La doppia Kansas PNL: eretici nel ventre del sistema_di Cesare Semovigo

La doppia Kansas PNL: eretici nel ventre del sistema
Quando il dogma si incrina sotto il peso della realtà, nascono le conversioni più radicali. Jeffrey D. Sachs e Alessandro Orsini rappresentano il raro caso di insider che, dopo aver plasmato e servito l’establishment atlanticista, ne hanno smascherato le contraddizioni mortali con il rigore di chi conosce i meccanismi dall’interno. Le loro storie non sono semplici pentimenti, ma veri tradimenti intellettuali — i più pericolosi, quelli che costringono il potere a guardarsi allo specchio.

Sachs, l’enfant prodige di Harvard, per anni è stato il sacerdote della shock therapy: Bolivia, Polonia, Russia. Dietro i trionfalismi delle privatizzazioni lampo si nascondeva un bilancio di sangue. Milioni di morti premature, sistemi sanitari devastati, aspettative di vita crollate. I dati veri — non quelli dei report ottimisti — raccontano una verità scomoda: quando il dogma del mercato viene applicato senza pietà, le conseguenze sono genocide economiche.

La dissonanza sachsiana emerge crudamente dai suoi scritti e dichiarazioni recenti. Lo stesso uomo che nel 1994 dichiarava che “la terapia d’urto in Russia è necessaria e funziona”, nel suo *A New Foreign Policy* (2018) attacca frontalmente “l’eccezionalismo americano che ha creato instabilità globale”. Dalla cattedra della Columbia, nella sua pagina su Project Syndicate, non usa mezzi termini: “L’allargamento NATO è stato un errore strategico che ha portato direttamente al conflitto ucraino”. Non è una posizione di rottura casuale ma il ritratto di un tecnocrate che, pur restando dentro le istituzioni che lo hanno formato, trasforma la contrizione in metodo critico. Dall’analisi delle guerre in Iraq e Afghanistan all’ammissione dell’errore sulla gestione della Russia postsovietica, Sachs denuncia il fallimento morale delle politiche di cui è stato architect — la distruzione degli stati, il saccheggio delle economie, la cooptazione delle élite locali, la creazione di oligarchie mafiose. L’uomo che ha formato quadri e dirigenti politici ora attacca il sistema che li ha plasmati, ma sempre giocando dentro le regole, evitando un’uscita radicale.

Dall’altra parte dell’Atlantico, Alessandro Orsini ha vissuto un percorso speculare, benché in scala e registro diversi. Docente alla LUISS e voce mediatica rassicurante del mainstream euro-atlantico in tema di sicurezza, ha costruito una narrativa allineata alle strategie antiterrorismo e interventiste globaliste, interpretando il terrorismo internazionale come minaccia da annientare senza concessioni e criticando apertamente gli stati accusati di sostenerlo.

Ma con l’esplosione del conflitto ucraino nel 2022, Orsini si trasforma. Nel suo libro *Ucraina. Critica della politica internazionale* denuncia che “l’Occidente ha ignorato le legittime preoccupazioni di sicurezza russe, provocando il conflitto”. Scopre il realismo geopolitico, ricacciando indietro la retorica moralistica dei talk show. Il risultato è una frattura relazionale intensa: la LUISS interrompe i rapporti con l’associazione che gestiva l’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale e il portale viene chiuso. Ma Orsini non si arrende, moltiplica le pubblicazioni e gli interventi, diventando una voce sgradita che ricorda come la sicurezza collettiva si costruisca con l’equilibrio diplomatico, non con l’espansionismo militare.
Il punto destabilizzante che lega le due figure è il loro passato: Sachs non è un outsider, ma l’architetto delle politiche neoliberali di shock; Orsini non è un ingenuo pacifista, ma l’esperto che per anni ha costruito la narrativa securitaria mainstream. Il loro “dietrofront” assume un valore particolare perché proviene da chi quelle strade le ha progettate e battute, percorrendo e plasmando i sentieri del dogma che oggi mettono in discussione.
Cadranno le maschere se ricordiamo che entrambi operavano in un sistema che George Kennan, già nel 1997, definiva “un errore fatale” nel contestare l’allargamento NATO, e John Mearsheimer, nel 2014, aveva analizzato come profezia autoavverante quella dinamica che stava generando reazioni russe inevitabili e prevedibili. Nel frattempo, il Project for the New American Century teorizzava senza remore la supremazia militare globale preventiva. Proprio quelle ricette sono state messe in pratica mentre loro ne reclamavano le virtù, convinti di costruire un mondo migliore.
La peggiore cecità non è non vedere, ma portare in tasca quei testi fondativi fingendo che non significhino ciò che dicono.
Parallelamente, emergono convergenze e differenze emblematiche. Entrambi hanno goduto di piena cittadinanza al centro del sistema: Sachs a Harvard, Columbia e ONU; Orsini nel circuito LUISS, think tank e media mainstream. Entrambi hanno costruito e praticato narrazioni compatibili con l’ordine dominante. Entrambi, dopo la rottura, non sono fuggiti ai margini, ma hanno scelto la critica dall’interno, rimanendo in ambienti accademici o para-istituzionali.
Diversamente, Sachs lavora su scala globale, nella macroeconomia e nella governance; Orsini dal suo canto si muove nel circuito della sicurezza tra Italia ed Europa, passando da un registro istituzional-tecnocratico a un confronto polemico e televisivo. Sachs ha messo insieme anni di contrizione analitica, Orsini invece è stato travolto dallo shock immediato e dilagante della guerra in Ucraina.
Aneddoti emblematici gettano luce su queste diverse traiettorie: la Bolivia 1985 è il primissimo laboratorio di quella terapia anti-inflazione rapida che, sebbene vincente in termini puramente macroeconomici, aprì un vasto capitolo di costi umani evitabili; la corsa contro il tempo in Polonia con il pacchetto Balcerowicz mostra come la “velocità” delle riforme sia scelta politica e mai neutralmente scientifica; la Russia ha vissuto un trauma privo di ammortizzatori sociali, con milioni di morti premature legate al vuoto istituzionale e alle privatizzazioni rapide: negare questa catastrofe è mala fede.
Analogamente, sul versante italiano, la chiusura improvvisa del portale “Sicurezza Internazionale” LUISS nel 2022 segna il restringersi disciplinare del campo intellettuale quando la cornice dominante crolla, un segnale di come il dissenso interno venga silenziato con mezzi amministrativi e politici. Infine, New York, la doppia vita di Sachs — quale guida di network ONU per la sostenibilità e nello stesso tempo critico della geopolitica che ostacola quegli stessi obiettivi — racconta la dialettica interna alle stesse istituzioni: dentro e fuori, contro e con, sempre però nel recinto del consenso possibile.

Qui si separano i cammini: il lettore smaliziato coglie il paradosso e accetta che due insider oggi critici non siano “puri”, e per questo sono preziosi; chi invece transita per conformismo, quieto vivere o mestiere scambia il monitoraggio dei sentiment per la comprensione storica reale. L’analisi senza memoria è un eterno A/B test sterile che non produce apprendimento. La malafede si traduce in un ritornello stanco: “non è successo”, “non è provato”, “non è rilevante”, mentre atti, carte e libri sono ben lì, disponibili.
Questo doppio tradimento intellettuale smaschera il gioco polarizzante della sedicente democrazia liberale: si celebra il dissenso solo se è decorativo, mentre la critica che colpisce il cuore viene travolta dalle furie istituzionali. Quando è l’insider a dire che il re è nudo, la risposta non è mai il confronto, ma la scomunica e l’espulsione.
La lezione è limpida: il potere tollera il dissenso sui dettagli ma non quello che minaccia i fondamenti. Eppure sono proprio queste abiure radicali, nate dalle ceneri del dogma, a dimostrare che la verità può emergere anche tra le sue stesse viscere. Sachs e Orsini ci insegnano che l’eresia più pericolosa nasce dall’ortodossia, e che la critica più efficace arriva da chi il sistema lo conosce perché ne ha fatto parte.
Come ricordano Bruno e Pasolini, patroni spirituali di ogni eresia intellettuale, la verità non ha bisogno di consenso ma di coraggio. A volte quel coraggio abita proprio dentro il cuore del sistema che pretende di domarla e addomesticarla.
Le parole di Sachs riecheggiano profetiche: *“La terapia d’urto non fu solo un errore tecnico, ma un fallimento morale. Abbiamo trattato le nazioni come laboratori, dimenticando che l’economia è fatta di persone.”* E ancora: *“L’espansionismo NATO è una nuova forma di imperialismo, più pericolosa perché velata da idealismo.”*
Orsini completa il quadro con un taglio altrettanto netto: *“Il terrorismo va combattuto senza compromessi, ma oggi la NATO ha creato più terrorismo di quanto ne abbia mai sradicato. Siamo diventati il motore dell’instabilità che dicevamo di voler fermare.”*
La parabola di Sachs non è quella di un uomo qualunque, ma del macellaio di Mosca. L’uomo che teorizzò e impose la “liberalizzazione” che nei fatti fu un’olocausto sociale; scout e former delle classi dirigenti future — quelle di Eltsin, di Gorbačëv, di decine di capi di stato post-sovietici — che diventavano così pedine di un disegno più grande.
Il suo passato è solido, intenso, insindacabile: la “shock therapy” non fu solo teoria ma pratica di devastazione sociale, a cui partecipò con spirito e determinazione da inquisitore economico. Poi una metamorfosi repentina: oggi urla che “l’imperatore è nudo”, smonta le menzogne della NATO e l’eccezionalismo americano, invoca una diplomazia che lo stesso establishment considera eresia imperdonabile.
La domanda allora sorge spontanea: di fronte alla potenza della sua autorevolezza e alla forza del ragionamento nel contesto più propizio, è davvero possibile sacrificare le categorie analitiche imprescindibili che fino a ieri sostenevano l’ordine? Oppure si tratta piuttosto di un riciclo astuto, di un’opera studiata per modulare la critica, adattarla e contenerla?
La risposta risiede nella perdita della memoria storica: tallone d’Achille di ogni vera analisi geopolitica. Non un dettaglio o una curiosità, ma la prova lampante che negli ultimi decenni le narrazioni dominanti hanno contaminato quasi ogni ambito intellettuale. Quando la complessità si riduce al relativismo autoreferenziale, quando il dibattito si cinge nel recinto delle “verità parallele”, allora non stiamo più indagando la realtà, ma recitando un copione imposto e mai davvero sfidato.
Nei conflitti, la memoria storica — fragile ma imprescindibile — stratifica identità, confini e rivendicazioni. Ignorarla significa perdere l’essenza stessa della geopolitica. Quello che oggi constatiamo è invece un suo azzeramento sistematico, sostituito da narrazioni piatte, semplificate, manipolatorie, che alimentano una spirale di “noi contro loro” e impediscono qualsiasi sguardo realmente obiettivo.
Populismi e nazionalismi non nascono per caso, né sono figli esclusivi della crisi economica. Sono invece figli manipolati di una memoria mutilata o abusata, strumento di stratagemmi politici che riscrivono la storia per orientare masse e giustificare guerre e dominazioni, con la complicità di un’egemonia culturale trasversalmente funzionale a questo scopo.
Il risultato è disperante: l’analisi geopolitica precipita in una girandola di opinioni soggettive, dove l’indagine perde la sua efficacia e diventa propaganda. Gli analisti stessi, per mantenere posizioni e finanziamenti, si piegano al sistema dominante. Senza radici storiche condivise, la critica perde mordente e resta intrappolata nelle stesse formule simboliche che vuole contrastare.
Non a caso, le crisi contemporanee—dalla dissoluzione post-sovietica alla guerra in Ucraina—vengono raccontate come eventi deflagrati e scollegati dal passato, quando sono invece il prodotto di dinamiche di lungo corso e memorie che nessuno vuole riconoscere. Chi tenta di riportarle alla luce viene marginalizzato o demonizzato.
Solo riscoprendo e rispettando la memoria storica è possibile uscire dal ciclo infinito di conflitti, comprese le loro radici identitarie, e costruire una pace fondata sulla consapevolezza condivisa degli errori commessi e delle responsabilità di tutti.
Senonché, senza memoria e con narrazioni inconsce e superficiali, qualsiasi analisi profonda è destinata a diventare tautologia sterile o strumento degli stessi poteri che dovrebbe criticare. Chiudere l’analisi nel relativismo è la prova più chiara di un gioco truccato: non per astuzia del banco, ma per conformismo dei giocatori.
In questo teatro di ipocrisie, il nostro compito non è certamente beatificare figure come Sachs e Orsini — che siano convertiti sinceri o strateghi dell’ultimo minuto poco importa — ma utilizzare le loro parabole per decostruire il dogma, ricostruire le cause, accettare i conti umani e diffidare delle parole salvifiche.
Pentitevi, prima che ritorni Nibiru: non il pianeta fantasma, ma la rotazione inevitabile e periodica della realtà che travolge retoriche e mistificazioni e riporta alla luce ciò che i manuali preferirebbero ignorare.
La verità non ha bisogno di urlare; le basta di esistere. Per rispetto, almeno leggiamola.
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