L’UE tra illusioni, contraddizioni e derive geopolitiche: il canto del cigno europeo_di Éric Juillot
L’UE tra illusioni, contraddizioni e derive geopolitiche: il canto del cigno europeo
Mentre si profila la prospettiva di un allargamento dell’Unione europea sotto forma di una fuga in avanti sconsiderata, la volontà della Commissione di sequestrare i beni russi congelati per sostenere l’Ucraina suscita giustamente qualche resistenza, mentre la Germania, nella speranza di ripristinare un po’ della sua competitività, danneggia il mercato unico sovvenzionando massicciamente il consumo elettrico delle sue industrie. Ultime notizie da Bruxelles.
pubblicato il 24/12/2025 Di Éric Juillot
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Ursula von der Leyen ha fatto dell’allargamento dell’Unione europea una priorità dei suoi due mandati. Sta spingendo per l’integrazione nell’UE del maggior numero possibile di Stati, dato che sei di essi, balcanici, vedono chiaramente avvicinarsi questa prospettiva, mentre la candidatura dell’Ucraina si profila all’orizzonte.
Una fuga in avanti mortale
Sebbene negli ambienti europeisti si manifesti talvolta preoccupazione per gli ostacoli che restano da superare prima di un effettivo allargamento, nessuno ne contesta il principio. L’apertura dell’Unione europea a nuovi Stati è spontaneamente percepita come una prova inconfutabile della vitalità del progetto europeista in un momento in cui è fondamentale rassicurarsi al riguardo, tanto più che le forze che lo contestano si intensificano e l’ideologia che lo sostiene si affievolisce. Tutto converge quindi per spingere i suoi sostenitori in una vera e propria cecità strategica sulla questione dell’allargamento.
Va tuttavia osservato che, lungi dal rilanciare la dinamica comunitaria, il processo di allargamento dell’UE rischia di accelerarne il crollo definitivo.
Ci sono diverse ragioni per questo. In primo luogo, un numero maggiore di Stati rende ancora più problematica l’insolubile questione della governabilità dell’UE. Al di là della sua complessità istituzionale, del peso della tecnocrazia e della mancanza di legittimità del Parlamento, il processo decisionale in seno al Consiglio a 29 o 31 Stati sarà ancora più complicato che a 27, anche in caso di estensione dei settori interessati dalla maggioranza qualificata (al posto dell’unanimità).
Le autorità francesi, che sostengono l’idea che un approfondimento debba costituire il presupposto indispensabile per qualsiasi allargamento, non brillano tuttavia per il loro discernimento. L’approfondimento presuppone infatti il rilancio di un progetto istituzionale di cui nessuno vuole più sentir parlare, a causa del ricordo traumatico dei referendum francesi e olandesi del 2005, ma anche perché l’influenza ideologica che potrebbe rendere desiderabile questo progetto è ormai troppo debole. Esso richiederebbe nuove rinunce alla sovranità da parte degli Stati, rinunce che oggi non sono più politicamente accettabili.
In queste condizioni, un’Unione Europea allargata rischia di diventare vittima della diversità dell’Europa e dell’eterogeneità dei rapporti con il mondo propri di ciascuno Stato. Coloro che temono la possibile integrazione di un «cavallo di Troia» difensore di una potenza terza e minacciosa non fanno altro che constatare i limiti del progetto europeista, che non ha più la forza di coprire e diluire queste differenze in un grande insieme comunitario. Il moltiplicarsi delle crisi di ogni tipo che caratterizzano la nostra epoca è destinato ad accentuare queste divergenze fino a renderle inconciliabili, e gli appelli al risveglio dell’«Europa», che si moltiplicano nel momento in cui essa intona il suo canto del cigno, non possono cambiare nulla, poiché non tengono conto della realtà.
Ma c’è di peggio. L’elemento determinante, quello che sottilmente dà impulso alla dinamica dell’allargamento a tutti i costi, rivela allo stesso tempo l’inutilità del progetto. La costruzione europea costituisce infatti un’impresa dalla pretesa storica nel cuore di un’epoca che ha perso la capacità e persino la comprensione di essa. Il regime di storicità che si è instaurato negli ultimi decenni è infatti di tipo presentista; è caratterizzato dalla cancellazione del passato e dall’oblio del futuro. La continuità dei tempi non è più assicurata, perché il passato ha perso la sua forza istituzionale – le società non vi attingono più il loro fondamento – e il futuro ha perso la dimensione chiara e radiosa che lo animava in precedenza. Al suo posto rimane solo un futuro dai contorni nel migliore dei casi incerti, nel peggiore apertamente minacciosi.
L’epoca è quindi, essenzialmente, quella di un presente perpetuo all’interno del quale la coscienza e l’azione propriamente storiche sono fuori portata, ed è in questo contesto civile quasi sterile che il progetto europeista cerca di svilupparsi. Se questo contesto ha permesso all’UE, per decenni, di diventare un surrogato di potenza, alla fine del percorso, ogni tentativo di illudersi più a lungo avvicina a una realtà sulla quale il pallone comunitario finirà per schiantarsi.
Il prossimo allargamento segue questa logica. È inevitabile perché, in un’epoca presentista, il movimento è fine a se stesso; costituisce una versione degradata del cambiamento, simile a un simulacro, che rassicura e addormenta tanto più quanto più è debole la sua portata operativa. Giunta al termine, la costruzione europea manifesta un’ultima volta il suo vigore tentando, con l’allargamento, di proiettare un pallido bagliore verso un futuro dal quale spera, a torto, di trarre una qualche forza motrice.
Prima la Germania!
Le scelte energetiche della Germania, indipendentemente dal ragionamento che le ha determinate, hanno contribuito ad aumentare i costi di produzione delle sue industrie, al punto da penalizzarne oggi la competitività. L’uscita dal nucleare era economicamente sostenibile solo a condizione di poter continuare a disporre a lungo di gas russo abbondante e a basso costo. La guerra in Ucraina ha deciso diversamente, costringendo la Germania a farne a meno.
Di fronte alla crisi economica in cui è globalmente impantanata e mentre la sua base industriale si sgretola rapidamente, la Germania è oggi costretta a sovvenzionare sul proprio territorio il prezzo dell’elettricità per i settori che ne consumano di più. Questa decisione spettacolare, annunciata pochi giorni fa, testimonia la gravità della situazione e il pragmatismo di cui è capace il governo tedesco, quando le circostanze lo richiedono. Una scelta del genere, che graverà sulle finanze pubbliche per diversi miliardi di euro all’anno, rappresenta infatti una rottura con il dogma dell’austerità di bilancio quasi perpetua su cui la Germania ha costruito la sua credibilità sui mercati finanziari negli ultimi decenni. È un esempio, tra gli altri, del “cambiamento epocale” annunciato dal precedente cancelliere Olaf Scholz nel 2022.
Sebbene la Germania disponga di un margine finanziario ben superiore a quello degli altri Stati dell’UE, non è certo che il ricorso massiccio all’arma fiscale possa far uscire l’economia tedesca dall’impasse, poiché si tratta in fin dei conti di un sostegno congiunturale, a fronte di un declino in gran parte strutturale.
Inoltre, indipendentemente dai risultati finali, questa decisione è altamente problematica a livello comunitario. Innanzitutto, perché è difficile capire come possa essere giustificata dal punto di vista giuridico. Il mercato unico europeo si basa sul dogma della concorrenza «libera e non falsata», che la decisione tedesca colpisce in pieno. Come al solito, le autorità di Bruxelles si trovano in una situazione insostenibile. In qualità di custode dei trattati, la Commissione è certamente abituata a contorsioni giuridiche e argomentazioni speciose per fingere almeno di farli rispettare. Deve infatti evitare di scontrarsi troppo frontalmente con gli Stati, per non alimentare un’ondata di sfiducia nell’opinione pubblica interessata.
Tuttavia, questa decisione non riguarda solo la Commissione; gli Stati membri dell’UE, “partner” oltre che concorrenti, avrebbero buoni motivi per ritenersi lesi e persino attaccati nei loro interessi economici dalla Germania. Tanto più che non è la prima volta che si verifica una situazione del genere.
Vent’anni fa, infatti, Gerard Schröder, allora cancelliere, avviò un vasto processo di regressione sociale – le riforme “Hartz” – e di contenimento salariale per aumentare la competitività della Germania nel mercato unico e trarre il massimo vantaggio dalla rinuncia della Francia alla sua sovranità monetaria, poiché l’euro le impediva di ricorrere all’arma della svalutazione per proteggersi dall’eccessiva competitività del suo vicino. Prima la Germania! All’epoca, con grande costernazione dei sostenitori dell’euro, questo era il fondamento di quella che gli economisti hanno pudicamente definito la «strategia non cooperativa» di Berlino. Vent’anni dopo, nulla è cambiato, anzi.
Come reagirà la Francia a questa grave violazione del funzionamento del mercato unico? Logicamente, Emmanuel Macron dovrebbe scagliarsi contro il governo tedesco su questo tema. Ma la preoccupazione di preservare ciò che resta di una “coppia franco-tedesca” in stato di morte clinica lo spingerà senza dubbio alla cautela, a scapito dell’interesse superiore del Paese. Perché ciò che la Germania intende preservare è in particolare il suo surplus commerciale nei confronti della Francia. Ha lavorato per anni allo smantellamento del settore elettronucleare francese – un’ambizione sostenuta dalla sua volontà di far regredire il nucleare civile ovunque fosse possibile, unita alla speranza di far perdere alla Francia uno dei suoi rari vantaggi comparativi, ovvero l’energia a basso costo –, ma questa battaglia, combattuta a livello dell’UE, è stata persa.
Sebbene sia influenzata da numerosi fattori determinanti, la decisione presa dalla Germania costituisce una nuova offensiva alla quale sarebbe difficile non opporsi se l’orizzonte di pensiero europeista dei leader francesi non minasse la loro capacità di difendere l’interesse nazionale. La reazione futura della Francia in merito dirà molto sulla persistenza di questo modo di vedere le cose o sul suo indebolimento.
Volerà, non volerà?
Da diversi mesi la Commissione sta cercando di convincere gli Stati membri a sequestrare i beni congelati della Russia per sostenere finanziariamente l’Ucraina. La cosa più incredibile di questa proposta non è il fatto che i 27 siano stati, come al solito, divisi al momento di prendere una decisione in merito, ma che non sia stata respinta fin da subito e all’unanimità. Perché non solo è difficile da difendere dal punto di vista morale e giuridico, ma è anche, e forse ancora di più, di una rara stupidità. L’UE vorrebbe compromettere gravemente la propria credibilità, ma non agirebbe in altro modo, e le conseguenze di una tale decisione si rivelerebbero nel tempo così controproducenti da minacciare la sua coesione e il suo cuore ideologico.
La coesione dell’UE sarebbe infatti compromessa dalle ripercussioni concrete che inevitabilmente avrebbe il sequestro autoritario dei beni russi. Sia sul piano geopolitico che su quello finanziario, l’UE si troverebbe coinvolta in una tempesta ingestibile, fatta di contromisure da parte della Russia e, soprattutto, di una diffusa sfiducia del resto del mondo nei confronti dell’UE, che perderebbe il suo status di piazza finanziaria sicura per i capitali.
A questo proposito, la posizione molto ferma assunta dal direttore di Euroclear, la struttura finanziaria belga incaricata dal 2022 di gestire tali beni – posizione sostenuta e ribadita di recente dal governo belga – ha il merito di essere lucida e realistica. Euroclear non può permettersi di compromettere la propria reputazione di integrità per 200 miliardi di euro di attività russe, quando ne gestisce altri 40.000 provenienti da tutto il mondo. Queste evidenze sono tali da far riflettere i capi di Stato e di governo, che avrebbero tutto l’interesse a meditare sulle lezioni del fallimento delle sanzioni europee a causa della maggiore efficacia delle controsanzioni russe sulle rispettive economie. Potrebbero anche pensare a preservare il futuro, piuttosto che creare un nuovo pomo della discordia che potrebbe rovinare le relazioni con la Russia molto tempo dopo il ritorno della pace.
Ma c’è di peggio: agendo in questo modo, l’UE si renderebbe colpevole di un vero e proprio furto, che nessuna arguzia giuridica, nessuna manipolazione comunicativa potrebbe nascondere o giustificare. Ciò comprometterebbe gravemente ciò che essa è, o meglio ciò che pretende di essere, ovvero una garante dello Stato di diritto in Europa e oltre, nonché, dal 2022, una difensore incrollabile di un ordine internazionale «basato su regole».
Fino a prova contraria, gli atti di predazione caratterizzati non fanno parte di tali regole, né tantomeno dei «valori» con cui l’UE si ammanta per attestare la propria superiorità ontologica. Tuttavia, è necessario sottolineare che questi valori, nonostante la loro applicazione fluttuante, l’ipocrisia che spesso ne presiede l’attuazione e gli effetti di facciata che hanno come prima virtù quella di autorizzare, costituiscono per l’UE il suo bene più prezioso, poiché non c’è nient’altro che possa fondare ideologicamente la sua esistenza.
Se oggi è tentata di rimetterli in discussione, è perché cerca disperatamente un modo per operare la sua trasformazione geopolitica. Crede di averlo trovato comportandosi come fanno alcuni Stati, ma così facendo rischia di perdere su entrambi i fronti. Da un lato, la distruzione certa delle fondamenta ideologiche dei valori e delle regole che oggi ne garantiscono la stabilità; dall’altro, un’impossibile trasformazione in Stato, essendo la sua natura del tutto incompatibile con la sostanza geopolitica, anche quando la guerra all’estremità orientale dell’Europa rappresenta un contesto favorevole.
È quindi difficile immaginare una proposta più autodistruttiva di questa per l’UE. Il fatto stesso che sia stata formulata deve essere visto come un disperato tentativo di ridare vigore a un progetto europeo ormai in fase terminale, nonché come un errore intrinseco alla lettura semplicistica del conflitto russo-ucraino in cui le élite europee si sono impantanate sin dall’inizio.