei partiti comunisti del campo capitalistico e specialmente nel PCI. Nel campo socialista – che tale non era mai stato, ma lo si è capito un po’ tardi; e ancora adesso buona parte degli scribacchini, di qualsiasi orientamento ideologico, nemmeno lo sospetta – la tesi in oggetto era presentata in forma diversa. In tale area si sosteneva che i rapporti sociali erano già per l’essenziale stati trasformati; non però in rapporti comunisti, come pensano alcuni ignorantissimi intellettuali e politicanti odierni, bensì più semplicemente in rapporti socialisti, primo stadio del comunismo. Il problema fondamentale sarebbe stato allora rappresentato da un certo qual avanzamento dei rapporti rispetto allo sviluppo suddetto; si riteneva quindi indispensabile adeguare quest’ultimo ai rapporti.

In ogni caso, in entrambi i filoni di quel movimento comunista da noi (che ci pensavamo autentici marxisti-leninisti) accusato di “revisionismo”, si affermava che bisognava prestare massima, e centrale, attenzione alle forze produttive. Così agendo, si sarebbe finalmente preparata la base per la trasformazione dei rapporti capitalistici; e in modo indolore, non violento, senza rivoluzione, con pieno rispetto delle forme democratico-parlamentari. Questa la tesi riformistica, gradualista, sostenuta in occidente (campo capitalistico). A est (nel cosiddetto “socialismo reale”), la tesi serviva ai fortemente centralizzati (e del tutto verticistici) gruppi al potere per soffocare ogni critica ad essi, che avrebbe soltanto provocato l’indebolimento della trasformazione dei rapporti, appunto pensati come già socialisti, da irrobustire invece tramite l’ulteriore sviluppo delle forze produttive.

Negli anni ’60, in particolare nella loro seconda metà, pur essendomi allontanato dal Pci nel ’63, ero discretamente edotto delle pratiche del partito, “molto produttive” in fatto di poteri acquisiti nell’ambito dell’organizzazione e riproduzione dei rapporti capitalistici. Andai da Bettelheim a Parigi – e non a Cambridge od Oxford o all’MIT, ecc., mossa essenziale per la carriera accademica in un paese ormai succube degli Stati Uniti e del campo “atlantico” – perché interessato alla critica, non soltanto politicistica ma pure teorico-dottrinale, delle tesi “revisioniste”, gradual-riformistiche, del presunto comunismo italiano. Quindi, all’epoca del dibattito di cui si sta parlando, conoscevo bene la portata d’esso, che cosa si stava giocando; e che, lo ribadisco, in effetti non si giocò per il veloce tralignare del piciismo in senso filo-“occidentale” (pur in modo mascherato fino allo sfacelo del “blocco sovietico”). Purtroppo ci fu chi nemmeno intuì, almeno a spanne, un simile sbocco e si mise di fatto nelle mani di certe “trame”, in specie elaborate dai Servizi dei paesi orientali per motivi già più volte indicati in altri miei scritti; ma che poi provocarono la reazione di quelli occidentali, appoggiati da buona parte dei “poliziotti” piciisti, con la creazione di un caos in cui chi non si era tirato indietro in tempo fu travolto negli anni detti “di piombo”. Anni in cui il tanto declamato (per incutere timore e violento anticomunismo) “terrorismo rosso” non fu tanto rosso, bensì frutto di trame e lotte segrete tra vari Servizi e forze politiche “occidentali” per arrivare infine, una volta crollato il sedicente “socialismo”, alla svolta in Italia con la distruzione della prima Repubblica e il tentativo di creare un nuovo regime fondato appunto sui postpiciisti (del “tradimento”); tentativo di fatto fallito per l’insipienza e rara inettitudine dei dirigenti di quel partito che mutò nome e colori più di un camaleonte.

Ricordo, en passant, che molti – anche alcuni ancora in circolazione ma di cui non farò il nome – mi criticarono a quel tempo come “criptorevisionista” per aver compreso in tempo con buona approssimazione cosa stava avvenendo nel Pci e dintorni, e nel non aver mai voluto partecipare ad una lotta scriteriata e balorda – condotta senza alcuna protezione, allo sbaraglio – contro il “revisionismo”, lotta che non poteva che condurre dove ha condotto certi “compagni”: galera o tradimento o tutti e due! Il fatto è che io non sono un vero intellettuale. Sono un prodotto della medio-alta “classe” imprenditoriale e ho sufficiente concretezza per capire che le “idee” non orientano il mondo. Purtroppo sono un prodotto mal riuscito che non voleva essere “padrone”, ma nemmeno servo come sono gli intellettuali (quasi tutti); e purtroppo chi non sta da una precisa parte subisce le più malefiche conseguenze. Così non sono un miliardario (padrone) e nemmeno un “maître à penser” (servo ignobile ma ben pagato). E nemmeno un “esperto”, portaborse di qualche “Maestro” e andato ad “allenarsi” nel mondo accademico anglo-americano, giocando al ritorno per qualche anno al marxista o al critico liberal per essere infine chiamato a cianciare nei media o infilato in qualche Ministero o simile (sono decine e decine i “chiamati in causa”, perché di questi bassi opportunisti, che hanno impestato tutti i gruppetti “antirevisionisti” e “rivoluzionari” dell’epoca per procurarsi titoli di merito in ambito accademico e/o giornalistico, ne ho conosciuti in quantità superiore ad ogni più sfrenata immaginazione).

 

  1. La critica sostenuta dalla corrente, che poneva i rapporti di produzione in posizione decisiva nella transizione da una formazione sociale all’altra, intendeva riprendere l’orientamento rivoluzionario contro l’ormai avvenuta pacificazione tra comunismo europeo (eurocomunismo) – ma anche di molti altri paesi, perfino del “terzo mondo” – e i gruppi dominanti nei paesi capitalistici dell’area a più alto sviluppo, un sistema di paesi centrato sugli Stati Uniti e la loro politica imperiale; e non semplicemente imperialistica come si diceva con linguaggio impreciso e tributario di una pseudo-ortodossia leninista o di un più generico concetto di imperialismo in quanto dominio coloniale o neocoloniale.

Ci furono molte forzature: ad es. la considerazione della ben nota (ormai a pochi per la verità) Prefazione del ’59 di Marx, trattata a volte addirittura da testo non marxista. In un mio libro di alcuni anni fa, “Due passi in Marx”, ho cercato di compiere una più ponderata valutazione di quel testo, considerato la base dell’economicismo delle correnti favorevoli alla tesi della centralità delle forze produttive. In realtà, molti dei critici di questa tesi non erano veramente usciti da essa. Ci sono stati quelli che pensavano alle tecniche produttive in uso nei paesi ad alta produttività come sempre in grado di riprodurre i rapporti (capitalistici) in esse “incorporati”, rapporti che le avrebbero dunque plasmate ai fini di questa incessante (auto)riproduzione (pure io sono caduto in posizioni simili per qualche tempo). Si arrivava così, magari inconsapevolmente, a implicite forme di luddismo poiché per distruggere i rapporti era necessario annientare una serie di tecnologie; o quanto meno si sosteneva la necessità di non importare – nei paesi in cui si voleva attuare la transizione al socialismo – le tecnologie dei paesi capitalistici se non dopo attenta analisi e trasformazione per riadattarle ai “bisogni” (del tutto imprecisati e non conosciuti) di quei paesi.

La vecchia ortodossia sosteneva che i rapporti capitalistici si sarebbero ad un certo punto trasformati in catene per l’ulteriore sviluppo delle forze produttive; sarebbero perciò state necessariamente suscitate le forze rivoluzionarie capaci di spezzarle, provocando la nascita di nuovi rapporti. Nella critica a tale tesi si prendeva atto della capacità di sviluppo del capitalismo, che non ha alcun limite prefissato da nessuna “legge storica” (di tipo economico). Tuttavia, si accreditava di fatto l’idea che tale formazione sociale è la più adeguata allo sviluppo produttivo, accompagnato quasi sempre dall’innovazione tecnico-organizzativa; giacché sviluppo e crescita (che non richiede, di per sé, l’innovazione) non sono lo stesso fenomeno, ma sono di solito fra loro collegati. Nel contempo, una parte delle critiche alla tesi dello sviluppo delle forze produttive diffondeva il timore che quest’ultimo riproducesse sempre i rapporti della società “da rivoluzionare”, per cui bisognava essere diffidenti nei suoi confronti e, in definitiva, boicottarlo. Non si usciva così per nulla dalla tesi della centralità delle forze produttive (oggettive); e il capitalismo diventava una sorta di mostruoso automa sempre in riproduzione di per se stesso, a meno di non intralciarne lo sviluppo, e dunque l’innovazione tecnica; da cui consegue in genere l’impossibilità di aumentare la produttività del lavoro, ottenuta di solito con una diversa organizzazione del processo lavorativo e l’introduzione di nuove tecnologie che spesso alleviano la fatica dei lavoratori.

Peggiore ancora è stata la critica alla tesi delle forze produttive proveniente dagli “umanisti”, da coloro che piangevano (e ancora piangono) sulle sorti della “classe operaia” o delle “masse lavoratrici”, sacrificate sull’altare dei profitti capitalistici (soprattutto di quei “parassiti” dei finanzieri). Sarebbe stato invece necessario fare appello alle risorse di questa classe o delle masse, capaci (secondo i soliti cervelloni degli intellettuali di questa fatta, del tutto avulsi dal mondo così com’esso è!) d’inventività e innovazione sociale; soprattutto in grado di ribellarsi ai soprusi del Capitale (quello ovviamente totale, che intende sopraffare e sottomettere a sé tutto l’insieme dell’Essere Umano, dell’intero suo corpo e delle sue capacità cognitive). La Fiera delle imbecillità sessantottarde (e seguenti) è stata ricchissima di prodotti di scarto di “avanguardie” pseudo-culturali di una demenza sconosciuta, credo, in altre epoche storiche della società umana. In ogni caso, in simili tesi – e in quelle del “comando” del Capitale, della “sfida operaia” con “risposta” del suddetto Capitale, e via vaneggiando – non c’è alcuna prevalenza dei rapporti sociali; semplicemente si esalta la forza produttiva dell’Uomo, o in generale o con specifico riferimento all’Uomo Lavoratore nella fabbrica (prima quella meccanica fordista e poi quella presunta sociale complessiva) del capitalismo.

 

  1. Del resto, anche lo spostamento verso la centralità dei rapporti sociali (da trasformare) non è stato scevro di limiti gravi. Nei casi di maggiore superficialità ci si è attenuti fondamentalmente ai rapporti mercantili, ai rapporti tra uomini “cosificati” nel mero scambio di prodotti del proprio lavoro in quanto merci (siamo nei paraggi del sismondismo e proudhonismo). La riduzione economicistica dei rapporti sociali è qui molto evidente; soprattutto però si fa dell’ambito di “superficie” della formazione sociale capitalistica – dove, come Marx aveva avvertito, vige una sempre maggiore libertà nello scambio ed una tendenziale eguaglianza di valore delle merci scambiate tra compratori e acquirenti, nel senso di una oscillazione dei prezzi intorno ai valori (prescindendo dalla trasformazione dei valori in prezzi di produzione, che non ci interessa) – il fulcro della società. Allora, ancora una volta, la lotta anticapitalistica viene ridotta a pura questione di rapporti di forza nella distribuzione del prodotto, alla ricerca di una maggiore “equità” nello “sfruttamento” (creazione ed estrazione del plusvalore come profitto) che è la vera acquisizione di Marx come scienziato e non come chiacchierone filosofico sulla sorte dell’Uomo, alienato nel mercato. A che cosa si poteva giungere allora? A proporre quell’aberrazione teorica e politica del “socialismo di mercato”, ultimo rifugio (ormai diroccato) di meri “sopravvissuti”, che cercano di difendere il loro passato di fallimentari teorici e storici degli altrettanto falliti tentativi di transizione al socialismo.

C’è stato a mio avviso un positivo tentativo di formulare una tesi di trasformazione dei rapporti sociali (da Marx indicati quali rapporti di produzione sia pure sociali) in quanto critica ad ogni forma di attendismo gradualistico (tesi delle forze produttive) o di puro “ultrarivoluzionarismo” parolaio in favore dell’Uomo (o in generale o di quello Lavoratore o delle “Masse popolari”, ecc.). Si è trattato del tentativo althusseriano. Condotto tuttavia con sostanziale inconsapevolezza della teoria del valore marxiana, che è teoria dello sfruttamento (estrazione di plusvalore, forma di valore del pluslavoro) pur nella supposizione (astrazione scientifica) di una perfetta parità di forze e quindi di eguaglianza tra venditore e acquirente di forza lavoro in qualità di merce. Tutto sembrava invece rinviare ad un rapporto di forza nella “lotta di classe” che, ad un certo punto, si trasformava così in entità piuttosto confusa e poco perspicua, un autentico deus ex machina di particolare artificiosità.

Si è dovuto accettare la tradizionale divisione della storia del capitalismo in due epoche: quella concorrenziale (sostanzialmente ottocentesca) e quella del monopolismo (trasformazione avvenuta in particolare a partire dalla lunga crisi del 1873-96). Si è anche distinto tra la determinazione d’ultima istanza (dell’economico: ulteriore omaggio all’ortodossia) e la dominanza. Si è allora sostenuto che nella prima epoca del capitalismo (concorrenziale) sia la determinazione d’ultima istanza che la dominanza appartenevano all’economico (alla sfera produttiva e finanziaria); mentre nella seconda epoca (monopolistica) quest’ultimo restava determinante in ultima istanza mentre la dominanza passava alla sfera della politica e dell’ideologia, condensata nell’indicazione della presenza decisiva degli “apparati ideologici di Stato”. Difficile pensare ai caratteri della determinazione d’ultima istanza, dato che non si potevano ridurre i rapporti sociali capitalistici soltanto a quelli nel mercato; e nemmeno fare semplice riferimento alla tecnologia e all’organizzazione lavorativa nelle fabbriche. Quanto alla dominanza nell’epoca del monopolismo, è ovvio che i rapporti di produzione venivano in sostanza pensati quali meri rapporti di potere.

Interessante la distinzione tra proprietà (dei mezzi produttivi), considerata nella sua mera forma giuridica (ma né Marx né alcun marxista pensante l’hanno ridotta a questo), e potere di disposizione o di controllo sui mezzi stessi. Tale potere rinviava però appunto, in definitiva, a quello detenuto negli apparati della sfera politica e ideologica. In primo luogo, mi sembra sia venuta a mancare una più netta distinzione tra gli apparati propriamente statali, con particolare riferimento a quelli di tipo coercitivo e repressivo, e quelli esercitanti l’egemonia attraverso l’ideologia; e anche nell’ambito di questi ultimi sarebbe stato indispensabile distinguere tra la trasmissione di forme culturali di lunga durata (con le loro tradizioni, ecc.) e l’approntamento di ideologie più spicciole, spesso “di moda” per brevi periodi, che hanno solitamente una ben più scoperta funzione di mascheramento e di menzogna circa le intenzioni dei gruppi dominanti (per cui sono spesso fonte di incultura o di “semicultura” come quella tipica di certo ceto medio “sinistrorso” odierno).

Di fatto, lo Stato è divenuto nell’althusserismo un coacervo di apparati dei più svariati tipi, tutti però raggruppati nello stesso luogo, eletto a principale campo, dunque anche oggetto (obiettivo), dello scontro tra gruppi sociali; privilegiando inoltre il conflitto “in verticale” tra dominanti e dominati, con il solito schema duale di semplificazione caratteristico del marxismo tradizionale. Lo Stato è, sì, un insieme di apparati, ma in quanto condensazione, precipitazione, di un complesso intreccio di conflitti tra più gruppi sociali, in cui si verifica, in circostanze diverse, il prevalere di uno o di alcuni d’essi o il loro accordo compromissorio, ecc. L’insieme di apparati mantiene, anche a lungo, uno “statuto legale” unitario, che tuttavia nasconde lo scontro e il mutare delle egemonie e del potere vero e proprio; un potere, inoltre, sempre “corazzato di coercizione”, altrimenti non consente alcun predominio sicuro e prolungato di un dato gruppo sociale. Chi crede in quello decisivo della cultura (della sua egemonia non “corazzata di coercizione”) è il solito intellettuale arruffone, che fa il gioco dei dominanti, sempre ben pagato e onorato per i suoi bassi servigi di confusione mentale indotta in potenziali oppositori.

Inoltre, nella storia, i più lunghi periodi sono caratterizzati dal conflitto tra gruppi dominanti di alto e medio-alto livello; a volte ciò si traduce nella formazione dei cosiddetti blocchi sociali, in cui gruppi a più basso livello sono trascinati e orientati nella lotta da quelli dominanti. Proprio per questo, in tali periodi storici, all’interno dei gruppi a basso e medio-basso livello, quand’anche si situino in posizione d’urto con quelli dominanti, si formano nuclei dirigenti (“élites”) che vengono infine cooptati verso l’alto, verso i dominanti stessi. Solo in particolari congiunture di scontro acuto e violento tra i dominanti, con disgregazione del collante (egemonico) sociale, paralisi del potere coercitivo (i suoi vari apparati di intralciano l’un l’altro e alla fine si sgretolano), con conseguente crisi aperta del suddetto “statuto legale” unitario che tiene legati i vari apparati, le élites dei raggruppamenti sociali di medio e basso livello emergono in dominanza, ricreando a lungo andare altri (e diversi) gruppi dotati di egemonia (culturale) e di potere (politico) in una società nuovamente “normalizzata”, in genere mutata nella forma dei rapporti sociali che la caratterizzano prevalentemente (si tratta allora di una nuova formazione sociale).

 

  1. Ho cercato di sintetizzare nel migliore (o meno peggiore) modo possibile un dibattito che ha coinvolto principi fondamentali di una teoria – poi trasformata in dottrina – all’origine di complesse pratiche di quello che è stato denominato movimento operaio, in specie di quello di orientamento comunista, dato che nel secondo dopoguerra la socialdemocrazia si è allontanata del tutto dal marxismo. Ci si ricordi in particolare il Congresso del SPD tedesco a Bad Godesberg nel 1959, quando viene ufficialmente dichiarato l’abbandono di tale impostazione teorica e dottrinale. A qualcuno sembrerà forse che quel dibattito, lanciato dal Pci nel 1972-73, non abbia più molto da dire. Sarebbe un errore. Intanto, pur non rifacendosi al marxismo, le teorie decresciste (e ambientaliste, ecc.) sono di fatto dentro l’orizzonte della tesi relativa allo sviluppo delle forze produttive. Il fatto di considerarlo negativo invece che positivo non cambia in nulla l’impostazione sostanziale, che dimentica opportunamente, e opportunisticamente, il problema della trasformazione dei rapporti sociali – per la qual trasformazione occorre rifarsi alla politica del conflitto; magari non più “di classe”, ma pur sempre conflitto tra interessi di gruppi sociali differenti – mettendo così in bella evidenza la vera natura di simili tesi.

Criticare la tesi della centralità delle forze produttive in termini di sviluppo e trasformazione della società significa quindi prendere netta posizione contro le tesi dei decrescisti, metterne in luce il falso anticapitalismo, mentre essi si pongono invece al pieno servizio dei capitalisti, una parte dei quali ha perso fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive” di questa società; per cui si dedica a imbrogliare le carte – servendosi anche di “ultrarivoluzionari” pronti ad ogni lucroso servigio (non soltanto in termini di denaro) – pur di distrarre l’attenzione dai veri nodi del problema capitalistico. In questo senso, i decrescisti sono dello stesso stampo di coloro che insistono nell’attribuire l’attuale crisi ai “cattivi” finanzieri o anche alla “finanza tout court” e ai banchieri o alle manovre monetarie, ecc.

Del resto, solo una parte (minoritaria) del decrescismo (e della “difesa della Natura”) dipende dalla perdita di fiducia nelle “sorti progressive” del capitalismo; la parte maggioritaria è rappresentata da consapevoli imbonitori, pagati dalle imprese capitalistiche che lucrano ottimi affari con tutte le “mode” attuali: le energie alternative (che sono un modo accessorio di guadagnare lauti profitti), i commerci equosolidali, le coltivazioni “biologiche” e tutta una serie di altri imbrogli, del tutto interstiziali nel capitalismo odierno, affidati a gruppi di (inizialmente) semidiseredati, alcuni dei quali diventano agenti discretamente ben pagati dai dominanti. Il tutto fa brodo per un capitalismo che dovrà attraversare una lunga crisi quanto meno di stagnazione tendenziale, tipo quella di fine ‘800.

In definitiva, si cerca di dirottare la possibile lotta e critica lontano dal centro del problema odierno: l’attuale configurazione del sistema mondiale dei rapporti capitalistici, che vede ancora in posizione preminente gli Stati Uniti, anche se cresce l’attuale multipolarismo, provocando quella frattura interna ai vertici politici di tale paese tutto sommato positiva per i futuri sviluppi della nuova fase in cui stiamo entrando. E’ senz’altro indispensabile coltivare la massima attenzione per la differente politica (in quanto complesso di mosse strategiche) condotta dai diversi gruppi dominanti. Tale attenzione deve però indirizzarsi all’analisi e valutazione delle possibilità di un’opposizione alle loro mosse (appunto differenti), senza mai dimenticare che certe critiche alla società attuale, sommariamente indicata come capitalistica, servono in realtà gli interessi di specifici gruppi dominanti o di altri, dimenticando il fulcro essenziale rappresentato dai rapporti sociali e dalla politica che ne consegue, celata dietro i vaneggiamenti sulla difesa dell’“ordine naturale”  e dell’ambiente o della Umanità in generale.

La conoscenza del dibattito, di cui si sta discutendo, ha pure un altro scopo precipuo. Ci sono alcuni vecchi arnesi del “rivoluzionarismo” sessantottardo (e seguenti), che sfruttano la (peraltro vaga) conoscenza della critica alle forze produttive per tentare ancora una volta di difendere, nella sostanza, la formazione sociale capitalistica nella sua peggiore configurazione storica, quella che, tanto per andare al pratico, vede la società italiana in mano ai “cotonieri” (spero ci si ricorderà da dove deriva tale termine da me affibbiato ad una classe imprenditoriale di puri servi). Gli ambigui e torbidi pseudo-pensatori del “fu” sessantottismo sviluppavano fino a non molto tempo fa il seguente argomento: se si è contro la decrescita, essi affermavano, allora si è favorevoli alla centralità delle forze produttive in sviluppo. Che si sia per lo sviluppo o per il sostanziale blocco di tali forze, non è affatto il problema centrale e non muta l’orientamento di fondo.

Mettere il segno meno invece che più alle forze produttive serve, in ogni caso, ad allontanare l’attenzione del critico dall’analisi dei rapporti sociali costitutivi della formazione sociale capitalistica. Il fine dei vecchi e nuovi arnesi di una rivoluzione soltanto declamata, anzi urlata, è proprio quello di impedire che si parli del capitale in quanto rapporto sociale. Il capitalismo sarebbe solo un Male per l’Uomo; questo sostengono al massimo i finti rivoluzionari. Nel migliore dei casi, se sono in buona fede, manifestano soltanto insoddisfazione e angoscia. Si arrangino come fanno tutti gli individui concreti, semplici uomini (al minuscolo), che hanno sempre al loro fianco l’orizzonte della morte. Il capitale non c’entra nulla con questo problema, non lo può risolvere, ma nemmeno lo aggrava più che tanto.

I teorici della centralità dei rapporti sociali (di produzione o considerati in senso sociale complessivo) tentavano invece di contrastare il gradualismo riformista di quelli che venivano considerati “i revisionisti”, gli opportunisti ormai lanciati verso la collaborazione con il sistema capitalistico e i suoi gruppi dominanti. Vi era ancora la credenza di poter rilanciare la rivoluzione e riprendere la transizione verso la nuova formazione sociale socialista (in attesa di quella comunista); ma senza mai il sogno impossibile di evitare il disagio legato alla malattia, alla morte, alle disgrazie varie che ci affannano, chi più e chi meno, per tutta la nostra vita individuale. Nessun althusseriano si è mai scagliato contro la crescita della produzione, contro l’innovazione tecnica e via dicendo. Semplicemente dicevamo: questi risultati li ottiene anche il capitalismo, i rapporti del capitale non sono affatto catene che impediscono la loro realizzazione. I “revisionisti”, per giustificare il loro cedimento opportunistico, sostenevano invece proprio che, se il capitalismo si stava sviluppando, allora i suoi rapporti sociali non erano ancora diventati le famose catene; era perciò utile non creare disordini, non avere intenti rivoluzionari, si doveva aiutarlo a svilupparsi ancora di più, cosicché si sarebbe infine (campa cavallo….) impiccato da solo a questi suoi rapporti una volta divenuti impedimenti allo sviluppo.

Oggi, quel dibattito è stato superato – ma non è caduta in disuso la sua utilità, ove attentamente valutata – perché è crollata ogni prospettiva di transizione al socialismo, di lotta per il comunismo che, per alcuni sopravvissuti, è ormai una semplice aspirazione sentimentale. Non vi è dubbio che il capitalismo – e fra l’altro la nostra ignoranza è tale che chiamiamo tutto capitalismo, senza riuscire a fare un minimo di distinzione decente tra diverse formazioni sociali quali il “capitalismo borghese” di matrice inglese e la società dominata dai funzionari del capitale, sviluppatasi negli Usa e ormai diffusa in tutto l’“occidente” – si sta dimostrando una società con molte mostruosità, soprattutto però culturali. Adesso stiamo vivendo una crisi che rimette in discussione molte “conquiste” – di quelle che però i pensatori del disagio trattano da solo “materiali”, quindi quasi da disprezzare – ma non si tratta della fine di una società “cattiva”, da cui poi sorgerà quella “migliore”. E’ una fase storica di riarticolazione dei rapporti (di potere) tra gruppi sociali e tra diverse formazioni sociali, alcune nuove in sul farsi “a est” e tutto sommato tuttora poco conosciute.

Sarebbe indispensabile mettere all’ordine del giorno l’analisi di questi differenti rapporti sociali. Invece, chi ha ormai abdicato ad ogni intento di pensare criticamente, problematicamente, si abbandona ai lamenti sull’Uomo alienato o sulla Natura violentata. Si curassero il loro spleen in splendida solitudine e non ci seccassero! No, hanno scoperto che i gruppi dominanti – e soprattutto i subdominanti, i “cotonieri” reazionari e smaniosi di mettersi al servizio dei predominanti – li pagano bene, li ospitano nelle Università (ormai luoghi di abiezione), li fanno scrivere sui giornali, li ammettono in TV, pubblicano tutte le più futili e ignobili aberrazioni del loro pensare con case editrici che ancora si impegnano nel distribuirle, nel finanziare convegni organizzati per rimbecillire viepiù il popolo e trasmettere il messaggio che ormai siamo alla fine della Storia, alla fine di ogni speranza; salvo quella di questi cialtroni che se la ridono fra loro e si divertono alle nostre spalle.

 

  1. E allora noi torniamo testardamente ai rapporti sociali. Usciamo da un fallimento storico; fallimento solo se considerato in relazione all’obiettivo di trasformazione sociale che è stato l’intendimento dei comunisti per ben oltre un secolo. Ho già detto in altra occasione che la Rivoluzione d’ottobre (e altri eventi rivoluzionari che ne sono seguiti), considerata dal punto di vista dei suoi effetti di mutamento delle fasi storiche, non è fallita per nulla; ma non era questo l’obiettivo perseguito per tanto tempo e ormai alle spalle. Quindi su questo dobbiamo ragionare e trarre le opportune conclusioni. Tenuto conto dei vari “ismi” ancora in campo, non credo proprio che il marxismo ci faccia brutta figura; rispetto al liberismo è a mio avviso assai più avanti. Per cui solo i totalmente ignoranti della reale problematica di Marx si gonfiano il petto quando ripetono le loro stolte ricette sul libero mercato con i suoi “automatismi”, sul vantaggio per i consumatori delle liberalizzazioni che porterebbero all’abbassamento dei prezzi (ma dove mai vivono questi individui: o sono dementi o, piuttosto, dei furfantoni ben pagati da gruppi dominanti sempre più rapaci).

Quindi, in attesa che il movimento sociale effettivo stimoli nuovi pensieri e nuove ipotesi (che non s’inventano per genio di qualcuno, altrimenti dovremmo credere che da quarant’anni viviamo in un mondo di perfetti deficienti), dobbiamo sfruttare l’insegnamento del marxismo e del suo indubbio invecchiamento e logoramento – nel promuovere una pratica politica in base a determinate previsioni, rivelatesi assai imperfette, circa la dinamica della società capitalistica – che ci segnala errori di valutazione o comunque l’impossibilità dell’effettuazione di quella pratica con quei dati obiettivi. Secondo me, occorre giungere ad alcune conclusioni da considerarsi abbastanza definitive. Innanzitutto, è indispensabile smetterla con l’idea di poter rappresentare, sia pure in schema, il reale, immaginando di esso una precisa struttura di relazioni, dotata di una cosiddetta dinamica che è in effetti una cinematica, un succedersi in momenti successivi di configurazioni diverse (da noi pensate e costruite via ipotesi) della struttura (inesistente come tale nel reale).

Si possono ravvicinare fin che si vuole questi successivi momenti, costruendo l’immagine di un movimento apparentemente continuo; il successo di questa nostra “rappresentazione” del reale dipende dalla posizione della configurazione iniziale e dalla supposizione di mutamento delle variabili secondo una successione che si pensa legata a specifiche leggi, deterministiche o probabilistiche. Sempre, all’improvviso, appare una discontinuità che ci lascia “sorpresi”; non è, però, in senso proprio una discontinuità; più semplicemente, la continuità costruita, ravvicinando quanto più possibile i momenti successivi, dipende pur sempre dalla struttura posta all’inizio appunto come mera rappresentazione del reale. Poiché quest’ultimo è continuamente sfuggente, ci si trova ad un certo punto nella necessità di pensare una nuova struttura, che è una differente singolarità da cui riprende avvio la successione delle nostre supposizioni circa il suo movimento. La “discontinuità” dipende dalla nostra impossibilità di agire con efficacia nel reale continuo, fluido, oscillante, squilibrante. Siamo obbligati ad arrestarlo, stabilizzarlo, strutturarlo, ecc. per svolgere un’attività capace di produrre effetti; così comportandoci, tuttavia, i nostri schemi invecchiano e arriva il momento in cui essi non orientano più azioni dotate di senso e di incisività.

Salvo i soliti discorsi “orientaleggianti” – che mai hanno risolto i problemi nelle formazioni sociali dimostratesi vincenti su scala mondiale, e che continueranno ad esserlo finché troveranno di contro a loro questi “santoni” imbelli – il nostro modo di agire nella moderna società non è in grado di discostarsi dal procedimento appena indicato. Essenziale diventa allora prendere atto del problema e non sognare di avere rappresentato compiutamente, sia pure in schema, il reale e il suo effettivo movimento. Quel che accade nel Cosmo, dove i mutamenti possono anche riguardare decine e centinaia di milioni di anni, non ci interessa “qui ed ora”. E per favore lasciamo stare il fascino della microfisica perché non siamo microbi pensanti. Atteniamoci al nostro mondo – macrofisico, da una parte, e sociale dall’altra – e consideriamoci individui agenti e pensanti in una data epoca storica della società.

Se vogliamo elucubrare su problemi sempre esistenti per noi umani, del tipo della vita e della morte con tutto ciò che “ci va dietro”, nessuna obiezione; è atteggiamento assai più che comprensibile, direi doveroso. Quando però riflettiamo sul nostro vivere nel cosiddetto “divenire storico-sociale”, cerchiamo di non perdere il buon senso e non lasciamoci andare a fantasie, che pretenderebbero di trascendere l’orizzonte spazio-temporale in cui siamo situati. Sia nel fare storia (pensare il passato) sia nella previsione del futuro, è meglio utilizzare categorie teoriche (più o meno elaborate, talvolta perfino inconsapevoli) adatte alla formulazione di specifiche ipotesi (anche per quanto concerne il passato usiamo ipotesi); e si tratta pur sempre di teorie (e ipotesi) mediante le quali interpretiamo il presente al fine di potervi agire per giungere a determinati obiettivi. Queste categorie teoriche (e le ipotesi) sono transitorie, mostreranno infine la corda; più elastici saremo, prima riusciremo a cogliere la loro obsolescenza, la loro progressiva riduzione di presa sulla “realtà”. Quanto al movimento reale, lasciamolo tranquillo a svolgere il suo consueto lavoro di logoramento delle nostre pratiche, delle nostre speranze, delle nostre convinzioni di averlo fermato e poi indirizzato come piacerebbe a noi; se ne sbatte altamente dei nostri desideri, anzi potrebbe pure irritarsi e reagire con violenza se ci venisse in testa di averlo “imbracato” definitivamente.

Non si creda che quanto appena detto abbia qualcosa a che vedere con il relativismo. Quest’ultimo è in definitiva incertezza, indecisione, quasi sempre incapacità di scendere in campo prendendo posizione (partito); il tutto mascherato da capacità (molto limitata invero) di valutare vari corni del dilemma con moderazione e tolleranza, ecc. (si pensi alla ben nota, e fastidiosa quant’altre mai, frase di Voltaire, una frase “buonista”, di piatto conformismo, perfettamente adatta al “ceto medio semicolto” odierno!). Quando si agisce veramente – dove l’azione contempla pure l’apparente inazione, il temporeggiamento, il surplace a volte assai lungo (come fanno i ciclisti velocisti) – e non semplicemente ci si dedica alle chiacchiere fatue e ideologicamente favorite dai vari gruppi dominanti per bloccare ogni azione a loro contraria, si deve assumere “partito” nel conflitto, nel contempo ponendo e analizzando nei particolari il campo in cui esso si svolge e i diversi “partiti” e interpretazioni del campo (in effetti, di campi differenti) assunti dai soggetti agenti nella lotta. Tuttavia, ci si deve preparare all’eventuale sconfitta, al riconoscimento di errori in questa lotta, ai mutamenti di fase che spiazzano alla lunga i vincitori non meno dei perdenti ed esigono il riconoscimento, intanto in termini di principio, di nuove singolarità sopravvenienti (che sempre sopravverranno) e di cui ancora una volta occorrerà ricercare le categorie interpretative, ecc. ecc.

 

  1. Fondamentale, nella lotta passata dei comunisti, sarebbe stata la coerentizzazione (nella teoria e nella pratica) del “modello” marxista utilizzato per interpretare, e prevedere, la dinamica sociale del capitale, l’evoluzione dei rapporti nella formazione sociale definita capitalistica; una definizione rimasta pressoché immutata da almeno un secolo e mezzo a questa parte. Un conto è impiegare genericamente il termine capitale per indicare ogni dotazione – in strumentazioni produttive ed in moneta in quanto equivalente generale dei prodotti scambiati come merci – in possesso di particolari agenti (soprattutto, ma non solo, nella sfera economica della società); un altro è indicare un sistema di rapporti sociali di forma storicamente peculiare, perché questo è il capitale nella sua precisa accezione marxiana.

Marx studiò il “modello” di questo capitale (sistema di rapporti, ecc.) nel suo primo luogo di definitiva affermazione, l’Inghilterra; ne trasse una serie di conclusioni e si disse convinto che esso si sarebbe esteso a tutto il mondo. In effetti, tale “modello” fu surrettiziamente mutato in corso d’opera dai marxisti successivi, senza che nessuno si ponesse però troppi problemi al proposito. Inoltre, anche Marx ebbe incertezze; per esempio usò indifferentemente classe operaia e proletariato, e la classe in questione (quella che avrebbe dovuto emancipare tutta l’umanità emancipando se stessa dallo sfruttamento) fu da lui a volte considerata – e i marxisti successivi sempre così la considerarono – l’insieme degli operai in senso stretto, quelli addetti alle mansioni fondamentalmente esecutive (e di più basso livello, ripetitive, ecc.), mentre altre volte egli fece riferimento al lavoratore complessivo (“ingegnere e manovale”).

Si badi bene: proprio dai termini usati si comprende come Marx avesse in mente la dominanza, nei rapporti sociali della formazione a modo di produzione capitalistico, di quelli instauratisi nell’unità produttiva in senso stretto, nella “fabbrica”, risultato di una storica trasformazione della bottega artigiana, attraverso la fase transitoria della manifattura, descritta nelle pagine sulla accumulazione originaria del capitale; accumulazione intesa quale trasformazione di rapporti, non semplicemente crescita di “forze produttive oggettive”. La fabbrica è il luogo della trasformazione di materie prime in prodotti finiti; si può considerare più genericamente la trasformazione di input in output, in ogni caso è sempre presente un preciso processo lavorativo che vede associati, in forma cooperativa, la figura dirigenziale (“l’ingegnere”) e quella esecutiva (“il manovale”).

Il testo più significativo per le indicazioni, comunque sommarie, relative alla formazione dell’operaio combinato, in quanto complessivo insieme di lavoratori direttivi ed esecutivi in cooperazione, è il cosiddetto Capitolo VI inedito (edito molto dopo la morte di Marx), in cui vi sono pure le splendide pagine sulla sussunzione, prima formale e poi reale, del lavoro nel capitale (con passaggio da una determinata forma, transitoria, dei rapporti sociali capitalistici ad un’altra, quella considerata definitiva). Capitolo comunque tolto dall’autore stesso nella pubblicazione del primo libro de Il Capitale, l’unico testo di quest’opera effettivamente e integralmente di Marx. Non mi lancio in illazioni sui motivi del toglimento, non sono “addottorato” in sedute spiritiche; noto solo che non è stato pubblicato, rendendo più difficile quella coerentizzazione cui ho sopra accennato.

Il sottoscritto ha preteso di compierla con un lavoro durato molti anni e che è stato consegnato in centinaia, e più ancora, di pagine, tutte pubblicate negli ultimi 15-20 anni. Le do quindi per conosciute, altrimenti chi vuole si documenti. Ricordo solo che tale dinamica, fondata sulla “spietata” concorrenza intercapitalistica, mette in moto la centralizzazione dei capitali, da cui deriva non tanto il passaggio al capitalismo monopolistico (e poi ancora a quello di Stato, tutto sommato una contraddizione in termini), quanto invece la trasformazione di quel rapporto che è il capitale. Le “potenze mentali della produzione” – in definitiva la capacità di dirigere e innovare nei processi produttivi di fabbrica, di trasformazione di input in output – spettavano nel più antico capitalismo concorrenziale al capitalista, considerato il proprietario privato dei mezzi di produzione.

Con la centralizzazione, tale capacità (detta poi, non da Marx, imprenditoriale) si sarebbe trasferita, per il Nostro, nell’“ingegnere” divenuto lavoratore salariato e facente ormai parte dell’operaio combinato (lavoratore collettivo cooperativo), mentre il capitalista sarebbe divenuto solo proprietario; una proprietà trasformata con l’affermarsi della società per azioni. Detto in termini molto più moderni, Marx avrebbe pensato una sorta di “rivoluzione dei tecnici” (in realtà un loro vero amalgama cooperativo con i lavoratori manuali ed esecutivi) e non quella “manageriale” teorizzata 70-80 anni dopo da Burnham. In ogni caso, da tutto ciò discendono le conclusioni di Marx in merito alla trasmutazione della società capitalistica in socialistica – un cambiamento da lui già creduto in atto ai suoi tempi (si legga anche soltanto l’ultimo paragrafo del capitolo sull’accumulazione originaria) – che ho molte volte analizzata con dovizia di particolari nei miei scritti.

Una volta coerentizzato il “modello” marxiano di avvento del capitalismo, di suo sviluppo e di transizione ad altra società – sempre in termini di trasformazione dei rapporti sociali e non per quanto concerne l’aspetto quantitativo dei capitali accumulati e centralizzati, con semplici modificazioni delle “forme di mercato” – si comprende più facilmente l’impasse della lotta comunista e infine il suo tramontare ed esaurirsi. Può restare la tristezza, la nostalgia, il rimpianto, sentimenti umanissimi; anche perché i sacrifici, le morti, la galera, la miseria, ecc. per conseguire quel risultato irraggiungibile sono stati immensi, altro che i crimini commessi dai comunisti come sostengono gli incalliti delinquenti che si sentono appagati in questa società! Se però da questi sentimenti si insiste a volere trarre l’indicazione di una (im)possibile ripresa della lotta per il comunismo, dobbiamo allontanarci con molta decisione e chiarezza critica dagli “zombi” incapaci di afferrare la realtà del loro essere morti.

 

  1. Mi guardo bene dal ripercorrere qui, nelle sue varie tappe, la mia coerentizzazione del “modello” marxiano – consegnata per il momento ai dieci video dedicati alla discussione su Marx – al fine di metterne in luce le manchevolezze e la necessità di superarlo, senza semplicemente ridurlo a indegni sbrodolamenti filosofici ma anzi mantenendone lo spirito scientifico e l’intento critico-problematico in merito alla doppia faccia della formazione capitalistica, con la sua “superficie” (soprattutto mercantile) e le sue “viscere profonde”, dove si agitano i grandi sconvolgimenti che hanno determinato sia mutamenti non minori della suddetta formazione sociale sia l’obsolescenza della teoria con cui Marx volle rappresentarla nella sua strutturazione (in una data forma di rapporti antagonistici) e nella dinamica direzionata, oggettivamente, alla trasmutazione: prima socialistica e infine comunistica.

Mi è sembrato non inutile riandare ad un vecchio dibattito, pur ripercorrendolo veramente a volo d’uccello. Tuttavia, m’interessava soprattutto metterne in luce alcuni aspetti salienti. Innanzitutto le modalità secondo cui avvenivano allora le discussioni in campo marxista. Secondo me non esiste oggi la stessa serietà e lo stesso rigore nei dibattiti (rari) che ancora ci sono. Bisogna inoltre ben dire che non vi è più, almeno nei settori intenzionati a criticare la moderna società, alcuna teoria comunemente condivisa. Allora ci si poteva accusare reciprocamente di “revisionismo” o di “estremismo infantile”, secondo l’abitudine invalsa da molti decenni, ma le categorie di riferimento erano comunque consolidate e ci si riusciva ad intendere pur nelle più aspre diatribe. Era inoltre chiara a chi partecipava al dibattito – a parte la solita “base militante”, soprattutto interessata a quello che dicevano i capi e capetti; che si trattasse di quelli del Pci o quelli dei vari gruppetti via via formatisi soprattutto dopo il ’68 – la posta politica in gioco dietro la solo apparente astrattezza di certi temi teorici, conditi anche di ampie carrellate storiche intorno alle vicende del cosiddetto movimento operaio e all’evoluzione del suo pensiero nelle diverse correnti riformiste e rivoluzionarie.

Infine, non si creda che alcune delle misere tesi venute a quel tempo alla moda e ancora in piena vita – tipo la decrescita o l’eco-sostenibilità e altre piacevolezze di questi tempi di degrado intellettuale e culturale – non abbiano proprio nulla a che vedere con quel dibattito, pur se in forma di grave scadimento dell’intelligenza teorica dei problemi. Spesso si tratta di tesi che si rifanno, in modo più o meno aperto, alla totale dimenticanza della politica come campo di scontro e conflitto acuto tra interessi, sempre avvolti da specifiche ideologie, di dati gruppi sociali, in genere sempre quelli dominanti che ormai conducono al 100% le danze in questa fase storica. I “deboli” critici del capitalismo diventano semplici detrattori di ogni modernità e progresso (considerato un termine osceno anche soltanto in termini del tutto “materiali”) perché non comprendono più nulla della necessità di andare ai rapporti sociali di ogni data fase storica, sia pure con la consapevolezza di una conoscenza via ipotesi sempre soggette ad errori e alla necessità di revisioni o di drastici cambiamenti di indirizzo. Si preferisce oggi soddisfare l’orrendo ceto medio semicolto, il quale magari blatera di predominio di chi controlla la TV e poi ripete tutte le più stupide insulsaggini che da quelle “scatolette” sostengono, con atteggiamento da geni assoluti, i loro beniamini, intellettuali che hanno ormai l’intelletto in completa défaillance.

Non credo ci sia molto altro da dire. Se volete, prendete questo mia memorizzazione come una vacanza, ma non credo sia priva di interesse per chi capisce come la teoria non sia una fisima da intellettuali. Anzi, oggi sono proprio quelli che passano per intellettuali presso l’incolto “volgo” i più carenti in fatto di teoria. Non pensano, sputano quello che ritengono più facile far passare per scienza, riducendo quest’ultima (basata su ipotesi sempre rivedibili) a certezza assoluta e indiscutibile, cui il “popolo” deve sempre adeguarsi. Poi ci sono i “tecnici”, anche peggiori nella loro limitatezza di visione e nell’arroganza e presunzione con cui “sparano” i loro verdetti e le loro ricette quasi che la lotta politica, oggi sempre più acuta e spesso sconclusionata per mancanza di ampie visioni e di solidi appoggi sociali, sia riducibile alle formulette imparate in Università che sarebbero ormai da chiudere, a partire da quelle “ricche e famose” anglo-americane. Viviamo un’epoca di transizione, ma particolarmente povera di intelligenza. Insisto che, anche solo mezzo secolo fa, ci si muoveva intellettualmente in un ben diverso ambito, assai meno deteriorato. Non parliamo della prima metà del secolo XX o di ancor prima. Chiudiamo qui, senza rimpianti ma ricordando; e facendo tesoro dei ricordi!

 

 

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