Ripensare la politica ripensando la guerra – 1, di Piero Visani

Ripensare la politica ripensando la guerra – 1

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       Mettendo ordine nel mio archivio, oggi mi è balzata davanti agli occhi questa comunicazione, da me redatta in occasione del “Convegno Internazionale sugli Studi Strategici” organizzato a Torino dal 9 al 12 dicembre 1982, al quale partecipai come membro del Centro Studi Manlio Brosio e assistente personale dell’ambasciatore Edgardo Sogno. Il testo di questa comunicazione avrebbe dovuto essere da me letto nel corso del convegno, ma incontrò qualche problema e… saltò. Certo, ero il più giovane e il meno titolato dei partecipanti al Convegno, e c’erano moltissimi partecipanti di assoluto rilievo internazionale, ma il sospetto di una piccola “censura” mi è sempre rimasto e, conoscendo i liberali, poi mi è aumentato…
       Lo riproduco qui in due parti, come omaggio postumo, principalmente a me stesso.
 
       Mai come oggi, il concetto di “guerra” è sottoposto a indagine e, nel contempo, a revisione, alla luce delle realtà emergenti nel contesto internazionale. Fioriscono i dibattiti, i convegni sull’argomento e, ancor più, sullo scottante problema dei rapporti tra guerra e politica. A questo proposito, chiave di volta del pensiero polemologico moderno è sempre stata l’ormai celeberrima proposizione clausewitziana: “la guerra non è dunque solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi” (1). Da ciò il conseguente accento posto sulla subordinazione della guerra nei confronti della politica.
       Tuttavia, in questo come in altri campi, occorre tenersi lontani dal rischio di un’impostazione eccessivamente meccanicistica, ciò che forse non sempre è stato fatto. In effetti, se così fosse stato, la subordinazione della guerra alla politica sarebbe stata sì riaffermata, ma si sarebbero valutati con ben maggiore attenzione gli elementi di conflittualità presenti all’interno del concetto di “politica”. Come ha scritto il professor Gianfranco Miglio, quello tra politica e conflittualità è un nesso inscindibile, dato che “dovunque esiste politica, esiste anche conflittualità” (2). Il merito di aver stabilito questo nesso deve essere indubbiamente attribuito al grande politologo tedesco Carl Schmitt, per il quale alla base del “politico” (un concetto assai più complesso e sfumato della semplice “politica”) stava una distinzione eminentemente conflittuale, quella tra amico e nemico. . “La guerra” – sono parole di Schmitt – “non è dunque scopo o meta o anche solo contenuto della politica, ma ne è il presupposto sempre presente come possibilità reale, che determina in modo particolare il pensiero e l’azione dell’uomo provocando così uno specifico comportamento politico” (3).
       A sua volta, Schmitt fece notare come, per Clausewitz, la guerra non fosse semplicemente uno dei molti strumenti della politica, “ma la ultima ratio del raggruppamento amico-nemico. La guerra ha una ‘grammatica’ sua propria (cioè un insieme esclusivo di leggi tecnico-militari) ma il suo ‘cervello’ continua ad essere la politica: essa cioè non è dotata di una ‘logica propria’” (4), la quale, al contrario, può essere desunta soltanto dai concetti di amico e nemico.
       Se Schmitt definì a livello teorico gli elementi di conflittualità presenti nel concetto di “politica”, Lenin li definì qualche tempo prima sul piano pratico, dando alla sua concezione di politica delle valenze di aggressività e ostilità tali da poter farla considerare quasi un’inversione della famosa formula clausewitziana, cioè come una continuazione della guerra con altri mezzi, condotta senza scrupolo alcuno contro un nemico con più identificato come relativo (com’era tipico dei conflitti interstatali), ma come assoluto. In realtà, più che di invertire la celebre formula clausewitziana, si trattava – per Lenin – di esprimere, “con altri mezzi”, l’originario rapporto amico-nemico, insistendo in maniera inusitata e senza precedenti sul carattere assoluto dell’ostilità e ribadendo, sia pure per vie diverse, il primato della politica.
       Quella fin qui delineata è la griglia interpretativa ideale per comprendere gli eventi degli ultimi due secoli e, in particolare, i due conflitti mondiali e la stessa “guerra rivoluzionaria” che si è affermata già in epoca atomica (5). Tuttavia – ci si è giustamente chiesti (6) – nell’era atomica è davvero ancora possibile una guerra e, dunque, una politica? In tale contesto, infatti, la guerra non può più valere come prosecuzione della politica con altri mezzi, ma come rottura irreversibile, come punto di non ritorno, oltre il quale i conflitti perdono ogni produttività politica, ogni capacità di rideterminare, in forme nuove, gli assetti politici esistenti. Malgrado la nascita di nuove forme di guerra accanto a quelle classiche (“guerra rivoluzionaria”, “guerra culturale”, etc.) e malgrado le prospettive aperte dalla fine del “Medioevo nucleare” e dall’avvento di ordigni atomici sempre più “puliti” e miniaturizzati, la minaccia atomica viene perciò a ribaltare i termini del tradizionale rapporto tra politica e guerra, inserendo fra essi una frattura che impedisce la reversibilità e la traducibilità dell’uno nell’altro: dopo la guerra nucleare, non ci sarà più posto alcuno per la politica.
       Questa tesi è stata di recente avanzata da studiosi di area prevalentemente marxista e li ha indotti, proprio per la sua tragica impraticabilità, a porsi il problema di iniziare un lavoro di aggiornamento e revisione sul piano delle categorie interpretative del rapporto tra politica e guerra. Nella fattispecie, costoro hanno acquisito la consapevolezza che esiste una stretta relazione tra un dato tipo di politica e un dato tipo di guerra, e si sono sforzati di stabilire se, e con quali mezzi, sia possibile produrre un reale cambiamento di forma nella struttura del sistema politico, senza innescare da un lato un conflitto condotto contro un nemico assoluto (qualcosa di simile a una “guerra civile”) e, dall’altro, senza cadere nella riduzione del conflitto stesso a gioco, la cui “logica ludica” (con l’accettazione del nemico come nemico relativo) comporta – a loro dire – l’eliminazione della base stessa del conflitto.
Costretti dall’evoluzione del loro pensiero a rifiutare l’identificazione – cara a Lenin – di un nemico assoluto e decisi, nel contempo, a non accettare quella – ritenuta priva di qualsiasi valore politico – di un nemico relativo, ecco questi studiosi ricorrere una volta di più a Schmitt e andare alla ricerca di un nemico reale, l’ostilità nei confronti del quale si ponga a cavallo tra quella prevista nei due casi in precedenza citati, assumendo un valore per così dire intermedio. Tra la falsa conflittualità di una politica condotta come “gioco”, dove tutti i partecipanti accettano le regole dello stesso e sono impossibili mutamenti sostanziali, ma solo simboliche alternanze  tra gruppi formalmente avversi ma in realtà omologhi e ben decisi a conservare al loro interno le chiavi del potere, senza lasciar entrare in campo nuovi “giocatori”, se non preventivamente disposti ad un’accettazione totale e incondizionata delle rules of play; e la conflittualità spinta all’estremo di una lotta politica in cui l’avversario sia individuato unicamente come nemico assoluto e sia dunque oggetto di un’ostilità altrettanto assoluta, con tutte le conseguenze del caso, esiste – a detta di questi studiosi – una fascia mediana in cui l’avversario non è né uno pseudo-avversario di comodo, da combattere per finta, né un “altro da sé”, incarnazione del Male assoluto, da annientare affinché il Bene trionfi, bensì un nemico reale, contro il quale è possibile combattere in forme accettabili al fine di determinare un effettivo cambiamento sul piano politico, senza eccessi estremistici né contrasti formali e fittizi.
E’ innegabile che ci troviamo di fronte a sviluppi teorici di notevole portata, in particolare per l’accento posto sulla natura eminentemente conflittuale della politica in termini estranei al pensiero marxista tradizionale. Dobbiamo allora chiederci in quale misura essi possano essere accettati e in quale misura, invece, respinti.

(Continua)

                             Piero Visani


Note


(1), Von Clausewitz, Carl, Della guerra, trad. it., Mondadori, Milano 1970, vol. I, p. 38.

(2) Miglio, Gianfranco, Guerra, pace, diritto, in AA.VV., Della guerra, Arsenale Cooperativa Editrice, Venezia 1982, p. 38.

(3) Schmitt, Carl, Le categorie del ‘politico’, trad. it., Il Mulino, Bologna 1972, p. 117.

(4) Ivi, p. 117, nota 24.

(5) Cfr. Schmitt, Carl, Teoria del partigiano, trad. it., Il Saggiatore, Milano 1981, pp. 71-73.

(6) Cfr. Curi, Umberto, Introduzione, in AA.VV., Della guerra, cit., p. 11.