POPOLO VS. DEMOCRAZIA, di Teodoro Klitsche de la Grange

POPOLO VS. DEMOCRAZIA

L’“insorgenza” del 6 gennaio a Washington ripropone una questione sui poteri del popolo in una democrazia.

Problema antico. Già Tucidide nel riportare il celebre discorso di Pericle per i caduti della guerra del Peloponneso, narra che il demagogo fa un elenco di diritti, doveri, funzioni e sul modo in cui il “popolo” ateniese le esercita, per connotare il concetto di democrazia dell’Atene di (circa) duemilacinquecento anni fa: la democrazia ha tale nome – diceva Pericle “perché la città è affidata non a una oligarchia, ma a una più vasta cerchia di cittadini; le leggi sono uguali per tutti (isonomia); tutti hanno diritto di esercitare le cariche pubbliche (accesso); la povertà non è un limite a ciò”. La difesa di tutti (la guerra) è dovere di ogni cittadino; morire in guerra rivela il valore dell’uomo1.

Così Polibio, evidenziando l’elemento democratico della Costituzione romana (repubblicana) ne elencava i poteri esercitati dal popolo2.

Cosa succede quando è introdotto il concetto di sovrano? Bodin riferendosi al sovrano (per un francese del ‘500, il re), ne delinea due connotati decisivi: che il sovrano è tale perché la sua volontà non dipende da altri e perché è sopra il diritto, almeno nel caso d’eccezione. Nella situazione eccezionale il sovrano decide se e come infrangere il diritto, vigente in quella normale. Poi elenca i poteri che competono al sovrano per essere tale anche nei frangenti normali. Il giurista francese li denomina “les vraies marques de la souvreraineté” (nominare le alte cariche, decidere la pace e la guerra, dare la grazia e così via)3; e ritiene essere i connotati che servono ad identificare, tra gli organi pubblici, quello sovrano4.

Gli elementi decisivi (indipendenza da altri e potere non limitato dal diritto) indicati da Bodin successivamente erano spesso ripetuti. Anche Thomas Hobbes, dopo aver argomentato sulla istituzione del corpo politico – e così del Sovrano – enumerava i poteri che allo stesso competono per esercitare la funzione (di protezione), in modo simile a quanto scriveva Bodin5.

Carré de Malberg scriveva che la nozione della sovranità non ha che un significato negativo: e questa negatività è soprattutto data dalla possibilità per il sovrano di non essere obbligato a dover riconoscere volontà allo stesso superiori né limiti inderogabili6.

Max von Seydel sottolinea in particolar modo che per il concetto di Stato uno dei requisiti essenziali è d’esser “dominato da un supremo volere… lo Stato non è affatto il volere sovrano, né possiede il volere sovrano, anzi, è diverso da esso. Il volere sovrano è sopra lo Stato, e la soggezione ad esso dà al territorio e al popolo la qualità di Stato7. Onde è un errore logico confondere dominatore e dominato, concepirlo come da von Stein quale “tutto unico, come risultante dell’oggetto del dominio (Stato) e dell’investito del dominio. Quest’ultimo concetto si trova del resto già in Grozio: Imperium, quod in rege ut in capite, in populo manet ut in toto, cuius pars est caput. E questo è erroneo per ciò, che il sovrano essendo quello che effettua l’unità, non può esso stesso insieme con lo Stato formare l’unità”. Ne consegue che “Il volere sovrano è quindi sempre un volere sopra lo Stato, non un volere dello Stato, e nel disconoscimento di questo rapporto sta l’errore di rappresentare lo Stato come personalità”. D’altra parte nella rivoluzione francese Sieyès aveva già collegato il sovrano alla volontà assoluta, creatrice di forme politiche: il pouvoir constituant, dove il rapporto tra volontà nazionale e diritto costituito corrisponde a quello che avrebbe, circa un secolo dopo (della sovranità), scritto von Seydel «“La nazione – scrive infatti Sieyès – è preesistente a tutto, è l’origine di tutto. La sua volontà è sempre conforme alla legge, è la legge stessa. Prima e sopra di essa non c’è che il diritto naturale”. Poco più avanti prosegue: “Sarebbe ridicolo supporre la nazione vincolata anch’essa dalle modalità e dalla Costituzione cui ha assoggettato i propri mandatari. Se per diventare una nazione le fosse stata necessaria una forma positiva essa non sarebbe diritto naturale […]. La nazione è tutto ciò che è in grado di essere per il solo fatto di esistere. Non dipende dalla sua volontà attribuirsi più diritti di quanti ne abbia […]. Alla volontà nazionale basta (invece) soltanto la propria realtà per essere sempre legittima. Essa è la fonte di ogni legalità8.

Con questo, l’abate confermava e sviluppava quanto scriveva Rousseau che “Il Sovrano, per il solo fatto di essere, è sempre tutto ciò che deve essere9

Tuttavia, quale conseguenza del dominio sullo Stato, il Sovrano esercita un’attività nello Stato: legislazione, amministrazione, giurisdizione sono le branche (i poteri costituiti) in cui si articola (e si esercita) la sovranità attraverso decisioni e nomine.

Anche Carl Schmitt distingue il popolo “davanti” e “al di sopra” della Costituzione e il popolo “entro” la Costituzione nell’esercizio dei poteri regolati con leggi costituzionali10.

Senza voler ripetere quel che è affermato da tanti, è necessario ricordare che, se pure il concetto di sovrano è stato per così dire spersonalizzato, in particolare nella formula della sovranità dello Stato, è sempre esistita l’opinione che il popolo abbia, quanto meno laddove eserciti il pouvoir constituant, il potere di fare tutto, perché è “ciò che deve essere per il solo fatto di esistere”: e ciò anche per creare, modificare, trasformare la forma politica (Sieyès). Accanto al popolo che elegge, vota ai referendum, esercita l’iniziativa legislativa popolare, esiste un popolo sovrano perché sovrasta l’ordinamento. Ossia che è potere costituente, e non solo partecipazione/esercizio a e di poteri costituiti.

Il problema è come il popolo possa agire se non è potere costituito “in forma”. Scrive Matteucci a tale proposito che “il potere costituente del popolo conosce ormai consolidate procedure (assemblee ad hoc, ratifiche attraverso un referendum), capaci di garantire che il nuovo ordine corrisponda alla volontà popolare…il potere costituente del popolo è una sintesi di potere e diritto, di essere e dover essere, di azione e consenso, perché basa la creazione della nuova società sul iuris consensu11. Al contrario di tanti, lo studioso scomparso non vede nel potere costituente del popolo una negazione della democrazia ma, a determinate condizioni, la sua espressione culminante. Va da se che la contraria opinione non spiega la trasformazione (di fatto) dell’ordinamento e, al limite, finisce anche per contestarne il carattere democratico, pur se rispettoso delle procedure sì straordinarie (extra legem) ma rispettose della volontà popolare.

Accanto a queste c’è anche il carattere pubblico, sempre connesso al popolo12, e che ne fa, se riunito, una “grandezza politica”13; ma la cui disamina eccede i limiti di questo breve scritto14.

4. Limitandoci quindi al popolo dentro” la Costituzione, occorre concludere valutando quale sia la pratica “democratica” di coloro che sostengono il popolo solo come agente “in forma”, titolare della sovranità ma che la deve esercitare “nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

Quanto all’essere il popolo “al di sopra” della costituzione nelle dichiarazioni di esponenti politici e culturali dell’establishment non se ne parla se non per lanciare anatemi; sulla base (prevalente) che tale concezione è contraria alla democrazia liberale. I media mainstream, disciplinati e allineati (come l’intendenza) seguono.

Resterebbe al popolo, per essere considerato (rispettosamente) costituzionale, legalitario e disciplinato, almeno di agire “dentro” la Costituzione ad esercitare quei poteri, e determinare così coerenti comportamenti degli organi pubblici, che la Costituzione gli attribuisce.

Ma anche questo pare, ai “democratici” (anti-populisti) eccessivo e inopportuno.

Alcuni (tra i tanti esempi che si potrebbero fare) lo provano.

Quando il popolo inglese stava per votare nel referendum consultivo sulla Brexit, i commenti dei demo-globalisti erano prossimi al razzismo bio-etico: il popolo è inferiore, culturalmente, intellettualmente e moralmente e quindi non deve votare su argomenti che solo i “tecnici” (leggi le èlite) possono capire e valutare.

Il sen. Monti si distinse (pochi giorni prima che gli inglesi dessero la (decisa) delusione ai globalisti), sia per aver rimproverato duramente Cameron per aver indetto il referendum, sia per essersi rallegrato che la costituzione italiana sottraesse alla decisione popolare la materia dei trattati internazionali. Bisogna dar atto al sen. Monti di essere coerente nella vita e nelle idee: in effetti non risulta sia stato mai eletto dal popolo (quindi dal basso) né in Parlamento né altrove; ogni incarico l’ha ottenuto per nomina (dall’alto). Per cui si capisce il motivo della considerazione che nutre dei cittadini elettori.

Del pari non fu chiesto affatto agli elettori italiani nel 2011 se gradivano che il governo Berlusconi, il quale aveva ottenuto nel 2008 la maggioranza degli eletti in Parlamento, dovesse essere sostituito, come fu, dal Governo Monti, così nuovo Premier, sponsorizzato (anche) da leaders stranieri, e mai eletto, forse neppure in un condominio. Si disse (e poi si ripeté) che la fiducia “la davano i mercati”. Ma in una democrazia consenso e fiducia (non tanto in senso tecnico-parlamentare, quanto d’integrazione, consonanza, corrispondenza tra governanti e governati) devono esistere tra popolo e governo indipendentemente dai mercati. E non solo formalmente: perché formalmente il Governo Monti ebbe la fiducia del Parlamento: ma il seguito con i “flop” elettorali di qualsiasi cosa (coalizione, partito, lista) richiamasse Monti e il suo governo, ne ha sempre confermato i livelli modestissimi di gradimento.

Anche i governi successivi a quello di Monti (tranne – in parte – il Conte 1) non hanno rispettato il nesso, anche indiretto, tra decisione dei cittadini e formazione del governo. All’alba della seconda repubblica si sosteneva che la legge elettorale maggioritaria a quello (soprattutto) serviva. Il seguito della storia dimostra che non era(è) sufficiente. Comunque nessun Presidente del consiglio, da Monti in poi, è quello plebiscitato (e quindi gradito) dagli elettori. Quello che non doveva essere, o al massimo essere eccezione, è diventata la regola, una “convenzione costituzionale”. Neppure la conformità all’orientamento dell’opinione pubblica, che è, in qualche misura (anche se modesta) il surrogato dell’Agorà è stata osservata. Ad esempio il Governo Conte-bis, nato dal patto tra due partiti aventi la maggioranza parlamentare, e teoricamente la maggiormente dei suffragi dei votanti alle elezioni politiche del 2018 (circa il 20% il PD e oltre il 30% il M5S), l’aveva persa, già prima di nascere (v. elezioni europee 2019). Più che i numeri dei sondaggi (comunque registranti un consenso ai partiti di governo intorno al 40%, mentre l’opposizione di centrodestra è di circa 8-10 punti superiore) contano gli esiti delle elezioni regionali, per lo più perse dai partiti di governo, Ma la nuova situazione non ha cambiato alcunché: con la votazione di fiducia al Senato del 19 gennaio 2021 l’ultima delle preoccupazioni dell’establishment è stata lo iato tra volontà popolare da un lato e maggioranza parlamentare e governo, dall’altro. Quanto al rispetto della volontà popolare nei referendum, c’è una letteratura sulla di essa “elusione” con la legislazione sostitutiva di quella abrogata.

L’idem sentire de re publica, il consenso, la legittimità, l’integrazione sono necessari per produrre e mantenere l’unità e la capacità di agire e durare di qualsiasi regime politico. Come scriveva Smend, a proposito della costituzione “La costituzione non è semplicemente uno statuto organizzativo… Essa è nello stesso tempo un ordine vitale che comprende anche il processo di vita politico fondamentale dello Stato, in cui esso diviene reale attraverso l’inclusione continua e dinamica del singolo”; che si realizza anche attraverso diversi “processi della vita costituzionale” il cui senso è anche “stimolare il processo di vita politico, la formazione di opinioni, partiti e maggioranze, la coscienza politica complessiva, l’opinione pubblica, la realtà politica attiva della comunità in generale”15.

Smend vede una “crisi di realtà” dove venga meno l’adesione dei governati e la loro partecipazione al “gioco politico costituzionale”; questo in qualsiasi regime politico. A ratione majus in una democrazia, dove la sovranità del popolo è già nel nome (potere del popolo). Se poi nei fatti questo non c’è, non significa che perciò il popolo è governato da sofarchi, santi, angeli, oggi da tecnici, ma solo che non lo è – o non lo è abbastanza – dalla volontà popolare. Non vuol dire che c’è qualità, cultura, intelligenza al governo, ma solo che c’è maggiore ipocrisia. A decretare che un governo è capace sono i risultati non i titoli (o presunti tali). Purtroppo i risultati, ancorché mediaticamente manipolati anch’essi, hanno comunque l’handicap di poter essere giudicati solo a posteriori.

Come il suddetto governo tecnico italiano, che nato manifestando l’intenzione di ridurre il debito, è stato quello che più l’ha aumentato. Con la logica conclusione che il popolo italiano ne ha tratto in termini di consenso (a posteriori). Non avendo interpellato il popolo prima di fare il governo, questo ne ha almeno tenuto conto dopo.

In conclusione – e in termini di realismo politico, il popolo può sbagliare, come possono sbagliare i governi: l’infallibilità è un attributo del Papa (e solo se parla ex cathedra). Così come scritto nel Federalista, nei governati sono angeli, né lo sono i governanti. Quel che tuttavia è sicuro è che per aversi un governo in grado di governare, e al minor costo possibile16 è necessario che abbia (quanto più possibile) consenso e fiducia dei governati.

Cosa quanto mai difficile se i comportamenti dei governanti non sono conformi alle opinioni dei governati.

Se invece, questo non c’è, l’èlite di governo diventa un’ “isola” socio-politica17, con un solco orizzontale che la divide dal resto della comunità, rendendo difficile, un rapporto che non sia quello di mero comando/obbedienza.

Quello di cui scriveva il citato R. Smend e tanti altri. Ma un governo che si regge solo sul comando e sulla legalità delle procedure è un governo che cammina su una gamba sola: è un governo debole. Alla prima seria crisi rischia di andare all’aria. Ancor più e come gli italiani hanno potuto constatare soprattutto negli ultimi decenni, ma poche possibilità di far valere la propria volontà, ma tante di dover subire quella degli altri, poteri forti o Stati che siano. Ai quali perciò i governi deboli sono i più graditi.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 Oltre a molte altre consuetudini, di carattere sociale più che politico v. La guerra nel Peloponneso, II 35-46.

2 V. Le storie, Lib. VI, cap. 14, anche se l’elenco dello storico non è esauriente.

3 v. Six livres de la Rèpublique, I, cap. X.

4 Op. cit., trad. it, di M. Isnardi Parenti, Torino rist. 1988, p. 480.

5 v. Elements of law natural and politics, trad. it. di A. Pacchi, Firenze 1968, pp. 169 ss.; De cive trad. it. di T. Magri, Roma 1981, pp 132 ss.

6 v. R. Carré de Malberg Contribution à la théorie général de l’État, Paris 1920, Tome 1, p. 70 ss.

7 E prosegue: “Essi si chiamano Stato soltanto se sono dominati, analogamente come si chiama proprietà la cosa solo quando ha un padrone. È quindi un modo di esprimersi affatto riprovevole scientificamente quello che pone alla pari lo Stato e il volere sovrano, e attribuisce allo Stato un volere. Stato e sovrano sono diversi, così come proprietà e proprietario…”

8 I corsivi sono miei.

9 v. Du contrat social, Lib. I, cap. 7 (il corsivo è mio).

10 v. «Il popolo è, nella democrazia, soggetto del potere costituente. Secondo la concezione democratica ogni costituzione, anche nel suo elemento proprio dello Stato di diritto, si basa sulla concreta decisione politica del popolo capace di agire politicamente. Ogni costituzione democratica presuppone un simile popolo capace di agire» e subito dopo «Il popolo “entro” la costituzione nell’esercizio dei poteri regolati con legge costituzionale. Nel quadro e sulla base di una costituzione il popolo come elettorato o cittadinanza con diritto di voto può esercitare determinate competenze disciplinate con legge costituzionale» Verfassungslehre, trad. it. di A. Caracciolo, Milano 1984, p. 313.

11 Dizionario di politica voce Sovranità.

12 “Questa grandezza determinata negativamente, il popolo è nonostante la negatività della sua determinazione, non meno significativa per la vita pubblica. Popolo è un concetto che diventa esistente solo nella sfera della pubblicità. Il popolo appare solo nella pubblicità, esso produce anzi la pubblicità. Popolo e pubblicità coesistono; nessun popolo senza pubblicità e nessuna pubblicità senza popolo”, v. C. Schmitt, op. cit., p. 319.

13 “Appena il popolo è effettivamente riunito, non importa a quale scopo, purché non appaia come gruppo di interessi organizzati, press’a poco come nelle dimostrazioni di strada, nelle feste pubbliche, nei teatri, all’ippodromo o allo stadio, questo popolo acclamante è presente ed è almeno potenzialmente una grandezza politica”, C. Schmitt, op. cit., p. 320.

14 Una delle espressioni più chiare e decise della concezione “immanente” del popolo (e anche la prima, che mi risulti) è quella espressa da Thomas Müntzer nella “Confutazione ben fondata” (delle tesi di Martin Lutero). Scrive Müntzer, parlando dell’amministrazione della giustizia (sempre “in cima” alle preoccupazioni dei teorici politici, almeno fino a metà del XVI secolo): “l’intero popolo deve avere il potere della spada, il potere di legare e di sciogliere, come dice il testo di…; i principi non sono i signori ma i servitori della spada; essi non devono fare ciò che gli aggrada… ma ciò che è giusto. Perciò bisogna, secondo l’antica e buona consuetudine, che il popolo sia presente quando si giudica secondo la legge di Dio… E perché? Qualora le autorità intendessero pervertire il giudizio, allora i cristiani che le stanno intorno devono impedirlo e non tollerarlo, poiché si dovrà rendere conto a Dio del sangue innocente” v. Scritti politici pp. 192-193, Torino 1978 (il corsivo è mio) il popolo quindi controlla ed esegue. Poche righe dopo il capo della rivolta dei contadini prosegue adducendo anche un’altra ragione “i signori e i principi sono l’origine di ogni usura, d’ogni ladrocinio e rapina; essi si appropriano di tutte le creature: dei pesci dell’acqua, degli uccelli dell’aria, degli alberi della terra… E poi fanno divulgare tra i poveri il comandamento di Dio: «Non rubare». Ma questo non vale per loro. Riducono in miseria tutti gli uomini, pelano e scorticano contadini e artigiani e ogni essere vivente”. Così Müntzer esprime in modo estremista la diffidenza verso chi esercita il potere politico, tipica del pensiero politico borghese. Questo troverà una formulazione altrettanto estremista nel progetto di Costituzione giacobina (poi non approvato). Tuttavia anche il testo approvato dalla Convenzione con l’atto costituzionale del 24/06/1793 (notoriamente la Costituzione “dell’anno I” non è mai andato in vigore a causa dello stato di guerra) è pieno di affermazioni riconducibili, in diversa misura, a una concezione “estremista” delle funzioni del popolo in una democrazia. Ad esempio l’art. 26 (volontà del popolo riunito); l’art. 27 (pena di morte per gli individui usurpatori); art. 31 (delitti dei “governanti”); artt. 33-34 (diritto di resistenza); art. 35 (diritto d’insurrezione del popolo).

15 v. voce Integrazione in Costituzione e diritto Costituzionale, Milano 1988, p. 285; in effetti continua ricordando, ciò che è concezione ricorrente nella distinzione tra tipi di istituzioni: mentre molte “dispongono tuttavia di garanzie di stabilità del tutto differenti da quelle statali. Quelle comunità e associazioni vengono garantite dalla dissoluzione interna per lo più mediante poteri esterni” lo Stato, sovrano, per definizione non vi può ricorrere (altrimenti non è sovrano, ma tutt’al più un protettorato) “esso riposa in ultima istanza non sul suo diritto o sul suo potere di fatto, ma sulla sempre nuova e volontaria adesione dei suoi appartenenti; e cade nella più profonda crisi di realtà se questi cessano di sorreggerlo” (il corsivo è mio) op. cit., p. 286.

16 Intendendo costo come comprendente tutti i vari costi: politico, sociale, economico, presente, futuro.

17 Ci si riferisce alla terminologia di Christopher Lasch nel suo ben noto saggio “La ribellione delle masse”; trad. it. II ed. Milano 2009.