Italia e il mondo

L’ombra lunga di SMARTMATIC_di Cesare Semovigo

Florida Gosths : L’Ombra Lunga del Voto Elettronico Globale C’è una notte di novembre del 2000 che continua a ossessionare il mondo, come un’eco lontana che non vuole svanire. La Florida, con le sue luci al neon e le code infinite davanti ai seggi, diventa il palcoscenico di un dramma che deciderà il destino della superpotenza americana. George W. Bush e Al Gore sono divisi da un soffio, un pugno di voti in uno Stato governato dal fratello del candidato repubblicano, Jeb Bush. Le schede perforate – quelle famigerate “butterfly ballots” di Palm Beach – generano frammenti di carta sospesi, i cosiddetti “chad pendenti”, che rendono impossibile capire l’intenzione reale dell’elettore. 

Il New York Times dell’epoca dipinge quadri quasi grotteschi: scrutatori chini su tavoli improvvisati, con lenti di ingrandimento alla mano, a interrogare la volontà di votanti assenti. La CNN trasmette ore di diretta, il Guardian parla di “crisi costituzionale profonda”. Dopo settimane di riconteggi, ricorsi e contro-ricorsi, la Corte Suprema interviene con una sentenza controversa, Bush contro Gore, bloccando il processo e assegnando la presidenza a Bush per soli 537 voti su quasi sei milioni. Ma sotto quel caos visibile ribolliva qualcosa di più insidioso. 

Accuse di epurazione delle liste elettorali, che colpivano in modo sproporzionato gli afroamericani, come emerse da indagini successive della Commissione per i Diritti Civili. Jeb Bush, governatore, finì nel mirino per conflitto di interessi: la sua segretaria di Stato, Katherine Harris, era anche co-responsabile della campagna del fratello in Florida. “Era un sistema obsoleto, esposto a errori e possibili manipolazioni”, scrisse anni dopo il Washington Post in un’inchiesta retrospettiva. Quel trauma non rimase confinato alla storia: portò al Help America Vote Act del 2002, una legge che stanziò miliardi di dollari federali per modernizzare il voto, sostituendo le vecchie schede perforate con macchine elettroniche promettenti infallibilità – schermi tattili, scanner ottici, software capaci di conteggi rapidi e apparentemente trasparenti. Il mercato esplose, attirando imprenditori ambiziosi da ogni angolo del pianeta. 

E proprio qui, tra le palme ancora scosse dal vento di quel novembre, prende forma una vicenda che attraversa oceani, scandali giudiziari e intrecci geopolitici, legando Caracas a Manila, Londra a Washington, e proiettando ombre lunghe fino al dicembre 2025. Qualche mese dopo quel caos floridiano, tre giovani ingegneri venezuelani – Antonio Mugica, Roger Piñate e Alfredo José Anzola – fondano Smartmatic. La società viene registrata in Delaware, con sede iniziale a Boca Raton, proprio in Florida, lo Stato che aveva paralizzato il mondo. 

Mugica, in interviste rilasciate anni dopo a media come El País e Reuters, racconterà che fu esattamente il disastro delle schede perforate a ispirarli: “Volevamo sviluppare una tecnologia che rendesse impossibile un altro Florida 2000”. Ma le origini sono più radicate nel terreno venezuelano della fine degli anni Novanta, quando i tre collaboravano alla Panagroup Corp di Caracas su sistemi di sicurezza per banche. Il Venezuela attraversava allora una fase di profonda trasformazione: Hugo Chávez, eletto nel 1998 dopo un tentativo di colpo di Stato fallito nel 1992, puntava a modernizzare un sistema elettorale segnato da irregolarità croniche. 

Nel 2004 Smartmatic conquista il suo primo contratto importante: 91 milioni di dollari per automatizzare il referendum revocatorio contro Chávez. Il leader vince con un margine ampio, ma già allora testate indipendenti venezuelane come El Nacional e TalCual segnalano anomalie preoccupanti – statistiche di affluenza troppo perfette, picchi inspiegabili in zone rurali, dati che sembrano modellati più da un algoritmo che dalla realtà umana. L’ascesa dell’azienda è travolgente. Nel 2005 arriva la mossa che la proietta nel cuore del sistema americano: l’acquisizione di Sequoia Voting Systems, uno dei tre giganti del settore negli Stati Uniti, per circa 120 milioni di dollari, finanziati in buona parte dai proventi venezuelani. Sequoia opera in diciassette Stati, con una tecnologia consolidata di scanner ottici e schermi tattili. Ma l’operazione scatena immediati allarmi a Washington. Il New York Times, il 29 ottobre 2006, pubblica un’inchiesta dal titolo inequivocabile: “Gli Stati Uniti indagano sui legami venezuelani delle macchine elettorali”. 

Il Comitato per gli Investimenti Stranieri negli Stati Uniti (CFIUS) apre un’indagine formale. Al centro: la struttura proprietaria di Smartmatic, un intrico di società offshore con holding nei Paesi Bassi (Smartmatic International Holding B.V.) e alle Barbados, paradisi fiscali noti per la loro impenetrabilità. Fonti citate dal Times ipotizzano che lo scopo fosse celare eventuali connessioni con il governo Chávez, in un’epoca in cui il Venezuela veniva sempre più percepito come una minaccia anti-americana. Parlamentari democratici, come Carolyn Maloney, intervengono pubblicamente: “Non possiamo tollerare che tecnologie vitali per la nostra democrazia finiscano sotto il controllo di interessi stranieri ostili”. La pressione si fa insostenibile. Nel dicembre 2006 Smartmatic annuncia la vendita di Sequoia a un gruppo dirigente americano, SVS Holdings. Il Wall Street Journal titola: “Smartmatic cede l’unità americana per chiudere l’indagine sui legami venezuelani”. 

Il CFIUS archivia il caso. Ma i dettagli filtrano anni dopo: una corte californiana, nel 2008, scopre che Smartmatic continuava a concedere in licenza il software di conteggio voti a Sequoia. Il cuore intelligente del sistema, il codice sorgente, rimaneva legato alle origini venezuelane. È proprio nel 2008 che la narrazione prende una svolta drammatica, quasi romanzesca. Il 29 aprile un piccolo aereo Piper PA-31 Navajo decolla da Caracas con a bordo Alfredo José Anzola, il co-fondatore che aveva curato l’incorporazione americana della società. L’aereo si schianta su un quartiere residenziale, uccidendo tutti i passeggeri e cinque persone al suolo. La versione ufficiale attribuisce l’incidente a errore del pilota o guasto meccanico. 

Ma il pilota, Mario José Donadi Gáfaro, aveva un passato torbido: condannato negli Stati Uniti e in Venezuela per traffico di droga, avrebbe dovuto scontare otto anni di prigione. Come mai era libero? E ai comandi di un volo con un dirigente di alto livello? Blog investigativi indipendenti come The Brad Blog e forum venezuelani sollevano interrogativi che restano sospesi nell’aria. Voci, mai comprovate, parlano di sabotaggio per zittire chi conosceva troppo dei meccanismi offshore. Mugica e Piñate proseguono, trasferendo la sede centrale a Londra nel 2012. Nel frattempo, un altro protagonista entra in scena: Election Systems & Software (ES&S), il colosso con base a Omaha, in Nebraska, che controlla circa metà del mercato elettorale americano. Nata negli anni Settanta come American Information Systems, ES&S ha costruito il suo dominio attraverso acquisizioni aggressive. Nel 2009 compra la divisione elettorale di Diebold, il produttore di bancomat già segnato da scandali: le sue macchine AccuVote TSX si erano rivelate vulnerabili a manomissioni, come dimostrato da studi dell’Università di Princeton nel 2006. Ma l’operazione solleva problemi di antitrust. 

Nel 2010 il Dipartimento di Giustizia obbliga ES&S a cedere Premier Election Solutions (l’ex Diebold) e Sequoia – proprio l’asset transitato da Smartmatic. Dominion Voting Systems, fondata nel 2002 in Canada da John Poulos e ispirata al boom post-Help America Vote Act, approfitta dell’occasione: acquista entrambi per una cifra modesta. In un batter d’occhio, eredita tecnologie da Sequoia, inclusi elementi di codice concessi in licenza da Smartmatic. Dominion diventa fornitore in ventisette Stati. ES&S rimane il gigante indiscusso, ma non privo di ombre: ProPublica nel 2019 denuncia viaggi di lusso a Las Vegas e regali come scatole di pretzel ricoperti di cioccolato offerti a funzionari elettorali, pratiche sotto indagine etica. NPR segnala componenti cinesi nelle macchine, con proprietà nascoste. Il Brennan Center documenta guasti: macchine che invertono voti in Pennsylvania nel 2018, vulnerabilità esibite da hacker etici alla convention DEF CON. Il 2014 segna un capitolo decisivo, quasi un’elevazione aristocratica, che riporta alla luce una figura già intrecciata alle origini della filantropia globale moderna. Mugica crea SGO Corporation, una holding con sede a Londra che controlla Smartmatic.

 Alla presidenza del consiglio viene nominato Lord Mark Malloch-Brown, diplomatico britannico di rango elevatissimo: ex vice-segretario generale delle Nazioni Unite sotto Kofi Annan, ex ministro nel governo laburista, ma soprattutto figura legata per decenni a George Soros, il miliardario ungherese-americano che aveva iniziato la sua traiettoria filantropica proprio negli anni in cui il mondo guardava alla Florida con apprensione. La storia di Soros e delle sue fondazioni Open Society è quella di un uomo che, sopravvissuto all’occupazione nazista in Ungheria e fuggito dal comunismo, decise di usare la sua immensa fortuna per abbattere muri ideologici. Negli anni Ottanta, mentre il blocco sovietico vacillava, Soros divenne una sorta di angelo finanziatore della dissidenza. Nel 1984 aprì la prima fondazione in Ungheria, suo Paese natale, fornendo fotocopiatrici – strumenti preziosi in un regime che controllava ogni copia – a gruppi indipendenti, università, biblioteche clandestine. Anecdoti dell’epoca raccontano di Soros che viaggiava di persona nell’Europa orientale, incontrando intellettuali in caffè fumosi di Budapest o Praga, distribuendo fondi per pubblicazioni samizdat, i testi proibiti fatti circolare a mano. Supportò Charter 77 in Cecoslovacchia, il manifesto di dissidenti come Václav Havel, che Soros incontrò più volte: Havel, futuro presidente, lo descrisse come “un amico che arrivava con valigie piene di speranza”. In Polonia finanziò Solidarność, il sindacato di Lech Wałęsa, fornendo denaro per scioperi, stampa indipendente, attrezzature che permisero al movimento di organizzarsi contro il regime.

 Quando il Muro di Berlino cadde nel 1989, Soros era già lì: spese centinaia di milioni per le transizioni post-sovietiche, fondando università, sostenendo media liberi, aiutando a redigere costituzioni democratiche. Nel 1991 creò la Central European University a Budapest, un’istituzione d’élite per formare la nuova generazione di leader dell’Est Europa – endowment che raggiunse centinaia di milioni, inclusa una donazione da 250 milioni nel 2001, la più grande mai fatta a un’università europea. “Volevo creare società aperte dove il totalitarismo aveva regnato”, dirà Soros in interviste. Malloch-Brown entra in questa orbita nei primi anni Novanta, condividendo con Soros cene private a New York, discussioni su crisi valutarie e libertà civili, un’amicizia che mescola strategia finanziaria e visione utopica. Nel 2020 Soros trasferisce 18 miliardi alle fondazioni; Malloch-Brown ne diventa presidente nel 2021. Il loro legame è profondo: decenni di collaborazioni su progetti umanitari, dalle guerre balcaniche alle riforme elettorali globali. Nelle cause per diffamazione intentate da Smartmatic contro Fox News tra il 2021 e il 2023, documenti giudiziari rivelano tentativi di citare in giudizio Soros: “Malloch-Brown fu scelto per attrarre investitori grazie ai suoi legami sorosiani”. I giudici respingono la richiesta, definendola irrilevante: non esiste proprietà diretta di Soros in SGO o Smartmatic. Eppure, il legame è profondo, quasi familiare. Malloch-Brown e Soros condividono una visione: società aperte, governi responsabili, mercati regolati. Open Society ha sostenuto iniziative su integrità elettorale globale, ma sempre attraverso ong indipendenti. In Venezuela il castello crolla nel 2017. Durante le elezioni per l’Assemblea Costituente di Maduro, il Consiglio Nazionale Elettorale proclama 8,1 milioni di voti. Ma il 2 agosto, in una sala conferenze londinese, Mugica pronuncia parole che fanno il giro del pianeta: “I dati sono stati alterati senza ombra di dubbio. La differenza tra la partecipazione reale e quella annunciata è di almeno un milione di voti”. 

BBC, Reuters, Guardian dedicano prime pagine. Smartmatic rompe definitivamente con il Venezuela nel 2018. Il filo si dipana fino alle Filippine, dove lo scandalo assume contorni epici. Smartmatic vince appalti dal 2010 al 2016 per introdurre macchine PCOS, promettendo di estirpare frodi manuali secolari. La stampa locale – Rappler, Philippine Daily Inquirer – documenta ogni fase. Nel 2022 scoppia il caso del breach di dati: un ex dipendente confessa all’Ufficio Nazionale di Investigazione accessi non autorizzati. ABS-CBN manda in onda interviste choc: funzionari della Commissione Elettorale negano ripercussioni sul voto 2022, ma la portavoce Smartmatic ammette in televisione che la fuga riguardava “attività interne”. La Commissione disqualifica Smartmatic dagli appalti futuri nel 2023.

 L’agosto 2024 porta l’accusa federale in Florida: tre dirigenti – Piñate, Vázquez, Moreno – e l’ex presidente della Commissione Juan Andrés Bautista finiscono imputati per tangenti superiori a un milione di dollari, celate in buste di contanti consegnate in hotel di Manila e riciclate attraverso banche americane, per un contratto da 199 milioni nel 2016. Rappler pubblica estratti di email su “incentivi”. NPR titola: “Il presidente e due dirigenti di Smartmatic affrontano accuse federali”. L’ottobre 2025 arriva l’accusa suppletiva: la società stessa diventa imputata – prima caso aziendale sotto il Foreign Corrupt Practices Act in oltre un decennio. Il Dipartimento di Giustizia annuncia: “Una multinazionale che fornisce servizi elettorali coinvolta in uno schema di tangenti e riciclaggio”. Compliance Week e specialisti anti-corruzione lo definiscono un precedente di applicazione aggressiva. Oggi, dicembre 2025, con la crisi venezuelana al culmine e il ritorno di Trump, i fascicoli si riaprono.

 Dominion è stata venduta nell’ottobre 2025 a Liberty Vote, guidata da Scott Leiendecker, ex funzionario repubblicano. Le ombre della Florida 2000 non si sono dissipate: hanno assunto forme nuove, attraversando confini e continenti, ricordandoci che il voto, pilastro della democrazia, resta terreno fragile quando potere, tecnologia e ambizione si intrecciano. Cesare Semovigo  

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