Critica della critica delle armi del generale Marco Bertolini, di Massimo Morigi
Critica della critica delle armi del generale Marco Bertolini. Elementi contro la pandemia del Cthulhu morbus dello spazio psichico, culturale, sociale, politico e giuridico delle odierne democrazie rappresentative
Di Massimo Morigi
«Se vi ricorda bene, Cosimo, voi mi dicesti che, essendo io dall’uno canto esaltatore della antichità e biasimatore di quegli che nelle cose gravi non la imitano, e, dall’altro, non la avendo io nelle cose della guerra, dove io mi sono affaticato, imitata, non ne potevi ritrovare la cagione; a che io risposi come gli uomini che vogliono fare una cosa, conviene prima si preparino a saperla fare, per potere poi operarla quando l’occasione lo permetta. Se io saprei ridurre la milizia ne’ modi antichi o no, io ne voglio per giudici voi che mi avete sentito sopra questa materia lungamente disputare; donde voi avete potuto conoscere quanto tempo io abbia consumato in questi pensieri, e ancora credo possiate immaginare quanto disiderio sia in me di mandargli ad effetto. Il che se io ho potuto fare, o se mai me ne è stata data occasione, facilmente potete conietturarlo. Pure per farvene più certi, e per più mia giustificazione, voglio ancora addurne le cagioni; e parte vi osserverò quanto promissi di dimostrarvi: le difficultà e le facilità che sono al presente in tali imitazioni. Dico pertanto come niuna azione che si faccia oggi tra gli uomini, è più facile a ridurre ne’ modi antichi che la milizia, ma per coloro soli che sono principi di tanto stato, che potessero almeno di loro suggetti mettere insieme quindici o ventimila giovani. Dall’altra parte, niuna cosa è più difficile che questa a coloro che non hanno tale commodità. E perché voi intendiate meglio questa parte, voi avete a sapere come e’ sono di due ragioni capitani lodati. L’una è quegli che con uno esercito ordinato per sua naturale disciplina hanno fatto grandi cose, come furono la maggior parte de’ cittadini romani e altri che hanno guidati eserciti; i quali non hanno avuto altra fatica che mantenergli buoni e vedere di guidargli sicuramente. L’altra è quegli che non solamente hanno avuto a superare il nimico, ma, prima ch’egli arrivino a quello, sono stati necessitati fare buono e bene ordinato l’esercito loro, i quali sanza dubbio meritono più lode assai che non hanno meritato quegli che con gli eserciti antichi e buoni hanno virtuosamente operato. Di questi tali fu Pelopida ed Epaminonda, Tullo Ostilio, Filippo di Macedonia padre d’Alessandro, Ciro re de’ Persi, Gracco romano. Costoro tutti ebbero prima a fare l’esercito buono, e poi combattere con quello. Costoro tutti lo poterono fare, sì per la prudenza loro, sì per avere suggetti da potergli in simile esercizio indirizzare. Né mai sarebbe stato possibile che alcuno di loro, ancora che uomo pieno d’ogni eccellenza, avesse potuto in una provincia aliena, piena di uomini corrotti, non usi ad alcuna onesta ubbidienza, fare alcuna opera lodevole. Non basta adunque in Italia il sapere governare uno esercito fatto, ma prima è necessario saperlo fare e poi saperlo comandare. E di questi bisogna sieno quegli principi che, per avere molto stato e assai suggetti, hanno commodità di farlo. De’ quali non posso essere io che non comandai mai, né posso comandare se non a eserciti forestieri e a uomini obligati ad altri e non a me. Ne’ quali s’egli è possibile o no introdurre alcuna di quelle cose da me oggi ragionate, lo voglio lasciare nel giudicio vostro. Quando potrei io fare portare a uno di questi soldati che oggi si praticano, più armi che le consuete, e, oltra alle armi, il cibo per due o tre giorni e la zappa? Quando potrei io farlo zappare o tenerlo ogni giorno molte ore sotto l’armi negli esercizi finti, per potere poi ne’ veri valermene? Quando si asterrebbe egli da’ giuochi, dalle lascivie, dalle bestemmie, dalle insolenze che ogni dì fanno? Quando si ridurrebbero eglino in tanta disciplina e in tanta ubbidienza e reverenza, che uno arbore pieno di pomi nel mezzo degli alloggiamenti vi si trovasse e lasciasse intatto come si legge che negli eserciti antichi molte volte intervenne? Che cosa posso io promettere loro, mediante la quale e’ mi abbiano con reverenza ad amare o temere, quando, finita la guerra, e’ non hanno più alcuna cosa a convenire meco? Di che gli ho io a fare vergognare, che sono nati e allevati sanza vergogna? Perché mi hanno eglino ad osservare che non mi conoscono? Per quale Iddio, o per quali santi gli ho io a fare giurare? Per quei ch’egli adorano, o per quei che bestemmiano? Che ne adorino non so io alcuno, ma so bene che li bestemmiano tutti. Come ho io a credere ch’egli osservino le promesse a coloro che ad ogni ora essi dispregiano? Come possono coloro che dispregiano Iddio, riverire gli uomini? Quale dunque buona forma sarebbe quella che si potesse imprimere in questa materia? E se voi mi allegassi che i Svizzeri e gli Spagnuoli sono buoni, io vi confesserei come eglino sono di gran lunga migliori che gli Italiani; ma se voi noterete il ragionamento mio e il modo del procedere d’ambidue, vedrete come e’ manca loro di molte cose ad aggiugnere alla perfezione degli antichi. E i Svizzeri sono fatti buoni da uno loro naturale uso causato da quello che oggi vi dissi, quegli altri da una necessità; perché, militando in una provincia forestiera e parendo loro essere costretti o morire o vincere, per non parere loro avere luogo alla fuga, sono diventati buoni. Ma è una bontà in molte parti defettiva, perché in quella non è altro di buono, se non che si sono assuefatti ad aspettare il nimico infino alla punta della picca e della spada. Né quello che manca loro, sarebbe alcuno atto ad insegnarlo, e tanto meno chi non fusse della loro lingua. Ma torniamo agli Italiani, i quali, per non avere avuti i principi savi, non hanno preso alcuno ordine buono, e, per non avere avuto quella necessità che hanno avuta gli Spagnuoli, non gli hanno per loro medesimi presi; tale che rimangono il vituperio del mondo. Ma i popoli non ne hanno colpa, ma sì bene i principi loro; i quali ne sono stati gastigati, e della ignoranza loro ne hanno portate giuste pene perdendo ignominiosamente lo stato, e sanza alcuno esemplo virtuoso. Volete voi vedere se questo che io dico è vero? Considerate quante guerre sono state in Italia dalla passata del re Carlo ad oggi; e solendo le guerre fare uomini bellicosi e riputati, queste quanto più sono state grandi e fiere, tanto più hanno fatto perdere di riputazione alle membra e a’ capi suoi. Questo conviene che nasca che gli ordini consueti non erano e non sono buoni; e degli ordini nuovi non ci è alcuno che abbia saputo pigliarne. Né crediate mai che si renda riputazione alle armi italiane, se non per quella via che io ho dimostra e mediante coloro che tengono stati grossi in Italia; perché questa forma si può imprimere negli uomini semplici, rozzi e proprii, non ne’ maligni, male custoditi e forestieri. Né si troverrà mai alcuno buono scultore che creda fare una bella statua d’un pezzo di marmo male abbozzato, ma sì bene d’uno rozzo. Credevano i nostri principi italiani, prima ch’egli assaggiassero i colpi delle oltramontane guerre, che a uno principe bastasse sapere negli scrittoi pensare una acuta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare ne’ detti e nelle parole arguzia e prontezza, sapere tessere una fraude, ornarsi di gemme e d’oro, dormire e mangiare con maggiore splendore che gli altri, tenere assai lascivie intorno, governarsi co’ sudditi avaramente e superbamente, marcirsi nello ozio, dare i gradi della milizia per grazia, disprezzare se alcuno avesse loro dimostro alcuna lodevole via, volere che le parole loro fussero responsi di oraculi; né si accorgevano i meschini che si preparavano ad essere preda di qualunque gli assaltava. Di qui nacquero poi nel mille quattrocento novantaquattro i grandi spaventi, le subite fughe e le miracolose perdite; e così tre potentissimi stati che erano in Italia, sono stati più volte saccheggiati e guasti. Ma quello che è peggio, è che quegli che ci restano stanno nel medesimo errore e vivono nel medesimo disordine, e non considerano che quegli che anticamente volevano tenere lo stato, facevano e facevano fare tutte quelle cose che da me si sono ragionate, e che il loro studio era preparare il corpo a’ disagi e lo animo a non temere i pericoli. Onde nasceva che Cesare, Alessandro e tutti quegli uomini e principi eccellenti, erano i primi tra’ combattitori, andavano armati a piè, e se pure perdevano lo stato, e’ volevano perdere la vita; talmente che vivevano e morivano virtuosamente. E se in loro, o in parte di loro, si poteva dannare troppa ambizione di regnare, mai non si troverrà che in loro si danni alcuna mollizie o alcuna cosa che faccia gli uomini delicati e imbelli. Le quali cose, se da questi principi fussero lette e credute, sarebbe impossibile che loro non mutassero forma di vivere e le provincie loro non mutassero fortuna. E perché voi, nel principio di questo nostro ragionamento, vi dolesti della vostra ordinanza, io vi dico che, se voi la avete ordinata come io ho di sopra ragionato ed ella abbia dato di sé non buona esperienza, voi ragionevolmente ve ne potete dolere; ma s’ella non è così ordinata ed esercitata come ho detto, ella può dolersi di voi che avete fatto uno abortivo, non una figura perfetta. I Viniziani ancora e il duca di Ferrara la cominciarono e non la seguirono, il che è stato per difetto loro, non degli uomini loro. E io vi affermo che qualunque di quelli che tengono oggi stati in Italia prima entrerrà per questa via, fia, prima che alcuno altro, signore di questa provincia; e interverrà allo stato suo come al regno de’ Macedoni, il quale, venendo sotto a Filippo che aveva imparato il modo dello ordinare gli eserciti da Epaminonda tebano, diventò, con questo ordine e con questi esercizi, mentre che l’altra Grecia stava in ozio e attendeva a recitare commedie, tanto potente che potette in pochi anni tutta occuparla, e al figliuolo lasciare tale fondamento, che potéo farsi principe di tutto il mondo. Colui adunque che dispregia questi pensieri, s’egli è principe, dispregia il principato suo; s’egli è cittadino, la sua città. E io mi dolgo della natura, la quale o ella non mi dovea fare conoscitore di questo, o ella mi doveva dare facultà a poterlo eseguire. Né penso oggimai, essendo vecchio, poterne avere alcuna occasione; e per questo io ne sono stato con voi liberale, che, essendo giovani e qualificati, potrete, quando le cose dette da me vi piacciano, ai debiti tempi, in favore de’ vostri principi, aiutarle e consigliarle. Di che non voglio vi sbigottiate o diffidiate, perché questa provincia pare nata per risuscitare le cose morte, come si è visto della poesia, della pittura e della scultura. Ma quanto a me si aspetta, per essere in là con gli anni, me ne diffido. E veramente, se la fortuna mi avesse conceduto per lo addietro tanto stato quanto basta a una simile impresa, io crederei, in brevissimo tempo, avere dimostro al mondo quanto gli antichi ordini vagliono; e sanza dubbio o io l’arei accresciuto con gloria o perduto sanza vergogna.»: Niccolò Machiavelli, Dell’arte della guerra, libro VII, in Mario Martelli (a cura di), Niccolò Machiavelli. Tutte le opere, Firenze, Sansoni, 1971, pp. 387-389. Se nel Principe il rapporto fra virtù e fortuna era risolta in un sempre instabile e dinamico equilibrio, con le amare parole dell’anziano condottiero Fabrizio Colonna davanti ai suoi giovani uditori che chiudono L’Arte della guerra («E veramente, se la fortuna mi avesse conceduto per lo addietro tanto stato quanto basta a una simile impresa, io crederei, in brevissimo tempo, avere dimostro al mondo quanto gli antichi ordini vagliono; e sanza dubbio o io l’arei accresciuto con gloria o perduto sanza vergogna.»), suggello finale di tutto un ragionamento dove sì si afferma che sarebbe possibile ripetere, anche se aggiornandole alle moderne esigenze, le virtù e le forme di combattimento dei romani solo se i principi lo volessero, ma i principi non vogliono o non ne sono capaci, Machiavelli ha ormai risolto in favore della fortuna il dinamico ed instabile rapporto e L’arte della guerra può quindi essere considerata non solo un trattato polemologico (fra poco vedremo, al contrario di quanto ha detto parte della critica moderna, non viziato dal tarlo dell’imitazione dei modelli classici ma di pressante attualità) ma anche il resoconto di un’esistenza, quella del Segretario fiorentino, dove la grande dottrina sull’arte dello Stato non era stata accompagnata da ugual fortuna nella vita e carriera personali. E veramente ascoltando le due videointerviste e gli interventi che del generale a riposo Marco Bertolini sono pubblicate sull’ “Italia e il Mondo” (le due videointerviste: Istituzioni e sovranità. La funzione dell’esercito italiano. Ne discutiamo con il generale Marco Bertolini ( videointervista al generale Marco Bertolini a cura di Giuseppe Germinario), in “L’ Italia e il Mondo”, 19 aprile 2020, agli URL http://italiaeilmondo.com/2020/04/19/istituzioni-e-sovranita-la-funzione-dellesercito-italiano-ne-discutiamo-con-il-generale-marco-bertolini/ e https://www.youtube.com/watch?time_continue=4138&v=U2r8nvufsss&feature=emb_logo, e vista l’importanza del documento successivo nostro download e ricaricamento su Internet Archive generando gli URL https://archive.org/details/y-2mate.com-esercito-identita-e-interesse-nazionali.-una-conversazione-con-il-ge e https://ia601405.us.archive.org/32/items/y-2mate.com-esercito-identita-e-interesse-nazionali.-una-conversazione-con-il-ge/y2mate.com%20-%20esercito%2C%20identit%C3%A0%20e%20interesse%20nazionali.%20Una%20conversazione%20con%20il%20Generale%20Marco%20Bertolini_U2r8nvufsss_360p.mp4 e Intervista al generale Marco Bertolini. Il concetto di sovranità e la sua declinazione in politica (videointervista al generale Marco Bertolini a cura di Giuseppe Germinario), in “L’Italia e il Mondo”, 23 maggio 2019, agli URL originari http://italiaeilmondo.com/?s=intervista+generale e https://www.youtube.com/watch?time_continue=694&v=65AUs7rdmZM&feature=emb_logo; successivo nostro download e ricaricamento su Internet Archive, generando gli URL https://archive.org/details/y-2mate.com-intervista-al-generale-marco-bertolini-la-sovranita-e-la-sua-declina e https://ia801504.us.archive.org/15/items/y-2mate.com-intervista-al-generale-marco-bertolini-la-sovranita-e-la-sua-declina/y2mate.com%20-%20intervista%20al%20Generale%20Marco%20Bertolini_La%20sovranit%C3%A0%20e%20la%20sua%20declinazione%20in%20politica_65AUs7rdmZM_360p.mp4. Mentre per quanto riguarda i documenti scritti, all’ URL dell’ “Italia e il Mondo” http://italiaeilmondo.com/?s=bertolini, congelamento Wayback Machine https://web.archive.org/web/20200429143150/http://italiaeilmondo.com/?s=bertolini, si può prendere visione di Marco Bertolini, Considerazioni in tema di Forze Armate, in “L’Italia e il Mondo”, 15 aprile 2020; Lo scenario libico secondo il generale Marco Bertolini ( intervista al generale Marco Bertolini a cura di Giuseppe Germinario), in “L’Italia e il mondo”, 25 gennaio 2020; Marco Bertolini, Salvate il soldato Esposito, in “L’Italia e il Mondo” 25 febbraio 2019; Caos migranti. Politica in Africa e caos in Libia. Tutte le colpe della Francia (intervista al generale Marco Bertolini a cura di Paolo Vites), in “L’Italia e il Mondo” 25 giugno 2018 ma originariamente su “Il sussidiario.net. il quotidiano approfondito” 23 giugno 2018, all’URL https://www.ilsussidiario.net/news/esteri/2018/6/23/caos-migranti-politica-in-africa-e-caos-in-libia-tutte-le-colpe-della-francia/826985/, Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20200503184858/https://www.ilsussidiario.net/news/esteri/2018/6/23/caos-migranti-politica-in-africa-e-caos-in-libia-tutte-le-colpe-della-francia/826985/ e Marco Bertolini, Ripristino della leva, in “L’Italia e il Mondo” 6 settembre 2018; Idem, Geopolitica spietata, in “L’ Italia e il Mondo” 31 dicembre 2016. N. B. : anche presso http://italiaeilmondo.com/?s=bertolini è possibile raggiungere le due videointerviste consultabili presso http://italiaeilmondo.com/2020/04/19/istituzioni-e-sovranita-la-funzione-dellesercito-italiano-ne-discutiamo-con-il-generale-marco-bertolini/ e http://italiaeilmondo.com/?s=intervista+generale) le assonanze fra la Stimmung (ed anche fra i contenuti) dell’ Arte della guerra con questo corpus pubblicato sul presente blog sono veramente suggestive andando, in entrambi i casi, ben al di là delle indicazioni tecnico-operative necessarie a comandare un apparato militare, ma affermando l’inscindibile legame fra la tecnicalità operativa nell’organizzare lo strumento militare e/o dispiegarlo sul campo di battaglia con il fattore politico, morale e psicologico che ne è il necessario presupposto. Riassunte compendiosamente le idee espresse nel succitato corpus dal generale Marco Bertolini (e che trovano una sorta di loro summa nell’ultima succitata recente intervista magistralmente condotta da Giuseppe Germinario) sono le seguenti: 1) contrariamente a quanto si è voluto far credere da parte dell’italica – e politicamente interessata – incultura militare un esercito costituito solo da un piccolo numero di professionisti (come quello che si voluto far diventare l’esercito italiano) è una totale assurdità. La guerra non può essere fatta solo da ristrette élite di corpi ultraspecializzati, dietro (o meglio: davanti) a loro ci deve essere sempre un’ingente massa d’urto; e se va da sé che se questa massa d’urto non può più essere la classica indistinta “carne da cannone” modello guerre napoleoniche o prima guerra mondiale, è ancora più assurdo che la guerra possa essere un affare riservato a qualche corpo ultraspecializzato e/o ultratecnologizzato; 2) conseguentemente a questo primo indiscutibile assunto, con l’abolizione nel nostro paese della servizio militare di leva, nell’esercito italiano è iniziato un inarrestabile declino caratterizzato da A) assoluta impossibilità di essere una reale e credibile difesa dei confini nazionali ma anche di fungere da strumento operativo per supportare, anche se solo a livello di deterrenza e come risorsa di ultima istanza, la politica estera del nostro paese, B) visti gli esigui numeri conseguiti attraverso la “professionalizzazione” dell’esercito, impossibilità di effettuare un efficace turnover e quindi, in ultima istanza, con conseguente graduale ed inarrestabile degrado professionale di questi professionisti per una professione, quella delle armi, che tutte le qualità umane richiederebbe, tranne quella di avere uomini da impiegare sul campo con la pancetta dell’impiegato e con gli acciacchi dell’età (con altrettanto conseguente deleteria tendenza da parte di costoro a sindacalizzarsi, il che confligge col più elementare concetto di gerarchia militare), C) vista la reale ed effettiva de professionalizzazione di questi “professionisti”, loro impiego improprio in funzioni di supporto alle forze dell’ordine, cosa in sé non sbagliata in linea di principio ma assolutamente sbagliata nei modi con cui vi si è massicciamente ricorsi in Italia perché, così facendo, si riducono ancor di più i momenti addestrativi di questi professionisti; 3) importanza assoluta nel mestiere delle armi, dal più umile fante alle più alte gerarchie, del fattore etico-morale di coloro che vi si dedicano. Torniamo all’Arte della guerra. I due snodi sui cui ruota tutto il trattato polemologico machiavelliano sono la ordinanza e il deletto, vale a dire la leva obbligatoria e la scelta e/o addestramento di questi uomini provenienti dalla leva obbligatoria nei diversi compiti, dove nell’Arte della guerra viene cristallinamente sottolineato che la successiva cernita da questa originaria massa umana proveniente dalla leva obbligatoria deve tenere nel massimo conto la componente etica-morale del combattente, cosa che viene altrettanto cristallinamente sottolineata e ripetuta ad ogni piè sospinto anche nel corpus del generale Bartolini pubblicato sull’ “Italia e il Mondo” e che costituisce, come è di tutta evidenza, il vero e proprio endoscheletro di tutta l’argomentazione illustrata nei precedenti punti. Orti Oricellari, l’accademia filosofico-politica di Palazzo Ruccellai nata nel clima di un tardo Rinascimento che ha intrapreso la via di inarrestabile decadenza politica e civile e che a questa decadenza cercava di reagire e in cui il protagonista indiscusso di questo tentativo di reazione fu Machiavelli e dove il Segretario fiorentino aveva ambientato il suo trattato sull’Arte della guerra che ha la forma letteraria di un dialogo svolto, appunto, nell’ameno giardino di Palazzo Ruccellai fra Fabrizio Colonna (capitano di ventura dell’epoca realmente esistito ma che, nella realtà, dietro il quale si celava la figura reale di Niccolò Machiavelli, che proprio negli incontri negli Orti Oricellari con i suoi giovani discepoli aveva concepito il suo trattato) e i suoi giovani ascoltatori, e un blog di geopolitica del XXI secolo, “L’italia e il Mondo” dove, nonostante le incommensurabili differenze nelle tecniche comunicative e di sociabilità fra questi due luoghi di elaborazione politica distanziati da cinque secoli si cerca di far rivivere quella tradizione di realismo politico repubblicano che fiorito in quel tardo Rinascimento diede inizio alla nostra modernità politica, che idealmente ed operativamente ebbe il suo terminus a quo da Machiavelli e non da Hobbes e/o Locke come vorrebbe la vulgata liberale. La giustificazione di questo impegnativo assunto viene anche dalle parole del generale Bertolini, il cui potere iconoclastico rispetto alle attuali “pappe del cuore” del paradigma politico e culturale (e mitologico) democraticisitico-liberal-liberista ci piace vedere riassunto nella seguente sua affermazione tratta da Geopolitica spietata, pubblicata sull’ “Italia e il Mondo” in data 31 dicembre 2018: «L’esempio dell’inutile articolo 11 della Costituzione è emblematico: al di là dell’inconsistenza di un “ripudio” (della guerra) che non può che essere solo retorico, tale presa di posizione impedisce all’Italia di fare i conti (almeno a parole) con una costante della storia e toglie dignità agli strumenti militari dei quali continua comunque ad essere dotata (le Forze Armate). Conseguentemente, al nostro paese non resta che mettersi disciplinatamente al seguito di coloro che tali remore non nutrono e che continuano ad essere ben determinati a perseguire i propri interessi – ovviamente travestiti da interessi “comuni” – con tutti i mezzi, inclusi quelli bellici.» e che nella rude parresia di un vigoroso (e combattivo e conflittualistico) repubblicanesimo civile di stampo machiavelliano sembrano quasi fare da contraltare ai mesti (e totalmente giustificati) scambi di battute dell’ultima intervista di Giuseppe Germinario a Marco Bertolini, nei quali si dispera sulla possibilità di invertire la triste situazione del nostro paese. Ma come Fabrizio Colonna (cioè Machiavelli) disperava nell’ Arte della guerra di compiere questo revirement, la composizione dell’opera avvenuta attraverso i colloqui degli ameni giardini Orti Oricellari ed anche, si parva licet compenere magnis, il nostro continuamente proporre le ragioni di un repubblicano realismo politico, una comunicazione ed elaborazione in cui i qualificati interventi del generale Bertolini costituiscono una preziosa componente, smentiscono questo pessimismo, che può essere sì della ragione ma solo se si premetta, come fa Bertolini, che la ragione non è mai una gelida analisi avulsa dai valori ma un processo dinamico e creatore in cui i valori morali (e quindi anche politici, se per politica si intende un’azione pubblica guidata dalla più profonda morale machiavelliana sempre animata all’edificazione e rafforzamento, a differenza e con segno polarmente contrario dalle attuali democrazie rappresentative, di una vitale e non retorica Res Publica) rivestono massima ed unica importanza. Di questo era consapevole Machiavelli, di questo era consapevole Clausewitz (profondo conoscitore del Segretario fiorentino: sull’importanza nel riconoscimento nel pensiero clausewitziano dello strettissimo legame fra guerra e politica, cfr. Peter Paret, Machiavelli, Fichte, and Clausewitz in the Labyrinth of German Idealism, “Ethics & Politics”, Vol. XVII(3), 2015, pp. 78-95, all’ URL https://www.openstarts.units.it/bitstream/10077/12194/1/06_E%26P_2015_3_PARET.pdf, Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20200503220857/https://www.openstarts.units.it/bitstream/10077/12194/1/06_E&P_2015_3_PARET.pdf/) e di questo è assolutamente consapevole anche Bertolini. Fosse sole per questo gli dobbiamo grande gratitudine e, assieme a questo riconoscente sentimento, una profonda fiducia su un comune e fattivo cammino contro la la pandemia da Cthulhu morbus dello spazio psichico, culturale, sociale, politico e giuridico delle odierne democrazie rappresentative e di cui le ultime vicende epidemiologiche ma soprattutto politiche e giuridiche del coronavirus non sono che l’ultima e più importante manifestazione e sintomo. Ma di questo, ed anche sempre sostenuti da un retto pensiero polemologico (e quindi politico) che fu di Machiavelli, di Clausewitz e oggi rivive in Bertolini, fra non molto riparleremo.
Massimo Morigi – 4 maggio 2020