L’alba degli Stati-civiltà, di ALAIN DE BENOIST

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L’alba degli Stati-civiltà

Esiste un’alternativa alla falsa opposizione tra globalismo e nazionalismo.

ALAIN DE BENOIST

10 aprile 2023

Una civiltà non è degna di questo nome se non ha rifiutato qualcosa, se non ha rinunciato a qualcosa.

Fernand Braudel

Tre grandi paradigmi in competizione tra loro si confrontano attualmente per determinare la natura del nomos della Terra, cioè l’ordine mondiale emergente: l’internazionalismo liberale, gli Stati nazionali nati dal sistema westfaliano e gli Stati-civiltà.

L’internazionalismo liberale si basa sui temi classici del pensiero liberale: lo Stato di diritto, la tutela dei diritti individuali garantiti dalla Costituzione, il primato delle norme procedurali, la democrazia parlamentare, l’economia di mercato, tutte nozioni proclamate universali e propriamente “umane” – il che è possibile solo dimenticando la loro storia – cosicché chi rifiuta ciò che viene ritualmente presentato come “libertà e democrazia” viene immediatamente collocato al di fuori dell’umanità e ricacciato nell'”asse del male”, perché il liberalismo interpreta come “aggressione” ogni resistenza all’espansione di uno stile di vita basato sull’individualismo e sul capitalismo.

Se ne deduce che il sistema liberale è prigioniero di una grande contraddizione: da un lato, si basa teoricamente su una fondamentale tolleranza nei confronti di tutte le scelte individuali, che lo porta a difendere l’idea di una necessaria “neutralità” dei poteri pubblici (in Francia, questo è anche il fondamento della “laicità”). D’altra parte, vuole a tutti i costi estendere i suoi valori individualistici a tutto il mondo, a scapito di qualsiasi altro sistema di valori, il che va contro il suo principio di tolleranza. Non si accontenta, ad esempio, di affermare la superiorità universale e assoluta della democrazia liberale. Interviene invece per imporla ovunque nel mondo, moltiplicando le interferenze di ogni tipo, in modo che quella che all’inizio era una semplice opzione teorica diventi l’alibi dell’imperialismo più brutale.

Allo stesso modo, in America, la Dottrina Monroe1 si trasformò dal categorico non-interventismo (principio di neutralità) delle origini in una posizione morale che conferiva agli Stati Uniti un diritto illimitato di ingerenza. La dottrina, come ha scritto Carl Schmitt2, si è così “trasformata da un principio di non intervento e di rifiuto dell’ingerenza straniera in una giustificazione per gli interventi imperialistici degli Stati Uniti”.

Lo Stato-nazione, invece, è concepito come l’unità politica di base di un ordine internazionale, sancito dalle Nazioni Unite, in cui ogni Paese dovrebbe potersi affermare come sovrano. Rifiutando il pluralismo insito nel potere imperiale, esso trae giustificazione da un unico popolo, un unico territorio e un’unica comunità politica, motivo per cui non sostiene le differenze e tende a omogeneizzare le sue componenti interne.

L’internazionalismo liberale non è nemico degli Stati nazionali in linea di principio, nella misura in cui essi sono sempre suscettibili di essere colonizzati dai valori del primo – e sappiamo quanto l’ordine internazionale liberale abbia raggiunto questo obiettivo imponendo, praticamente ovunque nel mondo, il principio della legittimità universale della democrazia liberale (che Friedrich Hayek ha descritto come “protezione costituzionale del capitalismo”) e le regole del mercato. Da un punto di vista liberale, gli Stati nazionali non sono più un ostacolo all’espansione dei mercati globali.

Anche sul fronte politico e militare, l’internazionalismo liberale non esita a sostenere il nazionalismo quando sembra necessario per estendere la propria influenza: è il caso oggi della guerra in Ucraina, dove gli Stati Uniti forniscono un massiccio sostegno a un Paese che cerca di trasformarsi in uno Stato-nazione, presumibilmente perché questo sostegno è in linea con gli interessi dell’establishment internazionalista liberale americano.

Le cose sono ben diverse quando si parla di Stati-civiltà, che l’internazionalismo liberale considera il proprio nemico inveterato, perché tali Stati si oppongono per loro natura alla diffusione dei valori che l’internazionalismo liberale rappresenta.

Cosa sono dunque questi nuovi arrivati a cui alcuni scrittori3 hanno dato il nome di “Stati-civiltà”? Sono potenze regionali la cui influenza si estende oltre i propri confini e che concepiscono il nomos della Terra come fondamentalmente multipolare4. In origine, l’etichetta di “Stato-civiltà” era riservata specificamente alla Cina e alla Russia, ma questa qualifica può essere applicata a molti altri Stati che, facendo leva sulla loro cultura e sulla loro lunga storia, riescono a proiettare una sfera di influenza che va oltre il loro territorio nazionale o il loro gruppo etno-linguistico: India, Turchia e Iran, solo per citarne alcuni.

Gli Stati civiltà contrappongono all’universalismo occidentale un modello secondo il quale ogni gruppo civilizzato è considerato dotato di un’identità distinta, sia in termini di valori culturali che di istituzioni politiche, un’identità che non è riducibile ad alcun modello universale. Questi Stati non vogliono semplicemente perseguire una politica sovrana senza sottomettersi ai dettami delle élite sovranazionali. Cercano anche di ostacolare qualsiasi progetto “globalista” volto a far prevalere gli stessi principi in tutto il pianeta, perché sono consapevoli che la cultura che incarnano non è identica a nessun’altra. A questo proposito, dobbiamo ricordare che nessuna cultura può racchiudere tutte le culture; la nozione di “cultura mondiale” è una contraddizione in termini.

Gli Stati -civiltà hanno la caratteristica comune di denunciare l’universalismo occidentale, che considerano un etnocentrismo mascherato, un modo elegante per nascondere l’imperialismo egemonico. Ma soprattutto, gli Stati – civiltà si basano sulla loro storia e sulla loro cultura, non solo per affermare che queste implicano un modello politico e sociale diverso da quello che l’internazionalismo liberale cerca di imporre, ma anche per identificare una concezione del mondo ritenuta fondante di una “vita buona”, sia dal punto di vista politico che religioso, cioè costruita su un insieme di valori sostanziali non negoziabili che lo Stato ha poi la missione di incarnare e difendere.

Lo Stato-civiltà, in altre parole, cerca di stabilire una concezione del bene che si basa su particolari valori sostanziali e su una specifica tradizione.

Che siano guidati da un nuovo zar, da un nuovo imperatore o da un nuovo califfo, che il rifiuto dell’universale avvenga in nome della nozione confuciana di “armonia”, dell’eredità della “santa Russia” (“Mosca, la terza Roma”), dell’eurasiatismo, dell’induismo o della memoria del califfato, gli Stati civilizzatori rifiutano di sottomettersi agli standard dell’Occidente, che alcuni di loro avevano accettato in passato per “modernizzarsi”. Occidentalizzazione e modernizzazione, quindi, non vanno più automaticamente di pari passo.

Il filosofo russo Konstantin Krylov (1967-2020), nel suo libro postumo Povedenie5 (“Comportamento”), pubblicato nel 2021, descrive la Russia come un Paese totalmente estraneo al pensiero liberale fin dalla sua nascita. Rifiuta il liberalismo, ma non la democrazia. Pur essendo diventato personalmente zoroastriano durante un soggiorno in Uzbekistan, sottolinea l’importanza del cristianesimo ortodosso. Paul Grenier, fondatore del Simone Weil Center for Political Philosophy con sede negli Stati Uniti, che ha recentemente dedicato un saggio6 provocatorio a Krylov, scrive: “Non conosco nessun intellettuale conservatore russo per il quale la Russia sia parte della civiltà occidentale. Tutti vedono in essa qualcosa di separato e diverso”. Questa era già l’opinione di Nikolaï Danilevski e Oswald Spengler, che sottolineavano la specificità del comportamento sociale e dei precetti etici russi, a partire dalla “nostrité” (in russo non si dice “io e mio fratello siamo andati a fare una passeggiata”, ma “noi con mio fratello siamo andati a fare una passeggiata”).

Al sistema liberale basato sul perseguimento dell’interesse individuale, la Russia oppone le prerogative del sacro, che rifiuta di vedere relegate alla sfera privata, negando al contempo la neutralità dello Stato rispetto ai valori. È quindi comprensibile che in Ucraina la Russia ritenga di non limitarsi a difendere la propria posizione secondo cui Kiyv non può diventare uno Stato-nazione, perché appartiene allo spazio di civiltà slavo, ma di essere impegnata in una lotta più ampia contro la logica stessa dello Stato-nazione, i sostenitori di una visione puramente laica o secolare del mondo, i valori liberali dell'”Occidente collettivo” che percepisce come “decadenti” e l’egemonia americana sostenuta dal sistema liberale.

Negli anni Trenta e Quaranta, la Scuola di Kyoto7, formatasi intorno a Nishida Kitarō (1870-1945) e Tanabe Hajime, fu senza dubbio la prima – ben prima di tutti i movimenti di decolonizzazione – a sviluppare l’idea di un mondo multipolare8, diviso in grandi spazi distinti considerati come i tanti crogioli della cultura e della civiltà, e a criticare, in difesa della pluralità delle culture caratteristica del “mondo reale” (sekaiteki sekai), i principi astratti dell’universalismo occidentale basato sul capitalismo e sullo scientismo.

I principali rappresentanti di questa scuola furono soprattutto filosofi, come Kōsaka Masaaki, Kōyama Iwao, Nishitani Keiji e Suzuki Shigetaka. I pensatori europei che sembrano averli influenzati maggiormente sono stati Johann Gottfried von Herder e Leopold von Ranke. Recentemente, le idee dei membri della Scuola di Kyoto sono state avvicinate anche a quelle di autori comunitari come Charles Taylor e Alasdair MacIntyre9.

È in questo circolo ristretto che si è sviluppata l’idea di una “grande sfera di co-prosperità dell’Asia orientale”, che associa diversi Paesi sulla base di valori condivisi e del rispetto della loro autonomia, un’idea che non va confusa con il “giappocentrismo” della destra nazionalista né con l’imperialismo giapponese dello stesso periodo. Già nel giugno del 1943, infatti, l’organo ufficiale di censura giapponese ordinò di far tacere le pubblicazioni della Scuola, rimproverandola proprio di voler assegnare alla potenza giapponese una missione che non deve essere confusa con la semplice espansione imperialista.

Nella Cina di oggi vanno ricordati anche i membri della Scuola Tianxia, come Zhao Tingyang, lo storico Xu Jilin, Xu Zhuoyun, Wang Gungwu e Liang Zhiping, il cui criterio è “usare la Cina per spiegare la Cina” (yĭ zhōngguó jiěshì zhōngguó) – tra cui forse anche Jiang Shigong, sostenitore del “socialismo con caratteristiche cinesi”.

I suoi teorici si rifanno alla nozione centrale di tianxia (“tutto ciò che esiste sotto il cielo”), un principio spirituale della Cina premoderna la cui incarnazione istituzionale era l’Impero Celeste (Tiāncháo), un ideale le cui origini possono essere fatte risalire al Duca di Zhou10 (XI secolo a.C.) che utilizzò il “mandato del cielo” per giustificare il rovesciamento della dinastia Shang da parte degli Zhou occidentali. Termine polisemico, tianxia è stato utilizzato anche prima dell’epoca di Laozi (Lao-Tseu) e di Confucio: designa allo stesso tempo un ordine ideale di civiltà11, un immaginario spaziale in cui la Cina si trova al centro, un ordine gerarchico in cui la “virtù” dei suoi membri determina il loro rango e un sistema politico che dovrebbe garantire l’armonia dell’insieme.

Tianxia è “un concetto denso”, sostiene Zhao Tingyang12, “in cui, rispetto alla prima filosofia, la metafisica come filosofia politica viene a sostituire la metafisica come ontologia”, che afferma che le culture hanno valori incommensurabili e che la Cina deve uscire dall’eurocentrismo e assumere pienamente il suo ruolo di Impero di Mezzo. Per Xu Jilin13, “l’origine della crisi attuale della Cina non è altro che la mentalità che concede una supremazia assoluta alla nazione”. E aggiunge: “Per affrontare veramente il problema alla radice, abbiamo bisogno di una forma di pensiero che faccia da contrappunto al nazionalismo. Io chiamo questo pensiero “nuovo tianxia”, una saggezza assiale della civiltà derivata dalla tradizione pre-moderna della Cina, interpretata nuovamente secondo criteri moderni”.

A questo proposito, è esemplificativo il modo in cui, a partire dagli anni ’90, le autorità cinesi, rivendicando i “valori asiatici”, hanno respinto le critiche rivolte loro in nome dell’ideologia dei diritti umani. Nel gennaio 2021, al Forum di Davos, Xi Jinping ha dichiarato14:

Così come non esistono al mondo due foglie identiche, non esistono storie, culture o sistemi sociali uguali. Ogni Paese è unico, con la propria storia, cultura e sistema sociale, e nessuno è superiore all’altro. […] La differenza in sé non è motivo di allarme. Ciò che invece desta allarme… è il tentativo di imporre una gerarchia alle civiltà o di imporre la propria storia, cultura o sistema sociale agli altri.

Il riconoscimento della crisi dell’universalismo e dell’egemonismo occidentale15 va quindi di pari passo con la sensazione che l’era dell’ordine internazionale16 basato sull’equilibrio conflittuale degli Stati nazionali sia giunta al termine17, come previsto da Carl Schmitt18 già negli anni Trenta. L’ascesa degli Stati-civiltà segna l’inizio di un’epoca in cui l’ordine mondiale non può più essere racchiuso nell’equilibrio instabile degli Stati nazionali. Con le norme di civiltà che diventano un perno della geopolitica, l’asse principale della competizione non è più quello tradizionalmente esistente tra gli Stati nazionali, ma quello che si afferma tra le civiltà. Gli Stati-civiltà rivelano così una nuova modalità di sovranità che trascende quella degli Stati nazionali.

Una nota sul vocabolario è d’obbligo. Si tratta della nozione chiave di “civiltà”, di cui il minimo che si possa dire è che non è priva di ambiguità. Samuel P. Huntington19 ha capito bene che il significato di questa parola cambia completamente a seconda che venga usata al singolare o al plurale. Il termine è stato ovviamente adottato sotto l’influenza dell’inglese, quando altrimenti sarebbe stato meglio parlare di “cultura”: non è un caso che in Germania il libro di Huntington, Lo scontro delle civiltà (1996), sia stato tradotto con il titolo Kampf der Kulturen. In Germania, infatti, un’intera tradizione di studiosi vede nella Kultur l’esatto contrario della Zivilization. Spengler, ad esempio, vedeva nella “civiltà” lo stadio terminale delle grandi culture.

I liberali sostengono sempre di “difendere la civiltà” che, a loro avviso, si fonde con la logica dei diritti individuali e del mercato. La civiltà, per loro, deve essere intesa al singolare e sono le democrazie liberali a incarnarla: chiunque se ne discosti esce dal “mondo civilizzato”. Chi si rifiuta di conformarsi a questo modello viene immediatamente delegittimato e denunciato come antidemocratico e “potere autoritario”, come se la democrazia liberale fosse l’unica forma di democrazia possibile. È questa idea di civiltà al singolare che ha legittimato la colonizzazione in passato, prima di ispirare le speculazioni di Fukuyama sulla “fine della storia” in un mondo privo di ogni rapporto di potere. Per gli Stati-civiltà al contrario, le civiltà (o culture) possono essere intese solo al plurale. Gli Stati-civiltà non difendono la “civiltà” in quanto tale, ma la loro civiltà.

Ci si può anche chiedere in che misura gli Stati civilizzatori abbiano oggi preso il posto degli imperi, tradizionalmente definiti come Stati multinazionali, persino multiculturali, che governano su un vasto territorio di popoli la cui autonomia locale è il più delle volte rispettata a condizione che accettino la legge comune determinata dal potere centrale.

In realtà, più che a un impero tradizionale o a un imperium, la nozione di Stato-civiltà evoca il “grande spazio” (Großraum) teorizzato da Carl Schmitt per ripensare le relazioni internazionali al di là delle regole dei rapporti tra Stati nazionali e sulla base di regni e Reichs (usati al plurale e distinti dal Reich tedesco). Ogni Großraum, dice Schmitt, richiede un “grande popolo”, un vasto territorio e una volontà politica autonoma.

“In questo senso, i Reich sono le potenze guida e portanti le cui idee politiche si irradiano in un determinato Großraum e che escludono fondamentalmente gli interventi di potenze spazialmente estranee [cioè extraregionali] in questo Großraum20. E Schmitt qualifica ulteriormente la sua concezione: “Il Reich non è semplicemente uno Stato allargato, così come il Großraum non è uno spazio minore allargato” (Klineraum). Come osserva Karl Peyrade21 nella sua recensione de L’ordine del Großraum nel diritto internazionale di Schmitt: “La logica dei grandi spazi non ha una portata universalistica. Essa si limita a rendere coerente l’evoluzione storica delle grandi potenze territoriali con l’influenza su Paesi terzi [alla loro periferia]. Il paradigma non è quindi più nazionale, ma spaziale”.

Quanto all’Europa, culturalmente e ideologicamente ibrida da due millenni, per il momento non è altro che uno spazio neutralizzato in cui si scontrano concezioni civilizzatrici opposte.

18 chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/https://www.duncker-humblot.de/_files_media/leseproben/9783428471102.pdf

19 chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/https://msuweb.montclair.edu/~lebelp/1993SamuelPHuntingtonTheClashOfCivilizationsAndTheRemakingofWorldOrder.pdf

21 https://www.lerougeetlenoir.org/opinions/les-opinantes/ex-libris-le-droit-des-peuples-regle-sur-le-grand-espace-de-carl-schmitt

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