Un motore franco-tedesco a gas magro … Di Georges-Henri Soutou

La riconciliazione franco-tedesca era un prerequisito per la costruzione europea. Poi, il motore franco-tedesco ha contribuito a potenziarlo, prima che il crescente squilibrio tra i due paesi indebolisse questo motore. Emmanuel Macron vuole rilanciarlo, questo è il significato del Trattato di Aix-la-Chapelle che voleva imitare il Trattato dell’Eliseo del 1963. Ma Angela Merkel non è Konrad Adenauer e Emmanuel Macron no non il generale de Gaulle.

Continuità delle relazioni post-seconda guerra mondiale

Il trattato firmato dal presidente Emmanuel Macron e dal cancelliere Angela Merkel ad Aix-la-Chapelle il 23 gennaio ha destato in Francia, ancor prima della cerimonia, molti sospetti: stabilirebbe una sorta di legame di vassallaggio da Parigi a Berlino. Questi sospetti sono soprattutto la prova che il rapporto franco-tedesco, che dovrebbe costituire il motore dell’Unione europea, non sta andando bene.

È probabile che il Trattato di Aix-la-Chapelle rilanci questo motore? In effetti, si basa sul Trattato dell’Eliseo del 22 gennaio 1963, precisa, ma non crea realmente un nuovo quadro per le relazioni franco-tedesche. In particolare, non modifica il meccanismo istituzionale delle riunioni regolari del governo. E molte delle clausole ricordano infatti ciò che già esiste.

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In termini di politica estera, i due Stati “stanno  approfondendo la loro cooperazione in materia di politica estera, difesa, sicurezza esterna e interna e sviluppo mentre si sforzano di rafforzare la capacità di azione autonoma dell’Europa. Si consultano per definire posizioni comuni su qualsiasi decisione importante che interessi i loro interessi comuni e per agire congiuntamente in tutti i casi in cui ciò è possibile  ”. Ciò non aggiunge nulla di essenziale rispetto al testo del 1962, che già citava l’Europa (ricordiamo che era come un sostituto, per due, del progetto di Unione politica a sei – piano Fouchet – che era fallito. ‘l’anno scorso) : ” I due Governi si consulteranno, prima di prendere qualsiasi decisione, su tutte le questioni importanti di politica estera, e in primo luogo su questioni di interesse comune, al fine di raggiungere, per quanto possibile, una posizione simile.  “

L’importanza del dominio militare

In termini di difesa, il Trattato di Aix-la-Chapelle stabilisce che ”  si prestano reciprocamente aiuto e assistenza con tutti i mezzi a loro disposizione, compresa la forza armata, in caso di aggressione armata contro i loro territori  ” . Ma questa è solo la conseguenza dei trattati del Nord Atlantico e di Lisbona, e il preambolo del 1963 segnalava già ”  la solidarietà che unisce i loro due popoli  […] dal punto di vista della loro sicurezza  “.

Continuiamo: dopo aver promesso di ”  sviluppare  […] l’ Europa in campo militare  “, i due Stati “si  impegnano a rafforzare ulteriormente la cooperazione tra le loro forze armate al fine di stabilire una cultura comune …  “. Ma il testo del 1963 era in realtà più preciso e impegnativo: “  In termini di strategia e tattica, le autorità competenti dei due Paesi si adopereranno per unire le loro dottrine al fine di arrivare a concezioni comuni. Verranno creati istituti di ricerca operativa franco-tedesca  ”, che è molto più preciso della“  cultura  ”.

 

Per quanto riguarda gli armamenti, anche vaghi nelle dichiarazioni del testo del 2019: “  Stanno intensificando lo sviluppo di programmi di difesa congiunta e la loro estensione ai partner. In tal modo, intendono promuovere la competitività e il consolidamento della base industriale e tecnologica della difesa europea. Sono favorevoli alla cooperazione più stretta possibile tra le loro industrie della difesa, sulla base della loro fiducia reciproca. 

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Nel 1963 era più preciso: “  Per quanto riguarda gli armamenti, i due Governi si adopereranno per organizzare un lavoro congiunto dalla fase di elaborazione di opportuni progetti di armamento e di preparazione dei piani di finanziamento. A tal fine, le commissioni congiunte studieranno la ricerca in corso su questi progetti nei due paesi ed effettueranno il loro esame comparativo. Presenteranno proposte ai ministri che le esamineranno nelle loro riunioni trimestrali e forniranno le necessarie direttive di applicazione.  Ciò non ha impedito a questa collaborazione di fallire in gran parte immediatamente, essendo le esigenze operative dei due eserciti differenti.

L’ambizione di un nuovo slancio 

Si tratta molto di questo articolo del nuovo trattato: “  I due Stati hanno istituito il Consiglio franco-tedesco di difesa e sicurezza come organo politico per guidare questi impegni reciproci. Questo Consiglio si riunirà al massimo livello a intervalli regolari.  In effetti, questo Consiglio esiste dal 1988!

Si tratta infatti di riportare finalmente in vita ciò che era vegetato, a causa della diffidenza degli Stati Uniti, ma anche del rifiuto tedesco di essere solo il secondo brillante di Parigi, vale a dire un La cooperazione politico-strategica franco-tedesca dovrebbe condurre l’Europa verso un ruolo internazionale autonomo. Ma basterà la nuova congiuntura per rilanciare davvero le cose?

In effetti, rimane una differenza sul tema della concezione stessa del potere. La RFT dà più importanza alle istituzioni multilaterali e al soft power in tutte le sue forme (influenza, persuasione, negoziazione, standard, sanzioni) rispetto a Parigi, che ha una visione più tradizionale del potere militare, ancora che la differenza sembra diminuire ora.

 

Aggiungiamo in generale che Berlino non vuole entrare nel gioco permanente francese, di cui comprende i secondi fini (continuare a giocare un ruolo nella “coppia” grazie al potere militare, mentre economicamente la Francia è distanza, e dall’altra trasporre la visione – e gli interessi – francesi a livello europeo).

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Inoltre, resta un punto essenziale: gli altri membri dell’Unione europea. Gli altri paesi, a parte la Francia e la RFT, devono trovare un modo per partecipare alla costruzione politico-strategica dell’Europa. Questa è sempre stata la posizione di Berlino. Il nuovo Trattato non è immune da una contraddizione fondamentale: la stretta cooperazione franco-tedesca è stata sin dall’inizio un motore essenziale per l’Unione europea, ma allo stesso tempo ha sempre suscitato le riserve degli altri partner. Sempre necessario, ma allo stesso tempo ancora insufficiente. Questo è stato uno dei motivi del relativo fallimento del trattato del 1963, è probabile che limiterà anche gli effetti di quello del 2019.

https://www.revueconflits.com/allemagne-france-relations-traite-aix-la-chapelle-georges-henri-soutou/

Relazioni transatlantiche: opportunità di Biden e suoi limiti, di Hajnalka Vincze

Un interessante articolo dell’analista ungherese Hajnalka Vincze sulle possibili dinamiche future della “alleanza” USA/stati europei. Qualche approfondimento maggiore meriterebbero le posizioni della Presidenza Trump e soprattutto la loro contraddittorietà dovuta in gran parte alle lacerazioni politiche interne agli Stati Uniti e alla scarsa disponibilità, se non alla aperta ostilità delle gerarchie militari americane nella NATO a seguirne le indicazioni; per il resto un testo ricco di spunti di riflessione, fermo restando che i giochi dell’insediamento alla Casa Bianca non si sono ancora conclusi; anzi, più si trascineranno, più la figura presidenziale assumerà la sostanza di una “anatra zoppa”_Giuseppe Germinario

Hajnalka Vincze:

https://europatarsasag.hu/sites/default/files/open-space/documents/magyarorszagi-20201115vinczetransatlanticrelationsbiden.pdf

Relazioni transatlantiche: opportunità di Biden e suoi limiti

(Hungarian Europe Society, 15 novembre 2020)

Fedele alla forma, le elezioni presidenziali statunitensi del 2020 hanno innescato una valanga di passioni nelle relazioni transatlantiche. Ansia corrispondente alla semplice domanda “Ci ameranno di nuovo, vero?” era diffusa dal lato europeo. Sfortunatamente, questo tipo di approccio non fa che rafforzare la decennale matrice emotiva delle montagne russe del legame euro-americano. Si alimenta nell’oscillazione senza fine tra clamorosi “litigi” e spettacolari “riconciliazioni”. Questa è una spirale nefasta, perché più ci sforziamo di mostrare la nostra presunta armonia, più anche gli scontri minori assumeranno l’aspetto di una tragedia. E più quegli scontri sono percepiti come sconvolgenti, più dobbiamo insistere sull’armonia, per tornare alla “normalità”, cioè a un altro giro sulle montagne russe.

Anche se i primi incontri tra l’amministrazione Biden e le loro controparti europee si adatteranno sicuramente a quel modello (una felice riunione di famiglia, dopo una caduta di quattro anni), tutti questi sconvolgimenti emotivi stanno iniziando a farsi sentire. Gli europei sconvolti da alcune impennate dell’era Trump ricordano ancora di essere stati traumatizzati anche durante i tanto attesi anni di Obama, in particolare dal cosiddetto perno asiatico. Di conseguenza, il diffuso sollievo, persino il giubilo, in Europa per il cambio di amministrazione statunitense è questa volta sfumato con più cautela rispetto a dodici anni fa, quando Barack Obama era atteso e salutato come il “salvatore”.

Parlando dinanzi al Parlamento europeo nel luglio 2020, il ministro della Difesa tedesco Annegret Kramp-Karrenbauer ha avvertito in anticipo che solo il “tono” sarebbe cambiato dopo la vittoria di Biden.1 Il presidente francese Emmanuel Macron, nella sua ormai famigerata intervista di “morte cerebrale” , ha anche sottolineato: “non è stata solo l’amministrazione Trump. Devi capire cosa sta succedendo nel profondo del processo decisionale americano ”. 2

Un’alleanza congelata (més)

La scomoda realtà è che trent’anni dopo la caduta del muro di Berlino, gli europei hanno consentito ancora che l ‘”Occidente” fosse squilibrato come lo era durante la Guerra Fredda. La maggior parte dei governi europei spera di continuare a cavalcare, per quanto possibile, gli Stati Uniti per la loro difesa, a costo di ciò che ex alti funzionari americani e britannici chiamavano “un’eccessiva deferenza verso gli Stati Uniti” .3 Negli ultimi tre decenni, gli osservatori americani sono stati continuamente stupiti dalla riluttanza degli europei a uscire dal loro status di “protettorato” degli Stati Uniti .4 All’inizio degli anni 2000, Charles Kupchan ha sottolineato: “Nonostante tutto ciò che è cambiato dal 1949, e soprattutto dal 1989 l’Europa è rimasta dipendente dagli Stati Uniti per la gestione della propria sicurezza ”. Ha poi aggiunto: “Il controllo sulle questioni di sicurezza è il fattore decisivo per stabilire l’ordine gerarchico e determinare chi è al comando” .5

Quindici anni dopo, nulla è cambiato.

Come osserva Jeremy Shapiro: “Le nazioni d’Europa contano sull’America per la propria sicurezza e l’America non fa affidamento sull’Europa. Questa dipendenza asimmetrica è la caratteristica fondamentale e apparentemente permanente delle relazioni transatlantiche, il fatto scomodo alla base di decenni di retorica sui valori condivisi e sulla storia comune. ”6

Essa porta anche inevitabilmente alla cosiddetta logica transazionale. Non esiste una cosa come la difesa gratuita; prima o poi, in una zona o nell’altra, c’è sempre qualcosa da aspettarsi in cambio. La revisione dal basso dell’amministrazione Clinton è stata piuttosto chiara: “I nostri alleati devono essere sensibili ai collegamenti tra un impegno costante degli Stati Uniti per la loro sicurezza da un lato e le loro azioni in aree come la politica commerciale, il trasferimento di tecnologia e la partecipazione a operazioni multinazionali di sicurezza dall’altro. “7 In modo simile, già nel 1962 il vicepresidente statunitense Johnson minacciò di ritirare le truppe americane dal continente, se il mercato comune avesse bloccato le esportazioni di pollame americano in Europa …

Sebbene la fine della Guerra Fredda costituì un momento di svolta, i leader su entrambe le sponde dell’oceano fecero del loro meglio per ignorare questo fatto. Con la notevole eccezione dei politici francesi che si sono sforzati di risvegliare i loro partner dell’UE sulle realtà dell’imminente ordine mondiale “multipolare” – ma senza alcun risultato. Durante gli anni 2010, un allineamento unico dei pianeti (iniziato con il “perno asiatico” e culminato con la presidenza Trump) ha aiutato gli europei ad aprire gli occhi sulle realtà del dopo Guerra Fredda. Il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, ha parlato di “fare piani per un nuovo ordine mondiale” e ha avvertito: “Il fatto che l’Atlantico si sia allargato politicamente non è in alcun modo dovuto esclusivamente a Donald Trump. Gli Stati Uniti e l’Europa si stanno allontanando da anni. La sovrapposizione di valori e interessi che ha plasmato il nostro rapporto per due generazioni sta diminuendo. La forza vincolante del conflitto Est-Ovest è la storia. Questi cambiamenti sono iniziati ben prima dell’elezione di Trump e sopravviveranno alla sua presidenza anche in futuro “. 8

Maas ha continuato dicendo: “Usiamo l’idea di una partnership equilibrata come modello, in cui ci assumiamo la nostra eguale quota di responsabilità. In cui formiamo un contrappeso quando gli Stati Uniti oltrepassano il limite. Dove mettiamo il nostro peso quando l’America si ritira. E in cui possiamo iniziare un nuovo dialogo. ” Gli eccessi dell’amministrazione Trump hanno sicuramente dato slancio in questa direzione. Per quattro anni, gli europei hanno dovuto affrontare 24 ore su 24, 7 giorni su 7, gli svantaggi della loro dipendenza. Resta da vedere se trarranno le lezioni e, in tal caso, che tipo di reazione ci si può aspettare da Washington.

Il momento Biden: hit o miss

Nonostante i prevedibili discorsi su un “nuovo inizio” e un clima notevolmente migliorato nella diplomazia transatlantica, la politica degli Stati Uniti si sforzerà innanzitutto di tornare alla “normalità”. Questo è certamente rassicurante per gli alleati, ma non significa automaticamente che ne trarranno vantaggio. Anche sui più graditi cambiamenti di politica, su organizzazioni e alleanze multilaterali, un risultato positivo, da una prospettiva europea, è lungi dall’essere garantito. Per non parlare della lunga serie di disaccordi persistenti, o lacune politiche, dove il meglio che si può sperare è uno scambio civile di argomenti, forse un certo grado di avvicinamento, ma soprattutto un educato riconoscimento delle divergenze.

Non ci sono dubbi sul rinnovato sostegno dell’amministrazione Biden al multilateralismo e sul rafforzato impegno verso le alleanze tradizionali. Una volta che gli Stati Uniti saranno di nuovo in gioco, la domanda, per gli europei, è se ci sarà spazio per il coordinamento o se Washington parteciperà solo per guidare (qualcuno potrebbe dire dettare).

Come sottolinea un recente rapporto del Congressional Research Service “i funzionari europei si lamentano periodicamente delle frequenti aspettative degli Stati Uniti di un sostegno europeo automatico”. 9 In effetti, quando sentono Joe Biden dire che “io, ancora una volta, farò guidare dall’America il mondo” esprimono sentimenti misti. Per quanto apprezzino che Washington prenda l’iniziativa ogni volta che gli interessi si sovrappongono, sono meno entusiasti quando in altre situazioni sono invitati ad allinearsi semplicemente agli Stati Uniti.

La NATO è un esempio calzante. Sentire Joe Biden affermare con forza che “la NATO è al centro della sicurezza americana” è senza dubbio musica per le orecchie europee, soprattutto dopo gli ultimi quattro anni. Tuttavia, sanno anche che il prossimo presidente degli Stati Uniti spingerà le priorità degli Stati Uniti di lunga data e si aspettano concessioni in cambio di un nuovo impegno con la NATO.

Il problema è: non tutti gli alleati sono desiderosi di espandere il mandato dell’Alleanza guidata dagli Stati Uniti ad altre questioni (come spazio, cyber, energia) e ad altre aree geografiche (allargamento e designazione di nuovi nemici). Aggiungete ad esso gli sforzi rinvigoriti per ridurre la libera scelta degli alleati attraverso una più profonda integrazione (maggiori finanziamenti comuni e una delega più automatica dell’autorità al comandante SACEUR / USA in Europa), e arrivate a un mix non consensuale.

Il commercio è un altro settore in cui gli europei sono soddisfatti della posizione iniziale di Joe Biden che dichiara che “le regole dell’economia internazionale dovrebbero essere modellate per essere eque”. Eppure, iniziano a diventare diffidenti le dichiarazioni dello stesso Biden: “quando le imprese americane competono in condizioni di equità, vincono”. Riapre vecchie ferite – specialmente sulle sanzioni extraterritoriali – e solleva dubbi su come esattamente il nuovo governo degli Stati Uniti intenda plasmare quelle regole internazionali. Sapendo che la disputa Boeing-Airbus, così come il puzzle sulla tassazione GAFA, saranno probabilmente temi ricorrenti nei negoziati transatlantici.

Indicare la Russia come “la più grande minaccia” (come ha fatto Joe Biden) potrebbe certamente sembrare rassicurante per alcuni europei, sul versante orientale, ma sicuramente non starà bene ad altri, soprattutto Germania e Francia. Pur essendo critici nei confronti del regime di Vladimir Putin, vedono anche Mosca come un indispensabile partner strategico (per la Francia) ed economico (per la Germania). I presidenti francesi sottolineano ripetutamente che “la Russia non è un avversario”, e l’ex ministro degli Esteri tedesco Sigmar Gabriel ha parlato in modo sprezzante delle attività della NATO al confine con la Russia come “sciabola che tintinna”.

In Cina, gli europei accolgono con favore la volontà degli Stati Uniti di affrontare seriamente la violazione delle regole del commercio internazionale da parte di Pechino. Allo stesso tempo, non sono entusiasti che la NATO si allinei dietro Washington per affrontare la Cina.10 L’Alto rappresentante dell’UE per la politica estera, Josep Borrell, afferma: “Non dobbiamo scegliere tra Stati Uniti e Cina. Alcune persone vorrebbero spingerci a scegliere, ma non dobbiamo scegliere, deve essere come la canzone di Frank Sinatra, ‘My way’ “. 11 Il presidente francese, Emmanuel Macron, ha avvertito che senza una propria politica indipendente , gli europei “avranno solo la scelta tra due dominazioni”, da parte della Cina o degli Stati Uniti ”.12

Per coronare il tutto, l’amministrazione Biden dovrà affrontare due questioni, più immediate e più tecniche, in relazione all’Europa. Entrambi saranno esaminati come una cartina di tornasole dell’interferenza degli Stati Uniti contro l’autonomia europea. In primo luogo, gli Stati Uniti insistono per avere accesso al Fondo europeo per la difesa recentemente creato dall’UE, finanziato dal bilancio dell’Unione. Gli europei non sono contenti della prospettiva che potenti società americane sottraggano denaro al tesoro comune dell’UE, creato esplicitamente con l’obiettivo di rafforzare l’autonomia dell’Europa. Sotto la pressione incessante degli Stati Uniti, hanno escogitato una soluzione di compromesso che garantisce l’accesso caso per caso, pur mantenendo una condizione generale di “non dipendenza”. In tal modo gli europei manterrebbero almeno il controllo sull’esportazione e sui diritti di proprietà intellettuale. Un compromesso finora respinto con veemenza dagli Stati Uniti.

La seconda questione spinosa è il gasdotto russo-tedesco in fase di completamento, Nord Stream 2. Joe Biden, in qualità di vicepresidente, lo ha definito “inaccettabile”, e gli Stati Uniti hanno già imposto sanzioni drastiche alle società europee che partecipano alla costruzione. Ancora una volta, questo atteggiamento americano è visto da molti, anche se non da tutti, gli Stati membri dell’UE come un’ingerenza negli affari europei. Nel 2017, il cancelliere federale austriaco e il ministro degli Esteri tedesco hanno avvertito: “L’approvvigionamento energetico dell’Europa è una questione che riguarda l’Europa, e non gli Stati Uniti d’America”. Nel dicembre 2019, il ministro delle finanze tedesco Olaf Scholz ha definito le sanzioni statunitensi “un grave intervento negli affari interni tedeschi ed europei”, e il ministro degli esteri Heiko Maas ha affermato che “la politica energetica europea è decisa in Europa, non negli Stati Uniti”.

In sintesi, tutto il cambiamento positivo di tono da parte degli Stati Uniti non significa necessariamente negoziati più facili o vantaggi per l’Europa a lungo termine. Abbastanza paradossalmente, più l’atmosfera è gioviale, più alcuni governi europei saranno tentati di fare concessioni, abbandonare le posizioni comuni dell’UE e abbandonare persino l’idea di autoaffermazione nei confronti degli Stati Uniti. Ciò non farebbe che aumentare l’asimmetria del rapporto. La sfida, per gli europei, è trovare il giusto equilibrio: cogliere l’opportunità di una posizione americana meno conflittuale, senza tornare ai vecchi riflessi di eccessiva deferenza.

La maledizione di una parola

L’autonomia è stata, fin dall’inizio, il nodo della questione nei dibattiti transatlantici. La parola “a”, come talvolta viene chiamata, ha segnato il ritmo delle relazioni euro-americane negli ultimi tre decenni. Ogni volta che eventi esterni (come la guerra in Kosovo del 1999 o la crisi in Iraq del 2003) danno impulso alla linea autonomista guidata dalla Francia, gli Stati Uniti iniziano a mostrare ostilità, pongono limiti rigorosi e le controversie relative ai membri dell’UE si svolgono in pubblico. Al contrario, quando il vento è nell’area “priorità NATO / USA.”, Washington sostiene le iniziative di difesa dell’UE (entro i limiti già determinati) e gli europei passano il loro tempo a spazzare via i disaccordi.

Dietro queste fluttuazioni periodiche le rispettive posizioni rimangono invariate. Da parte americana, i vantaggi dello status di dipendente dell’Europa sono innegabili. In primo luogo, a causa della logica transazionale sempre presente, la protezione militare degli Stati Uniti rende gli europei più accomodanti in altre aree. Sulle questioni commerciali, ad esempio, la maggioranza dei membri dell’UE chiede apertamente di attenuare le posizioni dell’UE per “non mettere a rischio le più ampie relazioni transatlantiche”. In secondo luogo, gli alleati europei molto obbligati tendono a essere arruolati al servizio della strategia globale americana. L’ex ambasciatore degli Stati Uniti presso la NATO, Robert Hunter, ha dichiarato: “Pochissimi paesi europei credono che vincere in Afghanistan sia necessario per la propria sicurezza. La maggior parte di loro lo fa … per compiacere gli Stati Uniti. ”13 Infine, la tutela americana sull’Europa ha anche lo scopo di tenere sotto controllo un potenziale rivale. Nelle parole di Brzezinski: “Un’Europa politicamente potente, in grado di competere economicamente mentre militarmente non è più dipendente dagli Stati Uniti, potrebbe limitare l’ambito della preminenza degli Stati Uniti in gran parte all’Oceano Pacifico”. 14

Da parte europea, la maggior parte dei governi sarebbe felice di non dover mai menzionare la parola “a”. Tuttavia, negli ultimi dieci anni, è diventato sempre più difficile nascondere che l’impegno degli Stati Uniti per la sicurezza europea è altamente, e doppiamente, condizionato. È sia incerto (vedi le riserve del presidente Trump sull’articolo 5) sia condizionato da un buon comportamento da parte degli europei. Di conseguenza, l’ambizione dell’autonomia ha acquisito un certo slancio. La strategia globale dell’UE, nel 2016, si è articolata intorno all’idea tabù di lunga data dell’autonomia strategica. Il discorso del 2018 sullo “Stato dell’Unione europea” del presidente della Commissione Juncker era intitolato “l’ora della sovranità europea” e la nuova Commissione europea si dichiara fin dall’inizio “geopolitica”.

Detto questo, gli europei sono più preoccupati che mai di non fare alcun passo che potrebbe alienare gli Stati Uniti.

Il cancelliere tedesco è il perfetto esempio di queste ambivalenze. Un giorno Angela Merkel dice: “L’era in cui potevamo fare pieno affidamento sugli altri è finita. Noi europei dobbiamo davvero prendere il nostro destino nelle nostre mani ”.15 Il successivo, assicura:“ Ancor più che durante la Guerra Fredda, mantenere la NATO è oggi nel nostro migliore interesse. L’Europa attualmente non può difendersi da sola, noi dipendiamo. ”16 L’autonomia europea è sia il problema nelle relazioni transatlantiche, sia l’unica soluzione in vista. All’interno della tradizionale relazione squilibrata, l ‘ “altro” è percepito a ciascuna estremità dell’Atlantico o come un peso (free-rider contro l’interferente estraneo) o come un rivale (“sfidante” contro “potere dominante”), ma molto spesso i due , peso e rivale, allo stesso tempo. Questo crea incessantemente risentimenti da entrambe le parti. Per quanto controintuitivo possa sembrare, l’autonomia strategica europea potrebbe essere l’unica via d’uscita. È anche praticamente l’unica cosa rimasta che non è stata provata finora …

Conclusione: le virtù della chiarificazione

I quattro anni dell’amministrazione Trump sono stati per molti versi una rivelazione transatlantica. Semmai, il suo mandato ha chiarito quanto profondamente le istituzioni di politica estera siano attaccate alle relazioni, su entrambe le sponde dell’Atlantico. Negli Stati Uniti, una lunga serie di audizioni e votazioni al Congresso – intese a proteggere l’Alleanza dal furore del Presidente – ha rivelato un appoggio bipartisan generale per la NATO. Hanno anche avuto il merito di evidenziare le basi molto razionali di questo supporto. Come ha affermato il presidente del Consiglio per le relazioni estere Richard N. Haass: “Gli Stati Uniti rimangono e sostengono la NATO come un favore non agli europei ma a se stessi. L’adesione alla NATO è un atto di interesse strategico egoistico, non filantropico ”. 17

In Europa, l’impegno degli alleati per il collegamento transatlantico si è tradotto in sforzi instancabili per accogliere, o addirittura placare, il presidente Trump. Questo approccio è stato mostrato in modo spettacolare in un esercizio di simulazione di alto livello, tenutosi nel 2019.

Il Körber Policy Game ha riunito esperti senior e funzionari governativi di Francia, Germania, Regno Unito, Polonia e Stati Uniti. Anche quando i team europei hanno dovuto affrontare uno scenario di ritiro degli Stati Uniti dalla NATO, seguito dallo scoppio di crisi ai margini dell’Europa, la maggior parte di loro si è concentrata soprattutto nel persuadere gli Stati Uniti a tornare alla NATO. Al prezzo di “concessioni prima impensabili”. 18

Sulla base di questa rinnovata consapevolezza dell’impegno di entrambe le parti nei confronti del legame euro-americano, il riflesso naturale potrebbe essere quello di godere del temporaneo sollievo dopo la vittoria di Joe Biden, andare con il pilota automatico e continuare lo stesso vecchio schema nelle relazioni transatlantiche. Sarebbe un difetto, e doppiamente così.

In primo luogo, se gli europei – per mera gratitudine per non aver avuto a che fare con Donald Trump – rinunciano alla loro ambizione di autonomia e rifiutano di difendere la propria posizione all’unisono, perderebbero un’occasione senza precedenti per porre le relazioni transatlantiche su un piano più equilibrato. . Avrebbero solo perpetuato la matrice emotiva delle montagne russe: dal giubilo alla disperazione, dalla disperazione al giubilo, per l’eternità.

In secondo luogo, la chiave è l’accoglienza da parte degli Stati Uniti. Troppo spesso, la reazione americana ai disaccordi è impegnarsi nella “nostra partnership” in quanto tale, sostenendo che questa o quella posizione europea metta a rischio le relazioni transatlantiche (o, come sulla questione del sistema di navigazione satellitare Galileo, “renderebbe la NATO un reliquia del passato ”). La maggior parte degli europei ha già questa paura, ecco perché evita l’idea stessa di autonomia. Washington potrebbe indicare la strada: assicurati che le due parti possano convergere su alcune questioni, divergano su altre, senza che gli Stati Uniti mettano in dubbio l’intera relazione ogni volta che gli europei affermano il loro punto di vista.

Perché ciò avvenga, è necessario riconoscere che, contrariamente alle accuse di routine, l’ambizione dell’autonomia europea non viene da un mitico antiamericanismo. O si preserva la propria indipendenza rispetto a qualsiasi paese terzo, oppure no. Se gli europei decidono di rinunciarvi una volta, in particolare nei confronti degli Stati Uniti, il modello di sottomissione che determina li metterà in balia di qualsiasi altra potenza in futuro. Un’Europa che non riesce ad assumere la propria piena autonomia diventa una facile preda per chiunque. Emmanuel Macron spiega: “Se non può pensare a se stessa come una potenza globale, l’Europa scomparirà”.

Henry Kissinger sembra essere d’accordo. La leggenda vivente della politica estera statunitense dice sul quotidiano tedesco Die Welt: “Mi piacerebbe vedere un’Europa capace di svolgere un ruolo più storico, vale a dire con alcune affermazioni di se stessa come policy maker globale”. Poi aggiunge: “Spero che l’Europa svolga il suo ruolo globale in modo che ci sia un forte parallelismo tra il pensiero americano ed europeo”. 19

Qui sta il paradosso atlantista. Coloro che tengono i discorsi più appassionati sui valori transatlantici condivisi e sugli interessi comuni sono di solito quelli che si oppongono con più veemenza ai progetti europei guidati dall’autonomia. A loro sembra che le relazioni transatlantiche possano reggere solo finché gli europei sono dipendenti, non funzionerebbe tra partner alla pari. D’altra parte, coloro che credono seriamente nella forza di ciò che è comune tra i nostri valori e interessi, non hanno motivo di vedere l’autonomia europea come una minaccia. Preferirebbero considerarlo come una possibilità …

Quo vadis Europa Centrale?

Come regola generale, i paesi dell’Europa centrale non definiscono gli attori su queste questioni transatlantiche. Ci sono alcune rare eccezioni quando la loro posizione attira l’attenzione immediata, come nel caso della Lettera degli otto e della Lettera di Vilnius, a sostegno dell’invasione statunitense dell’Iraq del 2003 – provocando quel famoso sfogo del presidente francese Jacques Chirac: “hanno perso una buona opportunità per tenere la bocca chiusa ”. Tradizionalmente, sulle questioni NATO-UE e su altre questioni relative all’autonomia, sono saldamente nel campo atlantista, poiché considerano gli Stati Uniti come il principale, se non l’unico, garante della loro difesa.

Alcuni di loro sono ora a disagio per la posizione di promozione della democrazia della prossima amministrazione americana, specialmente quando si applica all’interno dell’Alleanza. Joe Biden afferma che “il crescente autoritarismo, anche tra alcuni membri della NATO” è una minaccia per l’Alleanza: “In qualità di presidente, chiederò una revisione degli impegni democratici dei membri della NATO”. 20

Questi non sono solo slogan della campagna.

Nell’Assemblea parlamentare della NATO, la delegazione statunitense ha già spinto in questa direzione, presentando un rapporto che punta a “fautori interni dell’illiberalismo” e raccomanda “che la NATO istituisca un Centro di coordinamento della resilienza democratica con lo scopo esplicito di aiutare gli Stati membri a rafforzare istituzioni democratiche “. 21

Detto questo, le considerazioni geopolitiche non possono essere e non saranno trascurate.

L’Europa centrale è la zona cuscinetto tra il confine occidentale dell’Eurasia e le potenze dominanti nel resto di questo vasto continente combinato. Alcuni dei paesi della regione CEE hanno instaurato relazioni sempre più strette con Mosca e tutti sono attratti dalla Belt and Road Initiative cinese, firmata nel trattato per la cooperazione 17 + 1, sperando in investimenti esteri e opportunità commerciali.

Ciò potrebbe essere disapprovato dalla nuova amministrazione statunitense, le cui principali priorità strategiche saranno: isolare la Russia, contenere la Cina (e ovviamente impedire all’Europa di andare da sola).

Se i paesi dell’Europa centrale si dimostreranno partner affidabili su questi temi, la loro politica interna sarà probabilmente di scarso interesse per Washington. Tuttavia, se si avvicinano a Mosca o Pechino, i loro affari interni potrebbero ricevere maggiore attenzione.

Per quanto riguarda il loro posto nell’enigma transatlantico, i paesi dell’Europa centrale rivelano la loro facilità nello scivolare da una dipendenza all’altra. I più accesi sostenitori della linea atlantista – sabotando costantemente l’autonomia dell’UE dall’interno – sono anche tra i primi tentati di cedere al dominio russo o cinese. Come un ammonimento su come un giorno l’ostacolo all’autonomia europea potrebbe ritorcersi contro.

1 Germany sets up European defense agenda with a waning US footprint in mind, Defense News, 15 July 2020.

2 Transcript: Emmanuel Macron in his own words, The Economist, 7 November 2019.

3 Jeremy Shapiro – Nick Witney, Towards a post-American Europe: A Power Audit of EU-US Relations, European Council on Foreign Relations, 2 November 2009.

4 Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard, Perseus Books, 1997, p59.

5 Charles A. Kupchan, The End of the American Era, Vintage Books, 2003, pp152, 267.

6 Jeremy Shapiro, Dina Pardijs, The transatlantic meaning of Donald Trump: a US-EU Power Audit, European Council on Foreign Relations, 21 September 2017.

7 Report on the Bottom-Up Review, DoD, October 1993.

8 Heiko Maas, Making plans for a new world order, Handelsblatt, 22 August 2018.

9 Transatlantic Relations: U.S. Interests and Key Issues, CRS report, 27 April 2020.

10 Stephen M. Walt, Europe’s Future Is as China’s Enemy, in Foreign Policy, 22 January 2019.

11 Borrell: EU doesn’t need to choose between US and China, EU Observer, 2 June 2020.

12 President Macron’s speech at the annual conference of ambassadors, 27 August 2019.

13 U.S.-NATO: Looking for Common Ground in Afghanistan, Interview with Robert E. Hunter, Council on Foreign Relations, 8 December 2009.

14 Zbigniew Brzezinski, The Choice: Global Domination or Global Leadership, Perseus Books, 2004. p91.

15 Chancellor Angela Merkel’s speech in Munich, 28 May 2017.

16 Chancellor Angela Merkel at the Bundestag, 27 November 2019.

17 Testimony before the Senate Committee on Foreign Relations, on “Assessing the Value of the NATO Alliance”, 5 September 2018.

18 Körber-Stiftung – International Institute for Strategic Studies, European security in Crisis: what to expect if the US withdraws from NATO, 23 September 2019.

19 Interview with Henry Kissinger, Die Welt, 8 November 2020.

20 Statement from Vice President Joe Biden on NATO Leaders Meeting, 2 December2019.

21 Gerald E. Connolly, NATO@70: Why the Alliance Remains Indispensable, 12 October 2019.

TANTO TUONÓ…, di Teodoro Klitsche de la Grange

TANTO TUONÓ…

Si legge sulla stampa che il veto di Polonia ed Ungheria all’accordo sul bilancio UE 2021-2027 e l’aumento delle risorse proprie, è stato da queste posto “perché insoddisfatti della recente decisione del Parlamento e del Consiglio di condizionare con uno specifico testo legislativo l’esborso dei fondi europei al rispetto dello stato di diritto” (Il Sole 24 ore – tra i tanti). Il che ha scatenato il solito coro anti-sovranisti, tendente a equipararne le azioni ad atti da delinquente: i due Stati avrebbero “preso in ostaggio” il bilancio U.E. e i fondi del Recovery Fund; avrebbero violato ripetutamente il principio dello Stato di diritto (art. 2 TUE); sarebbero “irresponsabili”. Dall’altra parte si risponde che subordinare l’esborso dei fondi europei al rispetto dello Stato di diritto è un “ricatto”.

A guardarlo con distacco, il comportamento delle parti in causa è logico: se l’UE cerca di ottenere il via libera al bilancio (ecc.) ha bisogno che polacchi e ungheresi acconsentano; ma questi esercitano il veto perché i fondi potrebbero essere bloccati per la “condizionalità” al rispetto dello Stato di diritto annunciata dalle rispettive procedure di infrazione iniziate dalla U.E.. La soluzione della querelle dovrebb’essere rinunciare da un lato al veto esercitato; dall’altro alla “condizionalità” introdotta.

Comunque, dato che a decidere sulle (pretese) violazioni allo Stato di diritto, non è un arbitro scelto dalle parti, ma per l’appunto un organo U.E. come la Commissione, il veto dei due Stati non è privo di ragione.

Ed ancor più perché come scritto1 la nozione di “Stato di diritto” è tra le più polisemiche, essendo stati ricondotti al relativo concetto ordinamenti assai differenti; peraltro è stato elaborato da tanti pensatori in modo non univoco, ma con vistose differenze. A sintetizzare quanto sopra, si può riportare quanto si legge nella voce “Stato di diritto” scritta da Anna Pintore per il “Dizionario del liberalismo” (Rubettino): “non è affatto pacifico quali siano le caratteristiche che un’organizzazione statale deve possedere per essere considerata uno Stato di diritto e quali rapporti intercorrano tra questo e altri modelli di Stato, in particolare lo Stato liberale, quello democratico e quello costituzionale. Per questa ragione nessuna trattazione del tema può essere neutrale, e neppure questa lo sarà” (e se non può esserlo la trattazione scientifica, figuriamoci l’applicazione politica!); e prosegue la Pintore “Forse proprio a causa della sua indeterminatezza, la formula ha goduto fin dalla sua nascita di apprezzamento pressoché universale, al punto da segnare oggi una strada senza alternative: uno Stato che non incarni questo modello deve essere considerato illegittimo e indegno di obbedienza. Ma il carattere apprezzativo della formula, unito all’evanescenza del suo contenuto, ha fatto sì che di essa si appropriassero le più disparate ideologie… Ciò non deve stupire, se è vero che il concetto di Stato di diritto non è legato né a particolari condizioni storiche, né a specifiche premesse filosofiche, essendo viceversa antico quanto il pensiero filosofico-politico stesso”2 (i corsivi sono miei).

In attesa che la vertenza abbia una conclusione, occorre ribadire due considerazioni.

Non è difficile prevedere – non occorreva un Bismark o un Cavour – che introducendo quella “condizionalità”, polacchi e ungheresi avrebbero apposto il veto sul bilancio. In altri tempi si sarebbero rischiate guerre; consoliamoci che si siano limitati ad esercitare un proprio diritto.

Secondariamente è quanto mai inopportuno utilizzare a fini di lotta politica, caratterizzata dalla volontà di prevalere sull’avversario (il nemico), il diritto e, ancor più un concetto polisemico e, almeno in larga parte, controverso come quello di “Stato di diritto”. Se poi una delle parti ha il potere di applicare il precetto indefinito – come nella vicenda trattata -, lo squilibrio è evidente. Quando Luigi XIV rivendicava alla corona francese – per il tramite della moglie – i territori del (fu) ducato di Borgogna, avendo la consorte il diritto di devoluzione, almeno questo era vigente nel Brabante. Il Re Sole si serviva del diritto per la politica di potenza, ma almeno non se lo era “pre-confenzionato” da solo, come succede nel caso alla Commissione U.E.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 Rinvio il lettore all’esposizione più dettagliata che ho fatto negli articoli “L’unione europea e lo Stato di diritto” e “Unione europea e Stato di diritto II”.

2 Tra i contributi più recenti che confermano la differente connotazione del concetto di Stato di diritto ricordiamo il saggio di R. Bin Stato di diritto (in rete); sempre in rete è interessante leggere il Dossier Stato di diritto dei radicali, che ha il pregio di stigmatizzare le violazioni dello Stato di diritto in Italia; ad avviso di chi scrive non meno lesive di quelle polacche o ungheresi.

le truppe russe si schierano in Nagorno-Karabakh, A cura di: Geopolitical Futures

La pesante sconfitta sul campo delle forze militari armene in Nagorno-Karabakh ha segnato apparentemente un grande smacco per la diplomazia russa.  In realtà è solo una battuta di arresto non irrimediabile. La vera sconfitta, con l’onta dell’ignominia, sia pure nell’ombra l’ha subita la Unione Europea. Il Governo armeno, distaccandosi progressivamente e discretamente dalla Russia, ha cercato in questi anni di assecondare e di appoggiarsi sempre più sulla UE e sui due principali paesi dell’Unione, ricevendone scarso sostegno economico e un sostegno diplomatico e militare del tutto illusorio e vacuo. La lezione dell’Ucraina, come pure quella della ex-Jugoslavia, evidentemente non è bastata. Da qui si comprende in parte l’atteggiamento inizialmente tiepido dei russi a sostegno degli armeni; l’altra parte è dovuto alla necessità di non deteriorare irreversibilmente i rapporti con l’Azerbaijan e di non concedere ulteriori spazi alla Turchia di Erdogan. Da qui il preoccupante e tragico isolamento e il collasso della propria presunta superiorità militare, stando agli antefatti, proprio nel momento di maggior attivismo politico-militare della Turchia a sostegno dell’Azerbaijan.

Il Governo e la popolazione armeni sono semplicemente l’ultima, purtroppo non ancora l’ultima, vittima della ecumenica retorica europeista del “volemose bene”, della illusione che la relativa forza economica sia sinonimo di indipendenza politica, autorevolezza diplomatica e forza militare.

L’ulteriore conferma che l’UE, più che una entità politico-diplomatica attiva, è una realtà finalizzata a neutralizzare ed impedire ogni rigurgito di sovranità e autorevolezza degli stati europei e a favorire i giochini opportunistici di bassa lega dei vari paesi, in primis la Germania, a completo rimorchio di strategie altrui. Tutta l’ansia e la precipitazione nel riconoscere anzitempo l’insediamento di Biden alla Casa Bianca sono la classica ciliegina sulla torta di un comportamento miserabile e controproducente persino al più ottuso dei servi._Giuseppe Germinario

le truppe russe si schierano in Nagorno-Karabakh

L’accordo di cessate il fuoco di martedì è una vittoria strategica per il Cremlino.

A cura di: Geopolitical Futures

Contesto: da settembre, Armenia e Azerbaigian sono impegnate nell’ultimo round di combattimenti per il Nagorno-Karabakh. Russia, Turchia e Iran hanno tutti interessi nella regione strategicamente importante situata nel Caucaso meridionale. La Russia, che la vede come parte della sua zona cuscinetto critica, si è bilanciata tra le due parti, mentre la Turchia è una sostenitrice chiave dell’Azerbaigian.

Cosa è successo: dopo che la Russia, l’Azerbaigian e l’Armenia hanno firmato martedì un altro accordo di cessate il fuoco, il Cremlino ha iniziato a dispiegare forze di pace in Nagorno-Karabakh come parte dell’accordo di pace. In totale, la Russia invierà 1.960 soldati con armi leggere, 90 corazzati da trasporto truppe e 380 unità di equipaggiamento nella regione. Le forze di pace saranno di stanza lì per almeno cinque anni con possibilità di proroga. Il ministero della Difesa russo prevede di creare 16 posti di osservazione lungo la linea di contatto e il corridoio di Lachin. Le truppe dispiegate hanno seguito un addestramento per il mantenimento della pace e la maggior parte in precedenza ha prestato servizio in Siria. Saranno inoltre dispiegate unità di polizia militare. Sebbene il Cremlino avrà alcune comunicazioni con la Turchia attraverso un centro di monitoraggio situato in Azerbaigian , prevede di portare avanti la missione di mantenimento della pace da solo.

Conclusione: includendo un contingente russo di mantenimento della pace come parte dell’accordo di cessate il fuoco, Mosca ha rafforzato la sua presenza nel Caucaso meridionale e, cosa più importante, ha ripristinato il suo status di attore principale nella regione. Pertanto, l’accordo è una vittoria strategica per il Cremlino: offre a Mosca l’opportunità non solo di costruire legami più forti con l’Azerbaigian e aumentare la dipendenza dell’Armenia, ma anche di monitorare le azioni future della Turchia nel Caucaso meridionale.

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UNIONE EUROPEA E STATO DI DIRITTO II, di Teodoro Klitsche de la Grange

UNIONE EUROPEA E STATO DI DIRITTO II

1. Lo stesso giorno in cui in rete appariva il mio articolo sullo stesso tema http://italiaeilmondo.com/2020/09/30/lunione-europea-e-lo-stato-di-diritto-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/ e con uguale titolo, la Commissione Europea pubblicava la “relazione sullo Stato di diritto 2020”, che conferma da un lato e chiarisce dall’altro, alcune e opinioni (anche) da me evidenziate.

In primo luogo: tra i tanti caratteri dello Stato di diritto, che ricordavo nell’articolo precedente, la Commissione, per formulare i propri giudizi sulla “conformità” al Rechtstaat dei 27 Stati dell’Unione ne prende in esame quattro: il sistema giudiziario nazionale, il contrasto alla corruzione, il pluralismo e la libertà dei mezzi di comunicazione, ed altre questioni – di carattere istituzionale – di bilanciamento di poteri. Un’attenzione a parte poi è dedicata alla pandemia e alle situazioni e normative emergenziali indotte (v. ad esempio i DPCM del Governo italiano). La presidente Von der Leyen ha detto che “lo Stato di diritto e i nostri valori condivisi sono alla base delle nostre società. Fanno parte della nostra identità comune di europei. Lo Stato di diritto difende i cittadini dalla legge del più forte. Pur avendo standard molto elevati in materia di Stato di diritto nell’U.E., abbiamo anche diversi problemi da affrontare” (sul che si può concordare).

La vice Presidente Jourovà ha aggiunto “La nuova relazione esamina per la prima volta tutti gli Stati membri allo stesso modo per individuare le tendenze in materia di Stato di diritto e contribuire a prevenire l’insorgere di gravi problemi”.

Il rapporto, dopo una premessa generale, si articola su 27 capitoli, relativi a ciascuno degli Stati membri. La valutazione si basa (anche) sulle decisioni delle Corti europee e sulle raccomandazioni del Consiglio d’Europa.

La prima conferma di quanto emergeva da precedenti documenti dell’Unione è che i quattro pilastri di valutazione della Commissione sono pochi. Il concetto di “Stato di diritto” comprende altri pilastri, anche se, a leggere i documenti, in qualche misura la stessa relazione, in alcuni passi, deborda dal limite dei quattro esaminati. Come, tra i quattro considerati, ve ne sono un paio non proprio tipici del Rechtstaat.

Così vi sono pilastri, in particolare quello sulla lotta alla corruzione che non costituiscono un “fundamentum distincionis” dello Stato di diritto, non solo perché non lo si trova negli scritti di quei pensatori che hanno formulato la/e concezione/i dello “Stato di diritto”, ma perché molti Stati, tranquillamente non riconducibili allo Stato di diritto, perseguono la corruzione, talvolta in misura più energica degli Stati di diritto. Lo Stato di diritto non trasforma i governanti in angeli, come quello non di diritto in demoni; tale giudizio lo si ricava – nella premessa – già dal Federalista.

2. Un capitolo della relazione è dedicato all’Italia.

Sul primo pilastro (cioè sul sistema giudiziario) la Commissione scrive “È in vigore un solido quadro legislativo a salvaguardia dell’indipendenza della magistratura, sia per i giudici che per i pubblici ministeri. Il potere giudiziario è pienamente separato dagli altri poteri costituzionali”; tuttavia i cittadini non la pensano come la Commissione “Il livello di indipendenza della magistratura percepito in Italia è basso. È considerato buono o molto buono soltanto dal 31% dei cittadini e dal 36% delle imprese, percentuali diminuite tra il 2019 e il 2020. Le ragioni principali per cui i cittadini e le imprese avvertono una mancanza di indipendenza sono le interferenze o le pressioni esercitate dal Governo, dai politici e dai rappresentanti di interessi economici o di altri interessi….”. E perché c’è questo divario tra il lusinghiero giudizio della Commissione e quello – assai meno confortante – degli italiani? Qua la Commissione trascura l’aspetto principale: non è che i cittadini sono preoccupati solo delle “interferenze e pressioni” di Governo e prestiti, ma sono parimenti – e forse di più – preoccupati per i processi, per lo più risoltisi in bolle di sapone – contro leaders e politici del centrodestra (e non solo), asseritamente dovuti alla contiguità di certi settori – maggioritari – della magistratura al centrosinistra. Oltretutto tali processi sono stati caratterizzati da una scarsa rilevanza pubblica delle questioni (come le notti di Arcore a casa Berlusconi), fino al “sequestro di persona” a carico del Ministro degli Interni consistito nel fermo in porto (per quattro giorni) di una nave di migranti. In tal caso, peraltro, pare che i sondaggi diano una significativa maggioranza di consensi popolari all’azione del Ministro imputato.

Inoltre, questa “percezione di bassa indipendenza” è stata rafforzata dallo scandalo delle intercettazioni sul cellulare di Palamara, comprovanti sia la contiguità tra magistrati e politici del centrosinistra, sia la “lottizzazione” degli incarichi dirigenziali in Procure e Tribunali.

Sul perché avviene ciò, malgrado le rilevanti garanzie d’indipendenza della magistratura, tra le più tutelate della U.E., dipende anche dal fatto che, se il potere politico non ha il potere di perseguire i magistrati, ha tuttavia quello di premiarli. A parte gli incarichi amministrativi (numerosi) e in qualche caso, anche giudiziari, spesso magistrati in servizio sono presentati alle elezioni nazionali ed amministrative. Se non eletti (raro) o non rieletti (più facile) ritornano a fare i giudici.

Questa permeabilità tra poteri e carriere non pare conforme ai principi dello Stato di diritto. Montesquieu già sosteneva che la distinzione dei poteri esige d’essere non solo oggettiva, ma anche soggettiva. E conseguentemente negava che le repubbliche italiane, dove spesso i poteri erano distinti, ma erano composti e designati dallo stesso “corpo” di magistrati, la libertà fosse garantita; anzi lo era, a suo giudizio, meno che nelle monarchie assolute1. Anche se l’elettorato passivo è un diritto, per evitare ingressi ed uscite dai poteri a “porte girevoli”, occorrerebbe un regime d’incompatibilità più restrittivo di quello vigente.

Ciò che è omesso, tuttavia, in tema di giustizia, è più interessante di quello che la Commissione prende in esame. Se ricorda, come problema, la lentezza della giustizia italiana, omette di ricordare che anche in forza di disposizioni emanate nell’ultimo trentennio, in Italia eseguire una sentenza contro la PA è sempre più difficile, al punto da richiedere spesso 4-5 anni; una durata superiore a quella – media – del processo di cognizione definito con la decisione giudiziaria da eseguire.

Il tutto è stato oggetto dell’attenzione ripetuta della Corte EDU, con arresti non considerati dalla Commissione.

Non si valuta, poi, quel che risulta dalle stesse contestazioni fatte (qualche anno orsono) dalla Commissione U.E. all’Italia sulla disciplina della legge sulla responsabilità dei magistrati (e di riflesso, dello Stato). Nella sentenza2 della Corte di Giustizia UE del 24/11/2011; si accoglieva il ricorso della Commissione condannando l’Italia3 per la relativa legislazione. Questo perché (citiamo da un’altra sentenza della Corte di giustizia) “Considerazioni (…) connesse alla necessità di garantire ai singoli una protezione giurisdizionale effettiva dei diritti che il diritto comunitario conferisce loro, ostano (…) a che la responsabilità dello Stato non possa sorgere per il solo motivo che una violazione del diritto comunitario imputabile ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado risulti dall’interpretazione delle norme di diritto effettuata da tale organo giurisdizionale”: qui era valutata dal giudice europeo l’idoneità della normativa nazionale a garantire i diritti fondamentali dei cittadini. Invece è evidente che tale preoccupazione nella relazione della Commissione passa in secondo piano rispetto alla tutela (peraltro neppure esaustiva) delle garanzie istituzionali del potere giudiziario (a quelli – strumentalmente – connessa).

Concludendo su tale pilastro: la valutazione è parziale e peraltro non tiene conto della giurisprudenza delle Corti europee (non la contraddice, ma la dimentica). Più in generale omette di considerare che, perché uno Stato (anche non di diritto), ma a maggior ragione se tale, esista e garantisca una protezione effettiva, è necessario che il diritto sia applicato efficacemente. Il che in Italia, relativamente all’amministrazione pubblica soprattutto, avviene spesso male e sempre in ritardo. Nel paragrafo dedicato nella relazione UE all’efficienza del sistema giuridico manca così l’esame dei dati più sconfortanti.

3. La parte sulla lotta alla corruzione si apre con dati sulla percezione della stessa dai quali si evince che i cittadini italiani ritengono, con percentuali assai superiori alla media UE, che la corruzione sia molto diffusa. Prosegue poi con l’esame delle iniziative anti-corruzione, valutate positivamente. Il dato, comunque, andrebbe “associato” con quello dell’efficienza della giustizia, che incide sull’efficacia di queste misure.

Resta poi da capire quanto l’attenzione dedicati alla “grande” corruzione (con relative autorità, procure, uffici di polizia specializzati) possa incidere sulla “corruzione quotidiana” delle licenze, concezioni, permessi, autorizzazioni: che poi è quella che probabilmente influenza di più la percezione che, della corruzione, hanno gli italiani. Per questo, sarebbe utile più che un’autorità apposita, un miglioramento della tutela giudiziaria, in particolare amministrativa, l’aggravio delle pene (o l’istituzione) per comportamenti elusivi della P.A.; nonché una normativa generale d’applicazione dell’art. 28 della Costituzione sulla responsabilità dei funzionari.

Resta comunque da capire come la lotta anti-corruzione sia un pilastro dello Stato di diritto (un proprium) e non pilastro di ogni Stato. Inoltre realisticamente occorre tener conto della considerazione di Max Weber – relativa alla corruzione politica, che chi fa politica, vive in genere (anche) di politica.

4. Il pilastro del pluralismo dei media offre un quadro sostanzialmente positivo; a giudizio della Commissione; tuttavia “l’indipendenza politica dei media italiani continua a destare preoccupazione, anche a causa delle “relazioni indirette” tra gli interessi degli editori e il Governo (nazionale e non locale). Sul che si può concordare.

5. Il quarto pilastro su cui si è appuntata l’attenzione della Commissione sono le “questioni istituzionali relative al bilanciamento dei poteri”. Sostanzialmente la Commissione approva l’ordinamento italiano. Tuttavia registra le preoccupazioni di organizzazioni internazionali in relazione alla campagna denigratoria contro le ONG attive nel settore della migrazione e dell’asilo. Anche in tal caso non è chiara la relazione tra denigrazione delle ONG e Stato di diritto.

6. In conclusione la concezione dello Stato di diritto della Commissione U.E. è una delle tante letture che se ne possono avere.

Quel che più colpisce nella relazione è l’assenza dell’esame dei caratteri non meno influenti di quelli valutati. Nell’articolo precedente ne avevo individuati sei, dei quali, al massimo tre rientrano – almeno parzialmente – nei quattro pilastri della Commissione. Ancor più, degli aspetti assai importanti, non sono per nulla presi in esame, malgrado riconducibili ai pilastri. Per l’Italia, ad esempio, la posizione di parità processuale nei processi contro soggetti pubblici, e ancor più l’eguaglianza di trattamento nell’esecuzione dei provvedimenti giudiziari, così ridotta negli ultimi trent’anni, è stata completamente obliterata.

Il tutto è contrario al principio di “parità delle armi” più volte statuito dalla Corte EDU, perché non solo incide sull’esecuzione delle decisioni (cioè sull’effettività e completezza della tutela giudiziaria), ma anche sulla parità processuale più spesso in fatto che in diritto4.

Al contrario poi di quanto si possa leggere sui media (per lo più) si avverte comunque che, anche se omissiva, la relazione delinea come l’insieme degli Stati dell’U.E. sia sostanzialmente di diritto, pur con qualche menda.

Anche gli Stati come l’Ungheria e la Polonia. Se infatti la UE non ha impostato la relazione su punti qualificanti, anche più di quelli presi in esame, lo si deve probabilmente attribuire al fatto che violazioni gravi, ad esempio alla garanzia dei diritti fondamentali, al principio di legalità, al pluralismo non ve ne sono – o almeno ve ne sono di non gravi.

Il che se da una parte potrebbe essere rassicurante (al netto della necessaria diplomazia e delle emergenze della lotta politica) dall’altro, per le violazioni comunque in essere, difficilmente si troverà un difensore a Bruxelles.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 v. Esprit de lois, Lib. XI, cap. 6.

2 v. sentenza punto 6 “In data 10 febbraio 2009 la Commissione inviava una lettera alla Repubblica italiana in cui dichiarava che, escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazione di ultimo grado… e limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi dell’art. 2, commi 1 e 2, della legge n. 117/88, la Repubblica italiana era venuta meno agli obblighi fa essa incombenti”

3 Peraltro molto simile è il dictum della sentenza 13 giugno 2006, causa C. 173/03.

4 Per esempio con l’esclusione di prove in giudizio, che in fatto limitano la parte privata assai più di quella pubblica, come nel processo tributario.

L’UNIONE EUROPEA E LO STATO DI DIRITTO, di Teodoro Klitsche de la Grange

L’UNIONE EUROPEA E LO STATO DI DIRITTO

1. Dopo essere stato messo (politicamente) in naftalina, lo “Stato di diritto”, grazie, soprattutto, all’Unione Europea, è tornato alla ribalta, non solo nelle procedure d’infrazione attivate (v. Polonia ed Ungheria); ma è celebrato quale “valore fondante” dell’Europa nei discorsi dei politici (e così via). Date le mie convinzioni politiche, di tale revival non posso che essere lieto; ma, tenuto conto a) del concetto e b) della normativa europea, occorre segnalarne l’ampia possibilità di un uso improprio e strumentale.

Cominciamo col dire che dello “stato di diritto” (per non dire di concetti prossimi) i giuristi – e non solo – hanno dato tanti significati, quasi pari al numero di quelli che se ne sono occupati.

Il termine comincia ad essere usato nella dottrina (e nella politica) tedesca dalla prima metà dell’800, per connotare il nuovo tipo di organizzazione statale e di rapporti tra società civile e poteri politici. Il Rechtstaat era contrapposto al Machtstaat (e al Polizeistaat) in quanto (al minimo) limitato dal diritto (e dai diritti).

I caratteri fondamentali di tale nozione erano: la libertà degli individui, titolari di diritti insopprimibili, anche dallo Stato; la certezza (calcolabilità) del diritto; il vincolo dell’attività amministrativa alla legge; il controllo di quella da parte di uffici giurisdizionali indipendenti.

Accanto a ciò si configurava – anche se concettualmente separata – la partecipazione dei cittadini alla gestione statale e in particoilare alla legislazione. Già un coerente liberale come Constant faceva dell’esercizio solerte dei diritti di partecipazione alla formazione della volontà pubblica – la “libertà degli antichi” – il complemento e la garanzia dei diritti di libertà dell’oppressione (anche) dello Stato1. Nello stesso tempo il collegamento tra prevalenza della legge sull’atto amministrativo e partecipazione della rappresentanza nazionale (cioè dei cittadini-elettori) alla formazione della legge, faceva sì che questa fosse “trattata con indulgenza” nel senso che, a differenza degli atti del potere giudiziario ed amministrativo (sentenze e provvedimenti) non fosse assoggettata ad alcun controllo né esterno, ma neppure interno.

Non mancavano comunque concetti, in parte coestensivi, con quello di Stato di diritto. V. E. Orlando, dopo aver distinti tra forme dispotiche, semilibere e libere di governo2, a seconda dei diritti di partecipazione alla cosa pubblica riconosciuti (e non riconosciuti) ai governati, includeva tra i fondamenti della forma di “governo rappresentativo”, la distinzione dei poteri “il governo rappresentativo si fonda principalmente sulla giuridica distinzione dei poteri e sull’appropriazione ad essi di organi determinati” e la tutela giuridica “il governo rappresentativo attua scrupolosamente e pienamente la tutela giuridica fra i consociati (obietto del Diritto amministrativo)”.

Accanto ai quali il giurista siciliano aggiungeva due caratteri: “Il governo rappresentativo moderno si propone di curare ed attuare l’armonia esterna e costante fra i due elementi essenziali, cioè la coscienza popolare e la tradizione, non solo nel fatto, come in ogni forma di governo, ma altresì nel diritto positivo, per mezzo di istituti determinati”; ed anche la “pubblicità è finalizzata al controllo da parte dell’opinione pubblica”. La quale, secondo Schmitt era conseguenza del carattere democratico della Repubblica di Weimar3.

Carré de Malberg, proprio come derivante dell’illimitatezza della legge, negava che, per la Francia, potesse parlarsi di Stato di diritto, ma piuttosto di État legal4. Tra le differenze dell’État legal rispetto all’État de droit, il giurista francese sottolineava l’impossibilità di ricorrere avversi gli atti legislativi violativi di diritti, che nell’Ésprit dello Stato di diritto avrebbero dovuto essere garantiti dalla Costituzione anche nei confronti del potere legislativo5.

Anche M. Hauriou pensava che il controllo giurisdizionale in un paese di diritto amministrativo come la Francia si sarebbe fatta strada, e che Le règime administratif avrebbe evitato che degradasse in un governo di giudici6.-

2. L’introduzione del controllo giudiziario di costituzionalità e delle costituzioni rigide del ‘900 ha attuato l’auspicio/previsione dei giuristi francesi testé citati, ampliando l’ambito dello Stato di diritto. Peraltro, a prescindere dalla tutela giudiziaria, anche sul piano sostanziale con l’includere tra i diritti fondamentali non solo libertà e proprietà, ma anche quelli a carattere sociale. Il Rechstaat diveniva così anche un Sozialstaat.

Con ciò il nuovo stato di diritto assumeva una connotazione (anche) di contenimento (se non di contrapposizione) del capitalismo.

Peraltro i diritti “sociali” aventi un carattere (prevalente) d’obbligo e richiedenti un’apposita organizzazione – pubblica o, almeno, regolata e controllata pubblicamente – determinavano l’espansione della presenza dello Stato; e data la “contraddittorietà” tra i diritti garantiti, la composizione del tutto richiedeva tecniche interpretative che ne conciliassero le antinomie (come il “bilanciamento”) e valorizzassero i principi costituzionali. Dallo Stato di diritto si passava così allo “Stato costituzionale di diritto”. Come scrive un acuto giurista argentino, Luis Bandieri, analizzando la dottrina costituzionalista italiana più recente, riconducibile a quella concezione, si è passati così da un positivismo di norme (kelseniano) a un positivismo di valori.

Inoltre, a seguito delle dichiarazioni internazionali sui diritti dell’uomo (v. La dichiarazione ONU dei diritti dell’uomo del 1948; Convenzione europea dei diritti dell’uomo – tra le più importanti) alcuni dei fondamenti dello Stato di diritto sono stati internazionalizzati (dandone luogo ad una “globalizzazione”). Lo Stato di diritto inotre è stato esplicitamente richiamato nel TUE (art. 2 e 21), tra i principi e i valori fondamentali dell’Unione; si legge all’art. 2 “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini” e all’art. 21 “L’azione dell’Unione sulla scena internazionale si fonda sui principi che ne hanno informato la creazione, lo sviluppo e l’allargamento e che essa si prefigge di promuovere nel resto del mondo: democrazia, Stato di diritto, universalità e indivisibilità dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, rispetto della dignità umana, principi di uguaglianza e di solidarietà e rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale” (I comma); al comma II “L’unione definisce e attua politiche comuni e azioni e opera per assicurare un elevato livello di cooperazione in tutti i settori delle relazioni internazionali al fine di….b) consolidare e sostenere la democrazia, lo Stato di diritto, i diritti dell’uomo e i principi del diritto internazionale”. Con ciò lo Stato di diritto si trova in sovrabbondante compagnia (talvolta anche ridondante).

3. Da tale necessariamente breve – e limitata – esposizione consegue che a denotare il concetto di Stato di diritto (e delimitarne così l’estensione) e ricondurre al di esso schema ideale un ordinameno statale concreto sono:

a) la garanzia dei diritti fondamentali, sia quelli “borghesi” che quelli “sociali” (almeno in parte)

b) la distinzione dei poteri. Si noti che la distinzione è attuata dalle costituzioni in modi e forme assai diverse

c) in particolare, tra le garanzie, vi sono quelle giurisdizionali, che Salandra già distingueva in dirette e indirette

d) in tale contesto rientrano anche le institutionnellegarantien, come quelle sull’indipendenza del potere giudiziario e del giudice

e) le garanzie giudiziarie (v. punto c) sono complete. Ossia nel XXI secolo, anche sugli atti legislativi, col controllo di costituzionalità; esse, per quanto possibile, devono svolgersi in condizioni di parità7.

f) l’osservanza di condizioni eque nella formazione di organi di governo e dell’opinione pubblica.

Anche si potrebbe osservare che non rientrano in un concetto “stretto” dello Stato di diritto, ma piuttosto in quello di democrazia, appare corretta l’impostazione condivisa, tra gli altri, da Constant e Orlando (ma anche da Gneist) che la corretta partecipazione dei cittadini alla funzione pubblica è carattere determinante dello Stato di diritto.

Tralasciamo altri aspetti, di minimo rilievo.

4. È noto che lo Stato di diritto è stato declinato in tanti modi quante sono le costituzioni che ne hanno adottato il modello o, almeno, alcuni caratteri fondamentali; ne deriva che a seconda dell’importanza che si da all’uno o all’altro profilo si rischia di escludere che un ordinamento costituzionale concreto sia uno Stato di diritto. Ad esempio nella procedura U.E. d’infrazione alla Polonia è stata contestata le limitazioni all’indipendenza dei giudici polacchi dopo le innovazioni degli ultimi anni8. Nella risoluzione del Parlamento europeo del 17/09/2020 si stigmatizzano varie violazioni allo Stato di diritto per lo più per l’invadenza del potere governativo sul giudiziario, che compromette l’indipendenza di quest’ultimo, soprattutto per la nomina (politica) di quasi tutto il CSM polacco. Tuttavia negli USA tutti i giudici della Corte Suprema, e molti di quelle “inferiori” sono di nomina (o elezione) politica, ma pare assai difficile sostenere che gli USA non sono uno Stato di diritto, ma anche che quel modo di nominare comprometta gravemente lo Stato di diritto (come scritto – per le meno influenti innovazioni polacche – nell’epigrafe della risoluzione del Parlamento europeo per la procedura d’infrazione alla Polonia).

Oltretutto, come cennato, alcuni di quei fondamenti del Rechtstaat non sono complementari o sovrapponibili senza problemi, ma potenzialmente confliggenti, in specie quando riguardano la democrazia e l’uguaglianza, le quali, oltretutto, oltre a essere parzialmente coincidenti con il concetto di Stato di diritto, sono anche esse indicate tra i “valori fondanti” dell’UE (v. art. 2 T. U.E.).

La contrapposizione tra Stati di diritto, o meglio Stati di democrazia liberali e Stati di non democrazia liberale, come i defunti Stati del socialismo reale era – per altri ordinamenti – facile, perché le differenze erano plurime.

L’assenza, in quest’ultimi, di distinzione di poteri, la garanzia di solo alcuni dei diritti fondamentali (in genere a rimetterci erano la libertà e, in larga misura, la proprietà); la dipendenza della magistratura dal potere politico, la selezione ed elezione della rappresentanza parlamentare; il ruolo di questa, e quello dirigente del Partito comunista; l’imperfetto – o totalmente carente, pluralismo politico; la mancanza di istituzioni giudiziarie di garanzia contro gli atti del potere politico-amministrativo (giustizia amministrativa e costituzionale) rendevano di inconfutabile evidenza che si trattava di forme di stato e di governo radicalmente diverse. Giudizio corroborato dalle dichiarazioni e preamboli a alle di essi costituzioni che – di solito – contrapponevano esplicitamente il loro ordinamento a quello liberal-democatico.

Il che non ricorre affatto nella procedura d’infrazione a carico di Polonia ed, ancor più, Ungheria. Qua la stessa UE scrive non di Stati non di diritto, ma di gravi violazioni dello Stato di diritto (a intenderla in un senso, sono ordinamenti in complesso accettabili ma con dei vulnera). Diversamente da quel che si legge sulla stampa antipopulista in s.p.e. ed eurolirica dalla quale si potrebbe credere che i suddetti Stati siano sintesi politiche per nulla liberali e anche non del tutto democratiche. Mentre invece, tenuto conto dell’elasticità del concetto di Stato di diritto, occorre dare un giudizio complessivo e avere la prudenza consigliata da Machiavelli che, in politica, occorre prendere “il men tristo per buono”. In effetti se pure – ad esempio – alcune innovazioni al rapporto governo/giurisdizione incidono negativamente sull’indipendenza dei giudici polacchi, e possono essere considerate violazioni gravi, oltre, come quelle elencate nei punti 54-63 della citata risoluzione del Parlamento UE sulla libertà e l’educazione sessuale, sull’intolleranza verso minoranze (soprattutto LGBT) non appaiono gravemente compromettenti lo Stato di diritto.

Piuttosto provano che l’Unione Europea, sotto l’involucro “Stato di diritto” cela una propria concezione della società e dei rapporti sociali e politici che dello Stato di diritto può essere considerata una specie (in parte); in altra estranea. D’altronde ciò emerge esplicitamente dalla risoluzione del 17 settembre 2020 sulla Polonia, laddove il Parlamento (v. punto 66) “invita il Consiglio e la Commissione ad astenersi da un’interpretazione restrittiva dello Stato di diritto…”, cioè da quella (meglio da quelle) interpretazione che non soddisfano la maggioranza parlamentare che l’ha votata.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 v. B. Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, Liberilibri, Macerata 2020, pp. 26 ss.

2 v. Principi di diritto costituzionale, Barbera, 1904, pp. 63 ss.

3 v. Verfassungslehre, trad. it., di A. Caracciolo, Milano 1984, pp. 319 ss. Infatti Schmitt afferma “Il popolo appare solo nella pubblicità: esso produce anzi la pubblicità. Popolo e pubblicità coesistono; nessun popolo senza pubblicità e nessuna pubblicità senza popolo”.

4 Scrive infatti “Tandis que la législation est libre, l’administration est constitutionnellement liée ; elle ne peut s’exercer que sous l’empire des lois, qui la dominent et la limitent juridiquement ; elle est donc tenue d’obeir aux lois et de s’y conformer. C’est là une consequénce de la supériorité, en particulier de la superiorité statutaire, de la loi” Contribution à la théorie général de l’État, Tome 1, Paris 1924, p. 486 e ss; nel diritto francese la subordinazione dell’amministrazione alla legge arriva a un punto che non può esercitarsi che secundum legem (la legge è non solo il limite, ma anche la condizione di esercizio del potere amministrativo). Lo Stato di diritto è quello che “assure aux administrés, comme sanction de ces règles, un pouvoir juridique d’agir devant une autorité juridictionnelle à l’effet d’obtenir l’annullation, la réformation ou en tout cas la non-application des actes administratifs qui les auraient enfreintes” (oltre s’intende alla regolamentazione legislativa dell’amministrazione). Ma “Toute autre est le système établi par la mConstitution française en ce qui concerne la subordination de la puissance administrative à la législation » per cui compete alla repubblica francese essere denominata État legal, ossia « un État dans lequel tout acte de puissance administrative présuppose une loi à laquelle il se rattache et dont il soit destiné à assurer l’exécution”.

5 Op. cit., p. 492.

6 v. Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, pp. 266 ss. e pp. 279 ss.

7 Com’è noto non è sempre del tutto possibile. V. sul punto rimando al mio scritto Temi e dike nel tramonto della Repubblica in Rivoluzione liberale 17/07/2018.

8 v. La risoluzione del Parlamento europeo del 17/09/2020 sulla proposta di decisione del Consiglio sulla constatazione dell’esistenza di un evidente rischio di violazione grave dello Stato di diritto da parte della Repubblica di Polonia (COM(“2017)0835-2017/0360R(NLE)); in particolare i punti da 16 a 37, sul potere giudiziario.

MES. L’Europa e il Trattato impossibile, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

A.A.V.V. (a cura di Alessandro Mangia), MES. L’Europa e il Trattato impossibile, Scholé, Brescia 2020, pp. 243, € 18,00.

Un gruppo di giuristi, coordinato da Alessandro Mangia, s’interroga su cosa (e e che effetto debba e possa avere) il MES. Scrive Alessandro Mangia, ripetendo – ironicamente – un frammento del Digesto che nel diritto ogni definizione è pericolosa: c’è poco che non possa essere smentito o capovolto. «E questo appare tanto più vero per il MES, che è un oggetto misterioso dal punto di vista del diritto. Del MES, di ciò che può fare e non fare, di che cosa sia e a cosa serva, hanno parlato in tanti. Ma ne hanno parlato soprattutto economisti che si sono beati della ‘potenza di fuoco’ di un oggetto che galleggia nell’indistinto che sta fra diritto internazionale, diritto bancario, diritto costituzionale senza essere in grado di coglierne le pericolose anomalie. Se a questo si aggiunge la polemica politica, e la cattiva informazione, si capisce perché del MES si sia potuto dire tutto e il contrario di tutto». Peraltro «del MES non hanno parlato i giuristi, se non incidentalmente»; la conseguenza è che «del MES hanno parlato soprattutto economisti, politici e funzionari vari», spesso anche per andare su un giornale o in televisione. E il risultato è di «affidarsi a chi non ha né addestramento né forma mentale a cogliere le impressionanti implicazioni di ordine giuridico e istituzionale che derivano dall’essersi affidati ad un Trattato internazionale per regolamentare attraverso le forme del diritto privato i rapporti tra Stati sovrani» e ciò equivale a «farsi spiegare il Codice Civile o il diritto romano da un ingegnere. O un manuale di Tecnica delle Costruzioni da un giurista».

Mentre ha un’importanza decisiva parlarne e valutarlo in termini giuridici perché «il diritto è una tecnica antica di ricoscimento, analisi, e composizione di interessi confliggenti». E qua gli interessi confliggenti non mancano e sono di enorme rilievo. Per capire come il MES è bisogna partire dal fatto che è un’istituzione e cioè «una realtà che di per sé non è né giuridica, né economica, ma è, prima di tutto, una struttura fatta di regole giuridiche e comportamenti materiali», che interagiscono tra loro e con altre istituzioni. Pertanto vedere il MES solo dal punto di vista del Trattato, senza analizzare gli interessi concreti che lo hanno creato, se ne capisce molto poco. Il MES è stato istituito «per cercare di colmare un buco di progettazione originario del Trattato di Maastricht del 1992: una Banca Centrale che non fa le cose che normalmente fanno le Banche Centrali di tutto il mondo». Per rimediarvi, e, a seguito della crisi del 2007, che rese evidente l’inadeguatezza della BCE ad affrontare e superare le emergenze, s’istituzionalizzò il MES come strumento temporaneo (e quindi eccezionale) d’intervento.

A tale istituzione (e ai suoi funzionari) sono stati concessi privilegi da Stato sovrano e il che, tra l’altro, viola le costituzioni degli Stati aderenti «sul versante di pienezza e generalità della tutela giurisdizionale» (v. art. 24 Costituzione italiana). Così se per le dovute forme e regole speciali è processabile da un Tribunale un Ministro degli Interni, non lo è una dattilografa del MES. Inoltre il consiglio dei Governatori del MES è composto dai Ministri economici dei governi aderenti, che sono tenuti al “segreto professionale” «Non si tratterebbe di un grande problema se il MES fosse una normale istituzione bancaria»; lo diventa se poi i Ministri devono rispondere – com’è – al Parlamento; per cui il «segreto professionale» entra in conflitto con le procedure della rappresentanza parlamentare. Questo mescolare principi, istituti e procedure di diritto pubblico e privato ne ha fatto un ircocervo, peraltro zoppo. E, come qualcuno dice, anche “stupido”. Ma, spesso la disciplina europea non è così stupida come descritta, spesso intenzionalmente, quando serve da base argomentativa al ritornello “ce lo chiede l’Europa”. Infatti il difetto fondamentale della BCE, nata anch’essa claudicante, era di non prevedere per essa tutti poteri attribuiti alle Banche centrali, magari poco rilevanti in tempi normali, ma decisivi in situazioni eccezionali; e a questo “errore di progettazione” dovrebbe rimediare il MES, anch’esso zoppo. Tuttavia una via d’uscita c’è: l’art. 122 del TFUE consente all’UE di dare assistenza finanziaria ad uno Stato membro in difficoltà “seriamente minacciato da gravi difficoltà a causa di calamità naturali o di circostanze eccezionali che sfuggono al suo controllo”. Norma che non “sana” le spese allegre dello Stato membro, ma è la classica eccezione non riconducibile ad azioni o omissioni dei governi.

Strada che, secondo gli autori di questi saggi è la migliore e la più percorribile. Ma non sembra che in Europa (e in Italia la maggioranza di governo) ne abbia l’intenzione

Teodoro Klitsche de la Grange

UNA UE CHE NON ESISTE PER NESSUNO

UNA UE CHE NON ESISTE PER NESSUNO
Cinque anni fa, quando centinaia di migliaia di migranti siriani e afgani si incamminarono verso il Nord Europa lungo la rotta balcanica, la Germania decise di aprire le frontiere facendo entrare oltre 900.000 richiedenti asilo. “Wir schaffen das” (Ce la faremo), ripeté per mesi Angela Merkel, spiegando ai tedeschi che anche quel problema sarebbe stato gestito come lo erano stati altri in precedenza.
Qualche anno dopo la stessa Merkel spinse la Ue a pagare suon di miliardi alla Turchia di Erdogan affinché trattenesse all’interno delle proprie frontiere quegli stessi migranti. Nascondendo il problema sotto al tappeto e mettendo nelle mani del despota turco una potente arma di ricatto nei confronti dell’Europa.
Oggi, all’indomani dell’incendio nel disumano centro profughi di Moira sull’isola di Lesbo, con 13.000 migranti senza più neppure un tetto, Merkel deve ammettere il fallimento totale: “Non esiste una politica Ue sull’immigrazione”.
Contemporaneamente il presidente francese Macron riunisce ad Ajaccio i paesi dell’Europa mediterranea per dare una risposta coordinata all’offensiva energetica turca. Un fronte anti-Erdogan, progettato al di fuori della Ue, con assenti tutti i paesi a Nord e a Est delle Alpi. Di fatto un’altra ammissione di fallimento dell’Unione europea, incapace di gestire crisi di qualsiasi natura: che siano dovute all’immigrazione o siano di carattere militare o geopolitiche. La Ue non ha la governance per poter gestire nulla.
La Ue è solo una banca ma non è neppure una banca credibile, perché è esposta alle instabilità di una politica che non è connessa a lei e che non può governare.
Siamo alla crisi di governance. Merkel dichiara l’impotenza, Macron la certifica. Impotenza sociale, impotenza economica, impotenza militare.
E al Regno Unito che minaccia la Brexit senza accordo, con una legge che potrebbe mettere in discussione anche parti dell’intesa di divorzio sottoscritta alcuni mesi fa, la Ue è ridotta a rispondere con minacce di azioni legali, ricevendo in cambio una lezione sulla sovranità democratica del parlamento di Westminster. Quella stessa Ue che tre anni fa avvertiva gli elettori britannici al referendum che con l’Exit il Regno Unito sarebbe rimasto isolato dal punto di vista politico, commerciale e industriale, ma che oggi non ha alcuna arma geopolitica da mettere in campo. Solo avvocati.
In un solo giorno tre ammissioni di fallimento su tre fronti fondamentali. La crisi strutturale dell’Ue non potrebbe essere esposta in modo più plateale.

 

Eterna Brexit Di: George Friedman

Eterna Brexit

Di: George Friedman

Nel 2016, il governo britannico ha chiesto un referendum sul fatto che il Regno Unito debba

rimanere membro dell’Unione europea. Il popolo britannico ha votato per andarsene. Da allora,

c’è stata una lotta in Gran Bretagna per invertire la decisione e una lotta tra la Gran Bretagna e l’UE

sui termini della partenza.

Ora è il 2020 e il processo non è ancora finito. Dato che l’UE si basa semplicemente su un trattato

– non su una federazione – la sovranità è una questione di singoli stati, non del “governo” di Bruxelles.

I trattati sono accordi tra nazioni, non una fusione di nazioni, e quindi sono reversibili.

Poiché stiamo per assistere a un nuovo e presumibilmente ultimo ciclo di negoziati sul divorzio,

con l’UE che ora chiede una rapida risoluzione, anche se la questione irlandese è ora il blocco, il vero

problema è come la questione si sia trascinata così a lungo . Per chiunque abbia divorziato o ne abbia

visto uno, ha senso: i divorzi sono quasi sempre pieni di rabbia, recriminazioni, desideri di infliggere

dolore e talvolta il desiderio che il vecchio affetto venga resuscitato. I bambini diventano pedine.

Gli amici devono scegliere da che parte stare. La differenza, ovviamente, è che il rapporto della Gran

Bretagna con l’UE è semplicemente una questione di interesse nazionale e non il risultato di una relazione

amorosa. La Gran Bretagna e l’UE hanno vissuto insieme quando hanno dovuto, ma

non si sono mai sposate. E così gli avvocati continuano a incontrarsi mentre ogni parte crea più barriere

a un amabile disimpegno.

La prima barriera alla separazione era all’interno della Gran Bretagna. Le classi tecnocratiche e la comunità

finanziaria davano per scontato che la Brexit sarebbe stata rifiutata dagli elettori. Quando non lo era, avevano

due scelte:

affrontare il fatto di aver frainteso il loro paese, o etichettare il voto imperfetto e il risultato dell’ignoranza

da parte di coloro che hanno votato per il ritiro. Naturalmente hanno scelto quest’ultima, una decisione che è

la principale responsabile del ritardo della Brexit. Se gli ignoranti votavano per la Brexit, tutto ciò di cui avevano

bisogno era un po ‘di educazione nell’errore dei loro modi, o almeno così andava il pensiero. La strategia migliore,

quindi, è stata quella di ritardare la Brexit e persuadere il paese che la Brexit sarebbe stata catastrofica in modo

che il governo potesse invertire il voto.

Il problema era che la tecnocrazia e la comunità finanziaria confondevano i loro interessi con quelli del paese

nel suo insieme.

Il libero scambio aveva beneficiato molti, ma aveva anche lasciato le classi industriali in difficoltà poiché i paesi

a basso salario avevano accesso al mercato britannico. Il risultato fu una quasi depressione nel cuore industriale

della Gran Bretagna.

Come in altri paesi, coloro che beneficiavano del libero scambio erano indifferenti o per lo più ignoranti del prezzo

che gli altri stavano pagando. Non avrebbero mai immaginato di perdere il referendum, ma poi non sapevano

quanti lavoratori industriali disoccupati ci fossero.

Un secondo ostacolo riguardava la sovranità nazionale, in particolare sull’immigrazione. L’élite illuminata sentiva

l’obbligo morale di aiutare gli immigrati. Su questo erano al passo con l’élite del continente europeo. Naturalmente,

gli immigrati non avrebbero vissuto con le élite nei loro quartieri. Gli immigrati vivono in alloggi a basso costo,

dello stesso tipo in cui ha vissuto la classe industriale dal suo declino. L’idea che l’immigrazione non potesse essere

bloccata in base alle norme dell’UE significava non solo una perdita della sovranità nazionale, ma un fardello che

doveva essere portato unicamente da coloro che avevano perso di più.

L’ironia era che, storicamente, le fazioni politiche che difendevano gli interessi della classe operaia industriale ed

erano ostili all’élite finanziaria si trovavano con la posizione opposta: la classe operaia industriale era ora percepita

come reazionaria e razzista, mentre quella finanziaria e tecnocratica l’élite era vista come illuminata. Se l’opposizione

alla Brexit fosse illuminata, il voto potrebbe essere annullato una volta che il resto del paese lo avesse capito. Da qui

la strategia per invertire il voto e riaffermare l’impegno britannico nei confronti dell’UE. Ciò è continuato fino a quando

l’elezione di Boris Johnson ha risolto la questione.

L’UE, nel frattempo, ha fatto il possibile per rendere sgradevole la Brexit con un duplice approccio. La prima era far

sembrare che la Brexit sarebbe stata finanziariamente catastrofica per la Gran Bretagna e relativamente irrilevante

per l’UE.

Il secondo obiettivo era rendere i negoziati il ​​più difficili possibile, fissando i termini il più onerosi possibile e difficili da

accettare per la Gran Bretagna.

L’ironia era che se la Brexit interessava così poco l’UE così come veniva rappresentata, allora era la posizione

apparentemente inflessibile che aveva non aveva senso. In verità, perdere il libero accesso alla seconda economia più

grande d’Europa era enormemente importante e, nonostante le posizioni di contrattazione, un po ‘di accomodamento

era essenziale.

La forza trainante di questa strategia era un’alleanza implicita tra i britannici anti-Brexit e l’UE. Entrambi volevano

fortemente mantenere la Gran Bretagna nell’UE, e le azioni di ciascuno avevano lo scopo di aiutare l’altro. Una posizione

negoziale rigida da parte di Bruxelles ha fatto sembrare impossibile una Brexit gestibile e potrebbe rafforzare la mano

degli inglesi anti-Brexit.

Allo stesso tempo, le continue manovre per invertire la Brexit hanno rafforzato la mano di Bruxelles dal

momento che avevano a che fare con quella che potrebbe essere una fazione in declino in Gran Bretagna. Insieme,

queste due fazioni potrebbero spezzare la schiena della Brexit.

La strategia fallì, ovviamente, perché nessuna delle due fazioni poteva riconoscere o occuparsi del prezzo che la classe

industriale britannica stava pagando. Entrambi si aspettavano che questa classe si indebolisse, ma in realtà la fazione

rimase intatta e ne attirò anche altre. I movimenti di classe inferiore, etichettati di destra dall’élite, sono diventati più

potenti ed estremi.

Il problema britannico è diventato il problema europeo, come sempre.

Stiamo ora entrando in quella che sembra essere la fase finale. Bruxelles sembra amareggiata per quanto tempo è durato

il processo, e il capo negoziatore dell’UE, che era stato minaccioso e implacabile nella sua strategia negoziale, sembra

essere stato rimosso dalla sua posizione. In altre parole, l’UE non è più il problema. Una volta che la Gran Bretagna aveva

deciso di andarsene, l’UE non poteva fare altro che ritardare.

La questione ora è la storica questione britannica: l’Irlanda. L’Irlanda è nell’UE e rimarrà. Vuole il libero scambio

con l’Irlanda del Nord. L’Irlanda del Nord fa parte del Regno Unito e quindi lascerà l’UE. L’UE non può consentire il libero

scambio tra un membro dell’UE e una parte della Gran Bretagna poiché ciò si trasformerà in libero scambio con l’Inghilterra,

il che non è un problema tanto per l’Irlanda o la Gran Bretagna quanto per l’UE.

L’UE sta esitando e la Gran Bretagna se ne va.

Ciò potrebbe riaccendere il conflitto politico nell’Irlanda del Nord.

I matrimoni sono cose meravigliose. I divorzi stanno agonizzando le cose per tutti i soggetti coinvolti. Ciò è particolarmente

importante quando la coppia si è fusa completamente come richiede un buon matrimonio. La lezione per le nazioni è che tutte

le alleanze finiscono con il divorzio.

E più concentrato e limitato, meno angosciante è l’inevitabile separazione. In un matrimonio, tutti sono uno, o dovrebbero

essere. In un accordo politico questo non è mai il caso. Non sono altro che nazioni che perseguono il loro interesse nazionale.

Finché morte non ci separi non si applica agli stati-nazione.

https://geopoliticalfutures.com/eternal-brexit/?tpa=NzZlYTdjNmU3YTY5MzIwMzY0NjMzNDE2MDAwMTEzMDIxNjg5NWQ&utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_term=https%3A%2F%2Fgeopoliticalfutures.com%2Feternal-brexit%2F%3Ftpa%3DNzZlYTdjNmU3YTY5MzIwMzY0NjMzNDE2MDAwMTEzMDIxNjg5NWQ&utm_content&utm_campaign=PAID+-+Everything+as+it%27s+published

i primi della classe, di Giuseppe Germinario

L’organo di informazione digitale indipendente EU_news ci informa prontamente che Francia e Germania hanno già predisposto i piani di ripresa previsti e richiesti dal Recovery Fund. Tralasciamo a momenti più propizi ogni verifica e giudizio sulla reale “indipendenza” dell’organo di informazione, a cominciare dai possibili condizionamenti da eventuali finanziamenti della UE e sulla conseguente autorevolezza del sito.

Pur con qualche macchia ed ammaccatura dovute all’indefesso ed invadente influsso delle direttive europee di stampo iperfederalista in materia di organizzazione amministrativa ed istituzionale, l’assertività della macchina burocratica transalpina e la meticolosità di quella teutonica sono fuori discussione al confronto almeno della farraginosità e della disarticolazione crescente di quella italiana. Soprattutto la seconda, quella tedesca, rispetto alla prima, quella francese. Non è solo merito proprio delle peculiarità del carattere nazionale tedesco. Non tutto oro è però quel che luccica. Determinante è stato l’apporto decisivo degli americani trionfatori della seconda guerra mondiale. Hanno imposto l’organizzazione federalista al nascituro stato tedesco, più affine all’indole anseatica che all’impulso prussiano; hanno spinto per un ruolo politico determinante dei tedeschi, pur sonoramente sconfitti, nell’agone europeo a bilanciare ed annichilire eventuali ambizioni egemoniche anglo-francesi. Una affinità decisiva e propiziatrice con l’impostazione lobbistica e federalista delle strutture comunitarie nate dalla gestazione del piano Marshall, della NATO e della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio). A fronte dell’insulsaggine della diplomazia europeista dell’Italia, della diffidenza di quella francese, riflesso condizionato soprattutto degli sgarbi americani, della ritrosia di quella inglese, ai tedeschi non è parso vero di poter occupare progressivamente, loro in sodalizio con i satelliti dell’Europa centro-nord-orientale, poco a poco i posti chiave delle cariche e dei posti dirigenziali degli apparati comunitari. Lo hanno fatto con la scrupolosità e l’ostinazione tipica di quel popolo; con quella stessa scrupolosità ed ostinazione grazie alle quali hanno contribuito in maniera determinante a trascinare nel disastro loro stessi e i paesi europei fratelli per ben due volte; non è detto che non ci riescano per la terza. Sta di fatto che da parte loro, a ruota dei francesi, non si tratta di mirabolante preveggenza né della fortuna imponderabile degli aruspici. Semplicemente conoscono bene le compatibilità legate alla fedeltà atlantica e occupano i posti giusti per poter predisporre gli assetti del proprio paese secondo regole che sono loro stessi a definire; giacché anche il più libero dei mercati e la più completa delle democrazie funzionano in base a regole ben definite. Lo si è visto tra i vari esempi nei piani Schroeder di fine ‘900, propedeutici ai piani di austerità così deleteri per le economie mediterranee; lo si è visto nella riorganizzazione del sistema bancario, del Laender-Kredit tedesco e del credito cooperativo francese (il primo tagliato fuori dal sistema di controllo e riordino societario comunitario, il secondo con un sistema cooperativo e territoriale salvaguardato e inquadrato in una SPA nazionale in grado di intervenire ed acquisire efficacemente all’estero). E tuttavia non è detto che tanta sagacia riesca a togliere i due paesi dall’impasse e a risollevarne le sorti. I piani sembrano seguire le direttive e le priorità indicate dalla Commissione Europea e perorate dai due paesi leader. Ma sono proprio quelle direttive che rischiano di condannare e segnare il futuro per altri decenni. Sia sulla transizione energetica ed ecologica perché non si definisce il rapporto tra le energie rinnovabili, utilizzabili in alcuni usi civili e senza la garanzia di continuità tipica delle energie intermittenti e quelle tradizionali ancora indispensabili per lungo tempo per le attività industriali ed i consumi massivi ed intensivi; sia sulla transizione digitale perché non chiarisce il dato cruciale del controllo e della gestione dei dati e del controllo della rete che dovrebbero consentire il controllo della trasmissione dei comandi secondo le modalità di industria 4.0. Il rischio è che a farne le spese sia l’industria nucleare, in particolare quella francese già in crisi pesante se non irreversibile e con esso l’efficacia e la sostenibilità del sistema militare di deterrenza nucleare francese ed eventualmente europeo; che la digitalizzazione si riduca ad una razionalizzazione sotto controllo americano o, in alternativa alquanto vaga, cinese. I due paesi dispongono, a differenza dell’Italia, già di un piano. L’autore fa notare giustamente che non necessariamente la loro esistenza ne determini di per sé l’efficacia e l’attuazione. Non è solo un problema di capacità tecnica ed amministrativa; è soprattutto un problema di capacità e volontà politica e geopolitica. La condizione dei due paesi consente di ambire a condizioni di reale autonomia politica solo nell’arco di almeno due/tre lustri, sempre che le dinamiche esterne legate al conflitto tra Stati Uniti, Cina e Russia consentano margini di agibilità sufficienti. Paradossalmente, in un contesto così mobile,  i progetti, alcuni dei quali in uno stadio più avanzato, di paesi più vulnerabili ma più allineati, come l’Italia e la Gran Bretagna, potrebbero avere maggiori probabilità di successo. Da qui i tentativi pressanti di annessione o annichilimento di aziende e tecnologie nel settore navale ed aeronautico italiani assecondati dalla consueta propensione esterofila di buona parte della residua grande imprenditoria italiana o ex-italiana. Per quanto discutibili e fragili, i pochi e reali progetti di sviluppo industriale strategici sono piuttosto il frutto di accordi bilaterali tra i due stati nazionali principali che di decisioni ed indirizzi comunitari. All’Unione Europea rimane la funzione di mantenimento delle attuali posizioni di forza, di predazione dei paesi mediterranei e di impedimento della nascita di poli europei alternativi, specie mediterranei. Il recovery fund e tutto l’armamentario consolidato in questi decenni sono semplicemente il bastone e la carota per tenere sotto più stretto controllo il gregge; ma è anche la cappa che impedisce ai due paesi leader di maturare un assetto di alleanze su basi più paritarie e lungimiranti che consenta agli stati europei, almeno a quelli principali, di assumere un ruolo significativo nell’agone geopolitico mondiale.

Per concludere due notazioni con relativi quesiti: come si concilia l’affermazione del nostro beneamato Gentiloni, Commissario UE, che stigmatizza l’utilizzo delle risorse del Ricovery Fund per abbassare le tasse, con l’analogo proposito presente nel piano francese? Come bisogna valutare la politica dei bonus, perpetrata ostinatamente dal Governo Conte, dagli apprendisti-stregoni dei 5Stelle e sorprendentemente, ma non troppo, del PD, a dispetto dell’effettiva efficacia dell’elementare moltiplicatore keynesiano di spesa di quei bonus? Una politica dissennata che ha tutta l’aria di proseguire con il banchetto prossimo venturo; sempre che le portate arrivino.

Buona lettura_Giuseppe Germinario

Francia e Germania già hanno piani di ripresa, e lavorano perché possano funzionare

POLITICA – EMANUELE BONINI

twitter @emanuelebonini

 

Parigi e Berlino hanno, rispettivamente, strategie da 100 miliardi e 130 miliardi. Ma i loro casi insegnano che programmi e misure non bastano se non si riesce a far attingere alle risorse. E’ questa la vera sfida per tutti, Italia inclusa

Bruxelles – Germania e Francia fanno sul serio. Con i limiti e le difficoltà del caso che non mancano, ma intanto Berlino e Parigi hanno già messo a punto le loro strategie nazionali di rilancio. Nelle capitali del motore politico-economico d’Europa i piani di rilancio post-confinamento da COVID-19 ci sono. Non ci sono annunci, ma c’è sostanza. Ci sono già misure, c’è un programma.

In Germania, dopo poco più di un mese dall’approvazione del progetto di bilancio pluriennale e del meccanismo per la ripresa, è già stato predisposto un piano di rilancio da 130 miliardi di euro in due anni. Il piano poggia su tre pilastri: misure di ripresa economica a breve termine (circa 78 miliardi di euro), investimenti in tecnologie a prova di futuro e verdi (circa 50 miliardi di euro) e solidarietà europea e internazionale (3 miliardi di euro). Nessun bonus per l’industria automobilistica, incentivo per acquisto di auto ecologiche (2,2 miliardi), ammodernamento delle flotte di veicoli pesanti, marittime e aeree (3,2 miliardi di euro) e il sostegno al trasporto pubblico (2,5 miliardi di euro più 5 miliardi per la sola rete della metropolitana) tra le misure in cantiere.

Neppure in Francia si è perso tempo. Anzi. Piano di rilancio da 100 miliardi di euro in due anni. Quasi un terzo (30 miliardi) per la trasformazione verde dell’economia, inclusa il rinnovamento energetico degli edifici (7 miliardi). Ai trasporti andranno 11 miliardi di euro, quasi la metà di cui (4,7 miliardi) per le ferrovie SNCF a sostegno del trasporto merci, delle linee di dimensioni più piccole e dei treni notturni. Per il rilancio dell’industria e la competitività delle imprese previsto un pacchetto da 35 miliardi di euro, 20 dei quali per l’abbassamento delle imposte di produzione. Il resto andrà al sostegno dei fondi delle imprese che la crisi ha colpito di più . Ancora, 15 miliardi saranno dedicati a misure per l’occupazione, 6,7 dei quali già annunciati in estate per i giovani e 6,6 per il pacchetto dedicato al part-time di lunga durata. A tutto questo si aggiungono 6 miliardi di investimenti nel settore ospedaliero e la rivalutazione degli aiuti alla ripresa scolastica e agli enti locali.

Mentre in Italia ancora si ragiona sul da farsi, altrove si lavora al collaudo dei piani già messi a punto. Perché è vero che da Francia e Germania arriva un esempio di decisione, reattività e pragmatismo, ma con dei limiti che sono una lezione di ‘real politik’. Perché allo stesso tempo i casi di francia e Germania mostrano che anche con progetti a disposizione occorre che questi siano percorribili. Bisogna sapere spendere, ed essere certi di poterlo fare. Cose che nei due Paesi in questione non è scontato. Anzi.

In Germania il governo intende far sì che solo coloro che sono stati colpiti dal lockdown ricevano effettivamente i soldi. In pratica chi intenda ricevere il sussidio deve dimostrare di aver subito perdite pari ad almeno il 60% del loro fatturato in aprile e maggio, e che il reddito è sceso almeno del 50% nel periodo tra giugno e agosto. Nessuno o quasi ha fatto domanda, e il governo si è visto costretto a prorogare il termine per la presentazione di una domanda fino alla fine dell’anno. Un episodio che dimostra che avere un piano non significa che questo funzioni.

Anche qui c’è pure un contributo francese al dibattito. C’è il precedente del fondo anti-crisi del 2010, istituito per rilanciare l’economia dopo la recessione del 2008. Messi a disposizione 57 miliardi di euro, di cui utilizzati 25 miliardi, meno della metà. Bassa domanda, dovuta anche ad ostacoli amministrativi. Tanto che Parigi, onde evitare di ripetere l’infelice esperienza, sta ragionando alla creazione di un punto di contatto unico all’interno del ministero delle Finanze per semplificare le procedure di gara e dare priorità ai progetti già in corso.

Non basta dunque annunciare di avere un piano o annunciare che ne verrà predisposto uno, come fatto dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. E non basta neppure averne davvero uno, di piano per la ripresa. Occorre che quello che viene messo a punto sia effettivamente realizzabile e realizzato.  Le strategie di rilancio di Francia e Germania sono lì a ricordare questo. A tutti quanti.

Sandro Gozi, europarlamentare italiano eletto nella lista de la Republique en Marche, partito del presidente francese Emmanuel Macron, ha un pensiero proprio per l’Italia. Ricorda che l’Italia è il primo beneficiario del meccanismo per la ripresa, e che “i 209 miliardi di euro per l’Italia non sono solo il frutto del lavoro dell’Italia, ma di più forze” in Europa. Proprio per questo il governo Conte “deve dimostrare che ne è valsa la pena, deve dimostrare che l’Europa ha fatto la scelta giusta”. In altre parole, “più rapida sarà l’Italia” nel predisporre un piano di rilancio (atteso per il 9 settembre, nel più generale programma nazionale per le riforme) che funzioni, “meglio sarà non solo per gli italiani ma per tutti gli europei”.

Quanto al piano di rilancio francese, Gozi sottolinea “gli interventi senza precedenti per la transizione ecologica” e per l’occupazione giovanile, con sei miliardi di euro per favorire le assunzioni. “Pilastri attorno a cui auspico l’Italia voglia ispirarsi“.

https://www.eunews.it/2020/09/03/francia-germania-piani-ripresa/133925

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