Doktor Faustus ci ha scritto una lettera, di Giuseppe Masala
Doktor Faustus ci ha scritto una lettera.
Mi pare che il periodo chiave della lettera di Mario Draghi pubblicata ieri dal Financial Times sia il seguente: <<La sfida che affrontiamo è quella sul come agire con sufficiente forza e velocità per evitare che la recessione si trasformi in una depressione prolungata, resa più profonda da una pletora di fallimenti aziendali che lascierebbero danni irreversibili. È evidente che la risposta deve comportare un aumento significativo del debito pubblico. La perdita di reddito sostenuta dal settore privato deve alla fine essere assorbita, in tutto o in parte, dai bilanci pubblici. Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato>>.
Dunque Draghi propone la trasformazione il Debito Privato in Debito Pubblico al fine di evitare fallimenti aziendali privati (di banche e di grandi imprese) che creerebbero danni permanenti al sistema economico minacciando (questo è chiaro ma sott’inteso) i livelli occupazionali. Dice anche che il Debito Pubblico non è il male come lui stesso ha sempre detto in questi trenta anni. Una notevole svolta culturale. Ma una notevole svolta culturale fatta quando serve a lui, agli interessi suoi e dei suoi dante causa. Troppo comodo svoltare quando conviene dopo che per trenta anni – con il ditino alzato – ci è stato spiegato che vivevamo sopra le nostre possibilità: troppe pensioni, troppi dipendenti pubblici, troppe scuole, financo troppi ospedali. E ora ci dice che il Debito Pubblico può raddoppiare? E per di più – non troppo casualmente – quando serve per salvare banche, grandi aziende e finanziarie di ogni tipo e natura?
Peraltro Draghi si guarda bene dal fare un discorso di natura qualitativa sulla spesa pubblica che dovrebbe alimentare l’aumento del Debito Pubblico aggiuntivo che ora (ora!) pretenderebbe.
Il tranello del diavolo si nasconde nei particolari, e soprattutto in quello che non dice.
Ora, siccome solo un pazzo da manicomio, potrebbe continuare a sostenere la maggior efficienza del settore privato su quello pubblico (siamo alla terza crisi di enorme portata in 12 anni; 2008, 2012 e ora 2020) è ora di dire che se si fa spesa pubblica non deve essere solo per sussidiare il settore privato (e soprattutto del grande privato) ma deve ritornare lo Stato Imprenditore. Bisogna rifare esattamente ciò che Draghi e Prodi distrussero negli anni novanta. Bisogna rifare l’IRI, EFIM (per le piccole e medie imprese), bisogna rinazionalizzare le banche ma non per riprivatizzarle e ridarle in pasto agli squali di borsa (magari in cambio del solito piatto di lenticchie allo Stato, ovvero a noi) appena torna qualche sprazzo di sereno, ma per rimanerci: come fece Beneduce negli anni ’30. Punto. Non mi basta neanche la difesa dei livelli occupazionali (e magari degli stipendi da fame di oggi). Occorre un piano di assunzioni nel pubblico e nelle aziende rinazionalizzate a colpi di 200mila persone all’anno per almeno cinque anni esattamente come fece Tina Anselmi nel 1977. Sbancare le casse dello stato per salvare gli amici dopo che per trenta anni sono stati negati salario decente e anche un posto all’ospedale non mi pare una proposta accettabile.
Dunque, il Professor Draghi oltre ad un discorso quantitativo faccia anche un discorso qualitativo sulla spesa pubblica che andrà finanziata a debito pubblico per salvare il sistema produttivo. Se no il discorso oltre che tardivo, privo di quella necessaria autocritica è anche in assoluta malafede.
il testo integrale: La pandemia del coronavirus è una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche. Oggi molti temono per la loro vita o piangono i loro cari scomparsi. Le misure varate dai governi per impedire il collasso delle strutture sanitarie sono state coraggiose e necessarie, e meritano tutto il nostro sostegno.
Ma queste azioni sono accompagnate da un costo economico elevatissimo – e inevitabile. E se molti temono la perdita della vita, molti di più dovranno affrontare la perdita dei mezzi di sostentamento. L’economia lancia segnali preoccupanti giorno dopo giorno. Le aziende di ogni settore devono far fronte alla perdita di introiti, e molte di esse stanno già riducendo la loro operatività e licenziando i lavoratori. Appare scontato che ci troviamo all’inizio di una profonda recessione.
La sfida che ci si pone davanti è come intervenire con la necessaria forza e rapidità per impedire che la recessione si trasformi in una depressione duratura, resa ancor più grave da un’infinità di fallimenti che causeranno danni irreversibili. È ormai chiaro che la nostra reazione dovrà far leva su un aumento significativo del debito pubblico. La perdita di reddito a cui va incontro il settore privato – e l’indebitamento necessario per colmare il divario – dovrà prima o poi essere assorbita, interamente o in parte, dal bilancio dello stato. Livelli molto più alti di debito pubblico diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e dovranno essere accompagnati dalla cancellazione del debito privato.
Il giusto ruolo dello stato sta nel mettere in campo il suo bilancio per proteggere i cittadini e l’economia contro scossoni di cui il settore privato non ha alcuna colpa, e che non è in grado di assorbire. Tutti gli stati hanno fatto ricorso a questa strategia nell’affrontare le emergenze nazionali. Le guerre – il precedente più significativo della crisi in atto – si finanziavano attingendo al debito pubblico. Durante la prima guerra mondiale, in Italia e in Germania soltanto una quota fra il 6 e il 15 per cento delle spese militari in termini reali fu finanziata dalle tasse, mentre nell’Impero austro-ungarico, in Russia e in Francia, i costi correnti del conflitto non furono finanziati dalle entrate fiscali. Ma inevitabilmente, in tutti i paesi, la base fiscale venne drammaticamente indebolita dai danni provocati dalla guerra e dall’arruolamento. Oggi, ciò è causato dalle sofferenze umane per la pandemia e dalla chiusura forzosa delle attività economiche.
La questione chiave non è se, bensì come lo stato debba utilizzare al meglio il suo bilancio. La priorità non è solo fornire un reddito di base a tutti coloro che hanno perso il lavoro, ma innanzitutto tutelare i lavoratori dalla perdita del lavoro. Se non agiremo in questo senso, usciremo da questa crisi con tassi e capacità di occupazione ridotti, mentre famiglie e aziende a fatica riusciranno a rimettere in sesto i loro bilanci e a ricostruire il loro attivo netto.
Il sostegno all’occupazione e alla disoccupazione e il posticipo delle imposte rappresentano passi importanti che sono già stati introdotti da molti governi. Ma per proteggere l’occupazione e la capacità produttiva in un periodo di grave perdita di reddito è indispensabile introdurre un sostegno immediato alla liquidità. Questo è essenziale per consentire a tutte le aziende di coprire i loro costi operativi durante la crisi, che si tratti di multinazionali o, a maggior ragione, di piccole e medie imprese, oppure di imprenditori autonomi. Molti governi hanno già introdotto misure idonee a incanalare la liquidità verso le aziende in difficoltà. Tuttavia, si rende necessario un approccio su scala assai più vasta.
Pur disponendo i diversi paesi europei di strutture industriali e finanziarie proprie, l’unica strada efficace per raggiungere ogni piega dell’economia è quella di mobilitare in ogni modo l’intero sistema finanziario: il mercato obbligazionario, soprattutto per le grandi multinazionali, e per tutti gli altri le reti bancarie, e in alcuni paesi anche il sistema postale. Ma questo intervento va fatto immediatamente, evitando le lungaggini burocratiche. Le banche, in particolare, raggiungono ogni angolo del sistema economico e sono in grado di creare liquidità all’istante, concedendo scoperti oppure agevolando le aperture di credito.
Le banche devono prestare rapidamente a costo zero alle aziende favorevoli a salvaguardare i posti di lavoro. E poiché in questo modo esse si trasformano in vettori degli interventi pubblici, il capitale necessario per portare a termine il loro compito sarà fornito dal governo, sottoforma di garanzie di stato su prestiti e scoperti aggiuntivi. Regolamenti e normative collaterali non dovranno ostacolare in nessun modo la creazione delle opportunità necessarie a questo scopo nei bilanci bancari. Inoltre, il costo di queste garanzie non dovrà essere calcolato sul rischio creditizio dell’azienda che le riceve, ma dovrà essere pari a zero, a prescindere dal costo del finanziamento del governo che le emette.
Le aziende, dal canto loro, non preleveranno questa liquidità di sostegno semplicemente perché i prestiti sono a buon mercato. In alcuni casi – pensiamo alle aziende con ordini inevasi – le perdite potrebbero essere recuperabili e a quel punto le aziende saranno in grado di ripianare i debiti. In altri settori, questo probabilmente non sarà possibile.
Tali aziende forse saranno in grado di assorbire la crisi per un breve periodo di tempo e indebitarsi ulteriormente per mantenere salvi i posti di lavoro. Tuttavia, le perdite accumulate potrebbero mettere a repentaglio la loro capacità di successivi investimenti. E se la pandemia e la chiusura delle attività economiche dovessero protrarsi, queste aziende resterebbero attive, realisticamente, solo se i debiti contratti per mantenere i livelli occupazionali durante quel periodo verranno alla fine cancellati.
O i governi risarciranno i debitori per le spese sostenute, oppure questi debitori falliranno, e la garanzia verrà onorata dal governo. Se si riuscirà a contenere il rischio morale, la prima soluzione è quella migliore per l’economia. La seconda appare meno onerosa per i conti dello stato. In entrambi i casi, tuttavia, il governo sarà costretto ad assorbire una larga quota della perdita di reddito causato dalla chiusura delle attività economiche, se si vorrà proteggere occupazione e capacità produttiva.
I livelli di debito pubblico dovranno essere incrementati. Ma l’alternativa – la distruzione permanente della capacità produttiva, e pertanto della base fiscale – sarebbe molto più dannosa per l’economia e, in ultima analisi, per la fiducia nel governo. Dobbiamo inoltre ricordare che in base ai tassi di interesse presenti e probabilmente futuri, l’aumento previsto del debito pubblico non andrà a sommarsi ai suoi costi di gestione.
Per alcuni aspetti, l’Europa è ben attrezzata per affrontare questo shock fuori del comune, in quanto dispone di una struttura finanziaria capillare, capace di convogliare finanziamenti verso ogni angolo dell’economia, a seconda delle necessità. L’Europa dispone inoltre di un forte settore pubblico, in grado di coordinare una rapida risposta a livello normativo e la rapidità sarà assolutamente cruciale per garantire l’efficacia delle sue azioni.
Davanti a circostanze imprevedibili, per affrontare questa crisi occorre un cambio di mentalità, come accade in tempo di guerra. Gli sconvolgimenti che stiamo affrontando non sono ciclici. La perdita di reddito non è colpa di coloro che ne sono vittima. E il costo dell’esitazione potrebbe essere fatale. Il ricordo delle sofferenze degli europei negli anni Venti ci sia di avvertimento.
La velocità del tracollo dei bilanci delle aziende private – provocate da una chiusura economica al contempo doverosa e inevitabile – dovrà essere contrastata con pari celerità dal dispiegamento degli interventi del governo, dalla mobilitazione delle banche e, in quanto europei, dal sostegno reciproco per quella che è innegabilmente una causa comune.