ASTRI NASCENTI, STELLE CADENTI, MINE VAGANTI, DI GIUSEPPE GERMINARIO (3° PARTE) – tratto dal sito conflittiestrategie.it

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Così, il 27 novembre scorso, al convitato di lusso è stata sottratta la sedia e revocato l’invito ai banchetti ufficiali; gli sono rimaste ancora le colazioni riservate di lavoro e le cene tra adepti. Le autorevoli rassicurazioni riguardo ad una sua “caduta in piedi” sono state evidentemente improvvide se non ingannevoli. “Cadere in piedi” in effetti mi pare una dinamica il cui esito improbabile avrebbe dovuto, quantomeno, far insospettire il Cavaliere circa le effettive probabilità di realizzazione. Si tratta di una prodezza balistica alquanto inverosimile, dai connotati prodigiosi propri di una liturgia pasquale o delle ambasce pagane di un messaggero olimpico, di Mercurio nella fattispecie, piuttosto che della precarietà di un normale essere umano. Il disposto combinato di vanagloria e pusillanimità del nostro e di perfida rassicurazione liquidatoria dell’altro hanno alimentato per breve tempo l’illusione che le peggiori dinamiche distruttive nel nostro paese fossero almeno governate e dirette dai nostri controllori d’oltreoceano almeno quanto quelle costruttive, pur entrambe deleterie per gli interessi del nostro paese. Venti anni di berlusconismo ed antiberlusconismo, evidentemente, non possono essere rimossi più che risolti se non con il progressivo sacrificio, per il momento ancora prevalentemente simbolico, del protagonista, non ostante i presumibili auspici contrari dei nostri protettori.

Una sconfitta ed una rimozione, tra l’altro, tutt’altro che scontate nel loro esito finale; il dualismo, al contrario, potrebbe riproporsi sotto altre spoglie.

LE OPZIONI DISPONIBILI

L’eclisse parziale della stella Berlusconi ha intanto concesso ulteriore risalto al fulgore dell’astro nascente, Renzi, la settimana successiva; due eventi che hanno il merito di far uscire allo scoperto le opzioni politiche, chiamarle strategie sarebbe al momento troppo, latenti da tempo negli schieramenti politici.

La prima, marcatamente bipolare, è sostenuta dal neosegretario del PD, ma ha bisogno di un alter ego minimamente credibile nell’altro versante per rendere presentabile la tenzone politica; la seconda, rievocativa della prima repubblica, punta alla costruzione di una coalizione con una forza politica egemone e altre forze minori da supporto. Il nucleo più importante a sostegno di questa opzione risiede ancora, anche se fortemente ridimensionato, nella minoranza del PD ma dispone di solidissimi appoggi nella compagine di governo, in quella parlamentare e nella struttura stessa del partito. Per la natura stessa della proposta, induce però ad alimentare le ambizioni egemoniche o contrattualistiche delle diverse componenti politiche aprendo quest’ultima a diverse subordinate e ad una situazione ancora più conflittuale e frammentata. Il perseguimento di questa opzione da parte dei vari portatori ha portato ad esiti disastrosi.

IL RITORNO DEL VECCHIO

Il PD di Bersani ha celato nello stallo elettorale la perdita di milioni voti, ma ha rivelato solarmente la totale incapacità di una proposta politica minima che non fosse il mero affidamento del futuro del paese al buon cuore dei tutori europei e americani; Scelta Civica di Monti, non ostante la maieutica della CEI (Consiglio Episcopale) coltivata con i due seminari di Todi ( http://www.conflittiestrategie.it/le-apparenze-ingannano-di-giuseppe-germinario), si è rivelata una maschera di cera in grado di ingannare pochi elettori del PDL di Berlusconi e destinata a liquefarsi al primo calore del contenzioso politico; epilogo compiutosi inesorabilmente infatti in pochi mesi.

La reiterazione degli antichi fasti democristiani, oggi come allora, avrebbe avuto bisogno di un fulcro abbastanza solido su cui appoggiarsi e del sostegno esplicito e generoso del protettore americano; due fattori pressoché assenti nell’attuale scenario geopolitico.

Il fulcro, allora, era costituito dalle Partecipazioni Statali e da centri di potere e amministrativi superstiti del fascismo ancora solidi attorno ai quali è stato possibile costruire uno sviluppo industriale complementare ma efficace e, attraverso la collaborazione di organizzazioni di massa collaterali, un blocco sociale sufficientemente coeso grazie al collante ideologico, alla redistribuzione delle risorse, alla gestione meno traumatica ma spesso parassitaria delle ristrutturazioni economiche; il sostegno esterno era relativamente generoso per la necessità di controllare i conflitti sociali, di tenere unito il blocco antisovietico e di scoraggiare eventuali ambizioni autonomistiche degli alleati europei, della Germania e soprattutto della Francia in particolare.

Tutti questi fattori stanno progressivamente  e drammaticamente venendo meno ormai da tempo. Le Partecipazioni Statali sono state ridimensionate e, soprattutto, stanno perdendo ogni funzione di indirizzo e di equilibrio della struttura produttiva del paese. Con tutti gli orpelli parassitari ed assistenzialistici dei quali furono progressivamente gravate, riuscirono comunque, allora, a salvaguardare l’industria di base, a mantenere alcuni settori di punta e, cosa oggi del tutto rimossa dalla memoria, a garantire nel settore dell’agricoltura, della distribuzione commerciale e dell’intermediazione bancaria attività meno condizionate da rapporti di servaggio e suscettibili di sviluppo più equilibrato. Riguardo a quest’ultimo aspetto basterebbe ricordare il ruolo regolatore dell’industria pubblica di trasformazione nell’acquisto dei prodotti agricoli, della funzione della rete pubblica di distribuzione nel garantire gli sbocchi commerciali alle attività industriali e agricole di piccole e medie dimensioni; e invece, proprio la sopravvalutazione unilaterale del “piccolo è bello” proclamata dalla DC ai quattro venti dalla fine degli anni ’70 offrì il cappello ideologico non solo della svendita della grande industria pubblica avviata negli anni ’80, ma anche pose le premesse della crisi della stessa piccola e media industria e azienda agricola iniziata a fine millennio. Al crollo di quel pilastro si cercò di sopperire con l’istituzione di consorzi e distretti, ma con relativo e temporaneo successo; l’assenza di ampie piattaforme industriali e finanziarie hanno impedito il consolidamento dei successi iniziali e favorito l’attuale declino grazie soprattutto all’avventurismo delle modalità di ingresso nel sistema di moneta unica e di relazioni comunitarie.

Oggi, ma ormai da tempo, nessuno di quei fattori è in grado di supportare efficacemente questa opzione politica.

Le Partecipazioni Statali hanno perso gran parte del controllo del sistema finanziario, hanno liquidato interi settori complementari necessari a sostenere l’attività di gran parte del tessuto economico intermedio, hanno mantenuto solo una parte dei settori industriali strategici, in questo condizionati pesantemente da partecipazioni estere affatto paritetiche tese soprattutto a spremere il più possibile rendimenti immediati e ad asservire le attività nei circuiti geoeconomici dominanti nell’area.

La mancanza di direzione politica autorevole e minimamente autonoma del paese sta di fatto spingendo i settori pubblici strategici superstiti su due strade parallele; quelli legati alla ricerca scientifica, specie quella militare ed energetica, e all’energia indirizzate verso una direzione sempre più autonoma da quella del paese, sempre più integrata di fatto e subordinata, spesso ormai anche nominalmente, ai circuiti strategici soprattutto americani e sempre più estromessa da collaborazioni con paesi potenzialmente alternativi al blocco occidentale; quella legata alle grandi infrastrutture del paese (cantieristica, grandi mezzi di trasporto civili, energie alternative in minor misura, ect) destinate ad un maggior controllo, ma comunque a collaborazioni facilmente commutabili in annessioni. Si tratta, è bene precisarlo, di dinamiche in corso in tutti i paesi europei, compresa la stessa Francia, il paese dalla tradizione sovranista più marcata; la qualità del dibattito e della resistenza in atto è comunque differente, a detrimento del ceto politico italiota. Come al solito, le scelte peggiori sono accompagnate e sostenute dai più nobili propositi; nella fattispecie hanno dato il loro indispensabile contributo il pacifismo ipocrita a senso unico e l’ecologismo casereccio nel giustificare questi indirizzi.

La stessa grande industria privata, in gran parte operante in settori complementari e di base, rimpolpata in parte dalle privatizzazioni a buon mercato degli anni ’90, sta subendo un drastico ridimensionamento in parte assorbita e gravitante all’estero, in parte indebolita, attratta dalla prospettiva di facili rendite, dalle avventure nella gestione fallimentare delle reti strategiche nazionali privatizzate (Pirelli nella Telecom tra i tanti esempi illuminanti).

La Pubblica Amministrazione, d’altro canto, ha subito un processo di frammentazione e sovrapposizione di poteri, grazie alla pressione concomitante delle politiche regionaliste europee e del quadro politico nazionale del quale ho parlato in alcuni precedenti articoli.

Di fronte a tale sfacelo, agli epigoni della Prima Repubblica non è riuscito, semmai ci avessero provato, il tentativo di superare la sindrome degli orfanelli, anzi dei trovatelli. Nelle loro mani è rimasto ben poco oltre al connubio con alcuni centri finanziari e al controllo di associazioni, per altro in evidente crisi di rappresentanza, dediti a meri compiti di redistribuzione e contrattazione della condizione professionale o impegnati nel cosiddetto terzo settore. È il motivo di fondo per cui ogni tentativo di ricostruzione di questo schieramento si è risolto in una sommatoria di forze residuali oppure in strutture di partito più complesse ma sostanzialmente immobili e passive. Una dinamica che ha portato  questi gruppi a consegnarsi sempre più mani e piedi alle direttive di centri esteri proprio quando il contesto internazionale consentiva una ridefinizione delle gerarchie intermedie nel blocco euroatlantico a cominciare dal ruolo di potenza regionale della Germania e dal riallineamento nella NATO della Francia a scapito della posizione di rendita dell’Italia.

Il continuo scacco di questa riproposizione di schieramento non sembra scoraggiare per altro nuovi tentativi, questa volta più discreti e sottotraccia. Alla scissione con rammarico di Alfano e alla frammentazione di Scelta Civica corrispondono i movimenti più discreti di Corrado Passera, impegnato a costruire una rete di relazioni tra fondazioni e associazioni da mettere a profitto in caso di implosione del centrodestra.

Già la statura di un tale personaggio che cerca di costruire la propria immagine di successo con le ceneri cosparse sul capo del proprio padre putativo, Carlo Debenedetti, attribuendogli l’esclusiva di quegli stessi insuccessi, l’Olivetti, del quale è stato lui stesso pieno corresponsabile, lascia presagire la caratteristica saliente di questo eventuale schieramento, sia nella versione sinistra-centro, che in quella di centrosinistra che di centrodestra: più che l’interclassismo del dopoguerra, la sommatoria di gruppi impegnati ad accapigliarsi sulle spoglie residue in un campo di azione regolato da altri. La recente sentenza della Corte Costituzionale sul sistema elettorale vigente lascia intravedere in parte anche quali centri istituzionali hanno interesse a consolidare le proprie prerogative e il proprio potere di intervento alimentando questa situazione di conflittualità sterile e crepuscolare.

La caratura e la storia di tutti i fautori di questo progetto, nelle sue varie componenti e ambizioni egemoniche, non fanno che confermare la mancanza di quei tasselli fondamentali che hanno reso possibile il successo democristiano; una sua affermazione non farebbe che sancire la prevalenza di quelle forze e di quei centri istituzionali i quali traggono alimento da una situazione paludosa e in disfacimento che consenta di protrarre condizioni di privilegio e di potere. Mi pare, comunque, un progetto senza speranza, una riedizione di cose già viste, a partire dalla vicenda di Fini, ma con la possibilità di un biglietto di ritorno alla casa madre di almeno una parte dei protagonisti.

Continua ad impressionare, per altro, la debolezza, a cominciare dalla Chiesa Cattolica, dei poteri nazionali “profondi” che orientano le dinamiche politiche; un ulteriore segno del paradosso che sta condannando l’Italia: un paese d’importanza strategica ma con classi dirigenti prive di autorevolezza e luce propria.

LE NOVITA’

A quella ecumenica si oppone l’opzione bipolare, impersonata da Renzi e dal Cavaliere.

Un sistema, quest’ultimo, certamente meno dispendioso economicamente ed organizzativamente e meno bisognoso di raccogliere larghi consensi elettorali; meglio predisposto a seguire con qualche efficacia almeno una parvenza di indirizzo politico dichiarato. In grado, quindi, di offrire all’inquietudine della plebe il capro espiatorio dei costi della politica, qualche vittima annessa, qualche riforma istituzionale; di riorganizzare e snellire in qualche maniera le strutture pachidermiche che stanno letteralmente soffocando il paese.

Dell’attuale segretario del PD ho già parlato nella prima parte di questa trilogia; più che di una rottura politica, si tratta di un processo di cooptazione selettiva delle vecchie strutture. Un processo di ammodernamento che potrà giocare sull’ambiguità di alcune parole d’ordine per raccogliere nuovi sorprendenti alleati ed interlocutori di cui la sinistra è fonte inesauribile. La recente spinta all’introduzione del contratto di lavoro unico, della semplificazione delle normative del codice del lavoro, della ridefinizione e formalizzazione del ruolo del sindacato, tra le troppe cose dette da Renzi, sono problemi sentiti e reali ma posti in funzione di un’ulteriore apertura indiscriminata e subordinata della struttura economica del paese alle influenze non genericamente straniere, ma euroatlantiche; in nome della separazione delle competenze assistenziali e di servizio del sindacato da quelle di rappresentanza, ha trovato una sponda in apparenza sorprendente in quella parte del sindacalismo radicale, rappresentato dalla FIOM di Landini, il quale in nome di una rivendicazione degli interessi della massa, assieme al ridimensionamento politico dell’apparato assistenziale, sta distruggendo ulteriormente il legame professionale costituente il sindacato confederale e di categoria. Le sue ultime proposte di reddito minimo garantito e di istituzione di un unico contratto collettivo per l’industria sono, a questo proposito, il perfetto contraltare all’opzione di abolizione del contratto di lavoro collettivo. Il risultato dei due approcci è identico: entrambe spingeranno a scindere il problema del reddito da quello dello sviluppo economico e delle attività industriali e inaridiranno ulteriormente il residuo patrimonio sindacale legato alla capacità di contrattare gli inquadramenti ed i riconoscimenti professionali e la condizione lavorativa legata all’organizzazione del lavoro. Basterebbe osservare con qualche attenzione l’effettiva composizione delle manifestazioni di queste componenti “radicali” per scorgere il cambiamento di natura dell’attività e la subordinazione politica perfettamente complementare a quella immobilista ancora maggioritaria.

Il prosieguo delle prossime settimane ci rivelerà la natura di queste sortite renziane; ballon d’essai o semplici slogan.

Renzi, però, soffre di un handicap pesante: il fattore tempo. Più passa, più l’equivoco di mantenere la propria forza sul consenso determinante delle vittime predestinate delle sue politiche rischia di smascherarsi; più si allontana la possibilità, già di per sé remota, di conquistare parti consistenti dell’elettorato liberale o riformatore di centrodestra per ora aggiuntive, in futuro sostitutive di buona parte del tradizionale elettorato piddino.

LA RIESUMAZIONE

Berlusconi soffre dello stesso handicap, ma in senso contrario; ha bisogno di tempo. La riesumazione di Forza Italia ha una consistenza molto più reale di quanto sembrano concedere i suoi detrattori abituali e atavicamente perdenti destinata a sopravvivere in qualche maniera al Cavaliere; poggia su uno zoccolo duro formatosi nell’elettorato censitario agli albori dell’unità d’Italia e nel periodo giolittiano e, dopo il sussulto identitario cristallizzatosi per pochi mesi nell’Uomo Qualunque di Giannini degli anni ’50, raccolto nel secondo dopoguerra in una sorta di letargo vigile e inquieto nel ventre democristiano sino agli anni ’80. Una componente importante anti-antifascita e/o a-fascista sempre più diffidente e insofferente verso il sodalizio sempre più stretto tra l’antifascismo del PCI e l’antifascismo azionista e popolare, con progressiva prevalenza di quest’ultimo, consolidatosi definitivamente con il compromesso storico.

Ci provò già Craxi a ridare autonomia ad una parte di quello zoccolo cercando di affiancarla alla componente socialista “libertaria” e manageriale, ma con scarso successo. Ci riuscì Berlusconi, sconvolgendo i piani post-Tangentopoli i cui strateghi pregustavano anzitempo la cavalcata trionfale della “gioiosa macchina da guerra”; successivamente il Cavaliere, ad inizio millennio, riuscì ad innestare, con il PDL, anche buona parte del gruppo dirigente democristiano intermedio restio, dal loro punto di vista, alla riedizione del “compromesso storico”. Col senno di poi, fu l’indizio che la resistenza sorda alla politica del PCI avviata alla fine degli anni ’70 era molto più consistente di quella che appariva sul palcoscenico politico e portò ad una gestione cinica di avvenimenti drammatici come il sequestro Moro e ad una freddezza sorda ma pressoché irrilevante per la difesa degli interessi strategici del paese dispiegati dagli anni ’80, verso le privatizzazioni, l’ingresso nello SME e i conflitti latenti in politica estera, specie sugli scacchieri mediorientale e balcanico.

L’attuale riesumazione di Forza Italia punta alla salvaguardia del consenso di quello zoccolo duro senza una parte della componente libertaria, l’esodo di una quota importante della componente democristiana ciellina e il mantenimento di gran parte di quella legata ad una visione comunitarista/gestionale (Gelmini, ect) e contendendosi con Renzi la componente liberale, in una fase però nella quale il liberal/liberismo può essere il veicolo dell’annichilimento definitivo del paese senza quelle prospettive ingannevoli che ha saputo prospettare negli anni ’90. L’obbiettivo di questa riproposizione è ricondurre forze potenzialmente alternative, sensibili a ipotesi di più autonoma collocazione internazionale del paese e di difesa e sviluppo del proprio patrimonio produttivo, nell’alveo di un partito “responsabile”; da qui i continui appelli al ritorno di Alfano e, nel caso, pronto a raccogliere i cocci di una eventuale rottura degli attuali equilibri europei e in particolare dell’unione monetaria, gestita però dai paesi dominanti piuttosto che dalle principali vittime dell’attuale gestione comunitaria ed euroatlantica.

Una dilazione di tempi che, tra l’altro, coincide con l’esigenza di sopravvivenza personale di Berlusconi nel suo limbo sempre più precario e sempre esposto alla Spada di Damocle giudiziaria.

La cartina di tornasole e il fattore in grado di logorare gli sforzi dinamici nel teatrino è certamente l’attuale Governo degli Inetti.

IL GOVERNO DEGLI INETTI

Della progressiva caduta dei pilastri sui quali il Governo Letta ha fondato, parallelamente al PD, la sua esistenza ho parlato in altro articolo (http://www.conflittiestrategie.it/mago-merlino-e-mago-mago). Gli eventi hanno rivelato immediatamente l’inconsistenza di quei sostegni, rivelatisi piuttosto delle imbragature destinate a soffocare progressivamente il paese.

L’azione di governo sta quindi assumendo la forma di provvedimenti convulsi che, in aggiunta al loro carattere recessivo e predatorio, stanno rendendo sempre più ingarbugliata e opaca l’azione amministrativa.

L’incremento della tassazione sui consumi e della miriade di balzelli si affianca all’introduzione di imposizioni che assorbono tasse, imposte e tributi sino a rendere sempre meno trasparente la corrispondenza tra gestione dei servizi e riscossione dei rispettivi introiti e rendere, quindi, più difficoltosa la verifica dei criteri di gestione di uffici e aziende. La “spending review”, affidata per altro a un economista avulso dal contesto nazionale piuttosto che a un esperto di gestione, non ha la caratteristica di un progetto di riorganizzazione teso a rifinalizzare la spesa pubblica e adottare nuovi moduli, ma un programma di semplice contenimento di spesa affidato all’insieme degli attuali responsabili della gestione amministrativa suddivisi in ben venticinque sottogruppi di lavoro; ho infatti l’impressione che Cottarelli sia stato scelto più per le sue entrature internazionali necessarie a collocare le privatizzazioni che per le competenze legate alla missione ufficiale di cui è stato investito. La destinazione delle relative risorse, tutt’altro che certe, da ricavare si sta allontanando sempre più dal finanziamento della riduzione del cuneo fiscale delle aziende per trasferirsi in parte in provvedimenti assistenziali, ma soprattutto a ridurre lo stock del debito, in ossequio alle direttive europee. Quei pochi provvedimenti adottati, defiscalizzazione di investimenti e ricerca e ricapitalizzazione delle aziende, rischiano così di essere sterilizzati sino a penalizzare pesantemente non tanto le aziende strategiche, già a rischio di esodo dal controllo nazionale, ma anche le stesse aziende dei settori complementari necessari a garantire almeno un qualche ruolo subalterno significativo nello scacchiere internazionale. L’azione di Equitalia e Agenzia Entrate si sta rivelando sempre più quella che è sempre stata: una morsa tesa a spremere sanzioni e aggi dai malcapitati. L’introduzione pressoché indiscriminata di tracciature, verifiche, aggiornamento banale e reiterato di documenti e archivi continuamente duplicati e sovrapposti, sta intralciando sempre più le attività di intermediazione finanziaria e bancaria sino ai semplici pagamenti di bonifici ed altre operazioni già di per sé tracciate e, presumibilmente, intasando le capacità di analisi degli addetti ai controlli. Nei resoconti sulla stampa estera delle riunioni nei consessi comunitari europei, si notano rimostranze e opposizioni qua e là di esponenti governativi spagnoli, irlandesi, francesi; non vi è traccia alcuna di una posizione di qualche peso del Governo Italiano. La retorica europeista continua a spadroneggiare imperterrita presentando come un successo il progetto di unione bancaria che avrà come risultato principale quello di costringere le banche italiane a ridurre le proprie quote di titoli pubblici nazionali, ad esporre di nuovo ulteriormente il debito pubblico sul mercato estero e a ricapitalizzare ulteriormente gli istituti garantendo loro, tra l’altro, l’accesso e l’appropriazione delle riserve auree nazionali. La retorica mondialista spinge in Governo ad avvallare le condizioni peggiori di apertura del mercato eurostatunitense senza nemmeno la minima contropartita dell’ottenimento di una sede giurisdizionale in grado di giudicare i contenziosi tra aziende e tra queste e gli stati nazionali; sede garantita invece a Francia, Germania e Gran Bretagna. L’unico soprassalto di orgoglio nazionale Letta lo ha concesso nella surreale conferenza congiunta con Putin durante la quale, a un presidente russo visibilmente distratto dall’incontro significativo con Papa Francesco, Letta ha sbandierato il maggior successo dell’accordo di cooperazione economica dopo anni di gelo: la cessione da parte di ENI alla Russia della società Artic e dei relativi diritti di esplorazione e estrazione di idrocarburi. Ciliegina sulla torta, subito dopo, il nostro prode si è precipitato in Lettonia a patrocinare in funzione antirussa l’accordo UE-Ucraina a nome dell’Unione e di capi di stato europei ben attenti a non apparire in prima persona nel contenzioso. L’amaro destino di “un leader con le palle”….. al posto della testa; il servo sciocco (http://www.youtube.com/watch?v=vvY9g4UoQks). La gestione sorprendente di affari come Telecom con la piena connivenza con i malmessi spagnoli in un settore strategico per l’economia e la sicurezza del paese in contrapposizione, persino, con una parte importante del PD più sensibile almeno ad un controllo delle reti infrastrutturali e in buona consonanza invece con il neosegretario del PD

Quale sussulto ci si può aspettare del resto da esponenti come Letta e Saccomanni i quali hanno l’ambizione dichiarata di soddisfare le proprie ambizioni personali postgovernative con incarichi di prestigio presso la Comunità Europea?! Gli stessi i quali nel frattempo sembrano impegnati ad attingere per le nomine dagli istituti internazionali di fede atlantica personaggi di dichiarata fede dalemiana, come il prossimo Presidente dell’Istituto di Statistica, non ostante l’affermazione del “nuovo corso rinnovatore” nel PD e il cui ottimismo si spinge al paradosso di una valutazione positiva, legata all’abbassamento dello spread dei titoli pubblici dovuto “al rialzo dei tassi tedeschi con una Germania che inizia ad avere problemi simili agli italiani“.

Un vuoto e una remissività che sta accentuando sempre più i tratti crepuscolari dell’accapigliamento a difesa delle prerogative dei vari gruppi; sono i segnali di una crescente conflittualità sterile e distruttiva di fazioni disposte ad aggrapparsi a qualsiasi appiglio e naviglio altrui, anche il più infido e fragile, ma senza una prospettiva di navigazione salda per l’intero bastimento. Una dinamica resa più trasparente dai sassolini gettati negli ingranaggi dal M5S di Beppe Grillo, ma senza alcun merito aggiuntivo.

Si tratta di una compagine senza capacità innovative, ma in grado, con la sua tradizione ecumenica ed avvolgente, di soffocare ogni anelito e spingere sempre più il paese nella palude. Paradossalmente ha subito una seria battuta d’arresto, ad opera di Renzi, il più indifferente tra gli antiberlusconiani capace però di conquistare l’entusiasmo di questi ultimi, proprio quando la vecchia guardia ha segnato il maggior successo riuscendo a spaccare il PDL, alleandosi con lui. Un merito che Alfredo Reichlin, bontà sua, ha sottolineato nei suoi editoriali. L’eventuale stanco protrarsi di questo conflitto sordido non porterà alla scomparsa politica del sindaco fiorentino, un esito che sarebbe letale per il partito; verosimilmente lo ricaccerà e confinerà nella stucchevole antitesi antiberlusconiana. A far pendere la bilancia per una o per l’altra opzione sarà, presumibilmente, ancora una volta una forza esogena. Settori della magistratura, nel caso volessero accelerare il malinconico e pretestuoso epilogo di Berlusconi oppure figure come Mario Monti, ormai prive di prestigio nazionale, ma in grado con il gruppetto disponibile al Senato, di far precipitare Letta & C. Forze esogene, appunto, perché sappiamo come sia maturata Tangentopoli negli anni ’90 e come il professore abbia costruito la propria carriera all’estero.

Sono i paradossi di un conflitto politico che poggia sul vuoto pneumatico; può fare a meno e sopravvivere persino alle persone in carne e ossa. In un paese dove ancora il prestigio dei santi prevale su quello di Gesù, in mancanza di un condottiero, magari impegnato a redimersi forzosamente, è sufficiente trascinare il gioco con qualche icona da esibire nelle processioni. Il risultato rischia di essere il caos paludoso o un sistema oligarchico policentrico dai poteri tanto concentrati quanto limitati all’interno della formazione sociale.

La risposta dovrà essere un progetto politico fondato più che sul diniego o sulle fuoriuscite liberatorie, sull’individuazione di quei punti e accordi interni e internazionali la cui modifica consenta di riaffermare il recupero di prerogative e agibilità politica nazionali autonome, la riorganizzazione dello stato e di gerarchie funzionali, la formazione di un blocco sociale determinato nel quale ci sia spazio la produzione di risorse necessarie a garantire forza e condizioni dignitose anche agli strati più popolari e riconoscimento delle capacità professionali. Una parte “construens” che finalizzi la parte “destruens” oggi in voga con qualche faciloneria di troppo e con l’interesse sempre meno velato di nostri supervisori a curare opzioni alternative. L’attuale drammatica frammentazione del paese potrebbe rendere agevole la destabilizzazione, ma rendere impossibile una ricostruzione duratura senza una struttura politica capillare e dalle idee chiare. Nel paese operano già troppe forze interne ed esterne tese a ridurre la formazione sociale a poco più di un’entità geografica. Più o meno l’Italia del ‘6/’700.