Giovanni Sallusti, Mi mancano i vecchi comunisti, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Giovanni Sallusti, Mi mancano i vecchi comunisti, prefazione di Giuliano Ferrara, Liberilibri, Macerata 2024, pp. 120, € 16,00.

Chi scrive ha da anni la convinzione che nel cambio tra la vecchia sinistra pre 1989 e la contemporanea radical-chic, si è caduti, almeno per certi versi, dalla padella nella brace. Qualcuno, anche se non con la coerenza e l’approfondimento di Sallusti, ritiene che il marxismo avesse degli aspetti, per dirla à la Spengler, faustiani, ossia di apprezzamento – a tratti di vera e propria esaltazione – di quello che l’occidente e la sua ultima versione, cioè il capitalismo borghese (dal XIX secolo) aveva realizzato.

I vecchi comunisti, scrive Sallusti, “accettavano la Rivoluzione industriale come fatto storico-economico, dandone persino un giudizio positivo il che già li collocherebbe tra gli eretici, al tempo in cui la sinistra continentale vota compatta all’Europarlamento una surreale legge per il Ripristino della natura, motivo più che sufficiente per giustificare il rimpianto inconsolabile dell’autore” (è la prima tesi “eretica”). Credevano nell’autonomia della politica… “sia come oggetto di studio che come tecnicalità (anche troppo) spiccia, la consideravano un valore acquisito da Machiavelli (due). Infine, scusate se è poco, il Vecchio Comunista riconosceva appunto l’esistenza, la specificità e addirittura l’eccezionalità di un’entità meta-storica a sé stante, una postilla chiamata Occidente. Non voleva cancellare la nostra cultura, intendeva celebrarne i fasti nella Società Perfetta” (siamo a tre).

Invece i sinistri odierni, scrive Sallusti “Aboliscono la storia, questo è il punto di fondo, in favore di una posticcia metafisica buonista. Per questo sono ancora più pericolosi”, e hanno sostituito alla società senza classi, la “salvezza del pianeta”.

Analizzando le tre principali fratture elencate, quanto al produttivismo, l’autore evidenzia anche altri punti di incontro tra pensiero marxista e liberale-libertario. Tra i quali la polemica antiburocratica e antiparassitaria, iniziata dal giovane Marx con una rappresentazione, tuttora insuperata, della Weltaschauung del burocrate nella “Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico”. E della centralità della fabbrica (e dei consigli di fabbrica) nel pensiero di Gramsci.

Quanto al realismo, Sallusti ricorda la polemica di Marx ed Engels contro il socialismo utopistico (Fourier, Saint Simon): ora si passa dalla “nuova Gerusalemme” della società senza classi al “vitello d’oro” (ma non sarà ottone?) del gretinismo planetario, cioè la salvezza dell’ambiente, E sostanzialmente con la negazione della politica – e del “politico”, salvaguardata (eccome) dalla prassi del comunismo vintage, che la nuova sinistra occulta o non considera. E così tende ad eliminare il conflitto e la lotta (cioè l’amico-nemico), senza – ovviamente – riuscirci perché fa parte della condizione umana e perché crea, insieme dei nemici nuovi, negandoli (l’industriale inquinatore, la partita IVA, l’evasore) favorendo così una tecno-burocrazia di cui è la chiassosa (e subordinata) banda.

L’occidentalismo del vecchio comunista è evidente “Marx rimane hegeliano fino alla fine, dunque non cessa mai di essere occidentalista”; per cui “non si sognerebbe mai di rimuovere il padre, e di celebrare questo suicidio culturale chiamato Cancel Culture”. Per cui, contrariamente alla cultura Woke “Ogni volta che c’è occidentalizzazione c’è civilizzazione, è il teorema di Marx, ed è una spettacolare, a lungo occultata ma definitiva stroncatura ante litteram della lagna (auto)colpevolizzante Woke”. L’irrazionalismo stigmatizzato da Lukacs è oggi incarnato nella cultura Woke.  Questa (scrive Sallusti) non sfugge alla dialettica amico-nemico, anzi è il nemico “nemico implacabile, perché più ancora che la Ragione (qui saremmo ancora a Lukacs) sente di avere i Buoni Sentimenti dalla sua, è Wokista”. É nemico interno e il suo abito mentale è l’oicofobia (Scruton). Cioè il rifiuto della (propria) civiltà occidentale.

Per cui conclude l’autore nostalgicamente sui vecchi comunisti: “li rimpiango amaramente, non è nemmeno più nostalgia struggente, è un appello disperato, è una seduta storico-spiritica, sono un vedovo inconsolabile dei Vecchi Comunisti”; mentre i nuovi sinistri “non perseguono la sintesi dell’uguaglianza, non hanno una meta, vivono in un eterno presente ringretinito e perseguono l’apocalisse petalosa, la mera e benpensante distruzione della ragione, della (nostra) storia, della (nostra) civiltà”. C’è ancora tempo per fermarli: ma di danni, purtroppo, ne hanno già fatti tanti.

Teodoro Klitsche de la Grange

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