Italia e il mondo

Il secolo dei renitenti, di WS

Questo articolo  di Lanza , su cui sono  sostanzialmente  d’accordo,  solleva un  argomento  “attrigante”,  “intrigante”  nel  italish oggi  in uso:  la “rivolta”  del  “sud  del mondo”, in realtà  solo   dei    4 big  dell’ Asia  continentale, a  “l’ordine  basato su regole”, di fatto  la versione  americana   del  “Rule Britannia”   del  secolo  XIX.

  Spiega  infatti  il Toynbee   che  le  sfide  vanno   raccolte   e  le antiche  civiltà  asiatiche   alla  fine,  dopo  averle  subite  sulla propria pelle,  hanno raccolto  quella  del Mackinderismo   inglese  “orecchiato”  e “ fatto proprio”  dagli  U$A.

E  a Tientsin  è appunto  stato  certificato    che  lo SCO  ha raccolto la sfida geopolitica   con un “ormai più non  ti temo”. 

Ma  da lì a    dedurre  che  lo SCO abbia  propri piani geopolitici   ed   addirittura   che   li abbiano    i BRICS  tutti insieme si passa a un volo pindarico. Non solo i quattro attori più grossi, Cina , Russia , India  e Iran,  hanno   agende  e problemi  diversi , ma  anche  gli stati   “di contorno” ,  Turchia, Armenia, Kazakistan  ect..,  non disdegnano  ma addirittura    hanno “allineamenti”   con  gli U$A.

Gli SCO  come i BRICS   hanno  solo una cosa in comune : non vogliono prendere ordini  dagli U$A.

E  così a  Tianjin  è stato  solo  certificata  una postura  di “reazione”   ma  per  cosa  e  come    questa   reazione  avverrà, sarà deciso solo  dagli U$A   quando questi vorranno   testare  questa “prontezza  di reazione”  sulle linee  rosse dei  singoli “soci  del club “.

Il che  significa  che  “l’ eccezionalismo”  americano   resta, per ora,   libero  di operare a proprio piacimento  al di fuori de l’ area SCO: la “bestia”  resta  “libera”  anche se il recinto  gli è stato un po’ ristretto. 

Perché  Toynbee  ci insegna anche   che bisogna   stare molto  accorti  a  come cercare di  vincere  le sfide raccolte; occorre  cioè  molto  pragmatismo, molta lungimiranza,    molta prudenza  e molta pazienza  per  evitare  di  cadere poi in problemi  più grossi  che  si rivelino  poi  addirittura insormontabili.

In altre parole, soprattutto in geopolitica,    bisogna  conoscere  bene   i propri limiti ed evitare   dogmatismi  e  sogni  di gloria , il  che è appunto  l’usuale  approccio  geopolitico  delle   vecchie   civiltà asiatiche     e  che è anche   il “ Tao di Putin”    (https://julianmacfarlane.substack.com/p/the-tao-of-vladimir-putin)

Putin infatti   ha   e ha sempre  avuto   a cuore  solo  la  salvezza della  Russia   da perseguire  con “quello che c’è”. Per  quanto Putin  sia  sempre aperto  ai suggerimenti   e alle elucubrazioni  dei suoi supposti  ideologi/consiglieri, le sue   “stelle polari”  sono sempre : pragmatismo,  prudenza  e pazienza.

E Putin  ha rimesso in piedi la “casa Russia” operando  con “quello che  c’è”,   accettando  spesso compromessi  e  spesso  facendo  finta    di non vedere la doppiezza  altrui, ma  senza mai  deflettere  dalla   sua meta  perché  “tutti i venti  sono buoni per chi sa dove  vuole andare”.

Un buon politico  infatti  spesso  può   e deve   omettere  verità e accettare ipocritamentr cose negative e finanche vergognose , ma non deve mai mentire  su quelli che sono i propri principi.

Non  è infatti   stato Putin  a decidere la propria  rotta politica  ma  “i  venti”   spesso anche contrari  che hanno  soffiato sulla  sua  “barca”.

Putin   lavorava  nel controspionaggio   in Europa  e per  formazione   non è un  “euroasiatico”, del   tipo Dughin ad esempio;   lui  “ pietroburghese “ non sentiva nessun  fascino  “orientale”  e non voleva  di certo   contrapporsi agli U$A /€uropa; sono  stati  gli U$A/€uropa    a spingerlo  in Asia    contrapponendosi  alla Russia  e operando per la sua   distruzione.

  E questa  è una cosa   che  Putin non poteva  accettare.

Anche  Xi, come tutti i cinesi , è un pragmatico, ispirato   da  Sun Yat  Sen; la stella  polare della  dirigenza  cinese  era solo porre  fine  al  “secolo  delle umiliazioni” , cosa  che oggi si può  considerare  raggiunta. Non   ci sono per ora spiriti di  rivalsa;  la Cina  non  desider(av)a  nessuna  contrapposizione   con gli  U$A/€uropa.

Pure   quel  gran furbacchione  di Modi   è un pragmatico; la  sua India  fa  affari  con tutti  e alle spalle di  tutti. 

Non è  questa una postura molto prudente ma Modi,   calcola giustamente che  il peso   de l’ India  nel  calcoli  geopolitici  altrui   “copra il rischio”.

Ma   se  gli  USA  lo minacciano  direttamente non può che  reagire  anche lui;  “la faccia” anche  se in “Occidente” è ormai un “asset”    che può essere     venduta  e rivenduta  in continuazione,   in Asia  è ancora  una cosa    molto seria  che non può essere  pubblicamente perduta.

Così come molti commentatori  hanno  già notato,   sono  stati  gli U$A   a     fare  “Tianjin “,    cosa  che può essere  vista come un atto di chiarificazione  geopolitica di principio   ma che  nei fatti    ancora non significa nulla   più  che la proclamazione  di un “club  di renitenti”;  nessuno  dei  suoi “soci”   desidera   realmente    andare    “dalle parole  ai fatti”  e  tantomeno   andarci “fino in fondo”.

Saranno  solo le modalità  con cui gli U$A   raccoglieranno  questa  reazione  a decidere  gli  eventi  futuri.

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IL SECOLO IN CORSO, di Daniele Lanza

IL SECOLO IN CORSO ***

(Cesare: “Segui sempre le leggi in ogni caso. Se devi violarle allora fallo fino in fondo: dichiara guerra allo stato stesso e fai la rivoluzione per poi fare le leggi tu stesso” (parafrasi).

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Una quindicina di giorni orsono, malgrado promesse al pubblico (e a me stesso), alla fine non ho inondato la bacheca di considerazioni in merito all’evento diplomatico dell’estate, ossia il meeting russo/statunitense tra le solitudini dell’Alaska.

Malgrado la natura estremamente sensibile del momento, la copertura mediatica roboante e, conseguentemente, mi sono ritrovato inaspettatamente come prosciugato di ogni interesse: non di energia (notare), ma proprio di “interesse”……e questo proprio in coincidenza con la fase decisiva della maggiore guerra convenzionale dal 1945 ad oggi, sul suolo europeo.

Proprio io, commentatore incallito, perdo l’occasione ? Roba da non credere.

Più a freddo adesso, comprendo invece bene la ragione del mio agire: il punto di tutto, immutato da era immemorabile (!), il saper distinguere e selezionare cosa è rilevante – tra gli eventi che si osservano – rispetto a cosa non lo è………..operazione intellettuale che viene chiaramente PRIMA della riflessione chilometrica da dare in pasto al pubblico (in parole altre: prima ancora di preoccuparsi di dare le giusta risposta, fare attenzione a PRIORI di porsi la giusta domanda, signori miei). Detta in breve: a scanso di aspettative, il via vai che si è sviluppato tra il 15 e il 20 agosto scorsi, altro non è stato che la cover ad effetto di una rivista dal modesto contenuto, il trailer pomposo di un film che si vorrebbe vedere…….ma che in realtà non uscirà mai in sala. Ciò che si proietta palpabile è più il desiderio di qualcosa che non la realizzabilità della cosa in questione.

Di fatto ognuno dei tre protagonisti principali ha acconsentito a partecipare a codesto “trailer” per le proprie intime motivazioni: D. Trump per smania di protagonismo che lo porti al soglio pontificio (pardon, a quello del premio Nobel si intende), V. Putin in quanto rappresenta una vittoria di immagine di grandi proporzioni alla faccia di Kiev ed alleati europei tagliati fuori. Questi ultimi si inseriscono nel secondo round di Washigton pochissimi giorni dopo, ma unicamente per salvare il salvabile: Zelensky per non vedersi completamente tagliato fuori, coi “magnifici sette” dell’UE a far capriole nel disperato tentativo di far sembrare che l’Europa sia ancora “qualcosa” su questo pianeta (…). Gli avvenimenti tra il 15-20 agosto non hanno avuto e non avranno alcun impatto sul proseguimento effettivo della guerra sul campo (che si risolverà tragicamente da sè): tanto il presidente russo quanto quello ucraino – ben consapevoli della volubile tempra del capo di stato americano – hanno imparato a dire a Trump quanto lui vuole sentirsi dire….dargli quel tanto che basta di corda per evitarne gli scoppi collerici, ma senza tuttavia arretrare di un singolo millimetro dalle rispettive posizioni. Può apparire spaventoso, vista la portata della guerra in corso che si appresta ad aver superato di 2 milioni di vittime complessive, ma questa è la cinica realpolitik: ancora comprensibile da parte di un capo di stato in vantaggio sul campo (Putin), molto di meno da parte di un leader perdente (Zelensky) che così facendo ottiene di allungare I tempi all’inverosimile, ma a danno del proprio stesso paese, portandolo sull’orlo di una catastrofe di significato storico (da segnare il destino di stato e società ucraine per il secolo corrente, sino alla sua fine ed oltre).

NO. Basta miraggi. Che cosa si vuole davvero ? Si vuole inzeppare bacheche e pagine di giornali di voli pindarici, forbite proiezioni (che non si avvereranno mai) e masturbazioni mentali oppure si intende andare al vero “cuore barbaro” dei problemi e della storia ? Se la risposta è la seconda………allora lasciate perdere l’Alaska I dazi di Trump I piagnistei dell’Europa arcobaleno (che si sogna “porcospino d’acciaio”), insomma inserite costoro in un più ampio contesto politico/storico che si incarna nell’immagine scelta per il post (*): allora si inizierà a capire dove sta sorgendo il nuovo mondo per il secolo in corso, dove si colloca il VERO campo di battaglia (non in Ucraina ! Quello, in ottica di lungo periodo, è in realtà già il passato, con buona pace di tutti I poveri militari che vi hanno perso tutto: l’Ucraina è solo un minuscolo punto di incontro di collisione tra due placche oceaniche – per dirla così – già da tempo in avvicinamento. Una è l’occidente e l’altro è il polo emergente incarnato dai molteplici – ed imponenti – partecipanti all’ SCO (Organizzazione Cooperazione di Shanghai) che che vede il suo raduno in questi giorni tra Tianjin e la capitale cinese (…).

Evidente come I paesi dell’SCO coincidano sempre più con quelli di un BRICS via via più allargato che ormai copre una fascia di spazio geopolitico che partendo dalla Bielorussia arriva sino al mar del Giappone, inglobando quasi tutto quello che vi è in mezzo. Banale ribadire I dati di fondo, ma ricordiamone almeno uno che valga per 1000 altri: si ha a che fare col 40% della popolazione del pianeta (tra cui la seconda potenza economica globale, ormai quasi alla pari con gli USA, amalgamata strategicamente a quella che in fondo è ancora la prima potenza nucleare al mondo. Insomma il binomio Cina/Russia traina). Un polo che si mette credibilmente a capo del sud globale (AFRICA in primo luogo) a scanso delle proteste e del gesticolio piccato da parte di una cricca europea che smania di conservare almeno una frazione del prestigio ereditato da ere remote che ormai non gli appartiene più (se gli europei delle ere passate in qualche modo VEDESSERO coi propri occhi i loro discendenti contemporanei, preferirebbero ridiscendere seduta stante nelle tombe, domandandosi per cosa abbiano lottato, alla fine).

Sì è da tutto questo che bisogna partire: I prodromi del secolo XIX in cui viviamo si collocano qui e costituiscono il campo di battaglia globale. In considerazione di quest’ultimo e delle sue logiche che si fanno le autentiche considerazioni STRATEGICHE, quelle per il mondo che verrà.

Durante I conflitti mondiali del 900 vi era ancora chi ragionava col metro breve (non più in là del suo naso, ovvero) e percepiva la guerra in corso come un confronto tra potenze europee, eterne protagoniste nei loro giochi di potere, quando a ben vedere si trattava invece di altro non che la fase “calda” di un processo di lungo corso ben più grande dell’Europa stessa, che avrebbe portato al suo termine: con la prospettiva di poi, I “grandi” protagonisti europei sarebbero stati derubricati a “piccoli stati europei” avventuratisi in un gioco più grande di loro (iniziarono nel 1914 da padroni del globo e terminarono nel 1945 padroni nemmeno più di sè stessi, come ancora oggi si vede).

Ma attenzione: anche il macrosistema che conosciamo come ”Occidente democratico” non è immune alle leggi della storia ed esattamente come le potenze europee di inizio 900 può ritrovarsi in un gioco più grande di sè stesso.

Vladimir Putin ha intuito il punto sopra da molto, moltissimo tempo, agendo di conseguenza: anzichè perdere tempo ed energie per guadagnarsi la simpatia e l’amore del suddetto occidente democratico (che MAI vedrà la Russia come amica o partner a prescindere da quale sia il regime al potere) e intravedendone il declino storico, ha strategicamente deciso di infischiarsene integralmente dell’occidente (in modo lungimirante, cioè non semplicemente combatterlo con furia cieca, ma modificare il campo di gioco su cui poggia I piedi).

In concreto: L’occidente ti sarà sempre contro ? Tale occidente detta le regole del mondo ? Perfetto: allora A – non serve domandare comprensione o dialogo (posto che è un nemico giurato, allora è inutile), B – inutile combatterlo sul suo terreno (combattere il tuo nemico su uno spazio del quale egli stabilisce a priori le leggi ? Assurdo). Occorre piuttosto fare qualcosa di più ambizioso: se la terra stessa sotto I tuoi piedi non ti è cogeniale, non impuntartici ma cambialo, anche se questo comportasse cambiare il globo terrestre per intero ! Come a dire: se le leggi non fanno per te, allora è inutile violarle (finisci solo dietro le sbarre), ma piuttosto agisci alla radice del male e fai una RIVOLUZIONE che porti alla fine dello status legale presente e quindi alla promulgazione di nuove leggi e consuetudini.

L’occidente dalla propria prospettiva tende a ridurre le cose e vedere nella Russia ad una mera “ribellione” all’ordine costituito: errore. La Russia punta piuttosto ad una RIVOLUZIONE, una matamorfosi vera e propria di quest’ultimo.

CONCLUSIONE

Ogni secolo ha la sua rivoluzione (o più di una) che cambia sembianza e senso a seconda delle circostanze: in questo ultimo secolo in corso essa è il sorgere del BRICS (blocco eurasiatico) tanto quanto lo è stato l’ideologia socialista a suo tempo ai primi del 900. Il presidente di Russia – non per tesserne le lodi – lo ha intuito e ha fatto in modo da piazzare il proprio paese assieme ai cavalli vincenti (e per tempo). Anche quella di sapersi trovare nel campo vincente al momento giusto è arte antica, artificio indispensabile dei vincitori (mi si scusi il gioco di parole).

Questo è il modo di pensare (lo spazio di riflessione, la portata) di uno statista come l’attuale presidente di Russia: la capacità di superare il momento presente per quanto appariscente (meeting in Alaska) e pensare in un’ordine di grandezza maggiore, ovvero interagisce/collide necessariamente con l’ordine mondiale occidentale da un lato, ma al tempo medesimo partecipa attivamente al superamento fisiologico dello stesso, contribuendo alla creazione di un ordine futuro del tutto diverso – “post-occidentale” assieme alle realtà emergenti dello spazio asiatico. Si occupa tanto dell’ordine PRESENTE quanto di quello che verrà, alla civiltà del futuro e non ad un mero sopravvivere (che caratterizza maggiormente l’occidente).

Esiste chi compara le astuzie di Putin a quelle di Zelensky tanto per equiparare I due personaggi: per parte mia direi…….ma certo compariamole pure. In sincerità ritengo sia illuminante farlo.

Il machiavellismo putiniano, come lo si potrebbe definire, appena descritto estensivamente in alto, contro l’astuzia contadina (che nessuno nega) della volpe di Kiev, la quale coi propri di giochi machiavellici guadagnerà per la propria nazione altro non che….un ulteriore mezzo milione di morti e feriti nel corso dell’anno a venire optando per la resistenza ad oltranza.

Beh, diciamo allora che esiste machiavellismo e machiavellismo (ad esser clementi).

L’economista Li Xunlei mette in guardia contro una febbre del mercato azionario che nasconde un rallentamento economico, di Fred Gao

L’economista Li Xunlei mette in guardia contro una febbre del mercato azionario che nasconde un rallentamento economico

Sollecita a fermare la riduzione dell’indebitamento, a passare da infrastrutture inefficienti a tecnologie di nuova generazione e ad aumentare il reddito delle famiglie

Fred Gao3 settembre
 LEGGI NELL’APP 

In molte occasioni, gli intellettuali cinesi parlano di paesi stranieri quando in realtà intendono la Cina, o discutono di storia quando in realtà stanno commentando la realtà odierna. Questo crea un gioco di parole intelligente e piacevole tra gli addetti ai lavori, ma può davvero confondere gli estranei che non colgono il contesto culturale. L’ultimo articolo di Li Xunlei sul Giappone ne è un esempio perfetto. Sembra analizzare i successi e gli insuccessi politici del Giappone durante i suoi “trent’anni perduti”, ma in realtà sta offrendo consigli per l’economia cinese, e credo che alcuni dei miei lettori abbiano bisogno di una sorta di “traduzione”.

Li Xunlei è capo economista presso Zhongtai Securities, con oltre trent’anni di esperienza nella ricerca macroeconomica, finanziaria e sui mercati dei capitali. Tra i pionieri dell’analisi del mercato azionario cinese, continua a esercitare un’influenza significativa negli ambienti politici, partecipando di recente al simposio del 9 aprile del Premier Li Qiang sulle condizioni economiche, insieme ad altri importanti esperti e leader aziendali.

Fonte: nbd.com

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Nell’articolo, sostiene che investire ingenti somme di denaro pubblico in infrastrutture in aree in cui la popolazione se ne va crea solo un enorme debito pubblico con pessimi ritorni sugli investimenti. Il suo punto: la Cina non dovrebbe investire in progetti con rendimenti decrescenti solo per sostenere i numeri di crescita a breve termine, soprattutto quando questi progetti vanno contro le esigenze delle persone in termini di vita e lavoro.

Esaminando le industrie giapponesi, osserva che, quando i settori tradizionali sono andati in declino, il Giappone non si è impegnato a fondo nella creazione di nuove industrie competitive a livello globale. Il risultato è stato un’economia svuotata, priva di nuovi motori di crescita. Questo lo porta a promuovere una politica industriale proattiva: vuole che il governo impegni ingenti risorse per modernizzare la produzione e sviluppare industrie all’avanguardia per rimanere competitivo a livello globale. (Altre interessanti risorse da investire)

Riguardo alla spesa dei consumatori, sottolinea che il Giappone si è concentrato troppo sugli investimenti produttivi e non abbastanza sul far spendere le persone. Quindi, per la Cina, il successo dovrebbe essere misurato in base al fatto che le persone comuni guadagnino di più e si sentano abbastanza sicure di sé da spendere. In conclusione: l’approccio americano (mettere soldi nelle tasche delle persone) supera quello giapponese (costruire più cose).

Per quanto riguarda l’effettiva attuazione delle politiche, ritiene che il più grande errore del Giappone siano state le sue politiche macroeconomiche incoerenti e scoordinate. La banca centrale è stata lenta a reagire, ha continuato a oscillare tra spese folli e misure di austerità, e i primi ministri “a porte girevoli” non hanno portato a una strategia coerente. La Cina deve evitare di passare in preda al panico all’austerità solo a causa di dati mensili negativi o di preoccupazioni sul debito: ciò ostacolerebbe qualsiasi slancio di ripresa.

Riguardo all’elevato debito derivante da grandi spese, la sua opinione è che sia del tutto normale che i governi si indebitino di più quando imprese e famiglie stanno ripagando il debito: costringere tutti a ridurre l’indebitamento contemporaneamente sarebbe un disastro. La vera questione non è ridurre i rapporti debito/PIL in questo momento, ma spendere saggiamente il denaro pubblico, ottenendo il massimo rendimento dal proprio investimento e costruendo un’economia più forte in grado di gestire il peso del debito (è bello vedere che la riunione del Politburo dello scorso settembre abbia adottato questo tipo di approccio).

L’articolo è stato pubblicato per la prima volta sul suo account WeChat (un altro esempio del perché WeChat è essenziale). Ma per chi non lo sapesse, ecco la versione sul web :

https://finance.sina.cn/zl/2025-09-02/zl-infpatcf6903070.d.html?vt=4&cid=79615&node_id=79615

Di seguito la versione tradotta dell’articolo:

Grazie per aver letto Inside China! Questo post è pubblico, quindi sentiti libero di condividerlo.

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Perché sentiamo “caldo” quando siamo ipotermici?

Ho letto molti resoconti sull’ipotermia. Uno che mi ha profondamente colpito è la storia di Lincoln Hall, un alpinista australiano. Nel 2006, durante la discesa dalla cima dell’Everest, si ammalò improvvisamente. I suoi compagni pensarono erroneamente che fosse morto e lo abbandonarono sul fianco della montagna a oltre 8.000 metri di altitudine. Eppure sopravvisse alla notte a temperature inferiori a -30 °C e con una quantità di ossigeno limitata. Quando lo trovarono, stava in realtà cercando di togliersi la giacca.
Un altro caso di ipotermia ampiamente segnalato si è verificato nel 2021 durante un’ultramaratona nella regione della Foresta di Pietra del Fiume Giallo a Baiyin, nella provincia di Gansu, dove le condizioni meteorologiche estreme hanno causato ipotermia e la tragica morte di 21 partecipanti.

L’ipotermia si verifica generalmente quando il corpo perde calore più velocemente di quanto riesca a produrlo, causando un calo della temperatura corporea interna al di sotto dei 35 °C. Questo provoca sintomi come brividi, confusione, insufficienza cardiaca e respiratoria e può persino essere fatale.
Ricercatori medici svedesi hanno analizzato 207 casi fatali di ipotermia e hanno scoperto che 63 di questi erano dovuti a uno “svestimento paradossale”. Cosa spiega questo fenomeno?
Si scopre che quando la temperatura corporea interna scende troppo, la capacità del cervello di percepire e regolare la temperatura viene compromessa. I vasi sanguigni vicino alla superficie cutanea si dilatano in modo anomalo, causando un afflusso di sangue alla superficie corporea e creando una falsa sensazione di calore . Allo stesso tempo, la trasmissione alterata del segnale nervoso confonde la persona, inducendola a credere di essere surriscaldata.

Non sono certo un esperto di medicina, ma mi chiedo: quando l’economia diventa “ipotermica”, anche il mercato potrebbe sperimentare la stessa falsa sensazione di calore? Quanto danno possono causare segnali così fuorvianti all’economia?

Perché c’è un divario così significativo tra la temperatura percepita e quella effettiva? Allo stesso modo, c’è spesso una discrepanza evidente tra i dati economici e la percezione dell’economia. Gran parte dei dati economici è in ritardo perché si tratta di una registrazione statistica di eventi già accaduti. La nostra prospettiva limitata nell’osservare la macroeconomia porta inevitabilmente a una situazione simile alla parabola dei ciechi e dell’elefante; nel frattempo, gli esseri umani sono esseri emotivi che tendono ad attribuire maggiore importanza ai dati recenti, spesso con conseguenti errori di valutazione.

Il primo caso che mi viene in mente sono i tre decenni perduti del Giappone. Dal crollo della bolla immobiliare negli anni ’90, l’economia giapponese è impantanata in una deflazione di lungo termine. Ad esempio, nel 1991, quando il mercato immobiliare raggiunse il picco, l’indice dei prezzi al consumo (IPC) giapponese si attestava a 93,1. Solo alla fine del 2021 raggiunse quota 100,1. Nell’arco di 30 anni, l’incremento cumulativo è stato solo del 7,5%, con una media annua di appena lo 0,25%. Sebbene l’IPC giapponese abbia registrato brevi rialzi durante la crisi finanziaria dell’Asia orientale e la crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti, si è attestato intorno allo zero per i 30 anni successivi allo scoppio della bolla.

Se paragoniamo la deflazione giapponese all’ipotermia, allora l’economia giapponese è in uno stato di ipotermia da 30 anni, i cosiddetti “tre decenni perduti”. In termini di PIL pro capite denominato in dollari, nel 1991 era di 28.666 dollari (calcolato al tasso di cambio medio di quell’anno, come indicato di seguito). Nel 1994, il PIL pro capite del Giappone era rapidamente salito a 38.467 dollari. Questo significativo aumento, tre anni dopo lo scoppio della bolla immobiliare, fu dovuto al forte apprezzamento dello yen, che passò da 145 yen per dollaro nel 1990 a 94 yen per dollaro nel 1995. Nel 1994, il PIL pro capite del Giappone era il più alto al mondo, nonostante il Paese stesse già registrando un aumento dei tassi di crediti in sofferenza presso le banche, fallimenti di alcune banche e società di intermediazione mobiliare, un forte calo degli utili aziendali e un’economia gravemente indebolita.

Trent’anni dopo, nel 2024, il PIL pro capite del Giappone ammonta a soli 32.420 dollari. Al netto dell’inflazione, utilizzando i prezzi costanti del 1994, si attesta a circa 25.824 dollari, con un calo del 33% rispetto a 30 anni fa. Al contrario, il PIL pro capite degli Stati Uniti era di 28.000 dollari nel 1994. Calcolato a prezzi costanti del 1994, il PIL pro capite degli Stati Uniti nel 2024 raggiunge i 57.000 dollari, più del doppio rispetto al 1994. Pertanto, a giudicare dall’andamento del PIL pro capite, il Giappone non solo ha perso 30 anni, ma potrebbe addirittura essere regredito di diversi anni rispetto a trent’anni fa.

Il mercato azionario è un barometro dell’economia. Alla fine del 1989, l’indice Nikkei 225 raggiunse i 38.900 punti. In seguito, crollò significativamente. Nonostante i numerosi rimbalzi, a luglio 2012 si attestava ancora a circa 8.700 punti, una frazione irrisoria del suo valore del 1989.

Chiaramente, l’economia giapponese ha attraversato un periodo prolungato di ipotermia. Ma ciò che appare sconcertante è il motivo per cui, durante un periodo di ipotermia così prolungato, non siano state adottate misure efficaci per riportare l’economia a una “temperatura normale”? Ciò è dovuto a una serie di “errate valutazioni” da parte del governo giapponese riguardo all’economia di quel periodo.

Ad esempio, le autorità giapponesi erano eccessivamente ottimiste nel stimare l’impatto del crollo della bolla immobiliare sull’economia. I *Libri Bianchi Economici* pubblicati dall’Agenzia di Pianificazione Economica Giapponese nel 1991 e nel 1992 affermavano entrambi che l’impatto negativo dello scoppio della bolla sui consumi privati ​​e sugli investimenti aziendali era molto limitato e sarebbe scomparso dopo il 1993. Allo stesso tempo, le autorità non prestarono sufficiente attenzione ai rischi che le istituzioni finanziarie avrebbero dovuto affrontare. Gli anni ’90 videro un’ondata di fallimenti bancari, tra cui quelli più noti come Daiwa Bank, Hokkaido Takushoku Bank e la Long-Term Credit Bank of Japan. Inoltre, il fallimento della principale società di intermediazione mobiliare Yamaichi Securities fu collegato al fallimento diffuso di aziende giapponesi.

In termini di politica macroeconomica, la politica monetaria non passò rapidamente da una politica restrittiva a una politica espansiva. La Banca del Giappone (BOJ) esitò a tagliare i tassi di interesse. A partire dall’agosto 1990, la BOJ mantenne il tasso di sconto ufficiale al 6%. Solo nel luglio 1991, 18 mesi dopo l’inizio del calo del mercato azionario, la BOJ iniziò finalmente a tagliare i tassi, e solo nel settembre 1995 il tasso fu ridotto allo 0,5%. I lenti tagli dei tassi da parte della BOJ furono una delle ragioni per cui il Giappone non riuscì a sfuggire rapidamente alla deflazione.

Sul fronte della politica fiscale, il governo giapponese ha oscillato tra l’espansione della spesa pubblica e il consolidamento fiscale (aumento delle imposte), con conseguente scarso coordinamento tra politiche fiscali e monetarie. Ad esempio, nel 1997, l’aliquota dell’imposta sui consumi è stata aumentata dal 3% al 5%, alcuni tagli fiscali sono stati revocati e la quota di spese mediche a carico dei privati ​​è stata aumentata. L’incoerenza nell’orientamento della politica macroeconomica era anche legata ai frequenti cambi di Primo Ministro e alla mancanza di continuità politica. Dal 1991 al 1998, il Giappone ha avuto sette diversi Primi Ministri, ognuno con approcci diversi alla risoluzione del problema.

Non è difficile comprendere come la politica fiscale giapponese dell’epoca mancasse di un approccio mirato, con spese fiscali effettive relativamente basse nelle fasi iniziali e scarsa efficienza. Ad esempio, durante la fase di espansione fiscale, il governo si concentrò sugli investimenti produttivi e incanalò ingenti fondi pubblici in progetti infrastrutturali in aree remote. Ciò non riuscì a stimolare i consumi e gli investimenti privati ​​e non generò un effetto moltiplicatore significativo.
Come si può vedere dal grafico sopra, la spesa per opere pubbliche in Giappone è aumentata significativamente dal 1992 al 1996. Tuttavia, in termini di investimenti infrastrutturali, i fondi sono stati principalmente destinati a strade, ponti, tunnel, grandi dighe e progetti di gestione delle risorse idriche e montane in regioni con una popolazione in netto calo, con conseguente scarsa efficienza degli investimenti. Numerosi centri civici, musei e stadi di lusso sono stati inoltre costruiti su larga scala, con conseguente aumento sostanziale del debito pubblico. Inoltre, molte di queste strutture sono state fortemente sottoutilizzate, mentre i giovani hanno continuato a migrare verso grandi aree metropolitane come Tokyo.

Perché si sono verificati investimenti così inefficienti? In primo luogo, erano motivati ​​da interessi politici, poiché il Partito Liberal Democratico, al potere da tempo, faceva molto affidamento sui voti delle regioni remote. In secondo luogo, c’era una convinzione tradizionale nello sviluppo regionale equilibrato, partendo dal presupposto che la costruzione di strade avrebbe ridotto il divario di ricchezza. L’amministrazione Hashimoto, formata all’inizio del 1996, propose i “Sei Principi di Riforma Principale” per affrontare i problemi persistenti degli enormi deficit fiscali e del debito pubblico, che comportavano essenzialmente l’attuazione di politiche di contrazione fiscale.

Quali lezioni si possono trarre dall'”ipotermia” economica a lungo termine? Nel 2002, uno studioso americano di nome Alex Kerr ha scritto un libro intitolato “Cani e demoni”. Il titolo apparentemente singolare allude in realtà a una nota parabola cinese: “Disegnare fantasmi è più facile”. Kerr ha usato questa metafora per evidenziare la difficile situazione del Giappone: mentre soluzioni efficaci ai problemi esistenti erano difficili da trovare, investire ingenti somme di denaro in progetti di grande portata era un’impresa ardua. Dal 1995 al 2007, il bilancio infrastrutturale del Giappone ha raggiunto i 65 trilioni di yen, superando di tre-cinque volte quello degli Stati Uniti nello stesso periodo. Anche Wu Jinglian ha approvato la versione cinese di questo libro al momento della sua pubblicazione.

Dico spesso che i percorsi in salita hanno tratti in discesa e i percorsi in discesa hanno tratti in salita, ma nessuno dei due cambia la tendenza generale. Nei mercati finanziari, esiste una definizione di mercato rialzista tecnico: un rialzo di oltre il 20% da un minimo significativo. Tuttavia, un mercato rialzista tecnico non indica un miglioramento fondamentale dell’economia. Quindi, un rialzo di oltre il 50% si qualifica come un mercato rialzista che funge da barometro economico? Durante il prolungato declino del mercato azionario giapponese, si sono verificati tre importanti “mercati rialzisti” con guadagni sostanziali.

Il primo si verificò nel giugno 1995, quando la Banca del Giappone iniettò circa 2.000 miliardi di yen (un fondo di stabilizzazione) per salvare il mercato. A settembre, la BOJ tagliò il tasso di interesse ufficiale dall’1% allo 0,5%, segnando l’inizio dell’era dei tassi di interesse zero in Giappone e l’attuazione di una politica monetaria fortemente accomodante. Da giugno 1995 a giugno 1996, l’indice Nikkei aumentò del 55%. Il secondo mercato rialzista si verificò nel 1998, durante la crisi finanziaria asiatica, quando lo yen si deprezzò bruscamente e le banche erano sull’orlo del collasso. Il Giappone iniettò capitali nelle banche, la BOJ acquistò yen in modo aggressivo e il governo stanziò 30.000 miliardi di yen per investimenti pubblici. Da settembre 1998 a marzo 2000, l’indice aumentò del 52%. Il terzo mercato rialzista si è verificato da aprile 2003 a luglio 2007, quando l’indice è balzato da circa 7.800 punti a 16.800 punti, con un guadagno del 132%. Ciò è stato probabilmente trainato dalla ripresa economica globale alimentata dalla prosperità delle economie emergenti. Durante questo periodo, anche le azioni statunitensi hanno registrato un importante mercato rialzista, mentre il mercato azionario cinese di classe A ha registrato guadagni ancora maggiori, con l’indice composito di Shanghai che è balzato da circa 1.000 punti a oltre 6.000 punti.

Tuttavia, vale la pena riflettere sul perché il mercato azionario giapponese sia infine sceso ai minimi storici. Il motivo è che, dopo lo scoppio della bolla immobiliare nel 1991, il Giappone non è riuscito a coltivare nuovi settori con influenza globale. Che si trattasse dell’e-commerce dopo l’ascesa di Internet, dell’industria degli smartphone, delle nuove energie, dei veicoli elettrici, dei droni, della robotica di nuova generazione o dell’intelligenza artificiale, oggi fortemente competitiva, il Giappone non si è impegnato pienamente a partecipare. Senza l’ascesa dei settori emergenti, i settori tradizionali diventano inevitabilmente settori al tramonto. In assenza di settori o aziende con profitti in crescita, il mercato azionario perde naturalmente fiducia e aspettative.

Dal punto di vista dell’allocazione del credito in Giappone, gli investimenti nel settore manifatturiero hanno continuato a diminuire, mentre il settore immobiliare ha mantenuto un trend positivo. Ciò riflette il problema dello sprofondamento industriale nel settore manifatturiero. La quota del settore manifatturiero sul totale dei saldi attivi è scesa dal 35% nel 1977 all’11% nel 2021. Al contrario, la quota dei prestiti immobiliari è aumentata dal 12,4% dopo lo scoppio della bolla immobiliare nel 1993 al 16,7% nel 2021.

Perché la quota di prestiti al settore manifatturiero in Giappone ha continuato a diminuire? Ciò è probabilmente dovuto al forte apprezzamento dello yen nei primi anni ’90 e alle riforme e all’apertura della Cina. L’apprezzamento della valuta favorisce l’espansione all’estero, mentre il deprezzamento favorisce le esportazioni. Nella prima metà degli anni ’90, lo yen si è apprezzato significativamente, mentre il renminbi si è fortemente deprezzato. Le aziende giapponesi hanno investito massicciamente all’estero, in particolare in Cina. L’afflusso di capitali globali ha portato a un aumento sostanziale della quota di valore aggiunto industriale della Cina nell’economia globale, mentre la quota del Giappone è diminuita.

Nel 1992, il rapporto debito pubblico/PIL del Giappone era solo del 69%. Nel 2021, ha raggiunto circa il 225%. La rapida crescita del debito non ha corrisposto a una ripresa economica, indicando un effetto moltiplicatore molto basso. Pertanto, il caso del Giappone merita una riflessione approfondita: gli investimenti possono essere utilizzati per stabilizzare la crescita, ma in cosa conviene investire?

In primo luogo, investimenti eccessivi in ​​infrastrutture con rendimenti marginali decrescenti sono inappropriati, poiché comportano sprechi enormi, come autostrade con traffico insufficiente. In secondo luogo, investimenti eccessivi in ​​aree remote, dove il flusso di capitali contraddice il flusso demografico, si traducono in effetti moltiplicatori molto scarsi. In terzo luogo, vi è una reale necessità di politiche industriali lungimiranti. Gli investimenti pubblici di capitale nell’ammodernamento del settore manifatturiero sono essenziali; altrimenti, la competitività globale andrà persa.

È possibile ridurre la leva finanziaria del governo? Quasi impossibile. Durante una crisi immobiliare, sia il settore delle famiglie che quello delle imprese stanno riducendo la leva finanziaria. Solo aumentando la leva finanziaria del governo è possibile mantenere l’equilibrio economico. La lezione del passato giapponese risiede nell’incoerenza delle politiche. Quando l’economia era percepita come surriscaldata, o quando la leva finanziaria del governo era ritenuta troppo elevata e le entrate fiscali diminuivano, si cercava di ridurre i deficit fiscali aumentando le imposte sui consumi. Di conseguenza, la politica fiscale è passata da espansiva a restrittiva. Ad esempio, l’amministrazione Hashimoto, formata all’inizio del 1996, ha proposto i “Sei principali principi di riforma” per affrontare i problemi persistenti degli enormi deficit fiscali e del debito pubblico, che essenzialmente comportavano l’attuazione di politiche di contrazione fiscale. Nel 1997, l’aliquota dell’imposta sui consumi è stata aumentata dal 3% al 5%, alcuni tagli fiscali sono stati revocati e la quota di spese mediche a carico dei privati ​​è stata aumentata.

Nel caso delle economie sviluppate, una volta entrati in una fase di profondo invecchiamento (tasso di invecchiamento superiore al 14%), il rapporto debito pubblico/PIL aumenta invariabilmente e i tassi di crescita economica diminuiscono invariabilmente. Pertanto, la riduzione della leva finanziaria pubblica può essere solo temporanea; la tendenza a lungo termine è al rialzo. La chiave è utilizzare la spesa pubblica in modo efficace. Il Giappone si è concentrato principalmente sugli investimenti infrastrutturali, mentre gli Stati Uniti si sono concentrati principalmente sull’aumento del reddito delle famiglie e sulla stimolazione dei consumi. Il modello statunitense è chiaramente superiore a quello giapponese.

La macroeconomia è un sistema ampio, quindi è essenziale coltivare l’abitudine al pensiero sistemico. Ad esempio, l’aumento degli investimenti può stabilizzare la crescita, e anche l’espansione dei consumi può stabilizzarla. Tuttavia, un aumento cieco degli investimenti pubblici può portare a squilibri economici strutturali, dove l’offerta supera la domanda. Negli sforzi di stimolo economico del Giappone durante gli anni ’90, investimenti insufficienti sono stati indirizzati a stimolare i consumi, che è stata la causa principale della deflazione a lungo termine. Anche dopo la proposta di Abe di un obiettivo di inflazione del 2% nel 2012, il Giappone non è comunque sfuggito alla deflazione, poiché la crescita dei salari delle famiglie è rimasta lenta.

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