BISOGNA CAMBIARE IL MONDO REALE, a cura di Luigi Longo

BISOGNA CAMBIARE IL MONDO REALE.

a cura di Luigi Longo

 

 

Suggerisco la lettura dello scritto di Paul Craig Roberts, L’intero mondo occidentale vive in una dissonanza cognitiva apparso su www.megachip.globalist.it il 23 giugno 2018, come riflessione per capire la potenza dell’ideologia sia per nascondere (accezione negativa) il mondo reale sia per aderire (accezione positiva) al modello di legame sociale proposto dalla potenza mondiale egemone degli USA. Per capire perché gli statunitensi vedono le brutture che commettono solo quando succedono in casa propria e non quando le consumano nelle case degli altri sparse in tutto il mondo bisogna andare alla storia del Destino manifesto. L’espansionismo americano e l’Impero del Bene che è il titolo del bel libro dello storico Anders Stephanson pubblicato dalla Feltrinelli (2004). Riproduco alcuni passi tratti dal Prologo dell’autore (pp.11-15).

<< […] Tuttavia, è proprio a John O’Sullivan che siamo debitori dell’espressione “destino manifesto”: la coniò nel 1845 per definire la missione degli Stati Uniti di “espandersi nel continente assegnato dalla provvidenza al libero sviluppo delle crescenti moltitudini  del nostro popolo”. In tutto il Nord America era in corso una gigantesca espansione in nome della libertà, una libertà spessa definita anche di carattere “anglosassone” in termini culturali o razziali […] Essa divenne, così, lo slogan dell’idea di un diritto provvidenzialmente o storicamente fondato all’espansionismo continentale. Da questo punto di vista, non si trattava affatto di una novità, dal momento che già nel 1616, rivolgendosi al pubblico inglese, un agente della campagna di colonizzazione aveva pomposamente concluso la sua presentazione delle meraviglie delle verdi distese americane con queste parole: “Quale timore allora dovrebbe trattenerci dal partire immediatamente , essendo noi un popolo speciale indicato ed eletto dal dito di Dio a prendere possesso di quella terra?”.

In questo libro, “destino manifesto” verrà utilizzato anche in un’accezione più ampia, vicina a quella adoperata da Woodrow Wilson per sottolineare il ruolo assegnato dalla provvidenza agli Stati Uniti di guidare il mondo verso un futuro nuovo e migliore. Per Wilson, ciò che definiva l’”America” era proprio questa particolare vocazione o missione. La nazione, alla quale era stata concessa di vedere la luce, era destinata a mostrare il cammino ai paesi storicamente retrogradi, poiché aveva il compito di svilupparsi ed espandersi in tutta la sua potenzialità grazie al dono divino della più alta perfezione morale inimmaginabile. Questa idea è stata un elemento costante della storia americana, ma, storicamente, ha prodotto due atteggiamenti molto diversi nei confronti del mondo esterno. Il primo mirava a fare degli Stati Uniti un modello esemplare, separato dal mondo corrotto e perverso, lasciando che le altre nazioni lo imitassero come meglio potevano. Il secondo, corrispondente alla visione di Wilson, consisteva nel far progredire il mondo, intervenendo per rigenerarlo. Tra i due atteggiamenti quello di distacco, tuttavia, è stato quello generalmente dominante.

Gli Stati Uniti non sono stati l’unico paese ad attribuire un carattere esemplare alla propria identità nazionale. Ogni stato-nazione sostiene in qualche modo la propria unicità e, nel corso della storia, alcune nazioni e alcuni imperi si sono considerati consacrati da un’autorità superiore a centro del mondo o della storia universale. Tuttavia, per fare un esempio, il “mandato” dinastico sul quale si fondava la legittimazione del potere in Cina confuciana non contemplò mai che una radicale trasformazione del mondo a propria immagine e somiglianza potesse condurre a una “fine” trascendente della storia (corsivo mio). La “Cina” era un’idea aristocratica di civiltà superiore. Per prendere un esempio a noi più vicino, il Sacro romano impero, se anche può avere sposato l’idea di una trasformazione celeste del mondo terreno, si accontentava, nell’attesa della fine stabilita, di sospendere il progetto messianico (corsivo mio) per dedicarsi alla costruzione delle istituzioni politiche >>.

 

Non basta, come sostiene Paul Craig Roberts, << far uscire le persone dal mondo propagandistico e farla entrare in quello reale >>, bisogna cambiare il mondo reale.

 

Per motivi di chiarezza ho evidenziato le tre maggiori notizie correnti utilizzate dall’autore per illustrare la sconnessione mentale mondiale.

 

 

L’intero mondo occidentale vive in una dissonanza cognitiva

 

 

di Paul Craig Roberts

 

[Traduzione per Megachip di Piotr]

 

 

In questo editoriale mi accingo a utilizzare tre delle maggiori notizie correnti per illustrare la sconnessione che alligna ovunque nella mente occidentale.

Iniziamo con la questione della separazione delle famiglie.

 

La separazione dei bambini dai genitori immigrati o rifugiati o richiedenti asilo ha suscitato così tante proteste che il Presidente Trump ha indietreggiato e firmato un ordine esecutivo per far finire la separazione delle famiglie.
L’orrore dei bambini rinchiusi in magazzini gestiti da privati che si arricchiscono coi soldi dei contribuenti, mentre i genitori sono perseguiti per ingresso illegale, ha risvegliato dal loro torpore persino gli Americani autocompiaciuti di essere “eccezionali e indispensabili” [fa riferimento alla nota affermazione dei presidenti statunitensi che gli USA sono una nazione eccezionale e l’unica indispensabile nel mondo (sic!) – NdT].
Rimane un mistero perché il regime di Trump abbia scelto di gettare discredito sulla sua politica di rafforzamento delle frontiere separando le famiglie.
Forse la politica era quella di scoraggiare l’immigrazione illegale lanciando il messaggio che se venite in America i vostri bambini vi saranno strappati.
La domanda è: come mai gli Americani riescono a vedere e rifiutare l’inumana politica di controllo delle frontiere e non vedono e rifiutano l’inumanità della distruzione delle famiglie che è stato il costante risultato della distruzione da parte di Washington in tutto o in parte di sette o otto Paesi nel XXI secolo?
Milioni di persone sono state separate dalla famiglia dalla morte inflitta da Washington e per quasi due decenni non ci sono state praticamente proteste. Nessun grido di protesta ha fermato George W. Bush, Obama e Trump dal perpetrare atti chiaramente e senza possibilità di smentita illegali, definiti dalla legge internazionale stabilita dagli USA stessi, come crimini di guerra contro, gli abitanti dell’Afghanistan, dell’Iraq, della Libia, della Siria, dello Yemen e della Somalia. Possiamo aggiungere un ottavo esempio: gli attacchi militari dello stato fantoccio ucraino neo-nazista e armato e finanziato dagli USA contro le province russe separatiste.
Le morti in massa, la distruzione delle città, dei paesi, delle infrastrutture, le menomazioni, fisiche e mentali, lo sradicamento che ha inviato milioni di rifugiati i fuga dalle guerre di Washington a invadere l’Europa, dove i governi sono fatti da una collezione di lacchè idioti che hanno sostenuto gli enormi crimini di guerra di Washington in Medio Oriente e Nord Africa, non hanno prodotto nessun grido di dolore paragonabile a quello contro la politica di Trump sull’immigrazione.
Stiamo vivendo una forma psicotica di massa di dissonanza cognitiva?

Spostiamoci adesso sul secondo esempio: il ritiro di Washington dal Consiglio dell’ONU per i Diritti Umani.

Il 2 di novembre del 2017 (1917, mia correzione del refuso tecnico), due decenni prima dell’olocausto imputato alla Germania nazionalsocialista, il ministro degli Esteri britannico, James Balfour, scrisse a Lord Rothschild che la Gran Bretagna favoriva la trasformazione della Palestina in un focolare nazionale ebraico. In altre parole, il corrotto Balfour mandò al diavolo i diritti e le vite di milioni di Palestinesi che stavano in Palestina da duemila e più anni. Che era sta gente a confronto col denaro dei Rothschild? Non erano niente per il ministro degli Esteri britannico.
L’atteggiamento di Balfour verso i legittimi abitanti della Palestina è il medesimo atteggiamento britannico verso i popoli di ogni colonia o territorio su cui la forza britannica aveva prevalso. Washington ha imparato questo modo di fare e lo ha coerentemente ripetuto.
Proprio l’altro giorno l’ambasciatrice all’ONU di Trump, Nikki Haley, la cagnolina pazza furiosa di Israele, ha annunciato che Washington si ritirava dal Consiglio per i Diritti Umani perché è “una fogna di pregiudizi politici” contro Israele.
Cosa aveva mai fatto il Consiglio per guadagnarsi questo rimprovero dall’agente israeliano Nikki Haley? Il Consiglio aveva denunciato la politica israeliana di assassinio dei Palestinesi: medici, bambini, madri, anziane e anziani, padri, adolescenti.
Criticare Israele, non importa quanto grande ed evidente sia il suo crimine, significa essere antisemiti e un negazionista dell’olocausto. Per Nikki Haley e Israele, ciò relega il Consiglio per i Diritti Umani nei ranghi dei nazisti fanatici di Hitler.
L’assurdità di ciò è evidente, ma pochi, se non nessuno, riescono a rilevarla. Certo, il resto del mondo, con l’eccezione d’Israele, ha denunciato la decisione di Washington, non solo i nemici e i Palestinesi, ma anche i burattini e i vassalli di Washington.
Per vedere la sconnessione è necessario fare attenzione alle parole delle denunce della decisione.
Un portavoce dell’Unione Europea ha detto che il ritiro di Washington dal Consiglio per i Diritti Umani “rischia di minare il ruolo degli USA come campioni e sostenitori della democrazia nel teatro mondiale”. Si può immaginare un’affermazione più idiota?
Washington è nota come sostenitrice di tutte le dittature che aderiscono alla sua volontà. Washington è nota per aver distrutto ogni democrazia in America Latina che abbia eletto un presidente rappresentante degli interessi del popolo di quella nazione e non degli interessi delle banche di New York, di quelli commerciali statunitensi e della politica estera statunitense.
Fate il nome di un posto dove Washington abbia sostenuto la democrazia. Solo per parlare degli ultimi anni, il regime di Obama ha rovesciato il governo democraticamente eletto dell’Honduras e ha imposto il suo burattino. Il regime di Obama ha rovesciato il governo democraticamente eletto dell’Ucraina e imposto un regime neo-nazista. Washington ha rovesciato i governi dell’Argentina e del Basile, sta cercando di rovesciare quello del Venezuela e ha nel suo mirino la Bolivia così come la Russia e l’Iran.
Margot Wallstrom, la ministra degli Esteri svedese, ha dichiarato: “Mi rattrista che gli USA abbiano deciso di ritirarsi dal Consiglio per i Diritti Umani. Arriva in un momento in cui il mondo ha bisogno di più diritti umani e di un ONU più forte, non l’opposto”. Perché diamine Wallstrom pensa che la presenza di Washington, un noto distruttore di diritti umani, (basta chiedere ai milioni di rifugiati dai crimini di guerra di Washington che si riversano in Europa e in Svezia), pensa che questa presenza nel Consiglio per i Diritti Umani rafforzerebbe il Consiglio invece che minarlo. La disconnessione della Wallstrom è fantastica. E’ talmente estrema da essere incredibile.
Il Primo Ministro australiano, Julie Bishop, ha parlato per il più adulatore dei vassalli di Washington quando ha detto che era preoccupata per i “pregiudizi antisraeliani” del Consiglio. Avete qui una persona che ha subito un lavaggio del cervello talmente totale da essere impossibilitata di mettersi in connessione con una qualsiasi cosa che sia reale.

Il terzo esempio è la “guerra commerciale” che Trump ha lanciato contro la Cina.

 

La tesi del regime di Trump è che a causa di pratiche sleali la Cina ha un surplus con gli USA di quasi 400 miliardi di dollari. Questa grande cifra è si suppone che sia dovuta, appunto, a “pratiche sleali” da parte cinese. Nella realtà il deficit commerciale con la Cina è dovuto alla Apple, alla Nike, la Levi e a un gran numero di corporation americane che producono offshore in Cina i prodotti che poi vendono agli Americani. Quando le produzioni delocalizzate delle corporation statunitensi entrano negli USA, sono contate come importazioni.
Ho detto e ripetuto questo da molti anni a partire della mia testimonianza davanti alla Commissione per la Cina del Congresso USA. Ho scritto numerosi articoli pubblicati quasi ovunque. Sono sintetizzati nel mio libro The Failure of Laissez Faire Capitalism del 2013.
La presstitute dei media economici, i lobbisti delle corporation, che include molti “nomi” accademici, e gli sfigati politici americani il cui intelletto in pratica non esiste, non riescono a riconoscere che l’enorme deficit commerciale USA è il risultato delle delocalizzazioni. Questo è il livello di completa stupidità che governa l’America.
In The Failure of Laissez Faire Capitalism ho discusso il madornale errore fatto da Matthew J. Slaughter, un membro del Consiglio Economico di George W. Bush, che ha affermato in modo incompetente che per ogni posto di lavoro delocalizzato si creavano due posti di lavoro negli USA. Ho anche denunciato come una truffa lo “studio” del professore di Harvard, Michael Porter, per il cosiddetto Consiglio per la Competitività (una lobby per le delocalizzazioni), che ha fatto la straordinaria affermazione che la forza-lavoro statunitense traeva beneficio dalla delocalizzazione dei loro lavori a più alto valore aggiunto e a più alta produttività.
Gli idioti economisti americani, gli idioti media finanziari americani, e gli idioti politici americani non riescono a capire nemmeno adesso che la delocalizzazione ha distrutto le prospettive dell’economia americana e ha sospinto la Cina più avanti di 45 anni delle aspettative americane.

Per concludere.

 

La mente occidentale e le menti degli “integrazionisti atlanticisti” russi [i fautori di un’integrazione della Russia nel circuito economico, finanziario, politico e militare occidentale, persone che spesso occupano posti di grande responsabilità anche nei governi di Putin, NdT] e della gioventù cinese pro-americana, sono così piene di assurdità propagandistiche che non hanno connessione con la realtà.
C’è il mondo reale e c’è il mondo costruito dalla propaganda che nasconde il mondo reale e serve interessi specifici. Il mio compito è far uscire le persone dal mondo propagandistico e farla entrare in quello reale. Sostenetemi in questo sforzo.

 

 

MACHIAVELLI, di Teodoro Klitsche de la Grange

MACHIAVELLI

Non è stata dedicata soverchia attenzione alla ricorrenza del 500° anniversario del “Principe”. A dispetto del fatto che – a quanto sembra – sia l’opera italiana più tradotta al mondo e che da quando fu scritta, nessuno, che si sia occupato di politica (filosofia, scienza della politica, storia), abbia potuto fare a meno di confrontarvisi, si assiste a un anniversario celebrato con poca pompa e qualche nascosto imbarazzo.

Scrive Di Lello che “non si tratta di un dettaglio, ma di un sintomo (certo uno dei tantissimi, pur sempre un sintomo) di caduta culturale ed ideale”[1].

Che il pensiero di Machiavelli dia fastidio, e lo dia all’establishement culturale e politico italiano, in particolare  di sinistra, è evidente. Tutta la melassa delle buone intenzioni e dei buoni sentimenti, sintetizzata nel “buonismo” è proprio l’antitesi delle concezioni di Machiavelli. A servirsi di quelle di un suo epigono moderno, come Pareto, l’unica cosa che certe zuccherose e commoventi prediche attestano è lo stato di decadenza delle élites che le tengono e del popolo che le sta ad ascoltare. Il Segretario fiorentino ha, nei confronti di quelle, la funzione attribuitagli da Foscolo, in sintesi: mostrare che il re è nudo. Dietro buoni propositi e discorsi edificanti c’è la ricerca e soprattutto la conservazione di un potere, ormai senescente e anche (e soprattutto) perciò buonista. Realismo politico significa demistificare il nucleo essenziale dell’apparato egemonico costruito dal secondo dopoguerra in poi e specialmente negli ultimi vent’anni. Il pensiero di Machiavelli è infatti quanto di più politicamente scorretto si possa immaginare. A cominciare dal nucleo: “perché ogni uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene ruini intra tanti che non sono buoni”; da qui, dalla concezione “problematica” della natura umana, l’esigenza del realismo in politica e la ricerca della “verità effettuale della cosa” (cioè dell’approccio concreto). Le conseguenze del quale non si riflettono solo sulla politica (prassi e teoria) ma anche sul pensiero giuridico-istituzionale. Come esiste una condotta ispirata al Segretario fiorentino, c’è una concezione dello Stato e della costituzione fondata sui medesimi presupposti: pessimismo  antropologico (almeno relativo), realismo politico, ricerca della “verità effettuale delle cose”[2]. E del pari, Machiavelli si occupa più volte  – anche se spesso implicitamente – del rapporto tra politico e diritto.

2.0 Contrariamente a quanto ritenuto da molti nostri contemporanei, nel segretario  fiorentino la politica è decisiva e il diritto segue; il rapporto è acutamente inquadrato da Machiavelli nel primato della politica (e del politico).

Nel XVIII capitolo del principe scrive “sono dua generazione di combattere: l’uno con le leggi, l’altro, con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie”. Tale espressione è stata in genere connessa allo specifico argomento lì trattato (quomodo fides a principibus sit servanda), in particolare sul rapporto tra astuzia (golpe) e forza (lione). Tuttavia l’espressione può essere interpretata anche in un altro senso; che è quello chiarito da Machiavelli subito dopo: che il Principe, soprattutto il Principe  nuovo è “spesso necessitato, per mantenere lo Stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alle comunità, contro alla religione”. Enumera cose che per un uomo del suo, e anche del nostro tempo, sono più care e sacre del diritto, onde si può immaginare se il Principe non possa anzi debba operare contro questo. Anche se nel pensiero nostro contemporaneo è il diritto a non poter essere mai violato (con le conseguenze più bizzarre e, peggio ancora, dannose). Perché, prosegue Machiavelli “nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio da reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi saranno sempre iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati”. In diverse parole qui come in altri passi del Principe e dei Discorsi , Machiavelli (fonda e) rivendica l’autonomia del politico, che non deriva da altra “essenza”, come scrive Freund. Non c’è giudice del principe, e l’unico criterio di giudizio è se ha attinto il fine di conservare lo Stato: il che significa non solo il (di esso) potere, ma anche l’esistenza (e la “buona” esistenza) dei sudditi[3].

Il rapporto tra politico e diritto  (legge, ordine, organizzazione istituzionale) è confermato dal XXXIV capitolo del I° libro dei Discorsi, dove Machiavelli tesse l’elogio della dittatura romana: nei frangenti eccezionali, il dittatore conserva lo Stato infrangendo il diritto e gli ordini (cioè l’ordinamento costituzionale – o, meglio, parte di esso) “perché senza uno simile ordine le cittadi con difficultà  usciranno degli accidenti istraordinari. Perché gli ordini consueti nelle repubbliche hanno il moto tardo non potendo alcuno consiglio né alcuno magistrato per se stesso operare ogni cosa, ma avendo in molte cose bisogno l’uno dell’altro … E perciò le repubbliche debbano intra loro ordini avere uno simile modo” e subito dopo “Perché quando in una repubblica manca uno simile modo, è necessario o servando gli ordini rovinare, o per non rovinare rompergli” E’ l’ordinamento stesso che deve prevedere organi straordinari, dotati anche della facoltà di sospendere, derogare, modificare il diritto vigente: “Talchè mai fia perfetta una repubblica se con le leggi sue non ha provisto a tutto, e ad ogni accidente posto il rimedio e dato il modo a governarlo”.

La Costituzione italiana è bellissima (come dice un noto attore) e quel che è peggio, è considerata così perfetta da non poter essere cambiata, onde è chiaro che il pensiero di Machiavelli è in contrasto con tali affermazioni, perché la stessa non prevede né competenza né misure per lo stato d’eccezione ed è quindi, date le affermazioni del Segretario fiorentino, imperfetta, e da cambiare (di corsa).

Più in generale nella concezione di un certo costituzionalismo contemporaneo (e più in generale di teoria generale del diritto) s’inverte il rapporto tra diritto e politica. In Machiavelli la politica è autonoma, mentre il diritto è eteronomo, perché al di esso fondamento v’è la decisione politica. E’ il sovrano che decide se conservare, modificare, sospendere il diritto. E’ il pouvoir , a servirsi dei concetti (e dei termini) di Hauriou, a garantire l’ordre (anche) attraverso il droit. L’altro “punto” di eteronomia del diritto, ovvero rispetto alla morale, è talvolta anch’esso completamente omesso, talvolta travisato (o depotenziato).

Tanto per farne un esempio (tra tanti) particolarmente rilevante della lontananza tra il pensiero di Machiavelli e quello di taluni nostri contemporanei: anche chi ammette un certo “tasso” di morale nel diritto v’include quasi esclusivamente ciò che rileva per lo stato sociale contemporaneo, ovvero in particolare, la distribuzione del reddito a favore delle classi e dei cittadini più disagiati.

Non capita invece di leggere della connessione esistente tra diritti e doveri nelle costituzioni e negli Stati, anche contemporanei, né tra alcuni specifici doveri. Per essere chiari: il diritto di esercitare funzioni pubbliche (art. 51 Cost. italiana vigente) cioè di partecipare a decidere il destino della comunità è strettamente correlato e quello di pagare le imposte (art. 53), ma ancor più a quello di difendere la Patria (art. 52). Anche per un lettore distratto di Machiavelli, è chiara l’importanza che questi da all’ “arme proprie” (v. per il solo Principe, i capp. XII-XIV)[4]. Ammoniva che “chi dice impero, regno, principato, repubblica, chi dice uomini che comandano, cominciandosi dal primo grado e discendendo infine al padrone d’un brigantino, dice giustizia e armi”[5]; senza queste è impossibile preservare la libertà, e ovviamente, l’esistenza politica. Per cui il rapporto tra morale (meglio sittlichkeit nel senso di Hegel) e diritto è essenzialmente (anche se non esclusivamente) quello segnato dall’adempimento dei doveri legati alle funzioni pubbliche esercitate o rivestite. Anche la concezione machiavelliana  della virtù si muove nello stesso solco: al Principe è necessaria virtù per sapere fronteggiare gli eventi, come per poterne approfittare.

Quindi di “morale” si può parlare prendendo atto che si tratta di una morale che ha poco a che fare con quella che per ciò s’intende; il contributo di quest’ultima al diritto c’è, ma accanto a quello dell’ “altra” morale (quella, per così dire, “pubblica” e non “privata”).

3.0 Scrive Machiavelli nel Proemio dei Discorsi che, contrariamente a quanto accade per il diritto (le “leggi civili”), per la medicina, per le arti “nell’ordinare le republiche, nel mantenere li stati, nel governare e’ regni, nello ordinare la milizia ed amministrare la guerra,  nel iudicare e’ sudditi, nello accrescere l’imperio, non si trova principe nè republica  che agli esempi degli antiqui ricorra”; e continua scrivendo che, a suo giudizio ciò dipende dalla mancanza di comprensione (“non avere vera cognizione delle storie per non trarne leggendole quel senso … che le hanno in se”). E si meraviglia perché “infiniti che le leggono, pigliono piacere di udire quella varietà degli accidenti che in esse si contengono, senza pensare altrimenti di imitarle, iudicando la imitazione non solo difficile ma impossibile; come se il cielo, il sole, li elementi, li uomini, fussino variati di moto, di ordine e di potenza da quello che gli erano antiquamente”. In altri termini Machiavelli sostiene che, essendo la natura umana sempre la stessa, e di conseguenza, si direbbe oggi, le regolarità del politico, i problemi da risolvere sono sempre i medesimi e quindi assai simili i rimedi. “Come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile, e come ne è piena di esempi ogni istoria, è necessario a chi dispone una repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la malignità dello animo loro qualunque volta ne abbiano libera occasione”.[6] Per cui, chi ordinasse uno Stato presupponendo i cittadini tutti virtuosi, i popoli (e i governi) vicini tutti benevoli, realizzerebbe un pessimo prodotto (peraltro di durata breve).

Ma cos’è oggi quella “immaginazione della cosa” che il Segretario fiorentino addita come la via maestra per ordinare male gli Stati?

L’immaginazione è feconda d’illusioni, e delle più varie; proviamo a ricordarne alcune, le principali.

La prima è quella, direttamente opposta alla concezione delle “regolarità” sopra ricordate (e che Aron chiamava “principio di perennità”) e cioè che si può trovare la formula per cambiare la natura umana o quanto meno correggerla ed eliminare o ridurre l’incidenza di alcune “regolarità”. Ne abbiamo avuto un esempio nel secolo scorso col comunismo, il cui nucleo consisteva nel credere che mutando i rapporti di produzione sarebbe mutata anche la natura umana. Un tipo di sostituzione del politico con l’economico. Abbiamo visto com’è finito. Ma l’aspirazione a sostituire la politica (e il politico) con altro, che s’intravede già in un noto passo biblico del deutero – Isaia, continua – anche se meno rumorosamente, in altre forme, provando con altri tipi di attività umane. Soprattutto col diritto: sono già manifeste aspirazioni di ciò nel testo (ma soprattutto nelle carenze del testo) costituzionale (ad esempio la mancata previsione e disciplina dello stato d’eccezione); ma che comunque sono poca cosa rispetto a quanto circola a livello di opinione pubblica, e in non poche concezioni degli “addetti ai lavori”. Ad esempio tra gli idola tribus il più frequentato è quello che fare politica equivale a legiferare; e che i problemi si risolvono con le leggi. Dimenticando che buona parte dell’attività dello Stato è politica “pura” non riconducibile a norme (e ancor più a un contenuto normativo applicabile). E’ una legge (in senso formale) una dichiarazione di guerra? o l’approvazione di un trattato? O l’applicazione del diritto, che è distinta dalla legiferazione, ma che incide in modo decisivo sul diritto effettivamente osservato?

Una tale aspirazione ha portato, inversamente, a promulgare delle leggi essenzialmente per il loro carattere (e il relativo benefico ritorno) propagandistico; ben sapendo che sarebbero state poco o punto applicate. Anche la dottrina costituzionalista ha risentito di tale illusione che Freund chiama dell’ “imperialismo giuridico”: discute quasi sempre di “norme” e di “principi” (con variazioni sui valori) e assai poco di “organizzazione”, di “poteri” e di “principi (di forma politica)”; sembra peraltro si sia dimenticato che, nella costituzione la cosa più importante è chi la possa abolire, abrogare, sospendere. Cioè il potere costituente. Poco frequentata è anche la sovranità da quando (nella Germania di Weimar) ha cominciato a diffondersi l’idea della costituzione senza Sovrano (che a Machiavelli sarebbe sembrata una boutade).

L’altra fallacia ricorrente e quella della Costituzione per sempre, come le tavole mosaiche (scriveva Miglio con ironia). Nel duplice senso della perennità e dell’immodificabilità. Che è proprio l’inverso della storicità degli ordinamenti (e delle costituzioni) e della necessità di conformarsi alle situazioni concrete. E che oltre che col pensiero di Machiavelli è proprio all’opposto del dato storico. Machiavelli lo ripete spesso, non solo nel passo (sopra citato) dei Discorsi sulla dittatura romana; ed è poi conseguenza logica del principio di corruzione – e dei “cicli politici” – di ogni regime[7]. La corruzione fa si che “se un ordinatore di repubblica ordina in una città uno di quelli tre stati, ve lo ordina per poco tempo, perché nessuno rimedio può farvi a fare che non sdruccioli nel suo contrario”. Per cui dalla monarchia si passa all’aristocrazia e poi alla democrazia: ogni passaggio è preceduto dalla conversione dello Stato nella forma degenere (da monarchia a tirannide e così via)[8]. “E questo è il cerchio nel quale girando tutte le repubbliche si sono governate e si governano: ma rade volte ritornano ne’ governi medesimi, perché quasi nessuna republica può essere di tanta vita che possa passare molte volte per queste mutazioni e rimanere in piede”: perché per lo più viene assoggettata.

Tutte tali forme di governo sono di breve durata: “sarebbe atta una republica a rigirarsi infinito tempo in questi governi. Dico adunque che tutti i detti modi sono pestiferi, per la brevità della vita che è ne’ tre buoni e per la malignità che è ne’ tre rei”. A Roma il tutto fu risolto “sendo in una medesima città il Principato, gli Ottimati e il governo Popolare”. D’altra parte, scrive Machiavelli, “sendo tutte le cose degli uomini in moto, e non potendo stare salde, conviene che le salghino o che le scendino, e a molte cose che la ragione non t’induce, t’induce la necessità; talmente che avendo ordinata una republica atta a mantenersi non ampliando, e la necessità la conducesse ad ampliare, si verrebbe a tor via i fondamenti suoi ed a farla rovinare più tosto”. È la (necessità dell’) esistenza politica (cioè le situazioni concrete) a determinare l’ordinamento costituzionale e non viceversa.

Quindi l’aspirazione – pretesa a costruire un “ordine” valido per sempre è contraria alla concezione di Machiavelli. Il segretario fiorentino, contrariamente a quanto spesso oggi opinato, dava della Costituzione un giudizio storico-oggettivo, mentre oggigiorno prevale uno ideologico-soggettivo. Ossia, secondo il pensatore fiorentino, una costituzione è valida quando consente la durevole conservazione e l’accrescimento dello Stato, e non se è conforme a impostazioni ideologiche e conseguenti norme e/o principi (ancor più se è “bella” o, più spesso, “buona”). La costituzione romana, il “compromesso” costituzionale dei tre principi (monarchico, aristocratico e democratico) è ammirato dal fiorentino perché ha consentito a Roma di espandersi e dominare il mondo mediterraneo per diversi secoli, e ancor più se si considera la successiva costituzione imperiale. Valori, principi, norme-manifesto, disposizioni programmatiche e altro sono estranei al pensiero di Machiavelli (o secondari); d’altra parte non si capisce a che titolo un ordinamento costituzionale costruito con tante buone intenzioni ma durato qualche decennio e magari finito in catastrofe, possa essere apprezzato perché “bello”.

Altro carattere decisivo della costituzione (dell’ordinamento) secondo Machiavelli è che occorre ordinare la comunità, di guisa da coinvolgere e così “integrare”, in particolare nelle repubbliche, quanti più cittadini possibile. Parimenti l’elogio che fa dei tribuni della plebe è perché gli stessi costituiscono una magistratura di mediazione (e quindi d’integrazione) tra patriziato e plebe[9].

Nel “Discorso sopra il riformare lo Stato di Firenze a instanza di Papa Leone” delinea una nuova costituzione per Firenze, che assicuri il potere al Papa Medici. Riteneva che “La cagione perché Firenze ha sempre variato spesso nei suoi governi è stata perché in quella non è stato mai né republica né principato che abbi avute le debite qualità sue; perché non si può chiamar quel principato stabile, dove le cose si fanno secondo che  vuole uno e si deliberano con il consenso di molti: né si può credere quella republica esser per durare, dove non si satisfà a quelli umori a’ quali non si satisfacendo le republiche rovinano” e delinea un nuovo assetto costituzionale che, conservando l’essenza del potere a casa Medici, distribuisse poteri, cariche e competenze dando un ruolo nel governo della città “a tre diverse qualità di uomini che sono in tutte le città; cioè i primi, i mezzani e gli ultimi”; ordinandoli in tre collegi, con differenti poteri e competenze perché “senza satisfare all’universale, non si fece mai alcuna republica stabile”, il tutto mantenendo ai Medici “tanta autorità… quanto ha tutto il popolo di Firenze”.

Distribuendo potere e competenze, il Segretario fiorentino delinea un modello costituzionale fondato sull’integrazione di forze reali, rendendone partecipi gli uomini più in vista delle relative “classi” sociali. Machiavelli integra col (e nel) potere e non (o preferibilmente che) con le norme.

Il che fa del Segretario fiorentino anche uno dei “precursori” del concetto di costituzione materiale[10]; ma è parimenti vero che Machiavelli comprenda lo Stato come realtà vitale e la costituzione “come un ordine vitale, che cerca di realizzare un’immagine determinata di una realtà e di una totalità di vita politiche”[11]. A servirsi della terminologia e dei concetti di Smend la concezione di Machiavelli è, come quella del giurista tedesco, basata sullo Stato come unione di volontà e questa si realizza attraverso l’integrazione “Lo Stato esiste solo perché e in quanto si integra continuamente, si costruisce nei e a partire dai singoli – e in questo processo continuo consiste la sua essenza di realtà sociale spirituale”[12] e come scrive Smend “L’effetto di integrazione esercitato dagli organi può derivare dalla loro esistenza, dal loro processo di formazione e dal loro funzionamento” e prosegue “L’effetto di integrazione degli organi deriva dalla loro esistenza – cioè in prima istanza dall’esistenza di organi politici in senso stretto”[13].

Peraltro diversamente da molti costituzionalisti contemporanei i quali pensano che la costituzione sia il testo scritto e solo quello, il pensiero di Machiavelli presuppone quello che sarà secoli dopo enunciato apertis verbis da De Maistre, che nella costituzione “ciò che è più fondamentale ed essenzialmente costituzionale non potrebbe (ne saurait) esserci scritto”[14]. In particolare il precetto fondamentale salus rei publicae suprema lex (con la conseguente necessità e legittimazione delle “rotture” della legalità anche costituzionale) non è scritto in nessuna delle costituzioni: ciò non toglie che, almeno finché una sintesi politica voglia esistere, lo si debba osservare. Santi Romano perciò riteneva la necessità fonte di diritto, superiore alla legge[15]: anche in questo si manifesta la “discendenza” da Machiavelli, che proprio dalla necessità, legittima “rotture” e deroghe al diritto, alla costituzione, alla religione. A proposito della quale, è noto, oltre alla concezione di questa come strumento della politica, ma soprattutto come la consideri il fondamento della città ben ordinata: “dove manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini o che sia sostenuto dal timore d’uno principe che sopperisca ai di ferri della religione nel disinteresse rispetto al rapporto tra religione (teologia) e politica, è emerso anche qualche curioso tentativo che vorrebbe fondarne un surrogato prescindendo da “sacro” e da “Dio”, e sostituendoli con un misto di morale privata e imperativi categorici. Una concezione strabica verso il privato e, proprio perciò inadatta a fondare (e mantenere) una società pubblica[16].

  1. Quanto sopra ricordato è solo parte di ciò che di costituzionalistico si può ricavare dagli scritti di Machiavelli.

Le idee generali che li caratterizzano sono quelle del realismo (giuridico) il quale individua nella realtà – e nelle leggi, anche sociali – un dato non modificabile dell’uomo; e nell’esistenza della comunità e dell’istituzione  lo scopo (finale), che relativizza norme, principi, valori, interessi particolari. Secondariamente della coerenza e congruità (anche interna) dell’istituzione: non si può costituire una forma politica durevole che non abbia coerenza e congruità sia nella forma che rispetto alla “materia” cioè alla situazione concreta, sociologica e geopolitica in primo luogo (senza qui considerare altro).

Il che è connesso al carattere “tecnico” del pensiero di Machiavelli. Carl Schmitt scrive al riguardo che il “nocciolo vero” del pensiero di Machiavelli è di essere “dominato da un interesse prevalentemente tecnico”; tale aspetto non è limitato ad attività e risultati più strettamente politici (guerre, alleanze, trattati), ma anche all’ordinamento del potere[17]. Questa “tecnicità” fa si che passino in secondo piano sia “principi” che valori e norme[18]. È la situazione concreta a determinare quale sia la forma di governo più adatta[19] a una sintesi politica in un determinato momento storico. D’altra parte il criterio di validità di una forma politica è dato – come sopra scritto – della durata e dai risultati e non dalla corrispondenza a  norme, valori e principi. Anche questa concezione condivisa nei secoli successivi da tanti[20].

D’altra parte la razionalità del pensiero del Segretario fiorentino, e l’illusorietà di quello di taluni contemporanei è provato da una constatazione: che una costituzione “bellissima” colma di enunciazioni accattivanti di principi e valori condivisi ma inadatta all’azione e all’esistenza politica non serve neppure a conservare quei principi e quei valori che vi sono proclamati (e spesso branditi contro gli avversari politici). Più prima che poi guerre, rivoluzioni, o quelle forme di ostilità “parabelliche” (come gli attacchi della finanza internazionale) costringeranno a eliminarla o riformarla (o a perdere la sintesi politica). Ma se la costituzione è congrua, anche la protezione di quelli è (meglio) assicurata. Bonald sosteneva che la costituzione è il modo di esistenza di un popolo, a conservare il quale (e con esso i relativi rapporti, valori, leggi fondamentali) serve.

L’esistente prevale sul normativo (senza il primo viene meno il secondo: ma non è vero l’inverso): è questa la lezione che Machiavelli (e il realismo) ci da ancora oggi. A non capirlo o a volerlo non capire, anche nell’organizzare le istituzioni si trova “più presto la  ruina che la perservazione sua”.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Area, maggio 2013

[2] A chiarimento del carattere “problematico” e  “pessimistico relativo” della natura umana, l’uso di queste espressioni è finalizzato a distinguere le concezioni pessimistiche spesso identificate in due pensatori come S. Agostino e S. Tommaso. Più pessimista il primo, meno il secondo, come noto (e dibattuto). L’ascrizione di Machiavelli al pessimismo antropologico “relativo” (o moderato o “tomista”) è, a mio avviso, determinata sia dal richiamo costante (e pieno) al libero arbitrio, (alla virtù che contiene la fortuna) e alla necessaria prudenza che ne consegue che alla non adesione all’autoritarismo conseguente logicamente dal pessimismo agostiniano; così ben testimoniato da Lutero e da Calvino (ma anche da Bossuet) con la dottrina cioè del “diritto divino soprannaturale”, per cui al cristiano non è consentito opporsi (resistere) all’autorità costituita.

[3] Si può desumere anche un altro senso di quella frase, che considera legge, forza e modi di combattere: che ambedue sono finalizzati a creare l’ordine, a creare, mantenere, aumentare il potere (comando/obbedienza) ma il tutto esula dai limiti di questo scritto.

[4] Ma ne tratta anche nel Principe in altri capitoli, nonché in tante opere anche “occasionali”, come i discorsi per l’ordinamento della milizia  fiorentina.

[5] V. Discorso dell’ordinare lo Stato di Firenze alle armi.

[6] Discorsi I, III (i corsivi sono nostri).

[7] v. R. Aron, trad. it. in Machiavellie le tirannie moderne, Roma 1998, p. 104.

[8] v. Discorsi, 1, II.

[9] v. Discorsi 1, III.

[10] Il quale, come noto si deve – nell’epoca moderna – a Lassalle “Gli effettivi rapporti di potere che sussistono in ogni società sono quella forza effettivamente in vigore che determina tutte le leggi e le istituzioni giuridiche di questa società, cosicché queste ultime essenzialmente non possono essere diverse da come sono” v. trad. it. di C. Forte in Behemoth n. 20 p. 6 (da qui l’esigenza di coordinare, organizzare detti rapporti) e a Costantino Mortati che ne coniò il termine “Rimanendo nell’ordine di idee per ultimo esposte di una raffigurazione della costituzione che colleghi strettamente in sé la società e lo stato, è da ribadire quanto si è detto sull’esigenza che la prima sia intesa come entità già in sé dotata di una propria struttura, in quanto ordinata secondo un particolare assetto in cui confluiscano, accanto ad un sistema di rapporti economici, fattori vari di rafforzamento, di indole culturale, religioso ecc., che trova espressione in una particolare visione politica, cioè in un certo modo d’intendere e di avvertire il bene comune e risulti sostenuta da un insieme di forze collettive che siano portatrici della visione stessa e riescano a farla prevalere dando vita a rapporti di sopra e sotto-ordinazione, cioè ad un vero assetto fondamentale” v. Istituzioni di diritto pubblico, Padova 1975 Vol. I° p. 30.

[11] v. Rudolf Smend ora in Costituzione e diritto costituzionale (raccolta di scritti) trad. it. Milano 1988, p. 287.

[12] Op. cit., p. 76.

[13] Op. cit., p. 162.

[14] Des Constitutions politiques, I.

[15] V. “ Talvolta le leggi scritte accordano, in casi di necessità, al potere esecutivo la facoltà di emanare decreti o ordinanze … Ma anche quando tali leggi scritte mancano, o sono inadeguate alla situazione che si è formata, e persino quando espressamente vietano che si faccia uso di poteri eccezionali e straordinari questi potranno essere assunti ed esercitati in forza della necessità. Come la consuetudine, anzi a maggior ragione, data la sua maggiore energia la necessità è fonte autonoma del diritto, superiore alla legge. Essa può implicare la materiale e assoluta impossibilità di applicare, in certe condizioni, le leggi vigenti e, in questo senso, può dirsi che «necessitas non hablet legem». Può anche implicare l’imprescindibile esigenza di agire secondo nuove norme da essa determinate e, in questo senso, come dice un altro comune aforisma, la necessità fa legge. In ogni caso, «salus rei publicae suprema lex» v. Diritto costituzionale generale, Milano 1947 p. 92 (il corsivo non virgolettato è nostro).

[16] Discorsi I, 11.

[17]L’organizzazione politica del potere e la tecnica per conservarlo ed estenderlo differiscono a seconda delle forme statuali, rimangono però sempre qualcosa che può essere prodotto con tecniche pratiche, così come l’artista produce, secondo la concezione razionalistica, l’opera d’arte. Con il variare delle condizioni concrete – posizione geografica, carattere del popolo, concezioni religiose, struttura dei gruppi sociali dominanti, tradizioni – varia anche il metodo e si costruiscono strutture diverse” in “Die Diktatur” trad. it. di A. Caracciolo, Roma 2006, p. 29 (il corsivo è nostro).

[18] “Il Principe dal canto suo non pretende fornire giustificazioni morali o giuridiche, ma semplicemente suggerire la tecnica razionale dell’assolutismo politico” op. cit., p. 30.

[19] “Supponiamo per esempio di avere degli uomini dotati della virtù, che è il principio indispensabile per la costruzione di un ordinamento sociale repubblicano: in questo caso la monarchia non sarebbe neppure tollerata. Il tipo di energia politica che si esterna nella virtù è incompatibile con forme di governo assolutistiche, ma ammette unicamente un regime repubblicano. Il materiale umano con il quale ha da fare i conti il procedimento tecnico dev’essere dunque  diverso a seconda che ci si prefigga di stabilire un principato assoluto o una repubblica; diversamente non si conseguirebbe il risultato voluto” op. cit. p. 30.

[20] Tra cui citiamo Louis de Bonald il quale scrisse, in polemica con un libro di M.me de Staël che “La costituzione di un popolo è il modo della sua esistenza; e chiedersi se un popolo con quattordici secoli di storia, un popolo che esiste, ha una costituzione, è come interrogarsi, quando esiste, se ha il necessario per esistere; è come chiedere ad un arzillo ottuagenario se è costituito per vivere… La nazione era costituita, e così ben costituita, che essa non ha mai chiesto a nessuna nazione vicina la protezione della sua costituzione… proprio perché la Francia aveva una costituzione ed una costituzione solida, si è ingrandita un re dopo l’altro, anche quando questi erano dei deboli, sempre invidiata mai scalfita; spesso turbata mai piegata; uscendo vittoriosa dai rovesci più imprevedibili con i mezzi più insospettati, e non potendo perdersi che per una mancanza di fiducia nella propria fortuna” ed aggiunge “Una costituzione completa e ben congegnata non è quella che si arresta davanti ad ogni difficoltà, che le passioni umane e la varietà degli eventi possono far nascere, ma quella che prevede il mezzo di risolverli quando questi si presentano: come il fisico robusto non è quello che impedisce e previene le malattie, ma quello che da la forza di resistervi, e di ripararne prontamente i danni” v. Louis de Bonald Observation ur l’ouvrage de M.me la Baronne de Stael, trad. it. di Teodoro Katte Klitsche de la Grange, La Costituzione come esistenza, Roma 1985, pp. 35-36.

se non una, quattro verità, di Antonio de Martini

LA RETE “PROSPER” E LE GRANDI ESIGENZE DI DISINFORMAZIONE, IN INTELLIGENCE SONO SEMPRE TRIPLE.

Qualche amico mi considera anti-britannico pregiudiziale.
Ammiro gli inglesi sia individualmente che come popolo.

In base a questi stessi princìpi sto dalla parte dell’Italia bestemmiando in silenzio la sorte.
Per farvi capire meglio il modus operandi Inglese che quando fa la guerra, la fa per vincere e non per ” sedersi al tavolo della pace” vi racconterò la storia della rete PROSPER.

È lunga ma molto istruttiva. Buona per una domenica calma.

Durante la guerra, esisteva il SIS ( secret intelligence service) guidato dal colonnello Stewart Menzies e – una creazione di Churchill- il SOE ( special operation executive) comandato dal colonnello, poi generale, Colin Gubbins incaricato dei sabotaggi in Europa ( ” set Europe ablaze ” ordinò Sir Winston).

I due si odiavano e si scontravano regolarmente nel JIC ( joint intelligence committee) di fronte a Churchill.

PER ORGANIZZARE LA DISINFORMAZIONE SULLO SBARCO IN SICILIA, sentite quel che organizzo Menzies, maestro di inganni inarrivabile.

Henri Dericourt, responsabile dei voli segreti con la Francia, in specie la zona di Parigi, veicolava regolarmente e fortunatamente uomini e mezzi da e per la Resistenza e i suoi servigi erano equamente forniti a SIS E SOE all’insaputa del SOE.

Nell’estate 1943 il capo della rete PROSPER (1600 persone) fu chiamato a Londra, ricevuto da Churchill in persona che gli fece capire che qualcosa bolliva in pentola in tempi brevi.

Poi Menzies gli confidò che l’invasione della Francia del nord era imminente.

Forse suggerì un paio di date e invitò alla preparazione.
Hyundai
Il capo rete rientrato in Francia, mise in allarme tutto il ” reseau “e informò i capigruppo.

Furono catturati in 600 e quattrocento passati per le armi previa tortura da una informatissima Abweher.

Dericourt fu messo sotto inchiesta, ma giunsero ordini dall’alto che fermarono tutto.

MORALE:

a) Dericourt era fedele al SIS e mostrava ai tedeschi tutti i documenti del SOE in maniera da ottenere la loro fiducia e far passare, le ben più preziose informazioni del SIS, indenni le linee.

b) la rete PROSPER era stata ” venduta” in una con i capi rete convinti di conoscere la data dell’invasione ( il capo rete si fece uccidere mediante tortura senza parlare, ma uno o due dei sottoposti parlarono prima di morire col colpo alla nuca).

c) l’operazione serviva, nelle intenzioni del SIS, ad attirare i tedeschi nel nord della Francia mentre l’operazione sbarco era prevista in Sicilia.

d) a guerra finita, si scoprì che i tedeschi non avevano abboccato e non spostarono truppe verso nord, nemmeno in misura minima.

e) messo in crisi dalle eccessive perdite, il SOE fu messo in posizione defilata e data al SIS la precedenza nell’uso dei 18 aerei leggeri che eseguivano i voli notturni sulla Francia.

f) Gubbins accusò, in pieno JIC, Menzies di aver venduto ai tedeschi moltissimi agenti SOE. ( il 50% dei voli), ma senza esito. Anzi commise un errore: ammise le pesantissime perdite.

g) Cavendish Bentick che presiedette la riunione del JIC fu così convinto che il SOE si sarebbe vendicato del colpo basso ricevuto, sia in Francia che in Inghilterra, che ordinò a Victor Rothshild
lo scienziato che collaborava coi servizi, che “se fosse morto improvvisamente, si dovesse fare una autopsia”.

Menzies era intoccabile come Dericourt , anche dopo aver fatto ammazzare , scientemente e inutilmente, quattrocento agenti comandati da un eroico ufficiale. Inglese. Il suo nome era : maggiore FRANCES SUTTIL.

Serviva per sviare i sospetti di manipolazione se le vittime fossero state solo ” stranieri”.
Pare che il primo rifiuto di De Gaulle all’ingresso inglese nella Comunità Economica Europea, sia stato chiamato “il conto di PROSPER”.

Il motivo della intoccabilità di Menzies ? Enigma, il segreto che lo legava a Churchill ed altre pochissime persone e che assicurò la vittoria finale ad Albione.

Come spiegazione ufficiale della disinformazione fatta, si propinò la versione ufficiale del falso cadavere di un ufficiale inglese affiorato sulla costa iberica con in tasca una lettera tra capi militari inglesi che accennava a uno sbarco in Sardegna..

Da questa storiella ( operazione ” Mincemeat”) fu tratto il film “The man Who never was ” ( l’uomo che non è mai esistito) con Clifton Webb, presentato a Cannes nel 1956. L’anno della firma dei trattati di Roma.

Dal punto di vista tattico, le truppe ( aerei, navi) destinate a Sardegna o Sicilia, sarebbero state comunque sul posto della battaglia, ma la gente negli anni 50 era stanca di racconti di guerra e la prese per buona.

Le ottime operazioni di disinformazione – etica a parte- sono sempre triple. Questa era quadrupla perché Dericourt serviva a proteggere la vera fonte dell’Abweher. Ma meglio non dirlo.

Adesso capite perché ci sto tanto attento, seguo e segnalo di continuo le loro azioni, vero?
Buona domenica.

LA FINANZA, UNO STRUMENTO DI LOTTA TRA LE NAZIONI EUROPEE SOTTOPOSTE ALLE STRATEGIE USA, 3a parte (a cura di) Luigi Longo

LA FINANZA, UNO STRUMENTO DI LOTTA TRA LE NAZIONI EUROPEE SOTTOPOSTE ALLE STRATEGIE USA

(a cura di) Luigi Longo

 

 

Propongo la lettura di quattro scritti di cui il primo sull’euro, sullo spread e sul rapporto tra l’Italia e la Germania; il secondo sul non rispetto delle regole europee da parte della Bundesbank nell’emissione dei titoli del debito pubblico; il terzo sul debito pubblico; il quarto sulla necessità di un principe che con dura energia sappia rialzare la Nazione da uno stato di degrado economico, politico e sociale.

I due scritti di Domenico de Simone, un economista “radical”, sono apparsi sul sito www.domenicods.wordpress.com, rispettivamente in data 27/5/2018 e 18/2/2014, con i seguenti titoli: 1) italiani scrocconi e fannulloni? tedeschi truffatori e falsari!; 2) Con la scusa del debito.

Lo scritto di Domenico De Leo, economista, è apparso sul sito www.economiaepolitica.it in data 7/12/2011, con il seguente titolo: L’eccezione tedesca nel collocamento dei titoli di stato.

Per ultimo propongo lo stralcio dello scritto di G.W.F. Hegel dal titolo: Il “Principe” di Macchiavelli e l’Italia che è stato pubblicato in Niccolò Macchiavelli, Il Principe, a cura di Ugo Dotti, Feltrinelli, Milano, 2011, pp. 246-248.

L’idea di questa proposta è scaturita seguendo con grande fatica la crisi politica e istituzionale che si è innescata a partire dalle elezioni politiche del 4 marzo scorso: è irritante fare analisi politiche di grandi questioni (sic) a partire dalle elezioni politiche che sono teatrini indecenti con maschere penose e tristi, così come tristi sono le relazioni di potere!

Si parla in questi giorni di questioni come la difesa dell’euro, il debito pubblico, il pareggio di bilancio, lo spread, l’Unione Europea, la Costituzione violata, eccetera, velando i veri problemi che sono quelli dati dalla mancanza di sovranità nazionale (indipendenza, autonomia e autodeterminazione) e da una Europa che non esiste come soggetto politico (non è mai esistita storicamente): questa Unione europea, economica e finanziaria è figlia delle strategie egemoniche mondiali statunitensi.

L’Europa è una espressione geografica storicamente data a servizio degli Stati Uniti dove i sub-dominanti vogliono tutelare i propri interessi nazionali, svolgere le proprie funzioni per accrescere il loro potere sotto l’ala protettiva e allo stesso tempo minacciosa degli Stati Uniti (egemonia nelle istituzioni internazionali e nella Nato) a scapito degli interessi della maggioranza delle popolazioni nazionali ed europee (gli scritti di Domenico de Simone e di Domenico De Leo chiariscono molto bene il ruolo di potere degli agenti strategici che usano gli strumenti della finanza nel conflitto per la difesa del posto di vassallo europeo da parte tedesca).

La crisi dell’Italia (crisi di una idea di sviluppo e di una comunità nazionale inserite in una crisi d’epoca mondiale) va vista nel ruolo che l’Italia svolge nelle strategie statunitensi: sul territorio italiano ci sono fondamentali infrastrutture (immobili e mobili) militari a servizio degli Usa, nel Mediterraneo, nel Medio Oriente e in Oriente. Gli Usa-Nato stanno cambiando le città e i territori, stanno distruggendo le industrie di base, stanno rimodellando le economie dei territori; il Pentagono decide gli investimenti e le infrastrutture necessari; in definitiva hanno compromesso le basi per lo sviluppo di una discreta potenza del Paese: ci restano solo il cosiddetto made in Italy e il piccolo, medio è bello (sic). Il segretario di Stato USA, Mike Pompeo, facendo gli auguri al popolo italiano per la festa della Repubblica, ha detto che “La nostra continua cooperazione economica, politica e sulla sicurezza è vitale (corsivo mio) per affrontare le sfide comuni, tra cui il rafforzamento della sicurezza transatlantica e la lotta al terrorismo in tutto il mondo”.

Lo sbandamento dei sub-decisori italiani non è dovuto alla ricerca di un percorso di sovranità nazionale, da cercare con altre nazioni europee, per ripensare un’Europa come soggetto politico autonomo ( le cui forme istituzionali sono da inventare); ma esso è dovuto al conflitto interno agli USA dove si scontrano le visioni diverse dell’utilizzo dello spazio Europa in funzione delle proprie strategie egemoniche mondiali: 1) una Europa sotto il coordinamento del vassallo tedesco e del valvassore francese con la costruzione di uno Stato europeo?; 2) una Europa delle Nazioni singole?; 3) una Europa ridisegnata con la creazione di regioni?; 4) una Europa riorganizzata in aree << secondo le linee che marcano lo sviluppo storico>>?

La nuova sintesi dei dominanti statunitensi basata su un’idea di sviluppo con una diversa organizzazione sociale ( se mai ci sarà, considerato l’atroce conflitto in atto che indica l’inizio del declino dell’impero) dirà quale Europa sarà funzionale al rilancio egemonico mondiale.

E’ bastato che alcune forze politiche sistemiche proponessero ( non a livello di azione, che presuppone ben altre analisi e ben altri processi) aggiustamenti tecnici, maggiore equità, una ri-sistemazione sistemica delle gerarchie consolidate, una maggiore difesa dei propri interessi nazionali in funzione di una migliore Europa atlantica, che la reazione del potere sub-dominante europeo (soprattutto tedesco) fosse violenta, scomposta e rozza.

Il ruolo di garante di questa Europa legata ai dominanti statunitensi, che si configurano nel blocco democratico – neocon – repubblicano ( di questo blocco sono da capire meglio gli intrecci dei decisori della sfera politica), che vogliono una Europa coordinata dal vassallo tedesco, è rappresentato, in Italia, dal Presidente della Repubblica (oggi Sergio Mattarella, ieri Giorgio Napolitano). Il gioco istituzionale di Sergio Mattarella è da inquadrare in questa logica, altrimenti non si capiscono bene le contraddizioni, i paradossi, le sbandate e le ipocrisie di tutta la sfera politica. Attardarsi sul rispetto della Costituzione da parte del Presidente della Repubblica è un non sense perché la Costituzione è una espressione dei decisori e non del popolo. Le regole, le norme, i principi che regolano i rapporti sociali di una Comunità nazionale sono in mano a pochi e non a molti. Come insegna la cultura antica, soprattutto greca, quando le regole del legame sociale non sono decise dalla maggioranza non c’è nè democrazia nè libertà.

Occorre riflettere sulla tragica situazione in cui si trova l’Italia in particolare, e più in generale l’Europa, per trovare una strada che non sia solo elettorale, che non sia solo tecnica-finanziaria, che non veda la finanza come un dominio ma come uno strumento di potere in mano agli agenti strategici sub-dominanti europei e pre-dominati statunitensi. << Oggi si parla tanto della finanziarizzazione del capitale e del suo strapotere. Magari vedendo in questo processo l’avvicinarsi di una crisi catastrofica. Ma la finanza è solo un fattore fra altri, non isolabile, dello scontro per la supremazia fra i gruppi dominanti. Il capitale finanziario insomma rappresenta i conflitti in atto tra diverse forze e strategie politiche, combattuti con l’arma del denaro. Se vogliamo allora comprendere gli squilibri e le crisi che caratterizzano il capitalismo contemporaneo dovremmo addentrarci in un complesso intreccio tra funzioni finanziarie e politiche e nelle contraddizioni tra la razionalità strategica che prefigura assetti di potere e la razionalità strumentale che mira ai vantaggi immediati dell’economia. Al fondo vi è sempre lo scontro tra gruppi dominanti.>> (Gianfranco La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, Roma, 2008).

Per questo il rito delle elezioni è diventato sempre più inutile (l’esempio greco, e non solo, è significativo!) e mano a mano che si entrerà sempre di più nella fase multicentrica si renderà sempre più palese l’ideologia della partecipazione popolare alle decisioni del Paese tramite il voto elettorale, alla faccia della Costituzione!

La fase multicentrica impone una ri-considerazione sul ruolo della sovranità nazionale per ri-costruire una Europa delle nazioni sovrane che chiarisca il suo rapporto con gli USA e guardi ad Oriente.

 

Per comodità di lettura gli scritti proposti sono stati divisi e pubblicati in quattro parti, ciascuna preceduta dalla mia introduzione.

 

 

TERZA PARTE

 

 

CON LA SCUSA DEL DEBITo

di Domenico de Simone

 

 

Un paio di anni fa, un serissimo Istituto di studi economici tedesco, la Fondazione Stiftung Marktwirtschaftche significa Economia di Mercato, condotto dall’economista Bernd Raffelhüschen, molto stimato in Germania e all’estero, ha pubblicato un report a dir poco sconcertante, nel quale si dimostra che l’Italia è sì inguaiata dai debiti, ma in realtà in proiezione futura sta molto meglio di tutti gli altri paesi europei Germana compresa. La sua ricerca è stata ripresa qualche tempo fa dal Neue Zürcher Zeitung (Nzz), il più prestigioso giornale della Svizzera tedesca che nella sua edizione tematica, l’ha ampliata aggiungendo anche la Svizzera all’elenco dei paesi esaminati nella ricerca di Raffelhüschen.

Non molto stranamente, mentre in Germania e in Svizzera la ricerca ha aperto un grande dibattito ed ha avuto l’eco mediatica che meritava, in Italia ne hanno parlato in pochissimi, e nessuno dei grandi giornali che si occupano di economia, o fanno finta di occuparsene. Questo è il link ad un articolo apparso su uno dei pochi periodici on line che hanno commentato la ricerca e questo un altro.

Non è strano affatto se si pensa ai contenuti del report. Nella ricerca si distingue, infatti, tra debito “esplicito” ovvero il debito esistente e conclamato dai titoli di stato in circolazione, e quello “implicito” ovvero il debito che non appare direttamente dai conti, ma che apparirà nel tempo a causa delle politiche economiche e degli oneri effettivi assunti dagli Stati relativamente alla loro spesa pubblica. Se si sommano le due componenti, ci si accorge che l’Italia è il paese in Europa che sta meglio di tutti, poiché ha almeno in chiaro gli oneri che si sommeranno nel prossimo futuro al debito attuale. La somma delle due componenti, infatti, porta il debito complessivo dello Stato al 146% del PIL attuale, mentre per la Germania la somma risulta essere il 192,6% del PIL, poco meno della virtuosa Finlandia che raggiunge il 195,2%. Stanno molto peggio sia la Francia con il 337,5% che l’opulenta Olanda, con il 494,6% , per non parlare della Spagna, con il 548,5% e la Grecia che raggiunge il 1.016,9% del PIL attuale. Gli altri paese europei li vedete nella scheda di questo articolo. Per la cronaca, la Svizzera è buona terza nella classifica in questione, e per la loro ricerca i conti dell’Italia stanno addirittura sotto lo zero, nel senso che a lungo termine il debito italiano sarà assorbito poiché gli impegni presi sono minori delle entrate previste.

Insomma, dire che stiamo bene è tutto relativo, poiché è chiaro che anche noi stiamo messi malissimo, ma gli altri paesi d’Europa stanno messi peggio di noi, molto peggio. Allora, per quale ragione i “mercati” attaccano tanto i bond italiani, anche quelli a medio e lungo termine, mentre considerano così appetibili i titoli di stato tedeschi, francesi e olandesi? Perché i nostri BOT e CCT sono considerati alla stregua dei titoli spazzatura, mentre i bond tedeschi vanno a ruba? Con la conseguenza che noi dobbiamo onerarci di interessi molto alti per piazzare i nostri titoli di Stato mentre la Germani non paga nulla o quasi? Senza considerare che americani, inglesi e giapponesi stanno messi molto peggio di noi e della Germania, eppure i loro titoli, con tutto il QE elargito a piene mani negli ultimi anni, pagano interessi bassissimi.

Orbene la risposta è semplice. Vi farò una domanda: c’è ancora qualcuno che dubita del fatto che le scelte di acquisto degli operatori finanziari si basano su considerazioni politiche piuttosto che finanziarie? Le aste dei titoli di stato sono gestite da un numero molto ristretto di banche: nel mercato primario sono in tutto venti, e in quello secondario sono 120, di cui solo alcune sono autorizzate a fare il prezzo (market makers). C’è ancora qualcuno che ha la faccia tosta di chiamare questo schifo di potere e questa banda di rapinatori “mercato”? E quale prova più evidente di questa del servilismo e della subordinazione dei nostri politici, per non parlare dei principali media del nostro sventurato paese, ai poteri forti della finanza mondiale, e della Germania in Europa? Ancora dubbi su questo?

 

 

FIAT IMPERIUM PEREAT HOSTIS: LE IPOSTATICHE ILLUSIONI DELLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA, di Massimo Morigi

FIAT IMPERIUM PEREAT HOSTIS: LE IPOSTATICHE ILLUSIONI DELLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA FRA NORMATIVISMO, ISTITUZIONALISMO, DECISIONISMO E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO (TERZA RECENSIONE CUMULATIVA A TEODORO KLITSCHE DE LA GRANGE)

 

 

Di Massimo Morigi

 

 

Nella pubblicistica e saggistica politologica accade assai di rado – purtroppo – che quello che dovrebbe essere il livello dell’analisi si riesca ad incontrare con la teoresi attorno ai valori da cui questa analisi dovrebbe prendere l’avvio. Stiamo parlando, come si sarà ben compreso, del problema dell’avalutatività, il quale se già si presentava nella versione datane da Max Weber, con la sua soluzione che assegnava al valore la sola funzione di focalizzazione dell’oggetto della ricerca per poi pretendere di lasciare del tutto al di fuori dalla dialettica del valore lo svolgimento concreto della ricerca stessa, assolutamente insoddisfacente, profondamente inficiata da ingenuo positivismo e quindi assurdamente dimentica della consapevolezza dialettico-olistica hegeliana della distinzione fra intelletto e ragione (fra Verstand e Vernunft) e della, in ultima analisi, assoluta preminenza gerarchica della ragione che se pur contempla, per beneficio operativo di sviluppo del discorso e/o dell’indagine, le rigide suddivisioni categoriali (e quindi una iniziale separazione fra valori e fatti), riesce (e deve riuscire) a superare poi questa divisione puramente pratica e tecnico-procedurale iniziale in una visione d’insieme in cui l’ideale punto di riferimento è una totalità che si esprime sì per sintesi dialettiche ed anche contrappositive (distinzione hegeliana fra Verstand e Vernunft) ma che nella sua sostanzialità è una e indivisa (e quindi in grado di essere colta sola dalla Vernunft), nella versione ulteriormente degradata datane oggi dagli attuali cantori delle «magnifiche sorti e progressive» del mondo liberal-liberista presenta tratti addirittura ridicoli ed indecenti.

Gli ultimi interventi che Teodoro Klitsche de la  Grange ha offerto ai lettori dell’ “Italia e il mondo”, oltre a confermare l’assoluto valore di questo giuspubblicista filosofo politico che si sostanzia in una teoresi distante milioni di anni luce dall’avalutatività weberiana  (e ovviamente distante miliardi di anni luce dall’ avalutatività degli odierni pennivendoli  liberal-liberisti), per una felice occasione si prestano pure egregiamente per guidarci alla comprensione integrale, e quindi, dialetticamente effettuale e valoriale al tempo stesso, delle ultime vicende della politica italiana che hanno visto l’assunzione alle massime responsabilità governative  delle cosiddette forze populiste e sovraniste. Veniamo quindi al primo intervento del La Grange preso in esame dalla presente nuova  recensione sul Nostro, Su Hegel e la virtù (URL: http://italiaeilmondo.com/2018/05/07/su-hegel-e-la-virtu-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/, http://www.webcitation.org/6zQNXC3Bw e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F05%2F07%2Fsu-hegel-e-la-virtu-di-teodoro-klitsche-de-la-grange%2F&date=2018-05-14), che a differenza di quanto suole fare solitamente La Grange, tralascia il discorso precipuamente giuridico per focalizzarsi su un’analisi linguistica del degrado semantico del lessico della politica. Nello specifico La Grange, sulla scorta della Fenomenologia dello spirito di  Hegel, ci mostra il terribile degrado che nella modernità politica ha subito la parola ‘virtù’:

 

«In effetti il filosofo nota due cose, spesso ripetute nei secoli successivi; la prima che la virtù esternata dai moderni è per lo più “Pomposo discorrere del sacrificio per il bene e dell’abuso delle doti; simili essenze e fini ideali si accasciano come parole vuote che rendono elevato il cuore e vuota la ragione; simili elevate essenze edificano, ma non costruiscono, sono declamazioni che con qualche determinatezza esprimono soltanto questo contenuto: che l’individuo il quale dà ad intendere d’agire per tali nobili fini e ha sulla bocca tali frasi eccellenti, vale di fronte a se stesso come un’eccellente essenza, ma è invece una forzatura che fa grossa la testa propria e quella degli altri, la fa grossa di vento… Ma la virtù da noi considerata è fuori della sostanza, è priva di essenza, è una virtù soltanto della rappresentazione, virtù di parole prive di qualunque contenuto… La nullità di quella chiacchiera sembra essere divenuta certa anche per la cultura del nostro tempo, sebbene in modo inconsapevole; giacché dall’intera massa di quelle frasi e dal vezzo di farsene belli è dileguato ogni interesse, il che trova la sua espressione nel fatto ch’esse producono soltanto noia”. Il secondo è che, di converso “La virtù antica aveva il suo significato preciso e sicuro, perché possedeva un suo fondamento pieno di contenuto nella sostanza del popolo e si proponeva come fine un bene effettuale già esistente; e perciò non era rivolta contro l’effettualità (intesa) come una universale inversione, né contro un corso del mondo” (Fenomenologia dello spirito, trad. it. di E. De Negri, Firenze 1973 pp. 323-324).»

 

Due osservazioni in merito a questo ragionamento del La Grange. Prima osservazione. Se è evidente sullo sfondo, seppur non citato, il saggio di Benjamin Constant De la liberté des Anciens comparée à celle des Modernes, qui La Grange, sulla scorta di Hegel, compie un’inversione a U rispetto allo spirito del saggio del Constant, perché laddove la De la liberté des Anciens afferma a chiare lettere che la democrazia dei moderni, cioè quella che già allora aveva preso le forme della democrazia rappresentativa, è preferibile a quella degli antichi perché questa, a differenza di quella nata nel mondo classico, lascia la libertà ai cittadini di occuparsi dei propri affari privati e, attraverso il meccanismo della delega, affida l’onere di occuparsi degli affari pubblici ad un ristretto gruppo di rappresentanti elettivi, La Grange, al contrario, afferma che i moderni (cioè, traduciamo noi, ma pensiamo proprio di non forzare il suo pensiero: coloro che sono immersi nell’attuale modernità politica della democrazia rappresentativa) sono stati vittime di un profondissimo degrado semantico del linguaggio politico. E la questione del degrado semantico del linguaggio della politica, è particolarmente pesante, solo che limitiamo la nostra attenzione, come fa La Grange,  alla parola “virtù” e alla famiglia semantica che attorno a questa si aggrega, soffermandoci alla cronaca politica italiana di questi ultimi anni: il decreto salva-Italia faceva appello alla virtù del sacrificio degli italiani e l’opposizione attuale contro i “populisti” e i “sovranisti” fa sempre appello neppure tanto celatamente alla stessa virtù al sacrificio economico e sociale della popolazione del nostro paese per poter consentire all’Italia di rimanere nel novero dei paesi UE e dell’area Euro. Apparentemente nihil sub sole novi ma solo che facciamo mente locale ai sacrifici che si chiedevano ai cittadini e alle popolazioni delle polis del mondo classico, specialmente se guardiamo alla Grecia nelle sue guerre antipersiane e durante la guerra del Peloponneso, vediamo che questa richiesta al sacrificio non poggiava, come negli ultimi anni in Italia, su una pretesa virtù di sopportazione e di rassegnazione ad essere le vittime designate delle imperscrutabili leggi economiche, ma che questo sacrificio altro non doveva significare che la capacità di mostrare il proprio valore attivo, cioè la propria virtù, cioè la propria abilità di guerriero,  nel corso della guerra, una guerra che poteva sì essere letale per il singolo ed anche per la comunità ma che doveva essere condotta e vissuta non con la virtù pecorile del gregge rassegnato e predestinato alla mattanza ma con l’orgoglio di mostrare alla proprio comunità e al mondo intero il proprio immortale valore (immortale non perché conferisca al combattente una sorta di invulnerabilità fisica ma perché questo valore, nella sua sublime e monumentale grandezza, sarà ricordato per l’eternità dalla migliaia di generazioni che verranno dopo di noi  e da tutte le altre comunità umane presenti e future che animeranno la scena del mondo: cfr. a questo proposito, il discorso funebre di Pericle nella Guerra del Peloponneso di Tucidide: «Essi furono, dunque, di quella tempra che l’onore di Atene richiedeva: tutti gli altri devono augurarsi una decisione più fortunata sì, ma non meno audace e indomabile volerla di fronte ai nemici, avendo di mira non soltanto a parole il bene dello stato (ognuno potrebbe di fronte a voi, che pur non ne siete all’oscuro, dilungarsi molto ad enumerare tutti i vantaggi che la vittoriosa resistenza ai nemici comporta), ma piuttosto di giorno in giorno contemplando, in fervore d’opere, la grandezza della nostra città, che deve essere oggetto del vostro amore. E quando essa veramente grandeggi davanti alla vostra immaginazione, pensate che tale la fecero uomini dal cuore saldo e dall’intelligenza pronta al dovere, sorretti nelle imprese dal sentimento dell’onore: e se mai, alla prova, talvolta fallirono, non ritennero di dover defraudare la città almeno del loro valore; anzi le offersero, prodighi, il più splendido contributo. Facendo nell’interesse comune sacrificio della vita, si assicurarono, ciascuno per proprio conto, la lode che non invecchia mai e la più gloriosa delle tombe; non tanto quella in cui giacciono, quanto la gloria che resta eterna nella memoria, sempre e ovunque si presenti occasione di parlare e di agire. Per gli uomini prodi, infatti, tutto il mondo è tomba e non è solo l’epigrafe incisa sulla stele funebre nel paese loro che li ricorda; ma anche in terra straniera, senza iscrizioni, nell’animo di ognuno vive la memoria della loro grandezza, piuttosto che in un monumento. Ora, dunque, proponetevi di imitarli e, convinti che la felicità sta nella libertà e la libertà nell’indomito coraggio, non fuggite i rischi della guerra.»: Tucidide, Orazione funebre di Pericle, in Guerra del Peloponneso,  II, 34-36).

Seconda osservazione. Quando La Grange attraverso Hegel ci fa notare che «La virtù antica aveva il suo significato preciso e sicuro, perché possedeva un suo fondamento pieno di contenuto nella sostanza del popolo e si proponeva come fine un bene effettuale già esistente; e perciò non era rivolta contro l’effettualità (intesa) come una universale inversione, né contro un corso del mondo», non solo ribadisce l’anzidetto degrado semantico del linguaggio della vita pubblica ma compie un’operazione genealogica su questo degrado suggerendoci che esso ha avuto luogo in seguito all’affermarsi del giusnaturalismo prima e dell’illuminismo poi che, al netto della positiva funzione storica che hanno avuto nella storia politica dell’Occidente, hanno anche avuto la non leggera pecca di introdurre una mentalità universalistica nell’agire politico dell’uomo, una mentalità universalistica che, al contrario che nell’antichità classica, fa sì che l’azione dell’uomo di deprivi di finalità e contenuti concreti ed effettuali ma si metta all’inseguimento di fantomatici obiettivi universali(stici) validi per ogni tempo ed ogni luogo. Sullo sfondo di questa impostazione lagrangiana sul decadimento semantico delle parole della politica, che se vogliamo strettamente attenerci alla nostra modernità politica, ha la sua origine nel giusnaturalismo prima e nell’illuminismo poi, sta sicuramente Edmund Burke e le sue Reflections on the Revolution in France, dove i diritti universalistici che giungevano dalla Francia rivoluzionaria vengono paragonati dal Burke ad orridi e surreali fantocci ripieni di segatura incapaci di apportare il minimo contributo positivo alla vita politica e sociale dell’Inghilterra:

 

«In England we have not been completely emboweled of our natural entrails; we still feel within us, and we cherish and cultivate, those inbred sentiments which are the faithful guardians, the active monitors of our duty, the supporters of al liberal and manly morals. We have not been drawn and trussed, in order that we may be filled, like stuffed bird in a museum, with chaff and rags, and paltry, blurred shreds about the rights of man» (Edmund Burke, Reflections on the revolution in France and on the proceedings in certain societies in London, relative to that event in a letter intended to have been sent to a Gentleman in Paris, London, 1790, p. 109).

 

Burke era un feroce antirivoluzionario, la qual cosa non si può certo dire di Hegel, ed è evidentemente la profonda mentalità storicistica di La Grange, che fa preferire al Nostro, nella sua argomentazione antiuniversalistica nel campo della politica un autore che salutò la rivoluzione francese, nonostante i suoi truculenti eccessi e le sue stupidaggini universalistiche sui diritti dell’uomo e del cittadino, come una grande tappa nel progresso dell’umanità, anziché, come il Burke, come il trionfo degli istinti più  bestiali e belluini.

Ma non essendo questa la sede per fare il processo sulla gerarchia ideale nella  galleria  dei suoi autori di riferimento – anche perché, esplicitamente o implicitamente, assolutamente chiari e perspicui – meglio è cercare di mettere a fuoco come La Grange concretamente articoli nella storia della teoresi politica questo degrado universalistico che nella modernità politica occidentale ha inizio col giusnaturalismo (volendo risalire a ritroso si potrebbe dire col cristianesimo ma il cristianesimo si sviluppò in un mondo classico già in exitu e precedentemente portato a consunzione dalla dimensione di massa – e quindi di estremo degrado dei costumi e della virtù – della romanità imperiale ed ebbe anche nel basso medioevo come principale filosofia di appoggio  la meravigliosa fioritura del  tomismo, del quale tutto si può dire tranne che fosse una filosofia antidialettica, nichilistica e dissolvente del legame sociale come il giusnaturalismo e l’illuminismo: insomma il crociano Perché non possiamo non dirci “cristiani”, inteso non in senso fideistico-confessionale ma nel senso della necessità di un approccio dialettico verso la Totalità, ha ancora molto da insegnare anche all’attualmente declinante cultura rivoluzionaria).

E in questa messa a fuoco, fondamentale si rivela la grandissima maestria di dottrina giuridica e giuspubblicistica del La Grange. In  Istituzione, norme, valori e nuove forme di ostilità  (URL: http://italiaeilmondo.com/2018/05/13/istituzione-norme-valori-e-nuove-forme-di-ostilita-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/,http://www.webcitation.org/6zQO3Tp2U e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F05%2F13%2Fistituzione-norme-valori-e-nuove-forme-di-ostilita-di-teodoro-klitsche-de-la-grange%2F&date=2018-05-14), La Grange indica chiaramente che il nemico da battere sul piano della mentalità politica universalistica non sono tanto (o non solo) le basse retoriche politiche ammannite alla masse delle democrazie rappresentative (ma dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico sarebbe meglio dire: delle oligarchie elettive) ma, in primo luogo – e appena appena nascosta  e all’ombra di queste retoriche – una particolare dottrina giuridica, quella particolare dottrina giuridica che va sotto il nome di normativismo, e che vide in Hans Kelsen il suo principale esponente nel Novecento:

 

«In tutti e tre i giuristi [Maurice Hauriou,  Carl Schmitt e  Santi Romano, ndr] la preoccupazione (e la critica) principale al normativismo era di ridurre il diritto a qualcosa di astratto, avulso dalla sua (principale) funzione: regolare effettivamente  ed efficacemente la vita sociale. L’obbiettivizzazione si realizza non – o non solo –  in un corretto ragionamento logico,  con il quale un determinato fatto o azione è sussunta alle norme che la disciplinano; ma piuttosto nel fatto che la normativa vigente sia generalmente applicata e osservata sia dai cittadini che dai pubblici funzionari. Far rispettare la legge, creare e mantenere a tal fine una situazione normale, richiede autorità e consensopotenza  ed  efficaciacomando obbedienza, più che sillogismi ed implicazioni. Espungendo, come fa il normativismo, il problema (in sé distinto) dell’applicazione delle norme e della loro effettiva vigenza nell’ambito sociale, (perché “sociologico” e non riconducibile alla Reine rechtslehre), e separandolo da quello dello jus dicere, la purezza e l’astrattezza del medesimo risultano tali solo perché sottraggono al diritto gran parte del suo ambito (e delle sue problematiche). Così l’oggettività di una corretta applicazione delle norme si riduce alla validità e correttezza di una operazione logica e intellettuale (verificabile in base a Barbara e Darii, cioè a parametri di rigore logico), mentre l’oggettività, per giuristi come  Hauriou, Schmitt e Romano, consiste nell’incidenza reale del diritto vigente sui comportamenti sociali. Se questa è consistente il diritto ( e l’istituzione) è oggettivizzata; se scarsa e  episodica, non lo è.»

 

Quando in occasione della formazione del governo giallo-verde, il Presidente della Repubblica ha ritenuto di non dover accettare la nomina di Paolo Savona a ministro dell’economia adducendo esplicitamente come spiegazione il fatto che Savona veniva ritenuto dal Presidente della Repubblica una minaccia per la permanenza dell’Italia nell’UE e nell’ Euro, permanenza ritenuta dal Presidente irreversibile e quindi, de facto, come l’elemento più importante della costituzione materiale dell’Italia, si è intravvisto, avvolto ad occhi non allenati da una fitta nebbia ma chiaramente profilato da chi dotato di un’acuta visione potenziata da potenti strumenti come quelli forniti dal La Grange, l’inquietante profilo del normativismo, normativismo per il quale la norma giuridica è una creazione a sé stante e che nulla dovendo a tutto il resto della totalità storica, sociale e culturale, basa unicamente la giustificazione della sua esistenza al mondo ed il diritto di imporre obbedienza unicamente sulla  kelseniana Grundnorm, la norma che sta alla base di tutte le altre: e nel caso di cui stiamo parlando questa Grundnorm altro non è che la permanenza dell’Italia nell’UE e nell’Euro. Ma questa staticità del pensiero (e, soprattutto, della pratica) istituzionalista oltre ad immobilizzare nell’immediato non solo  la vita politica e sociale e anche a negare la natura umana che proprio in una decisionistica strategicità totalmente rifiutante ogni ipostatizzazione modello Grundnorm trova la sua più intima dialettica teleologia, a lungo andare altro non fa che pavimentare la strada per violenti e micidiali scontri:

 

«Vale cioè per i valori – anche se parzialmente – una delle critiche che i giuristi istituzionalisti rivolgono al normativismo: d’essere cioè da un canto estremamente statico, e dall’altro di sostituire il potere di dominazione dello Stato con quello di un “imperativo categorico, che equivale ad un ordine sociale essenzialmente coattivo” (M. Hauriou, Précis de droit constitutionnel, Paris, 1929, p. 11). Hauriou con questo, in sostanza, contrapponeva la stabilità dell’istituzione (cioè il mutare pur conservando forma ed elementi fondamentali), alla staticità di un sistema normativo impersonale. Nella prima l’essenziale  dura, mentre l’elemento secondario (le norme) mutano; se si è, di converso, conseguenti alla seconda ne risulta o un ordinamento statico – e perciò poco adatto alla vita – o, al limite, di dover applicare le norme anche al prezzo della fine dell’istituzione. Adeguandosi così al detto fiat justitia, pereat mundus, ch’è proprio quanto rifiutato da tanti giuristi e filosofi, da Jhering ad Hegel, da Machiavelli a Santi Romano.»

 

Conseguenza ultima quindi di una mentalità che ragioni lungo schemi istituzionalistici è il fiat iustitia, pereat mundus ma noi, volendo declinare dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico lo spirito di Istituzione, norme, valori e nuove forme di ostilità,  possiamo anche dire fiat imperium, pereat hostis perché l’espulsione del ‘politico’ dalla polis non ottiene il risultato che il nemico diviene amico o si dissolve come neve al sole morendo di morte naturale, come ingenuamente credono i liberal-liberisti animati dalla fede nella Grundnorm della prevalenza del “tecnico” e/o dell’ “economico” sul “politico”, ma, molto più semplicemente, che il nemico  non è più un nemico politico ma il  nemico totale ed assoluto di una fantomatica umanità perfetta (e quindi, in ultima analisi, da eliminare e sterminare manu militari e non da battere, invece, attraverso una politica e strategica azione per conseguire una gramsciana egemonia all’interno della società), umanità perfetta che identifica la propria azione nel religioso rispetto di una Grundnorm e/o di qualche suo ridicolo succedaneo (nel caso del Presidente della Repubblica italiana il risibile succedaneo è l’UE e l’Euro).

Che l’annullamento del “politico” e la sua sostituzione con un qualsiasi ipostatizzato marchingegno universalistico, ultimo e più pericoloso dei quali il normativismo  perché apparentemente svincolato dalla “pappa del cuore” dei diritti universali dell’uomo ma strettamente affine a questi sia per la comune genealogia storica giusnaturalista, illuminista ed infine positivista sia perché, sul piano logico, trattasi della più grande e scaltrita ipostasi politico-giuridica che mente umana abbia mai concepito, siano pronubi al peggior disordine e alla peggiore violenza è cosa che Carl Schmitt aveva ben presente e si può dire che questa consapevolezza costituisca l’alfa e l’omega di tutto il suo miglior pensiero.

E come aveva correttamente rappresentato sempre Schmitt, questo “politico” trova le sue radici nel  formarsi della decisione sulla scelta dell’amico e del nemico e dal conseguente costituirsi di un campo conflittuale all’interno della società. (Per i classici del pensiero schmittiano riguardo al decisionismo e per la distinzione amico/nemico si rimanda, ovviamente, a  Carl Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität, München-Leipzig, Duncker & Humblot, 1922;  trad. it. Teologia politica: quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Le categorie del “politico”, a cura di Gianfranco Miglio e Pierangelo Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972 e a Carl Schmitt, Der Begriff des Politischen, in “Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik”, a. LVIII, n. 1, 1927, pp. 1-33).

Tuttavia, concomitante con l’ingresso di Carl Schmitt nel partito nazista (Carl Schmitt entrò ufficialmente nel partito nazista nella primavera del 1933: il 1° maggio 1933 gli fu intestata la tessera 2.098.860 del NSDAP),  prendeva forma un percorso teorico di Schmitt che lo avrebbe allontanato dall’originario Dezisionismus per farlo rapidamente approdare al konkrete Ordnungsdenken, che è la versione schmittiana dell’istituzionalismo di Maurice Hauriou e Santi Romano. Il lavoro che segna questa svolta istituzionalista  di Carl Schmitt è Über die drei Arten des rechtwissenschaftlichen Denkens del 1934 (Carl Schmitt, Über die drei Arten des rechtwissenschaftlichen Denkens, Hanseatische Verlagsanstalt, Hamburg, 1934; trad. it. – ma parziale – I tre tipi di pensiero giuridico, in Le categorie del “politico” cit., pp. 245-275) e in Istituzione, norme, valori e nuove forme di ostilità  Teodoro Klitsche De La Grange così ci dà conto di questo fondamentale passaggio nella produzione di Schmitt:

 

«Nel saggio Über die drei Arten des rechtwissenschatflichen Denkens Schmitt rende omaggio ai grandi giuristi (istituzionalisti) Maurice Hauriou e Santi Romano. In particolare osserva che malgrado la concezione istituzionista  del diritto risalga ad Aristotele e S. Tommaso “la distinzione qui accennata fra pensiero fondato sulle norme e pensiero fondato sull’ordinamento è sorta ed è divenuta pienamente consapevole solo nel corso degli ultimi decenni. Negli autori precedenti, non è possibile rintracciare un’antitesi come quella contenuta nel passo appena citato di Santi Romano. Le antitesi precedenti non riguardano la contrapposizione di norme e ordinamento, ma piuttosto quella di norma e decisione oppure di norma e comando”  (Trad. it. ne Le categorie del “politico”, Bologna, 1972, p. 260). Sia in Hauriou che in Santi Romano, pur ritenendo entrambi  che il diritto consista tanto di norme che di istituzioni, il presupposto (e la condizione d’esistenza) ne è l’istituzione, e non le norme. Sono quelle – scrive Hauriou – “a fare le regole di diritto, non sono le regole a fare le istituzioni” (La thèorie de l’institution et de la fondation (Essai de vitalisme social) , Paris, 1925, trad. it. Milano, 1967, p. 45); e Santi Romano: “l’ordinamento giuridico, così comprensivamente inteso, è un’entità che si muove in parte secondo le norme, ma, soprattutto, muove, quasi come pedine in uno scacchiere, le norme medesime, che così rappresentano piuttosto l’oggetto e anche il mezzo della sua attività, che non un elemento della sua struttura” (L’ordinamento giuridico, 1918, 2ª ed., Sansoni, Firenze, 1947, p. 130 e proseguiva: “sotto certi punti di vista, si può anzi ben dire che ai tratti essenziali di un ordinamento giuridico le norme conferiscono quasi per riflesso: esse, almeno alcune, possono anche variare senza che quei tratti si mutino, e, molto spesso, la sostituzione di certe norme con altre è piuttosto l’effetto anziché la causa di una modificazione sostanziale dell’ordinamento”). La stessa tesi è ripetuta da Schmitt (Op. ult. cit.), secondo il quale, per il pensiero fondato sull’ordinamento “la norma o regola non fonda l’ordinamento, essa svolge soltanto, sulla base o nell’ambito  di un ordinamento dato, una certa funzione dotata solo in misura modesta di validità autonoma, indipendente dalla situazione oggettiva”. Ed è proprio la necessaria oggettività del diritto a rendere preferibile un tipo di pensiero giuridico fondato sull’istituzione a quello normativistico.».

 

Come abbiamo potuto appena vedere, La Grange dà sì conto delle ragioni logico-giuridiche che indubbiamente fanno preferire un’impostazione istuzionalista ad una normativista (e che indubbiamente hanno avuto un notevole peso nella stesura dell’ Über die drei Arten e che riassumendole in due battute ci fanno affermare che l’istituzionalismo, al contrario del normativismo, non cade in sciocche visioni mistico-ipostatiche e che l’istituzionalismo partendo dal dato concreto sociale e/o subsociale è una teoria pluralista del “giuridico” e questo sia a livello interno che internazionale) e quindi non possiamo non concordare con La Grange quando afferma che «è proprio la necessaria oggettività del diritto a rendere preferibile un tipo di pensiero giuridico fondato sull’istituzione a quello normativistico», anzi potremmo anche spingerci ad affermare modificando solo leggermente la citazione «è proprio la necessaria oggettività della conoscenza del diritto a rendere preferibile un tipo di pensiero giuridico fondato sull’istituzione a quello normativistico». Ma su quest’ultima nostra (retoricamente euristica) affermazione è necessario soffermarci un attimo riprendendo per un attimo il discorso appena interrotto sull’iscrizione di Carl Schmitt al partito nazionalsocialista ed integrando questo dato biografico con un particolarissimo punto di vista, quello del Repubblicanesimo Geopolitico – cioè quello del modesto scrivente – e che può essere espresso nel seguente modo: il Repubblicanesimo Geopolitico consapevole, in accordo con l’impostazione  istituzionalista  pluralista fatta propria per ultimo anche da  Schmitt, che,  in prospettiva storica, la statualità volge al termine, pone il principio d’ordine non nel concreto ordinamento giuridico visto – giustamente come da corretta dottrina istituzionalista e da Schmitt – precedente allo Stato ma, altresì, nella concreta consapevolezza di massa e/o da parte di più o meno estese élite  della natura dialettico/strategico/conflittuale della morfogenesi e fisiologia politica e sociale, consapevolezza  che già altrove è stata chiamata “epifania strategica” o, declinata riguardo al sorgere degli odierni “populismo” e/o  “sovranismo”, “consapevolezza strategica in statu nascenti”. Quello che quindi qui si vuole altresì affermare è che 1) non si può non concordare con La Grange che sul piano pratico delle conduzione degli affari sociali l’istituzionalismo proprio per il suo carattere pluralista e intrinsecamente antitotalitario è assolutamente da preferire al normativismo; che 2) per quanto forma di pensiero giuridico indubbiamente indirizzato verso il realismo, anche l’istituzionalismo rischia di cadere in una visione appesantita da una mentalità ipostatica perché se prima, nel normativismo, l’ipostasi si concretizzava in una norma, nella Grundnorm, ora l’ipostasi rischia di investire il concreto ordinamento giuridico, che viene sì giudicato nella concretezza della sua produzione sociale ma che perlomeno, se non viene ipostatizzato, viene rappresentato rigido ed ingessato perché le forme sociali che lo producono non vengono pensate come generate dalla dialettica del conflitto/azione strategico; e, infine, che 3) dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico il passaggio di Carl Schmitt dal decisionismo all’istituzionalismo avvenuta nel saggio Über die drei Arten des rechtwissenschatflichen Denkens costituisce un netto ed innegabile arretramento teorico indotto, oltre che dall’apparente paradosso che la decisione dell’attore politico di dividere  il campo del “politico” fra amico e nemico se riesce a dare una prima e veritiera fotografia della dinamica sociale non riesce a restituircene la sequenza filmata (quello che noi abbiamo  già altrove definito il “paradosso Carl Schmitt”e di questo problema teorico Carl Schmitt era assolutamente consapevole), soprattutto dalla circostanza che Schmitt voleva entrare nel partito nazista, un partito nazista per il quale non poteva esistere  il nemico costitutivo assieme all’amico del  campo del “politico” (il nemico doveva essere tout court eliminato) ma nemmeno  il campo del  “politico” stesso perché per il nazismo gli unici soggetti contemplati a costituire la vita nazionale erano il Volk razzialmente inteso (al quale venivano ammanniti i deliri antisemiti e la mitologia del Blut und Boden)  e il partito élite di questo Volk e al  vertice dei quali stava, in unione mistica col suo popolo, il semidio Führer Adolf Hitler. Indubbiamente anche questo: popolo, partito, Führer, è un ordinamento concreto ma il “piccolo” problema è che questo specifico ordinamento concreto molto concretamente non ammetteva alcun altro ordinamento concreto, cioè, detto in altre parole, l’insito pluralismo che costituisce uno delle colonne portanti dell’istituzionalismo era assolutamente inammissibile per il totalitarismo razzista nazionalsocialista.

      Accadde così che Schmitt che aveva deciso di non approfondire la dialettica amico/nemico in direzione conflittuale strategica e quindi di sciogliere l’apparente paradosso cui noi abbiamo dato il suo nome (paradosso sciolto dalla consapevolezza del Repubblicanesimo Geopolitico che la coppia oppositiva amico/nemico non è altro che una prima veritiera ma grezza rappresentazione della morfogenetica ed evolutiva azione all’interno della società umana e delle popolazioni animali e vegetali della dialettica dell’azione/conflitto strategico:  sulla dialettica dell’azione/conflitto strategico come paradigma antipositivistico e unificante, alla luce della filosofia della prassi di Giovanni Gentile, Antonio Gramsci, György Lukács e Karl Korsch, il mondo naturale fisico-biologico e il mondo storico-culturale dell’uomo, cfr. Massimo Morigi,   Repubblicanesimo Geopolitico Anticipating Future Threats. Dialogo sulla moralità del Repubblicanesimo Gepolitico più breve nota all’intervista del CSEPI a La Grassa (di Massimo Morigi) – URL: https://archive.org/details/RepubblicanesimoGeopoliticoAnticipatingFutureThreatsDialogoSulla_904 e https://ia801909.us.archive.org/2/items/RepubblicanesimoGeopoliticoAnticipatingFutureThreatsDialogoSulla_904/RepubblicanesimoGeopoliticoAnticipatingFutureThreatsDialogoSullaMoralitaDelRepubblicanesimoGeopoliticoMassimoMorigiKarlMarxAdamSmith.pdf e Id., Dialecticvs Nvncivs. Il punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico attraverso i Quaderni del Carcere e Storia e Coscienza di Classe per il rovesciamento della gerarchia della spiegazione meccanicistico-causale e dialettico-conflittuale, per il rinnovamento degli studi marxiani e marxisti e per l’ Aufhebung della gramsciana e lukacsiana Filosofia della Praxis, URL https://archive.org/details/DialecticvsNvncivsNeoRepubblicanesimo e https://ia801903.us.archive.org/24/items/DialecticvsNvncivsNeoRepubblicanesimo/DialecticvsNvncivs.IlPuntoDiVistaDelRepubblicanesimoGeopoliticoAttraversoIQuaderniDelCarcereEStoriaECoscienzaDiClasse.pdf), sia per la  sua mentalità intimamente cattolico-conservatrice in costante ricerca di un Katéchon che frenasse l’insita conflittualità delle moderne società industriali secolarizzate e pericolosamente propense a ricadere nell’abbraccio comunista e sia per ragioni di carriera personale attraverso l’entrata nel partito nazista, si ritrovò ad avere a che fare con un bestia politica, il nazismo, che era l’esatta antitesi dell’ordinata società tradizionalista alla quale egli aspirava e con un esito sul piano delle fortune personali ugualmente deludente (la fama di Kronjurist del terzo Reich è ampiamente sopravvalutata: Der Führer schützt das Recht –  Carl  Schmitt, Der Führer schützt das Recht. Zur Reichstagsrede Adolf Hitlers vom 13 Juli 1934, “Deutsche Juristen-Zeitung”, 39 (1934), 15, pp. 945-50, poi in Id., Positionen und Begriffe im Kampf mit Weimar – Genf – Versailles, 1923-1939, Berlin, Duncker & Humblot, 1988; trad. it. Il Führer protegge il diritto, in Id., Posizione e concetti in lotta con Weimar-Ginevra-Versailles, 1923-1939, Milano, Giuffrè, 2007, pp. 326-335 – , scritto per giustificare i massacri della Notte dei lunghi coltelli, oltre a segnare uno dei punti più bassi della produzione di Carl Schmitt, non riuscì nemmeno a convincere con le sue argomentazioni ridicolmente legalitarie e cercanti di scindire la responsabilità di Hitler dai peggiori eccessi della Notte – erano state coinvolte anche delle vittime innocenti non facenti parte delle SA – che Schmitt fosse del tutto affidabile, come un altro boomerang fu Carl Schmitt, Staat, Bewegung, Volk. Die Dreigliederung der politischen Einheit, Hamburg, Hanseatische Verlagsanstalt, 1935; trad. it. Stato, movimento, popolo, in Id. Un giurista davanti a se stesso. Saggi e interviste, Vicenza, Neri Pozza, 2005, pp. 255-312, che fu giudicato impregnato di spirito hegeliano, alieno al razzismo biologico del nazismo e quindi unvölkisch; ed infatti, terminando questa fallimentare scalata al potere nazista con  le accuse  rivolte a Schmitt provenienti dall’entourage   di Rosenberg di essere impregnato di spirito cattolico-romano – accuse le quali fornirono addirittura il materiale per un dossier datato 8 gennaio 1937 e intitolato Der Staatrechtslehrer Prof. Dr. Carl Schmitt:  la pietra dello scandalo era  Römischer Katholizismus und Politische Form, Hellerau, Jakob Hegner, 1923,  che sebbene scritto molti anni prima, dal punto di vista nazista era assolutamente inaccettabile che lo potesse aver scritto un sincero nazionalsocialista perché quivi veniva esaltata  la funzione stabilizzatrice del cattolicesimo – Carl Schmitt dovette abbandonare ogni ambizione riguardo alla vita pubblica ritirandosi prudentemente a vita privata).

      Abbiamo velocemente ripercorso questa parabola discendente sul piano umano come sul piano scientifico di Carl Schmitt non tanto per sminuire l’importanza del pensiero giuridico istituzionalista (La Grange giustamente ci potrebbe replicare che lo Schmitt post-decisionista ed istituzionalista è riuscito ad offrirci quel capolavoro geofilosofico e geopolitico del Nomos della terrra: Carl Schmitt, Der Nomos der Erde im völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Berlin,Greven Verlag, 1950, trad. it. Il Nomos della Terra nel diritto internazionale dello “Jus Publicum Europaeum”, Milano, Adelphi, 2006. Per lo Schmitt geofilosofico o geopolitico tout court, vedi anche Terra e mare –  Idem,  Land und Meer. Eine weltgeschichtliche Betrachtung, Leipzig, Reclam, 1942, trad. it. Terra e Mare. Una considerazione sulla storia del mondo, Milano, Giuffrè, 1986 – e Dialogo sul nuovo spazio Idem, Gespräch über den neuen Raum, in AA. VV. , Estudios de Derecho Internacional. Homenaje al profesor Camilo Barcia Trelles, Universidad de Santiago de Compostela, Santiago de Compostela, 1958, pp. 262-282, trad. it. Dialogo sul nuovo spazio, in Terra e mare  cit., pp. 87-109–, testi nei quali Carl Schmitt già allora aveva intravisto tutta la carica distruttiva di quel fenomeno che oggi viene chiamato ‘globalizzazione’ e della quale Schmitt, pur non avendo coniato il termine, aveva colto l’aspetto essenziale; Schmitt aveva cioè compreso che con il prevalere delle grandi potenze marittime –   Inghilterra prima, Stati uniti poi – era definitivamente tramontato quel diritto consuetudinario internazionale che aveva informato per secoli la vita del Vecchio continente – il Nomos della terra, appunto – e che aveva comportato l’esistenza di unità nazionali delimitate spazialmente e in rapporto di mutua ostilità/riconoscimento – le nazioni si facevano guerra ma si riconoscevano vicendevolmente come justi hostes. La guerra può divenire così qualcosa di analogo a un duello, uno scontro armato tra personae morales determinate territorialmente che stabiliscono tra loro lo jus publicum EuropaeumIl nomos della terra, cit., p. 165 –,  per essere sostituito, il vecchio Nomos della terra,  con una sorta di diritto liquido, una sorta di generica “International law” – Ivi,  p. 223 –  nella quale saltano completamente le vecchie compartimentazioni spaziali e il momento economico si emancipa radicalmente dalla protezione/dominio dello Stato. Il nuovo Nomos della terra – la nostra globalizzazione – si caratterizza così, oltre che per un mercato operante a livello internazionale svincolato dal potere regolatore dello Stato, anche per il progressivo smantellamento della stessa forma Stato il cui diritto pubblico, adeguandosi all’imperante ideologia  economicista liberale, lo trasforma in una sorta di  organizzazione privata con criteri di razionalità rispetto allo scopo tipici di un’ impresa che opera sul mercato e non di un’organizzazione, come dovrebbe essere lo Stato, che si occupa – o si dovrebbe occupare – della totalità del “politico”) ma per segnalare, prima di tutto a noi stessi, le involuzioni che può prendere un pur interessante ed innovativo pensiero qualora, come in Schmitt, si faccia prendere da ansie ed inquietudini vuoi rivoluzionarie vuoi reazionarie o controrivoluzionarie senza che queste pur indispensabili scelte di campo non siano a loro volta filtrate e distillate da un consapevole, sorvegliato, intransigente e tirannico sopra ogni altra considerazione di natura etica e assiologica sforzo teorico. Siamo così tornati al problema dell’avalutatività weberiana e della impossibile separazione che il sociologo tedesco pretendeva di tracciare fra valore e oggetto della ricerca, anche se, evidentemente, nel caso di Carl Schmitt, l’errore rispetto a Weber è semmai di segno polarmente opposto potendo noi di tutto accusare il presunto Kronjurist del Terzo Reich tranne  che di tenere separati i suoi valori dalla sua teoresi politica.

Ma qui sta il punto: rifiutare l’avalutatività weberiana non vuol dire che il valore, come è accaduto nel punto più basso della parabola di Carl Schmitt, si debba sovrapporre come una maschera di ferro sulla teoresi, significa – al contrario –  che il valore deve essere il motore dialettico, come da correttamente interpretata filosofia della prassi – che vede i suoi caposaldi in epoca contemporanea, repetita iuvant, in Giovanni Gentile, nell’Antonio Gramsci dei Quaderni del Carcere, nel  György Lukács di Storia e coscienza di classe e nel  Karl Korsch di Marxismo e filosofia –    di una  teoresi il cui obiettivo costante è l’individuazione del sovente furtivo, perché dolosamente celato, azione/conflitto strategico all’interno della società.  (Per il timido decisionismo di Carl Schmitt, cfr. Massimo Morigi, La democrazia che sognò le fate (Stato di eccezione, teoria dell’alieno e del terrorista e Repubblicanesimo Geopolitico) – URL  https://archive.org/details/LaDemocraziaCheSognLeFatestatoDiEccezioneTeoriaDellalienoE_913 e https://ia801601.us.archive.org/28/items/LaDemocraziaCheSognLeFatestatoDiEccezioneTeoriaDellalienoE_913/LaDemocraziaCheSognLeFate.StatoDiEccezioneTeoriaDellalienoEDelTerroristaERepubblicanesimoGeopolitico.pdf – e Id. Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico: lo Stato di eccezione in cui viviamo è la regola, piccolo saggio sull’iperdecisionismo di Walter Benjamin ben più radicale di quello del giuspubblicista di Plettenberg – URL https://archive.org/details/WalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDi_909 e https://ia801608.us.archive.org/19/items/WalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDi_909/WalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDiEccezioneInCuiViviamoLaRegola-Neomarxismo.pdf). Questo per quanto riguarda il Repubblicanesimo Geopolitico e, come vittima in parte consenziente dei rischi che si corrono quando non si osa abbastanza, anche Carl Schmitt. Per quanto invece riguarda Teodoro Klitsche de la Grange discorso completamente diverso. A questo valentissimo (ed unico nel panorama nazionale) studioso di cose della politica e giuspubblicista risulta naturaliter, proprio per la sua profondissima cultura storica, giuridica, letteraria e filosofica, essere alieno da ogni tipo di idòla fori, quelli della politica in specie, e il suo impareggiabile esprit de finesse, generato da una tale completezza di studi, fa sì che quella che noi presumiamo essere addirittura una troppo entusiastica adesione alla visione istituzionalista, si traduca, sempre e comunque, oltre che nel sicuro riconoscimento del pluralismo giuridico, anche in una visione di fondo sempre e comunque animata da uno spirito conflittual-dialettico così come viene espressamente professato dal Repubblicanesimo Geopolitico.

Come è del resto dimostrato dagli ultimi due contributi che veniamo velocemente ad esaminare. In Oltre sessanta e li dimostra  (URL: http://italiaeilmondo.com/2018/05/20/oltre-sessanta-e-li-dimostra-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/, http://www.webcitation.org/6zZSUJAs5 e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F05%2F20%2Foltre-sessanta-e-li-dimostra-di-teodoro-klitsche-de-la-grange%2F&date=2018-05-20), intervento di La Grange sulla genesi della Costituzione italiana si dimostra ulteriormente, casomai ce ne fosse ancora bisogno, l’abissale distanza del Nostro, proprio sulla scorta della più  scaltrita mentalità istituzionalista che ben avverte l’intrinseca conflittualità sociale (e capacità ideologica più o meno normativistica di inganno e/o autoinganno) della produzione della norma, da ogni ipostatica mitizzazione della nostra Grundnorm, la cui genesi non è da ricercarsi nel fatto che gli italiani si sono rivelati improvvisamente “democratici” ma nel fatto che la nuova situazione internazionale che aveva visto l’Italia sconfitta nel secondo conflitto mondiale imponeva un’Italia “democratica”, dove “democrazia” doveva essere sinonimo di perdita della sovranità nazionale e impossibilità di esprimere classi dirigenti realmente autonome e con nessuna possibilità di resistere all’eterodirezione proveniente dall’estero (nel caso dell’Italia, il maggior asservimento di tutti gli altri paesi del Vecchio continente “liberati” dagli anglo-americani all’alleanza politico-militare guidata dagli Stati uniti):

 

«Nella realtà la costituzione vigente è il risultato di quella sollecitazione, esternata negli accordi di Yalta, ben sostenuta dall’argomento-principe della sconfitta militare e dalla conseguenziale occupazione. Si potrebbe obiettare che il procedimento democratico seguito – e l’alta partecipazione alle elezioni della Costituente – hanno attenuato il carattere d’imposizione e legittimato, in certa misura, la Costituzione che ne è conseguita. Anzi si potrebbe aggiungere che la procedura relativa – conclusasi  politicamente anche se non giuridicamente, con l’elezione, il 18 aprile 1948 del primo Parlamento – abbia costituito un esempio di applicazione del consiglio di Machiavelli che regola della decisione politica è di scegliere quella che presenta minori inconvenienti (V. Discorsi, lib. I, VI.) E sicuramente dato il disastro militare e l’occupazione, non esistevano le condizioni per sfuggire (forse per attenuarla sì, a seguire il discorso di V. E. Orlando, sopra ricordato) alla logica degli accordi di Yalta. Ma in tale materia è importante essere consapevoli che certe scelte sono state in gran parte frutto di necessità (e di imposizione) e non prenderle per quelle che, a una visione giuridica (peraltro parziale e riduttiva), appaiono come scelte (ottime) del “popolo sovrano” il quale, come scriveva Massimo Severo Giannini, è sovrano solo nelle canzonette; e, in quel frangente, forse neppure in quelle. La sovranità implica libertà di scelta: quella non vi era né in diritto – limitata com’era dalle clausole dell’armistizio e del Trattato di pace – e quel che più conta era inesistente di fatto per la sconfitta e l’occupazione militare. Per cui alla Costituzione del ’48, ed alla relativa decisione si può applicare il detto romano per la volontà negli atti annullabili: che, il popolo italiano coactus tamen voluit

 

      Non possumus eis quicquam addere, nec auferre. Sovranisti e “servilisti” (URL: http://italiaeilmondo.com/2018/05/27/sovranisti-e-servilisti-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/,http://www.webcitation.org/6zin7PpGc e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F05%2F27%2Fsovranisti-e-servilisti-di-teodoro-klitsche-de-la-grange%2F&date=2018-05-27), ultimo contributo di La Grange sottoposto a questa nostra rassegna critica, dove ben traspare in controluce che l’impianto pluralista di matrice istituzionalista di La Grange, unito questo impianto con una perfetta conoscenza di storia della filosofia, nello specifico la filosofia tomista, si presta perfettamente non solo alla critica degli idòla fori normativistici, primo fra i quali la mitica Grundnorm e le sue relative nefaste  e nefande conseguenze culturali e ideologiche ma è anche un infallibile viatico per una critica semantica ai luoghi comuni della politica, nello specifico per un critica e per un totale ribaltamento del significato  che viene attribuito al termine ‘sovranista’ e, con questo contributo, “leggero” in termini di manifestazione esplicita di specifica dottrina giuridica ma pesantissimo, non solo in termini più direttamente filosofici, ma anche per il background giuspubblicistico che, segno caratterizzante del Nostro, come sempre ha costituito il celato ma fondamentale endoscheletro di questo contributo, Teodoro Klitsche De La Grange si ricollega per metodologia argomentativa e obiettivi di indagine all’iniziale contributo, Su Hegel e la virtù , da noi messo sotto esame all’inizio di questa rassegna critica:

 

«Da qualche anno, da quando sono stati coniati i neo-logismi sovranismo e sovranista (probabilmente dal francese) il pensiero “politicamente corretto” (e relativi pensatori) si è lanciato in una, per esso abituale, opera di screditamento e demonizzazione. Sovranismo sarebbe un’ideologia guerrafondaia (??), passatista, dittatoriale, egoista e così via. I sovranisti poi demagoghi, ignoranti, cattivi, maleducati e cafoni (oibò!) […] [Volendo dar retta all’accezione negativa che viene data a questi termini] bisogna cominciare con lo svalutare del tutto il nostro Risorgimento, e buona parte della storia moderna. I costruttori dello Stato nazionale italiano (da Cavour a Garibaldi, da Vittorio Emanuele II a Mazzini), forse non erano dei damerini (il Savoia era anche un po’ grossier) ma sicuramente non avrebbero acconsentito – il Piemonte prima, l’Italia poi tanto da fare quattro guerre all’uopo – che in nome di qualche idea, si fosse limitata l’indipendenza dell’Italia. Se per Metternich l’Italia  era un’ “espressione geografica” per loro era una comunità politica. E per esserlo doveva avere l’indipendenza (dalla volontà) e dagli interessi di altre potenze (e popoli). Del pari non avrebbero mai preteso di occupare Vienna, Praga, Lubiana o Zagabria (tant’è che neppure con lo sfascio dell’Impero asburgico lo fecero), neppure con la giustificazione di qualche ideale cosmopolita. Dato che, a ben vedere, il cosmopolitismo rientra nella classe delle alternative al patriottismo. […] le più interessanti e centrate definizioni di ciò che è la libertà, politica in specie, l’ha date S. Tommaso. Come ho scritto in un precedente articolo per Rivoluzione liberale (Sovranismo e libertà politica) l’Aquinate sosteneva che è libero chi è causa di se (del suo): liber est qui causa sui est; e per chiarire ulteriormente definiva  servo chi è di altri (servus autem est, qui id quod est, alterius est). Applicando queste due asserzioni di S. Tommaso non sono né libere, né comunità perfette quelle che giuridicamente e politicamente dipendono da altri e pertanto non hanno la piena disponibilità di determinare i propri scopi né i mezzi per conseguirli. Per cui liberarsi da quella condizione di dipendenza è il requisito minimo per poter decidere del proprio destino. L’inverso è sopportare che lo decidano gli altri: come spesso capitato nella recente storia nazionale. Dato che né Di Maio né Salvini vogliono occupare, neppure Tripoli e Tirana, ma solo evitare di subire troppi condizionamenti in casa nostra, non sono dei pericolosi aggressori e guerrafondai. […] Diceva Vittorio Emanuele Orlando in un famoso discorso pronunciato alla Costituente, chiedendo che l’assemblea non ratificasse il Trattato di pace: “considerate almeno questo lato della decisione odierna, il significato di questa accettazione, che avviene in un momento in cui essa non è necessaria; onde il vostro voto acquista il valore di un’accettazione volontaria di questa che è una rinuncia a quanto di più sacro vi è stato confidato dal popolo quando vi elesse: l’indipendenza e l’onore della Patria… Questi sono voti di cui si risponde dinanzi alle generazioni future: si risponde nei secoli di queste abiezioni fatte per cupidigia di servilità”. Seguendo l’indicazione del Presidente della vittoria, non sarebbe il caso di cominciare a chiamare gli anti-sovranisti, mutuando l’espressione di Orlando: “servilisti”?»

 

Abbiamo citato quasi per intero questo ultimo contributo preso in esame nella nostra rassegna critica perché veramente anche in questo caso ci troviamo nella condizione espressa nell’Ecclesiaste di non poter togliere od aggiungere alcunché. Se non umilmente affermare che ancora una volta dobbiamo un profondo ringraziamento a Teodoro Klitsche de la Grange.

 

Massimo Morigi – 9 giugno 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

LE RAGIONI DI CREONTE, di Teodoro Klitsche de la Grange

LE RAGIONI DI CREONTE

Nell’“Antigone” di Sofocle i due personaggi principali, Antigone e Creonte, sono diffusamente considerati rappresentativi dei poli estremi di una pluralità di opposizioni: per lo più tra diritto naturale e diritto positivo o tra legge divina e umana. Ma non è mancato chi, come Hegel, vi ha visto l’opposizione tra una concezione (principio)  maschile e femminile, per cui l’uomo (e cioè Creonte) “ha la propria vita sostanziale e reale nello Stato, nella Scienza, e simili, e inoltre nella lotta e nel travaglio con il mondo esterno e con se stesso”[1], mentre la “pietas, in una delle più sublimi esposizioni che la concernono – nell’Antigone sofoclea – viene dichiarata soprattutto come la legge della femmina, vale a dire: come la legge della sostanzialità sentimentale soggettiva, dell’interiorità che non consegue ancora la propria realizzazione perfetta, come la legge degli dèi antichi, del regno sotterraneo, come legge eterna di cui nessuno sa dire quando apparve e che è presente nell’opposizione contro la legge manifesta, la legge dello Stato”[2]. Per cui da un lato si può intravedere, in queste osservazioni di Hegel, una contrapposizione più che tra norme (leggi) quella tra istituzioni (famiglia e Stato); da un altro, e più chiaramente, quella tra un diritto “tradizionale” e consuetudinario  e un altro “statuito” e razionale”.

Molte altre opposizioni sono rintracciabili, perché chiaramente esposte, nei due personaggi della tragedia. In particolare Creonte si identifica con la polis e fa della categoria amico/nemico (della polis) il criterio distintivo per la legittimazione del decreto proibente la sepoltura di Polinice, derogatorio-modificativo della legge divina (e consuetudinaria) di seppellire i morti. Da ciò derivano (almeno) sia l’opposizione tra politico e giuridico (intesi nel senso di Freund) e la prevalenza e decisività del politico, che solo garantisce la salvezza di tutti; e alla cui necessità (altra opposizione), deve cedere ogni legame di affetti, anche tra consanguinei, come ogni rapporto amicale. Dice Creonte nell’entrare in scena “non tengo in alcun conto chi stima più importante della propria patria una persona cara. Io infatti – e lo sappia Zeus che sempre vede tutto – non saprei tacere quando vedessi muovere contro i cittadini la sciagura invece che la salvezza; e non farei mai amico un nemico della patria; poichè so che essa è la nostra salvezza, e che ci procuriamo gli amici solo quando ne teniamo dritto il corso. Con tali principi io farò grande la nostra città”[3]. Il diritto promulgato dal governante deve essere così “razionale rispetto allo scopo” che è, nel caso, quello, essenziale alla polis, di salvaguardarla, anche onorando i buoni cittadini e non gli altri, i nemici.

Il che costituisce un’altra essenziale differenza rispetto alla legge divina, osservata da Antigone, cui si deve obbedienza, non per la di essa opportunità ma per l’autorità che l’ha istituita e la consuetudine di rispettarla[4]. La concezione di Creonte infatti rivendica ancor più il carattere di creazione umana della legge, frutto della volontà e  dell’ingegno dell’uomo, che può non tener conto e così violare la legge divina, in quanto tale immutabile, cui si appella Antigone. Questo appare sottolineato dal coro nel primo stasimo, che è un canto  sull’eccellenza dell’ingegno umano e sulla sua capacità di superare le difficoltà della natura; tuttavia il coro ricorda la facoltà (e il limite) umano di poter scegliere tra bene e male e che l’uomo “Possedendo, di là da ogni speranza, l’inventiva dell’arte, che è saggezza, talora muove verso il male, talora verso il bene. Se le leggi della terra v’inserisce e la giustizia giurata sugli dèi, eleva la sua patria; ma senza patria è colui che per temerità si congiunge al male: non abiti il mio focolare né pensi come me chi agisce così”[5]. L’esortazione ad inserire “le leggi della terra” ha il chiaro significato  di dover armonizzare il diritto (e il comando) umano con la legge divina (e naturale) perché riesca l’opera di edificazione – e conservazione – della polis.

Quasi tutte tali opposizioni indicano in Creonte l’archetipo di una politica e un diritto “moderno” (rispetto a quelli di Antigone): la prima perché prevalente su ogni vincolo normativo (summa in cives ac legibusque soluta potestas); il secondo perché razionale, volontario, statuito, opportuno e derogabile in rapporto alle necessità. Tuttavia tale concordanza, non ha, per così dire, giovato granché all’immagine di Creonte, per lo più assimilato a quella del tiranno. Eppure il re di Tebe non è tiranno nel senso in cui, spesso, si connota tale termine: in effetti le decisioni e gli obiettivi di Creonte non sono deviati dall’interesse personale, ma ispirati a quello della patria (al bonum commune). Già nell’“Edipo a Colono” quando compie l’atto odioso di rapire Antigone per costringere Edipo a tornare a Tebe, lo fa perché l’oracolo ha garantito la salvezza a chi dei contendenti per il trono di Tebe, avrà presso di se il vecchio re. E analoga è la posizione di Creonte nell’Antigone: dove, in buona sostanza, pone la salvezza della patria – e la “punizione” – per i traditori – al di sopra della legge divina. Non c’è, in Creonte, conflitto tra interesse del governante e quello della comunità (o dei governati), con cui si connotano molti tipi di tirannide: ma tra diritto divino e istituzione politica. La “condanna” di Polinice e la deroga al diritto tradizionale è necessaria, a giudizio di Creonte, per il bene della polis ed opportunità politica.

Sotto un altro – e vicino – aspetto il problema di Creonte è del trattamento (delle regole) da applicare al nemico, differenti da quelle da osservare per gli amici (in senso politico). E’ il problema dell’amico/nemico, che genera la diversità e la distinzione tra diritto interno ed esterno, tuttora perdurante nel diritto pubblico, e presupposto della norma delle leggi delle XII tavole adversus hostem aeterna auctoritas. Così è l’appartenenza (e il confine) della comunità politica a determinare la legge applicabile. Nel caso avendo Polinice, pur essendo amico (quale appartenente alla polis), agito da nemico il conflitto tra i due sistemi è particolarmente acuto, perché diventa anche possibile causa di dissoluzione dell’unità politica[6]. Così Creonte motiva il suo editto, concedendo che Eteocle: “che è morto combattendo a difesa di questa città, facendo gran prova di valore con la lancia, riceva sepoltura e abbia tutte le offerte lustrali, che scendono sotterra agli eroi defunti. Ma il fratello suo, Polinice dico, dall’esilio tornò volendo distruggere completamente col fuoco la terra patria e gli dèi della stirpe, volendo saziarsi del sangue dei suoi e gli altri trarre in schiavitù: e per quanto lo riguarda è stato ordinato alla città che nessuno lo onori di tomba e di compianto, ma sia lasciato insepolto cadavere, pasto ad uccelli e cani, vergogna a vedersi”[7]. D’altra parte nel dialogo del secondo episodio tra Creonte ed Antigone, mentre questa insiste sulla qualità di fratello di Polinice, quello ribatte che “ma il nemico non è mai caro, neppure quando sia morto”[8]. L’esser nemico prevale sia sulla philia che sull’adelphia[9] . Connesso al problema della distinzione tra diritto interno ed esterno, tra legge applicabile al nemico o all’amico, è che Creonte, assolutizza sia il nemico  che il comando e la funzione dell’autorità. Al nemico compete non un trattamento cavalleresco, ma addirittura una condanna “nell’aldilà”, onde, prevale sul diritto tradizionale e “divino” il decreto della polis e di chi la rappresenta.

Nello stesso tempo il nemico è, nelle parole di Creonte solo un nemico pubblico e non privato, hostis e non inimicus. Mentre nella Repubblica la definizione della giustizia che da Polemarco (e Socrate respinge) è d’essere “l’arte di recare vantaggio agli amici e danno ai nemici”, ma nel contesto della discussione il senso di tale distinzione non è politico, cioè riferito al pubblico, ma ai rapporti sia pubblici che privati[10], nelle parole di Creonte il nemico vero, cui riserva il trattamento peggiore, è quello della polis. Si può dire che l’inimicizia è così assoluta tanto da proseguire dopo la vittoria e la stessa morte del nemico.

Nello stesso tempo Creonte assolutizza il comando, come è chiaro fin dal “manifesto” di governo che espone nella propria entrata in scena.

E ciò non solo e non tanto per il tratto “decisionista” e tutto indirizzato alla salvezza della polis quale primo dovere del governante (e dei cittadini), per cui ritiene, a quel fine, modificabile e derogabile anche la legge tradizionale (e divina); ma ancor più per come enfatizza il comando rispetto al consenso.

Fin dalle prime battute appare che il popolo (rappresentato dal coro e dal corifeo) poco o punto condivide la decisione del monarca, senza con ciò scuoterlo dalle sue certezze. Ma è del tutto evidente nel confronto tra Creonte e il figlio Emone. Emone sostiene che il padre, cui presta ossequio e devozione filiale fin dalle prime battute, deve tener conto dell’opinione popolare, che critica l’operato di Creonte e “piange questa fanciulla dicendo che è la più immeritevole tra tutte le donne di morire così indegnamente per atti gloriosissimi”[11], per cui prega il padre “non portare in te soltanto questa idea, che è giusto quello, che dici tu, e nient’altro”[12]. Alla replica di Creonte, che Antigone è ribelle, Emone insiste. In una serie rapida di battute c’è l’espressione della sua posizione: “Non così dice concordemente il popolo, qui in Tebe…. Non vedi che hai parlato in modo infantile?…. Non esiste la città che è di un solo uomo…. Certo, tu regneresti bene da solo su una terra deserta”[13]. Ma Creonte è irremovibile: alle argomentazioni di Emone, tutte fondate sul pubblico, e specificamente sull’equilibrio tra “capo” e “seguito”, comando e consenso[14], Creonte respinge Emone nel privato, rimproverandolo di consigliare la grazia per Antigone solo perché è la sua promessa sposa, e di essere quindi schiavo di una donna (con ciò insiste nel rapporto “politico” tra principio (attitudine) maschile e femminile, sottolineato da Hegel). Emone, secondo Creonte, parla ed agisce per scopi privati, per sentimento e non secondo ragione.

Anche la fede nella ragione umana è infatti caratteristica di Creonte, come appare da diversi passi della tragedia, in particolare nel primo episodio e nel primo stasimo. Creonte respinge l’idea del Corifeo, che vi sia stato intervento divino nella sepoltura di Polinice: “dici una cosa insopportabile, affermando che gli dèi si danno pensiero di questo cadavere”[15]. E attribuisce l’atto ad una congiura di oppositori, che avrebbero corrotto le guardie. Una spiegazione tutta terrena e razionale che esclude l’intervento divino (o “magico”) nelle vicende umane. Al dialogo con la guardia succede il canto del coro nel primo stasimo, uno splendido elogio dell’ingegno umano, che ha sottomesso e utilizzato terra, animali e piante con la propria creatività; ha organizzato con leggi l’esistenza comunitaria e tuttavia, di fronte a questi meravigliosi risultati, permane la facoltà (pretesa) umana di  scegliere (e discernere con la ragione) il bene o per il male. Che è constatazione altrettanto positiva e “razionale” delle tesi di Creonte. E che racchiude il (possibile) prevalere di una volontà orientata al male, irrispettosa delle leggi e della giustizia divina. La contrapposizione, tante volte ripetuta nella storia (e nella teoria) del diritto e dello Stato, tra la capacità ordinatrice della ragione umana e della decisione consapevole e ordine naturale e “divino” (che viene opposta a quella giudicata frutto di ybris) è qui formulata, da una parte nelle affermazioni di Creonte, dall’altra nelle contestazioni di Antigone. E’ un fatto, peraltro, che il legislateur illuminista e la connessa fiducia nella ragione umana era ricalcato da Rousseau e Mably sui modelli greci di riformatori-ordinatori, ricorrenti nella Grecia dal VI al IV secolo a.c., che con le loro riforme avevano innovato e riformato l’ordine tradizionale (e “naturale”) della polis; e l’Antigone pare presupporre tale processo storico. Di cui Sofocle intravede i limiti, e la fine di Creonte, dispregiatore degli dèi e delle leggi divine e tradizionali, (che perde la propria famiglia) ammonisce a non superare[16]. Una tematica assai simile si sarebbe riproposta, dopo l’illuminismo e la rivoluzione, nelle critiche al diritto statuito (e volontario) formulate (già nel periodo napoleonico) e poi durante la Restaurazione e in tutto il XIX secolo, comuni sia ai pensatori contro-rivoluzionari, che ai giuristi tedeschi della scuola storica, ai primi sociologi che a socialisti come Lassalle, pur nelle differenti posizioni ed argomentazioni.

In effetti nei rimproveri che si fanno a Creonte ce n’è un altro, altrettanto prossimo al precedente che significativo: di avere invertito (e violato) il rapporto tra legge e ordine. Inteso quest’ultimo come ordine prima naturale che umano. In tal senso è particolarmente significativo il canto del coro nel secondo stasimo dell’Edipo re “Possa io avere destino di serbare santa purezza di parole e di azioni, a cui sono preposte leggi sublimi, procreate nell’etere celeste, e l’Olimpo solo è loro padre; non natura mortale di uomini le generò, né mai l’oblio le sopirà: un dio potente è in esse, e non invecchia. La dismisura genera tiranni. Ma se taluno in atti o discorsi superbamente procede, senza temere Dike e non rispettando le sedi degli dèi, mala sorte lo colga per il suo sciagurato orgoglio”[17]; ma ancor di più lo è la profezia di Tiresia a Creonte, che può essere interpretata come l’ “atto d’accusa” per le colpe del monarca: “E tu sappi bene che non compirai ancora molti celeri giri di sole senza ripagare tu stesso, in cambio di morti, un morto delle tue stesse viscere: in cambio di quelli di quassù che tu gettasti sotterra, ponendo indegnamente nel sepolcro una persona viva; mentre tieni qui un cadavere privo degli dèi inferi, senza funebri onori, nefando. Questo non è in potere tuo, né degli dèi supremi, anzi essi soffrono questa violenza da te”[18].

Creonte mette sottoterra i vivi, e fuori i morti, nega la loro destinazione naturale, violando la legge divina. Tale atto è in contrasto con ordine e legge, non essendo in potere di Creonte (né dell’uomo), e neppure degli déi.

Si intravede in ciò il fondamento e la concezione “tellurica” dell’esistenza umana; è la terra che ha la funzione di sostenere (e sostentare) i vivi, come di far riposare i morti: la justissima tellus di Virgilio. La legge – il decreto umano – non può violare quest’ordine; in termini moderni si potrebbe dire, con Schmitt, che la legge umana presuppone l’ordine (sociale e naturale) e non il contrario; e la sua funzione è quindi solo limitatamente ordinatrice[19].

E la superbia che fa i tiranni e l’ybris consiste nel non tener conto dei limiti umani nel mutare l’ordine naturale. Anche in ciò Creonte è archetipo di quanto sarebbe stato praticato e teorizzato ancora, in particolare, negli ultimi secoli dell’età moderna.

  1. Di fronte a Creonte, Antigone rappresenta l’altro “corno” di tali opposizioni. Antigone mostra una concezione del diritto, del rapporto tra legge divina e decreti umani, che è sintetizzata nel dialogo con Creonte, nel secondo episodio “Non fu Zeus a proclamare quel divieto, né Dike, che dimora con gli dèi inferi, tali leggi fissò per gli uomini. E non pensavo che i tuoi editti avessero tanta forza, che un mortale potesse trasgredire le leggi non scritte e incrollabili degli dèi. Infatti queste non sono di oggi o di ieri, ma sempre vivono, e nessuno sa da quando apparvero”[20]; in tali versi sono indicati i caratteri peculiari della legge divina: l’autorità divina, la superiorità “gerarchica” sulle norme umane, la non volontarietà, il mistero sulla di essa “genesi”. Oltre venti secoli dopo molte di tali caratteristiche erano sottolineate da De Maistre come tipiche delle norme “tradizionali”, in perticolare delle costituzioni[21]. Nel secolo scorso è stato Max Weber, con la definizione – adattabile – del tipo di potere tradizionale legittimo, a sintetizzarle meglio “quando poggia sulla credenza quotidiana nel carattere sacro delle tradizioni valide da sempre, e nella legittimità di coloro che sono chiamati a rivestire una autorità”[22]. Antigone con ciò afferma anche come fondamento dell’obbedienza alla legge essenzialmente il giudizio soggettivo del destinatario che si uniforma a regole imposte dall’autorità divina: un rapporto tra uomo e divinità, senza l’interferenza (o la mediazione) dell’autorità umana (e politica), alle statuizioni della quale, se in contrasto con la legge divina, non è dovuta obbedienza. Ch’è l’archetipo di (gran parte) delle tesi politiche del pensiero rivoluzionario, nella modernità riunite, per lo più, sotto il diritto di resistenza. Ma che apparivano già in contrasto con l’ethos della polis.Basti ricordare che circa un cinquantennio dopo la rappresentazione dell’Antigone(la data di redazione del Critone è dubbia) Socrate sceglieva volontariamente di non evadere e morire, per il rispetto che il cittadino doveva all’ordinamento della propria polis. Nel dialogo (immaginato) con le Leggi è chiaro che queste sono tutt’uno con la polis. Fin dall’inizio si presentano come le leggi e l’insieme della città (oi nomoi kai tò koinòn tes pòleos, definizione ripetuta) e lo esortano a non sovvertirla, sfuggendo alla condanna a morte, pur se ingiusta. Infatti “ti pare che possa ancora esistere e che non venga interamente sovvertita quella Città, nella quale le sentenze emesse non hanno vigore, ma, ad opera di privati cittadini, vengono destituite della loro autorità e distrutte?”[23]: la “ribellione” di Socrate colpisce quindi la capacità di esistenza stessa della polis; il rapporto tra questa e le sue leggi e il cittadino è asimmetrico e non paritario: “E se la cosa sta così, credi tu forse che ci sia pari diritto fra te e noi, e, se noi intendiamo fare qualcosa contro di te, credi di avere diritto anche tu di fare le stesse cose contro di noi?”[24]; perché più di tutti è: “degna di onore la patria, e che è più venerabile e più santa, e che è tenuta in più alto grado di stima e presso gli dèi e presso gli uomini assennati; che bisogna venerarla”[25] “e anche soffrire se essa comanda di soffrire, stando in silenzio, sia che si venga percossi, sia che si venga incatenati, sia che essa mandi in guerra per essere feriti e uccisi, bisogna fare questo, perciò in ciò consiste la giustizia: che non si deve disertare, né ritirarsi, né abbandonare il proprio posto, ma, e in guerra e in tribunale e in ogni altro luogo bisogna fare quello che la Patria e la Città comandano”[26].

Nel discorso delle Leggi il rapporto tra uomo e divinità di Antigone è sostituito da quello tra uomo e polis; e s’intravede chiaramente non solo il carattere individuale/personale del primo e quello sovrapersonale/collettivo del secondo, ma anche in germe i connotati principali del concetto d’istituzione: quelli di potere (finalizzato) all’ordine, secondo un’idea direttiva. Connotati formulati come poteva farlo un greco dell’età classica della polis, ma che possono assimilarsi, anche con le differenze, a come espressi da Hauriou[27]. La superiorità nel connettere e consolidare il gruppo sociale del secondo rispetto al primo è data dalla risoluzione del problema del quis judicabit, col confermare o riservare all’istituzione le competenze a decidere cos’è legge, cosa debba essere applicata come tale e come tale eseguita, e da chi; ciò che, se rimesso alla coscienza del singolo, diventa, in politica, insolubile (in teoria, no: basta immaginare una società di uomini saggi, disinteressati e dotati delle congrue capacità intellettuali e della dirittura morale necessaria).

Nel discorso di Antigone è, di conseguenza, invertito il rapporto tra politica e diritto: per cui quella non domina questo, ma piuttosto vi è sottomessa; onde non vale il ricordato detto salus rei publicae suprema lex, ma piuttosto il fiat justitia, pereat mundus in cui la justitia è ciò che appare tale al cittadino. Anche in ciò la “modernità” di Creonte, rispetto ad Antigone è evidente: mentre la sua scelta ha carattere pubblico, perché, come sostiene Freund, il pubblico è in primo luogo, affermazione dell’unità, la seconda porta ad una scelta e ad un esito dissolutorio, essenzialmente riconducibile al  privato[28].

E in effetti l’intuizione di Hegel che vede in Creonte ed Antigone l’opposizione tra elemento maschile e femminile, che diventa poi tra famiglia e polis è interpretabile come momento di un’evoluzione-trasformazione, in cui il carattere politico e quindi decisivo è passato dalla famiglia (intesa come istituzione umana fondata su rapporti di consanguineità) a un gruppo sociale più esteso: con relativa “espropriazione”, dei poteri di comando, di distinzione tra pubblico e privato, amico e nemico, a favore dell’istituzione superiore.

In ogni processo del genere (così nel passaggio dalle monarchie feudali a quelle assolute) connotato comune e ricorrente è la privazione da parte dell’istituzione sovraordinata di poteri politici e in gran parte, e più in generale, pubblici a quelli sotto-ordinati; così come l’opposizione ad ogni invadenza degli “espropriati” nelle funzioni riservate al potere politico; il quale senza quelle non potrebbe garantire l’unità[29]. La depolitizzazione, è anche, e in primo luogo, una privatizzazione: mentre gli “espropriati” non rappresentano che se stessi essendo (ridotti a) privati, chi esercita il potere pubblico rappresenta (e garantisce) l’unità politica.

La modernità della posizione di Creonte quindi consegue alla capacità di assicurare l’unità e l’ordine politico-sociale. A cui è essenziale l’esercizio del comando: rapporto umano tra uomo ed uomo, l’uno che comanda, l’altro che obbedisce. Tutte considerazioni che sarebbero emerse e formulate, in modo chiaro e distinto, da Thomas Hobbes. Per il filosofo di Mulmesbary il rapporto sociale consolidato richiede (un patto tra uomini legittimante) il potere (di comando) conferito solo ad uno o alcuni; questi ultimi hanno il potere di ordinare e far eseguire i loro comandi. Cui si deve obbedienza, finché è assicurata la protezione; è il rapporto tra protezione e obbedienza a legittimare il potere politico e così rendere e mantenere ordinata la società.

Nello stesso tempo potere, comando, obbedienza, (coazione) sono rapporti tra uomo ed uomo e non tra uomo e norma, né tra uomo e divinità.

Per far punire Creonte infatti Sofocle fa intervenire (anche se non in forma di personaggio teatrale) il potere soprannaturale: a un potere umano assoluto si può opporre solo un potere ancor più forte, che però non può essere umano. Ovviamente essendo l’intervento soprannaturale escluso in una visione moderna e quindi secolarizzata della politica e dello Stato, la sola “visione” proponibile è quella di Creonte.

A tale proposito ciò che confina la posizione di Antigone nel non giuridico (nel senso di Creonte) sono soprattutto due cose: la prima è il carattere individualistico: la decisione su cosa debba valere come regola applicabile al caso è rimessa al giudizio del singolo: con ciò viene meno sia la necessaria eteronomia del giuridico, articolantesi sia nel momento della posizione del comando che in quello della sua applicazione/esecuzione.

Se, nella specie si può concepire eteronoma la legge divina, non lo è sicuramente ciò che più conta, cioè la sua applicazione/esecuzione. La posizione di Antigone è rapportabile ad una realtà (o ad una norma) morale, più che giuridica.

In un certo senso non è neppure assimilabile ad una visione cristiana. Se il cristianesimo riconosce una legge divina, ha tuttavia conferito carattere d’istituzione divina anche all’autorità umana, mentre connotati della posizione di Antigone sono l’istituzione divina della legge, ma il carattere totalmente umano dell’autorità e, accanto, la riserva della decisione alla persona. Nella teologia cristiana, di converso, è considerata istituzione divina anche l’autorità umana, come consegue sia dal notissimo passo dell’“Epistola ai romani” di S. Paolo (13,1) sia dalle note frasi del Vangelo[30] per cui giuristi come Hauriou e Carré de Malberg hanno distinto tra dottrina del diritto divino soprannaturale e del diritto divino provvidenziale[31] sostanzialmente riprendendo le tesi principali sul punto della teologia politica cristiana moderna.

Ciò ha fatto si che l’appello alla legge divina, in una società cristiana, non sia un fatto di giudizio personale, ma circondato di condizioni e requisiti. La trattazione del tirannicidio e della seditio ne è un esempio: quasi tutti i teologi sia cattolici che protestanti legittimano l’uno e/o l’altro se vi sia una volontà pubblica prevalente orientata a detronizzare il tiranno, perché tota respublica superior est rege, il tutto peraltro a certe condizioni, differenti se il tiranno è tale absque titulo o quoad regimen[32]; e, ciò che costituisce la differenza essenziale, la “contestazione” dell’autorità è sempre fatta in funzione e in vista di un’autorità diversa, in un contesto cioè istituzionale; e avente carattere pubblico piuttosto che di rivendicazioni/istanze private, come, in larga misura, appaiono quelle di Antigone.

Mentre la posizione di Creonte si colloca all’interno (ed in funzione) di un gruppo sociale umano, con i di esso modelli di ordine, presupposti e rapporti e la relativa concretezza, quella di Antigone, come detto, è un rapporto della coscienza con la divinità (la legge, la norma), ovvero con una dimensione ed entità ideale e (se non) astratta.

Le tesi di Creonte sono razionali perché spiegano la realtà – e assicurano la possibilità di esistenza – di una comunità umana; quelle di Antigone non possono costituire nulla di politicamente concreto e strutturato.

  1. Tornando sul rapporto tra politica e diritto (nel senso in cui quest’ultimo è visto da Antigone), l’opposizione tra l’una e l’altro è particolarmente evidente nella vicenda di Polinice che somiglia, per certi aspetti, alla scelta di Antigone: infatti Polinice rivendica a se nei confronti di Eteocle la sovranità di Tebe, perché così convenuto col fratello. È quindi la rivendicazione di un diritto soggettivo (direbbero i giuristi) per la cui realizzazione Polinice promuove una coalizione di re argivi, al fine di conquistare Tebe, cacciare Eteocle e governare la città. Dato però che gli argivi, come tutti i conquistatori, non somigliano a Farinata degli Uberti, questa scelta significa operare per la sconfitta della patria e la rovina dei propri concittadini, così accuratamente descritta (e paventata) dal coro dei Sette a Tebe. Anche Polinice – anzi assai più di Antigone – antepone il proprio diritto alla salvezza e conservazione della patria. La Giustizia lo guida: nello scudo si è fatto cesellare una donna che guida un guerriero; questa donna “Si dichiara giustizia, nella scritta, e proclama: «Ricondurrò quest’uomo signore a Tebe e nelle patrie case»”[33]. Davanti a ciò, alla notizia recatagli dal messaggero ne I sette a Tebe, lo sdegno di Eteocle è grande, tale da indurlo a combattere di persona contro Polinice, pur consapevole di andare incontro alla morte.

Proprio Eteocle che, in tanti versi della tragedia di Eschilo aveva chiamato a difesa della patria i cittadini di Tebe, come madre di tutti “Ora a quanti di voi non ride ancora il fiore della giovinezza, a quanti sfiorì col tempo, al suo compito ognuno, soccorrete questa città, gli altari dei patrii dèi, cui non si spenga onore, e i figli e la dolcissima nutrice, la madre Terra, che a voi tenerelli malfermi sul benigno suolo, accolto tutto il peso di crescervi, nutriva cittadini fedeli nel frangente a recare lo scudo in sua difesa”[34] e anche, designando Melanippo a difesa della prima porta di Tebe dice “Risolverà l’evento Ares coi dadi, ma giustizia di sangue lui sospinge scudo alla madre contro lance ostili”[35], come Megareo a difendere le porte Neiste “ma pagherà morendo il suo tributo alla terra nutrice, o, catturati quei due e la città finta sullo scudo, orna di spoglie l’atrio di suo padre”[36]; e negando che la giustizia sia guida a Polinice “E se la figlia vergine di Giove Giustizia fosse in opere e pensieri con lui, l’augurio forse si compiva. Ma né quando fuggì dal buio grembo materno, o la nutrice lo cresceva, né fanciullo, né poi che s’addensava a ciocche la lanugine sul mento, mai lo degnò Giustizia d’un saluto. Né credo ora l’assista nel frangente della patria, Giustizia, a rinnegare il proprio nome, amica a un malfattore”[37].

Nella coppia Eteocle-Polinice si riscontra l’opposizione tra diritto fondato su una pretesa del singolo e – di converso – sull’appartenenza ad una comunità[38], come in modo più sfumato quella tra diritto e politica. Anche se fondato, il diritto di Polinice non può essere fatto valere contro la (propria) polis; è questa a costituire e garantire l’ordine e a prevalere quindi sui diritti individuali: né contro questa valgono pretese se non riconosciute all’interno  (e dall’ordinamento della polis).

La posizione di Eteocle, in un frangente più drammatico e politico in certa misura è simile a quella di Socrate, che sacrifica all’ordine della polis la propria possibilità di avere salva la vita. E l’ordine della polis è un ordine concreto: è parallelo nei discorsi di Eteocle e di Socrate il richiamo alla patria come madre, che nutre ed alleva e così consente l’esistenza ordinata dei cittadini.

Le vicende (e la situazione) di Polinice richiamano, di converso, da vicino quelle di un altro eroe, romano e non greco: Coriolano. Anche egli esiliato per una decisione che riteneva ingiusta, e per questa, ritornato alla testa di un esercito nemico a stringere di assedio Roma. A dissuadere Coriolano è una donna, la madre Volumnia. La quale per il discorso – d’alta potenza drammatica nel racconto di Plutarco – più dotato di “spiritualità” maschile che femminile (a seguire Hegel), compie in effetti la sintesi della (spiritualità) della famiglia e della polis. Volumnia parla come madre (fisica), ma le sue parole sono anche (e soprattutto) quelle della madre politica: è consapevole che se Coriolano ne seguirà l’esortazione, sarà ucciso. Ma nella decisione tra la patria e la vita del figlio (ossia tra pubblico e privato) non ha esitazioni né dubbi: sacrifica i sentimenti privati alla salvezza di Roma: ed esorta il figlio a fare altrettanto: “Perché taci o figlio? Forse che è nobile abbandonarsi completamente all’ira e al rancore mentre è disonorevole cedere alla madre che ti rivolge una così grave preghiera?… E a nessuno come te si converrebbe di osservare i doveri della riconoscenza, a te che così duramente ti vendichi dell’ingratitudine. Eppure, benché ti sia ampiamente vendicato della patria, a tua madre non hai mostrato alcun segno di riconoscenza”[39].

Coriolano compie la scelta perorata dalla madre: salva Roma e vieni ucciso dai Volsci. Il comportamento del romano è l’opposto di quello di Polinice: l’esistenza e la salvezza della patria valgono più dei diritti individuali, pur fondati, e dello spirito di vendetta. In linea più generale: le vicende di Polinice e Coriolano provano come spesso, sia il diritto (soggettivo) ad essere occasione (giustificazione e pretesto) di guerra; contrariamente a quanto capita nell’Antigone, il rapporto familiare e quello politico non sono in conflitto, ma sinergici nel discorso di Volumnia la madre è a un tempo lei e la polis, ma l’opposizione famiglia-polis (evidente in episodi della Roma più antica, come la purificazione del terzo Orazio per l’uccisione della sorella, promessa sposa ad uno dei Curiazi  da lui uccisi) si è risolta in una sintesi che vede la polis “inglobare” e “superare” la famiglia; e il diritto della polis prevale su quello soggettivo-individuale o familiare[40].

  1. Dato che Creonte non è inquadrabile nel tipo “classico” di tiranno, cioè nel governante poco o punto sollecito del bonum commune (che è il primo criterio d’individuazione della tirannide, come sopra cennato), in cosa consiste la sua ybris, che ne ha fatto una delle figure-simbolo dell’abuso tirannico del potere agli occhi di un greco (e non solo).

A spiegarlo è lo stesso Sofocle nel secondo stasimo dell’Edipo re, quando il Coro afferma: “la dismisura (ybris) genera i tiranni” ybris psyténei tyrannon (v. sopra).

Forse la traduzione di ybris in “dismisura” invece che nei più letterali “superbia” o “tracotanza” è la chiave per capire l’errore di Creonte.

Si potrebbe all’uopo ricorrere a quella concezione, tipicamente greca, del kosmos quale ordine del creato, contrapposto al kaos, e più specificamente, allo spirito apollineo, che, come specificato da Spengler[41] “organizza” il mondo in forme esattamente delimitate, armoniche e perciò ordinate.

In uno spazio così organizzato limite e misura sono, in particolare il primo, concetti essenziali; per cui la dismisura (cioè l’errata – o voluta – non osservanza, calcolo, valutazione) del limite costituisce un vulnus all’ordine (politico e metafisico). Perciò Creonte erra: perché non ha tenuto conto che l’ordine (di cui è espressione la legge divina) è stato violato dal decreto su Polinice; e ancor più che non è nel potere dell’uomo violare tale ordine. La dismisura consiste così nell’aver violato il limite al potere umano: limite prima metafisico che politico.

  1. Accanto a ciò cosa rimane della posizione di Antigone dopo millenni di diritto “statuito” e politica “razionale” (anche se, spesso, intervallati – anche per secoli – da ritorni di diritto “tradizionale” e politica influenzato da “valori” tutt’altro che razionalmente giustificabili)?

È proprio il limite: se la posizione di Antigone appare “vecchia”, alla fine non è irrazionale. Non lo è se si pensa bene, a valutare razionalmente (rispetto allo scopo) il decreto di Creonte; a che serve, vinta la guerra (diverso se la guerra fosse da vincere) “condannare” il nemico sconfitto e morto? È razionale rispetto all’esigenza di proteggere la sicurezza della polis? In un certo senso il decreto di Creonte appare l’antesignano di quella pratica, diffusasi nel secolo scorso, che vede la guerra concludersi sui campi di battaglia, per subito dopo proseguire in un processo, in cui i vinti vengono pubblicamente giudicati – con le forme, talvolta, ma sempre senza lo spirito e i presupposti minimi della giustizia – dai vincitori; o peggio, proseguire con esecuzioni di massa. Prassi contraria alla teologia politica cristiana, e al diritto internazionale “classico” che tanto deve a quella.

Antigone è stata l’ispiratrice di molte aspirazioni rivoluzionarie, destinate a modificarsi tuttavia, o talvolta divenire l’inverso, cioè a coincidere, per lo più con le idee di Creonte, dopo che la rivoluzione diventa potere. Al di là di questi effetti transeunti, c’è quindi altro, nel mondo moderno, che può ricondursi alla posizione di Antigone, o almeno riconoscere in quella qualcosa di vicino.

Ed è che Antigone, attraverso il richiamo alla legge naturale, al diritto familiare, e alla legge divina, arriva a relativizzare l’inimicizia, temperando così la posizione di Creonte che assolutizza sia il comando che il nemico. Certo non è solo (né prevalentemente) all’esempio di Antigone e alla poesia di Sofocle che dobbiamo questa conquista (ch’è dovuta assai più al pensiero cristiano e alla prassi politica romana): ma c’è comunque un filo che da questa conduce allo jus publicum europaeum: è che questo si basa sull’assolutizzazione del comando, ma nel contempo, sulla relativizzazione del nemico. E Antigone con il suo rifiuto di considerare il nemico come indegno di pietas, ne costituisce un precedente. Il fatto, poi, che il nemico sia il fratello è significativo, avendo il senso che, essendo comune l’identità umana con il nemico, l’ostilità non deve tradursi in azioni che la neghino.

Sul rispetto di questi principi si possono consolidare forme di convivenza umana che concilino le diversità delle comunità con la coesistenza (relativamente) pacifica tra le stesse. Cioè la “formula” che ha consentito la presenza di più sovranità concorrenti in uno spazio relativamente ristretto, come quello dell’Europa occidentale.

Ed in questo, sulla costruzione e mantenimento di un assetto politico concreto e stabile che consiste la “modernità” di Antigone, che trova così la sintesi con la propria opposizione, rappresentata da Creonte.

T.K.

 

[1] V. Grundilinien der Philosophie des Rechts (§166), trad it. di V. Cicero , Milano 1995 p. 317; v. anche Die Phänomenologie des Geistes, trad. it. di E. De Negri, Firenze 1973, pp. 29 ss.

[2] Op. loc. cit..

[3] Antigone trad. it. di R. Cantarella, rist. Milano 2005, p. 271.

[4] V. Antigone 450-456, op. cit. p. 289.

[5] Op. cit. 283.

[6] Su ciò v. Hegel Die Phänomenologie des Geistes cit. pp. 31-32.

[7] Antigone op. cit. p. 272-273.

[8] Op. cit. p. 293.

[9] L’espressione di Creonte, sopra riportata nella traduzione italiana, può essere tradotta con “il nemico non è mai amico” la distinzione era ben nota già ad un ateniese del V° secolo, dato che la sua più chiara (ed argomentata) formulazione, in relazione alla consistenza e funzione della polis, è nelle  Eumenidi di Eschilo, rappresentate nel 458 a.c., cioè circa 15 anni prima dell’Antigone, la cui prima rappresentazione è collocata nel 442 a.c.. Sulle Eumenidi ed il rapporto amico/nemico come fondazione e consolidazione dell’unità politica v. lo studio di E. Werner

[10] V. Platone La Repubblica 332 a-e.

[11] Op. cit. p. 303.

[12] Op. cit. p. 305.

[13] Op. cit. p. 305-307.

[14] Si noti che Emone solo dopo parecchie battute fa riferimento alla legge (e alla giustizia) divina ed al rapporto tra re e Antigone. Per la maggior parte del dialogo si attiene ad argomenti “laici” e di saggezza politica, ovvero posti sulla stessa “lunghezza d’onda” del padre.

[15] Op. cit. p. 277.

[16] In tal senso la sanzione inflitta a Creonte appare il contrappasso alla violazione compiuta dal medesimo, condannando Antigone a non formarsi mai una famiglia (v. il reiterato richiamo a ciò, nel quarto episodio vv. 813-816 e 867-876), dopo aver perso tutti i componenti della propria (tranne Ismene). E il “reato” di Antigone era di aver rispettato i vincoli dell’adelphia; i vincoli della famiglia, la quale è considerata la prima cellula dell’ordine sociale.

[17] Op. cit. p. 101-102.

[18] Op. cit. p. 329.

[19] V. Schmitt Über die drei Artyen des Rechtwissenschaftlichen Denkens, trad. it. di P. Schiera nelle “Categorie del politico” Bologna 1972, p. 256 ss. In particolare p. 259.

[20] Op. cit. p. 289.

[21] V. Des constitutions politiques (Prefazione e capp. I – VII).

[22] Wirtshaft und Gesellshaft, trad. it., vol. I, Torino 1980 p. 210, v. anche p 34, vol. III (ex pluris) pp. 95 e ss.

[23] Critone, trad. it. di G. Reale, Milano 1996 p.143.

[24] Op. cit. p. 145.

[25] Op. cit. p. 147

[26] Op. cit. p. 147-149

[27] V. Précis de droit constitutionnel, in particolare capp. I e II, Paris 1929.

[28] Oltre che da Freund e da altri l’affermazione di tale distinzione è formulata con notevole efficacia e drammaticità da Hegel nell’introduzione alla Die verfassung Deutschlands.

[29] Un fenomeno analogo è conseguenza della secolarizzazione e della separazione tra potere temporale e spirituale, che come scriveva de Bonald si è tradotto nella perdita del carattere pubblico della religione, e nella sua riconduzione alla sfera privata (ovvero ad un fatto di coscienza e scelta personale).

[30] Lutero Sull’autorità temporale  in Oevreus, Genève, 1959, p. 15 ss.; Calvino L’institution chrétienne, Lib. IV, cap. XX; S. Tommaso d’Aquino De regimine principum, Lib. I, cap. I; Bossuet in Politique de Bossuet, Paris 1968, p. 79 ss.; in particolare parecchi teologi ricordano il salmo LXXXII, 6, con la frase Dii estis, indirizzata ai Re, che ritengono rappresentanti o vicari di Dio.

[31] V. M Hauriou Précis de droit constitutionnel Paris 1929, p. 29; R. Carré de Malberg Contribution à la théorie générale de l’Etat, Tome II, Paris 1922, pp. 149-152.

[32] V. sul punto S. Tommaso d’Aquino De regimine principum, lib. I, cap. 6; Francisco Suarez De Charitate; Juan de Mariana De rege et regis institutione, Lib. I, cap. V; Stephanus Junius Brutus Vindiciae contro tyrannos, trad. it. Torino 1994, pp. 61 ss. Si noti che le posizioni sono distinte e non coincidenti su diversi punti: ma tutti, implicitamente o esplicitamente escludono che un privato possa, da solo, promuovere legittimamente una seditio o uccidere il tiranno, il che significa ricondurre il tutto al pubblico, escludendo il privato (e il personale).

[33] V. I sette a Tebe, trad. it. di Leone Traverso, Roma 2000, p. 62.

[34] Op. cit., p. 47.

[35] Op. cit., p. 56.

[36] Op. cit., p. 58.

[37] Op. cit., p. 63.

[38] Hegel scrive “Considerando la cosa nel suo aspetto umano, ha commesso il peccato colui che, privo del possesso, assale la comunità di cui l’altro era a capo; viceversa ha dalla sua parte il diritto colui che seppe considerare l’altro soltanto come singolo, distaccato dalla comunità, e, in quella sua impotenza, lo mise al bando; egli ha offeso solo l’individuo come tale, non la comunità, non l’essenza del diritto umano. La comunità assalita e difesa dalla vuota singolarità, si conserva, e i fratelli trovano entrambi, l’uno mediante l’altro, la reciproca morte; l’individualità infatti, che per il suo esser-per-sé mette in pericolo l’intiero, ha escluso sé dalla comunità e si dissolve in se medesima. Ma la comunità renderà onore a quell’uno che si trovò dalla sua parte; l’altro invece, che già sulle mura pronunciò la sua distruzione, il governo punirà privandolo degli onori estremi” op. ult. cit. pp. 31-32.

[39] V. Plutarco, Vite parallele. Coriolano, trad. it. di L. M. Raffaelli, Milano 1992 p. 241.

[40] In effetti mentre il rapporto familiare gioca un ruolo d’opposizione nell’Antigone; questo ruolo è solo confermativo-corroborativo del rapporto con la polis nel discorso di Volumnia e nel comportamento di Coriolano. Nel discorso di Volumnia il parallelo famiglia/polis nel rapporto di maternità/filiazione è evidente. Come è evidente il prevalere del pubblico sul privato (sacrifica il figlio per la salvezza di Roma). In Coriolano (come in Polinice) il conflitto è tra diritto personale (individuale) e esistenza della polis. Sta di fatto che mentre per l’Orazio è stata necessaria l’espiazione (cioè la riparazione da una violazione) per aver ucciso un familiare, qua in Coriolano sacrificarsi per la patria è un dovere; e il conflitto è subito risolto. V. Sul terzo Orazio, l’uccisione e l’espiazione G. Dumézil, trad. it. di F. Bovoli, Milano 1990, pagg. 38 ss.

[41] Der untergang des abeslandes, trad. it. di J. Evola, p. 296 ss., Milano 1957.

FINANZA E GEOPOLITICA, 1a parte_ a cura di Luigi Longo

LA FINANZA, UNO STRUMENTO DI LOTTA TRA LE NAZIONI EUROPEE SOTTOPOSTE ALLE STRATEGIE USA

(a cura di) Luigi Longo

 

 

Propongo la lettura di quattro scritti di cui il primo sull’euro, sullo spread e sul rapporto tra l’Italia e la Germania; il secondo sul non rispetto delle regole europee da parte della Bundesbank nell’emissione dei titoli del debito pubblico; il terzo sul debito pubblico; il quarto sulla necessità di un principe che con dura energia sappia rialzare la Nazione da uno stato di degrado economico, politico e sociale.

I due scritti di Domenico de Simone, un economista “radical”, sono apparsi sul sito www.domenicods.wordpress.com, rispettivamente in data 27/5/2018 e 18/2/2014, con i seguenti titoli: 1) italiani scrocconi e fannulloni? tedeschi truffatori e falsari!; 2) Con la scusa del debito.

Lo scritto di Domenico De Leo, economista, è apparso sul sito www.economiaepolitica.it in data 7/12/2011, con il seguente titolo: L’eccezione tedesca nel collocamento dei titoli di stato.

Per ultimo propongo lo stralcio dello scritto di G.W.F. Hegel dal titolo: Il “Principe” di Macchiavelli e l’Italia che è stato pubblicato in Niccolò Macchiavelli, Il Principe, a cura di Ugo Dotti, Feltrinelli, Milano, 2011, pp. 246-248.

L’idea di questa proposta è scaturita seguendo con grande fatica la crisi politica e istituzionale che si è innescata a partire dalle elezioni politiche del 4 marzo scorso: è irritante fare analisi politiche di grandi questioni (sic) a partire dalle elezioni politiche che sono teatrini indecenti con maschere penose e tristi, così come tristi sono le relazioni di potere!

Si parla in questi giorni di questioni come la difesa dell’euro, il debito pubblico, il pareggio di bilancio, lo spread, l’Unione Europea, la Costituzione violata, eccetera, velando i veri problemi che sono quelli dati dalla mancanza di sovranità nazionale (indipendenza, autonomia e autodeterminazione) e da una Europa che non esiste come soggetto politico (non è mai esistita storicamente): questa Unione europea, economica e finanziaria è figlia delle strategie egemoniche mondiali statunitensi.

L’Europa è una espressione geografica storicamente data a servizio degli Stati Uniti dove i sub-dominanti vogliono tutelare i propri interessi nazionali, svolgere le proprie funzioni per accrescere il loro potere sotto l’ala protettiva e allo stesso tempo minacciosa degli Stati Uniti (egemonia nelle istituzioni internazionali e nella Nato) a scapito degli interessi della maggioranza delle popolazioni nazionali ed europee (gli scritti di Domenico de Simone e di Domenico De Leo chiariscono molto bene il ruolo di potere degli agenti strategici che usano gli strumenti della finanza nel conflitto per la difesa del posto di vassallo europeo da parte tedesca).

La crisi dell’Italia (crisi di una idea di sviluppo e di una comunità nazionale inserite in una crisi d’epoca mondiale) va vista nel ruolo che l’Italia svolge nelle strategie statunitensi: sul territorio italiano ci sono fondamentali infrastrutture (immobili e mobili) militari a servizio degli Usa, nel Mediterraneo, nel Medio Oriente e in Oriente. Gli Usa-Nato stanno cambiando le città e i territori, stanno distruggendo le industrie di base, stanno rimodellando le economie dei territori; il Pentagono decide gli investimenti e le infrastrutture necessari; in definitiva hanno compromesso le basi per lo sviluppo di una discreta potenza del Paese: ci restano solo il cosiddetto made in Italy e il piccolo, medio è bello (sic). Il segretario di Stato USA, Mike Pompeo, facendo gli auguri al popolo italiano per la festa della Repubblica, ha detto che “La nostra continua cooperazione economica, politica e sulla sicurezza è vitale (corsivo mio) per affrontare le sfide comuni, tra cui il rafforzamento della sicurezza transatlantica e la lotta al terrorismo in tutto il mondo”.

Lo sbandamento dei sub-decisori italiani non è dovuto alla ricerca di un percorso di sovranità nazionale, da cercare con altre nazioni europee, per ripensare un’Europa come soggetto politico autonomo ( le cui forme istituzionali sono da inventare); ma esso è dovuto al conflitto interno agli USA dove si scontrano le visioni diverse dell’utilizzo dello spazio Europa in funzione delle proprie strategie egemoniche mondiali: 1) una Europa sotto il coordinamento del vassallo tedesco e del valvassore francese con la costruzione di uno Stato europeo?; 2) una Europa delle Nazioni singole?; 3) una Europa ridisegnata con la creazione di regioni?; 4) una Europa riorganizzata in aree << secondo le linee che marcano lo sviluppo storico>>?

La nuova sintesi dei dominanti statunitensi basata su un’idea di sviluppo con una diversa organizzazione sociale ( se mai ci sarà, considerato l’atroce conflitto in atto che indica l’inizio del declino dell’impero) dirà quale Europa sarà funzionale al rilancio egemonico mondiale.

E’ bastato che alcune forze politiche sistemiche proponessero ( non a livello di azione, che presuppone ben altre analisi e ben altri processi) aggiustamenti tecnici, maggiore equità, una ri-sistemazione sistemica delle gerarchie consolidate, una maggiore difesa dei propri interessi nazionali in funzione di una migliore Europa atlantica, che la reazione del potere sub-dominante europeo (soprattutto tedesco) fosse violenta, scomposta e rozza.

Il ruolo di garante di questa Europa legata ai dominanti statunitensi, che si configurano nel blocco democratico – neocon – repubblicano ( di questo blocco sono da capire meglio gli intrecci dei decisori della sfera politica), che vogliono una Europa coordinata dal vassallo tedesco, è rappresentato, in Italia, dal Presidente della Repubblica (oggi Sergio Mattarella, ieri Giorgio Napolitano). Il gioco istituzionale di Sergio Mattarella è da inquadrare in questa logica, altrimenti non si capiscono bene le contraddizioni, i paradossi, le sbandate e le ipocrisie di tutta la sfera politica. Attardarsi sul rispetto della Costituzione da parte del Presidente della Repubblica è un non sense perché la Costituzione è una espressione dei decisori e non del popolo. Le regole, le norme, i principi che regolano i rapporti sociali di una Comunità nazionale sono in mano a pochi e non a molti. Come insegna la cultura antica, soprattutto greca, quando le regole del legame sociale non sono decise dalla maggioranza non c’è nè democrazia nè libertà.

Occorre riflettere sulla tragica situazione in cui si trova l’Italia in particolare, e più in generale l’Europa, per trovare una strada che non sia solo elettorale, che non sia solo tecnica-finanziaria, che non veda la finanza come un dominio ma come uno strumento di potere in mano agli agenti strategici sub-dominanti europei e pre-dominati statunitensi. << Oggi si parla tanto della finanziarizzazione del capitale e del suo strapotere. Magari vedendo in questo processo l’avvicinarsi di una crisi catastrofica. Ma la finanza è solo un fattore fra altri, non isolabile, dello scontro per la supremazia fra i gruppi dominanti. Il capitale finanziario insomma rappresenta i conflitti in atto tra diverse forze e strategie politiche, combattuti con l’arma del denaro. Se vogliamo allora comprendere gli squilibri e le crisi che caratterizzano il capitalismo contemporaneo dovremmo addentrarci in un complesso intreccio tra funzioni finanziarie e politiche e nelle contraddizioni tra la razionalità strategica che prefigura assetti di potere e la razionalità strumentale che mira ai vantaggi immediati dell’economia. Al fondo vi è sempre lo scontro tra gruppi dominanti.>> (Gianfranco La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, Roma, 2008).

Per questo il rito delle elezioni è diventato sempre più inutile (l’esempio greco, e non solo, è significativo!) e mano a mano che si entrerà sempre di più nella fase multicentrica si renderà sempre più palese l’ideologia della partecipazione popolare alle decisioni del Paese tramite il voto elettorale, alla faccia della Costituzione!

La fase multicentrica impone una ri-considerazione sul ruolo della sovranità nazionale per ri-costruire una Europa delle nazioni sovrane che chiarisca il suo rapporto con gli USA e guardi ad Oriente.

 

Per comodità di lettura gli scritti proposti sono stati divisi e pubblicati in quattro parti, ciascuna preceduta dalla mia introduzione.

 

 

PRIMA PARTE

 

 

ITALIANI SCROCCONI E FANNULLONI? TEDESCHI TRUFFATORI E FALSARI!

di Domenico de Simone

 

La battaglia durissima e senza precedenti che si sta consumando intorno alla nomina di Paolo Savona a Ministro dell’economia, sta assumendo toni intollerabili, con attacchi violenti da parte della stampa italiana, come al solito ricca di falsità, allarmi, valanghe di fango e menzogne, e recentemente con la discesa sul campo di battaglia delle “sturmtruppen”, anch’esse armate di falsità e menzogne, oltre che di insulti e pregiudizi. Facciamo un po’ di chiarezza.

Paolo Savona è un economista di valore e di grande prestigio che ha il solo torto di aver detto  chiaramente, PRIMA dell’entrata in vigore dell’euro, che la moneta unica, così come era stata concepita, avrebbe fallito e che i vantaggi tanto sbandierati dai politici di allora e dalla stampa, si sarebbero rivelati un’illusione pericolosa. In Italia è stato uno dei pochissimi a dirlo, una voce fuori da coro che ha dato molto fastidio e che è stata messa a tacere con i soliti sistemi mafiosi dei signori del potere. Semplicemente negandogli l’accesso ai media. Che cosa diceva il buon professore sull’Euro? Niente di diverso da quello che sostenevano molti noti economisti d’oltre oceano, ovvero che una moneta unica in un’area con economie tanto diverse e senza meccanismi di compensazione avrebbe provocato molti danni alle economie più deboli. Si tratta della teoria delle Aree Valutarie Ottimali (AVO) in inglese nota come teoria dell’OCA (optimum currency area) elaborata negli anni sessanta del premio Nobel Robert Mundell e ben nota agli economisti. Se volete capire quanto sono bravi i tedeschi al gioco dell’OCA cliccate su questo articolo. 

Ora, che un personaggio del genere, che ha fatto dell’indipendenza del pensiero la propria bandiera, vada a fare il Ministro dell’Economia in un momento in cui tutto l’edificio comunitario sta vacillando paurosamente, proprio a causa delle debolezze e delle contraddizioni dell’euro e della politica europea, è per un fatto inammissibile per i poteri forti. Di qui la reazione violenta e senza precedenti, con il Presidente della Repubblica che mette il proprio veto, violando palesemente la Costituzione che non gli consente ingerenze sulle scelte politiche della maggioranza nominata dagli elettori. Tuttavia, poiché la questione può essere di vitale importanza, la resistenza del Presidente è fortissima, anche a rischio di un’accusa di violazione dell’art. 90 della Costituzione, ovvero di alto tradimento, per comportamenti diretti a sovvertire le Istituzioni Costituzionali e per le collusioni con una potenza straniera, nel caso di specie, con la Germania.

Fatta questa doverosa premessa che rende l’idea del clima e degli interessi in gioco, veniamo al merito di questo articolo, che sin dal titolo vuole rispondere ai durissimi attacchi sferrati dal settimanale “Der Spiegel” qualche giorno fa e persino dalla Frankurter Allgemeine Zeitung nel suo inserto settimanale, contro l’Italia, gli italiani e il loro desiderio di cambiare la politica economica del paese. Insomma, i due giornali più diffusi in Germania che agitano con forza i soliti pregiudizi diffusi in quel paese sulle abitudini degli italiani, definiti “scrocconi e fannulloni”.

L’accusa è legata sia al programma di reddito di cittadinanza avanzato dal M5S (che poi non è un vero RdC ma una misura assistenziale, come ho già scritto numerose volte in altri articoli) che ci fa meritare l’accusa di fannulloni, sia al fatto che le politiche economiche contenute nel contratto sottoscritto da Lega e M5S comporterebbero violazioni di spesa che si riverserebbero sui conti della EU con un danno per l’economia tedesca. In altre parole, questi preclari esempi di giornalismo di disinformazione, dicono ai propri concittadini che a breve, se Lega e M5S vanno al governo, sarebbero costretti a mantenere il nostro tenore di vita che è evidentemente a di sopra delle nostre possibilità.

L’unica reazione adeguata a questo nugolo di nefandezze, di menzogne e di fango è giunta dall’ambasciata italiana a Berlino che ha protestato vivacemente contro queste ignobili accuse. Dall’Italia, invece, i silenzio o quasi.

E vediamo perché a questa accusa, possiamo replicare sostenendo a ragione che gli accusatori tedeschi sono truffatori e falsari.

  1. I) Il debito pubblico italiano è insostenibile e porterà l’Europa comunitaria al fallimento.

Questa accusa è falsa. Uno studio pubblicato in Germania quattro anni fa dalla Fondazione Stiftung Marktwirtschaft, un prestigioso istituto di studi economici diretto dall’economista Bernd Raffelhüschen, molto stimato in Germania e all’estero, ha rilevato che il debito complessivo dell’Italia è di molto inferiore a quello della Germania e degli altri paesi fondatori della Comunità Europea. Per debito complessivo si intende il debito corrente più il  debito implicito, ovvero quel debito che nascerà nei prossimi decenni dalle previsioni di spesa dovute alle scelte correnti di politica economica e previdenziale. Su questa ricerca ho scritto un articolo al quale vi rimando. Per questa ricerca, il debito implicito dell’Italia è il più basso di tutti gli altri paese europei, primo posto che è confermato anche considerando il debito complessivo. La Germania sta al secondo posto con un debito complessivo che supera del 20% circa quello italiano. Quindi è FALSO che i problemi economici della Germania verranno dalle scelte di politica economica italiane, com’è assolutamente falso che gli italiani vivano al di sopra delle proprie possibilità. Sono semmai le scelte della Germania e degli altri paesi europei che porteranno la Comunità europea al fallimento, come si capisce chiaramente guardando la tabella redatta dal prestigioso Istituto economico tedesco. Il problema è quindi il debito a breve, sul quale “i mercati” fanno il prezzo dei titoli di Stato e che costituisce la base dello “spread”, ovvero della differenza di tassi di interesse tra i titoli italiani e quelli tedeschi, che sono presi a pietra di paragone di tutti gli altri stante la sbandierata virtuosità della finanza pubblica tedesca. Se “i mercati” considerassero il debito complessivo, la situazione dovrebbe essere invertita e dovrebbero essere i titoli italiani a fare da base per i tassi di tutti gli altri. E se questo non avviene è perché qui c’è un trucco.

 

  1. II) Lo “Spread” e i trucchi truffaldini di BUBA

Ma come fanno i tedeschi a tenere così bassi gli interessi sui loro titoli di Stato? Con un trucco truffaldino che praticano sin dalla sottoscrizione degli accordi di Maastricht, nonostante l’esplicito divieto contenuto in questo trattato. L’art. 101 comma 1 del trattato vieta espressamente alle Banche centrali nazionali di acquistare titoli di debito del proprio stato all’atto del collocamento, ovviamente per evitare distorsioni nella formazione dei prezzi, con la candida illusione che, in tal modo, il prezzo di collocamento sarebbe stato fatto dal mercato. Questo divieto ha causato, a suo tempo, la crisi di liquidità della Grecia, e vale per tutti i paesi europei tranne che per la Germania. Infatti, quando l’Agenzia per il Debito tedesca mette all’asta sul “primo mercato” i titoli dello Stato tedesco, succede spesso che i tasso di interesse proposto sia di gradimento solo di alcuni acquirenti e che pertanto alcuni stock di titoli restino invenduti. Stando alle regole, a questo punto l’Agenzia dovrebbe alzare il tasso di interesse finché l’intera emissione non fosse assorbita dal “mercato” (e poi vedremo chi sono questi signori del primo mercato), ma in realtà non fa così affatto. Prende i titoli invenduti e li “deposita” presso la BuBa, ovvero la Bundesbank, la banca centrale tedesca che, formalmente, funge solo da depositaria dei titoli invenduti che andrà poi a vendere sul “mercato secondario” in un momento più favorevole. Dato che la BuBa può effettuare acquisti sul mercato secondario, se non trova acquirenti al tasso deciso dalla Agenzia del debito, essa stessa comprerà quei titoli, quel punto, ma solo formalmente, senza violare il trattato di Maastricht, che vieta gli acquisti di titoli sul mercato primario ma non su quello secondario. Con la conseguenza che, in forza di questo trucco truffaldino, la BuBa funge da acquirente di ultima istanza per i titoli tedeschi in palese violazione del trattato di Maastricht. Se volete approfondire l‘argomento leggetevi questo articolo che tratta l’argomento in maniera approfondita. Grazie a questo truffaldino trucco da baraccone, sul quale nessuno governo ha mai detto nulla né Bankitalia e tanto meno la BCE hanno mai sollevato eccezioni, i titoli tedeschi scontano un interesse bassissimo, il più basso possibile deciso politicamente dal governo tedesco, e gli altri paesi europei pagano la differenza tra quello che il “mercato” chiede e il prezzo pagato dai tedeschi. Questa vergogna che va avanti così da circa vent’anni, è la fonte dello “spread”, che viene periodicamente agitato come lo spauracchio per tenere in riga i conti pubblici italiani e mettere paura agli italiani stessi, dicendo falsamente che il mercato è spaventato dal debito pubblico e dai conti del nostro paese. ma vediamo chi sono questi signori del mercato “Primario” che decidono il prezzo che noi dobbiamo pagare sul nostro debito pubblico.

 

III) I signori del mercato primario e quelli del mercato secondario

Se pensate che il mercato dei titoli del debito pubblico sia costituito da milioni di investitori alla ricerca delle migliori opportunità per i loro risparmi, ebbene scordatevelo. Il mercato primario dei titoli pubblici è costituito esclusivamente da alcuni soggetti che sono i soli autorizzati all’acquisto di titoli di stato all’atto del collocamento. Non è ovviamente il mercato finanziario così come ci viene dipinto dagli articoli di giornali corrotti e falsari, insomma non è affatto un mercato, ma un congrega di venti Banche commerciali che sono le uniche ammesse a fare tali acquisti. Le transazioni avvengono per via telematica per ogni Stato un paio di volte al mese. Questi soggetti acquistano i titoli che poi, dopo opportuna maggiorazione di prezzo (giusto qualche decimale di punto) vanno poi a rivendere sul mercato secondario, a quelle altre banche che hanno prenotato o hanno mostrato interesse per l’acquisto dei titoli. Già, perché anche il mercato secondario non è ancora il mercato finanziario, quello al quale possono accedere tutti gli operatori cittadini compresi, ma è anch’esso costituito da una platea più allargata di banche commerciali (circa 120) sufficientemente solide per essere ammesse a questo mercato, oltre che dalle banche centrali dei paesi. Dopo aver esaurito questa corsa, previa opportuna maggiorazione del prezzo, i titoli di stato finiscono finalmente sul mercato finanziario, dove vengono trattati come gli altri strumenti finanziari. Lo “Spread”, quindi, non nasce dal “sentiment” di milioni di investitori (come ci fanno bellamente credere), sui rischi economici e finanziari di un paese, ma dalle decisioni, evidentemente politiche più che economiche, di un pugno di banchieri speculatori. I tedeschi hanno neutralizzato queste decisioni politiche per quello che li riguarda, adottando il trucco che abbiamo visto sopra, ma ovviamente le banche non ci rimettono niente, poiché lo “Spread” comprende anche il minore guadagno che i banchieri hanno sui titoli tedeschi. In altri termini, siamo noi che paghiamo con un incremento dei tassi, le differenze che le banche devono scontare sui titoli tedeschi e che subiamo le decisioni politiche di un pugno di banchieri che a loro volta sono evidentemente e necessariamente influenzati dalle decisioni dei tedeschi, sia sul piano finanziario che su quello politico. Chiaro, o no?

IV I programmi di assistenza pubblica in Germania

I tedeschi ci accusano di essere fannulloni per via della proposta avanzata dal M5S di un programma di assistenza per i disoccupati e di introduzione di un salario minimo vitale. Ebbene, la cosa sconcertante di questa accusa, è che in Germania esiste da tempo un programma del genere, anzi praticamente identico a quello proposto dal 5 Stelle, ovvero il sussidio sociale Hartz IV. Questo sussidio, che attualmente viene erogato a circa sei milioni di persone, supporta in vari modi le persone disoccupate che non riescono a trovare un lavoro. L’agenzia propone alle persone un lavoro e queste devono accettarlo a pena di perdere il sussidio in caso di rifiuto. Si tratta di una misura assistenziale in vigore, da molto tempo, in tutti i paesi europei tranne che in Italia e che i 5 Stelle vogliono introdurre chiamandola inopportunamente reddito di cittadinanza che è in realtà una cosa completamente diversa. Ma a parte questa questione, di cui ho abbondantemente parlato nei miei libri e articoli, e che è la scriminante tra la libertà e la schiavitù, sta di fatto che se il programma è fatto dai tedeschi è una misura doverosa di supporto alle persone meno fortunate, mentre se lo fanno gli italiani si tratta di mantenere fannulloni arroganti e spocchiosi.

Ora che un governo possa mettere alla luce questi trucchi vergognosi e queste truffe, che sono costate finora agli italiani centinaia di miliardi e una crisi senza fine, è evidentemente intollerabile per i padroni del vapore. Non ho molta fiducia nel governo Lega 5 Stelle che, da un punto di vista politico sembra un guazzabuglio indecifrabile, ma dal punto di vista economico il fatto di poter alzare la voce e magari riuscire a tagliare alcuni dei legacci che ci tengono prigionieri è certamente una buona opportunità e Savona mi sembra la persona più indicata, per prestigio, competenza e idee manifestate per farlo.

 

Sovranisti e “servilisti” , di Teodoro Klitsche de la Grange

Sovranisti e “servilisti”

di Teodoro Klitsche de la Grange

Da qualche anno, da quando sono stati coniati i neo-logismi sovranismo e sovranista (probabilmente dal francese) il pensiero “politicamente corretto” (e relativi pensatori) si è lanciato in una, per esso abituale, opera di screditamento e demonizzazione. Sovranismo sarebbe un’ideologia guerrafondaia (??), passatista, dittatoriale, egoista e così via. I sovranisti poi demagoghi, ignoranti, cattivi, maleducati e cafoni (oibò!)

Sarebbe facile screditare questa ennesima campagna di (preteso) discredito con cui la classe dirigente in decadenza cerca di arrestare il volgere degli eventi, tutt’altro che propizi a quella, quanto favorevoli alle élite cafone. Un paio di perché – e un suggerimento (ripreso da fonte autorevole) – vorrei comunque proporre.

Il primo: a leggere la Treccani il significato di sovranismo è di “Posizione politica che propugna la difesa o la riconquista della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in antitesi alle dinamiche della globalizzazione e in contrapposizione alle politiche sovrannazionali di concertazione”.  A seguirlo, bisogna cominciare con lo svalutare del tutto il nostro Risorgimento, e buona parte della storia moderna. I costruttori dello Stato nazionale italiano (da Cavour a Garibaldi, da Vittorio Emanuele II a Mazzini), forse non erano dei damerini (il Savoia era anche un po’ grossier) ma sicuramente non avrebbero acconsentito – il Piemonte prima, l’Italia poi tanto da fare quattro guerre all’uopo – che in nome di qualche idea, si fosse limitata l’indipendenza dell’Italia. Se per Metternich l’Italia  era un’ “espressione geografica” per loro era una comunità politica. E per esserlo doveva avere l’indipendenza (dalla volontà) e dagli interessi di altre potenze (e popoli). Del pari non avrebbero mai preteso di occupare Vienna, Praga, Lubiana o Zagabria (tant’è che neppure con lo sfascio dell’Impero asburgico lo fecero), neppure con la giustificazione di qualche ideale cosmopolita. Dato che, a ben vedere, il cosmopolitismo rientra nella classe delle alternative al patriottismo.

La seconda: le più interessanti e centrate definizioni di ciò che è la libertà, politica in specie, l’ha date S. Tommaso.

Come ho scritto in un precedente articolo per Rivoluzione liberale (Sovranismo e libertà politica) l’Aquinate sosteneva che è libero chi è causa di se (del suo): liber est qui causa sui est; e per chiarire ulteriormente definiva  servo chi è di altri (servus autem est, qui id quod est, alterius est).

Applicando queste due asserzioni di S. Tommaso non sono né libere, né comunità perfette quelle che giuridicamente e politicamente dipendono da altri e pertanto non hanno la piena disponibilità di determinare i propri scopi né i mezzi per conseguirli.

Per cui liberarsi da quella condizione di dipendenza è il requisito minimo per poter decidere del proprio destino. L’inverso è sopportare che lo decidano gli altri: come spesso capitato nella recente storia nazionale. Dato che né Di Maio né Salvini vogliono occupare, neppure Tripoli e Tirana, ma solo evitare di subire troppi condizionamenti in casa nostra, non sono dei pericolosi aggressori e guerrafondai.

Ciò stante passiamo al suggerimento.

Diceva Vittorio Emanuele Orlando in un famoso discorso pronunciato alla Costituente, chiedendo che l’assemblea non ratificasse il Trattato di pace: “considerate almeno questo lato della decisione odierna, il significato di questa accettazione, che avviene in un momento in cui essa non è necessaria; onde il vostro voto acquista il valore di un’accettazione volontaria di questa che è una rinuncia a quanto di più sacro vi è stato confidato dal popolo quando vi elesse: l’indipendenza e l’onore della Patria… Questi sono voti di cui si risponde dinanzi alle generazioni future: si risponde nei secoli di queste abiezioni fatte per cupidigia di servilità”.

Seguendo l’indicazione del Presidente della vittoria, non sarebbe il caso di cominciare a chiamare gli anti-sovranisti, mutuando l’espressione di Orlando: “servilisti”?

Teodoro Klitsche de la Grange

IL GUARDIANO DELLA (AUGURABILMENTE DEFUNTA) COSTITUZIONE REALE, di Massimo Morigi

IL GUARDIANO DELLA (AUGURABILMENTE DEFUNTA) COSTITUZIONE REALE

 

Di Massimo Morigi

 

Nel momento in cui sto scrivendo questa breve nota, per l’esattezza il pomeriggio di mercoledì 23 maggio 2018, non è dato ancora sapere se il nostro Presidente della Repubblica e banale dicitore in servizio permanente effettivo convocherà al Quirinale il prof. Giuseppe Conte e, dettaglio ancor più importante, alla fine si acconcerà di accettare il molto più sostanzioso e (inquietante dal  punto di vista della massima carica dello Stato) prof. Paolo Savona a guidare lo strategico ministero dell’economia. Si tratta indubbiamente di una penosa situazione di stallo che, per farla breve, non contribuisce certo a livello di pubblica opinione interna ed anche di credibilità internazionale, a dare una buona immagine dell’attuale presidenza della Repubblica (questo  soprattutto per quanto riguarda l’opinione pubblica italiana) e a restituire un profilo minimamente decentemente democratico-rappresentativo del nostro sistema politico, che si deve (o meglio si dovrebbe) confrontare con i grandi agenti strategici internazionali, siano questi altri stati nazionali o agenti strategici di natura privata ma che detengono un potere reale pari o superiore agli stati nazionali. Ma tant’è questo è lo stato dell’arte dell’attuale politica italiana e piuttosto che inveire, cercare quindi di far ascoltare (invano) i nostri modesti ragli al Cielo e sperare che, alla fine, un minimo di buonsenso politico prevalga nella nostra massima carica dello Stato, meglio è analizzare, appunto, con un occhio un po’ più distaccato e reso acuto da una prospettiva logico-teorica e storica, questa misera situazione andando così al di là delle indubbie manchevolezze sia sul piano retorico che sul piano della  più elementare phronesis politica è solito mostrare il capo dello Stato italiano. E quindi per spezzare una lancia a suo favore, bisogna immediatamente dire che nell’attuale comportamento dilatorio il nostro capo dello Stato fa veramente (e giustamente dal suo punto di vista) valere le sue prerogative costituzionalmente garantite, ma non nel senso da lui sostenuto che, in ultima istanza, spetta a lui nominare il Presidente del Consiglio dei Ministri (art. 92. Cost.: «Il Governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei Ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei Ministri. Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri.»), articolo 92 in cui l’ambiguità del dettato dà ragione a qualsiasi comportamento il Presidente della Repubblica voglia adottare nella specifica circostanza, ma le fa pienamente valere riguardo non a questo ambiguo dettato formale ma riguardo ad un altro articolo della costituzione, l’articolo 11 che, per la sua importanza, citiamo anch’esso per intero: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa della libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.» Cosa c’entra l’articolo 11 della Costituzione Italiana con il rispetto delle prerogative del Presidente della Repubblica? Apparentemente nulla: nella sostanza tutto: e diciamo tutto, perché, al di là della retorica sulla Costituzione italiana come la costituzione più bella del mondo, “bellezza” che  retoricamente trova una delle sue massime espressioni nel ripudio della guerra, l’articolo 11 è il riassunto della condizione coloniale dell’Italia dopo il secondo conflitto mondiale, una condizione dove formalmente veniva mantenuta la piena statualità dell’Italia ma dove questa piena statualità non era altro che una fictio iuris perché in Costituzione veniva riconosciuta (ed anzi incoraggiata con retorica pacifista) la possibilità che lo Stato italiano potesse cedere quote della sua sovranità. Il presidente della Repubblica, quindi, ostacolando in tutti i modi l’assunzione delle responsabilità governative da parte delle cosiddette forze populiste e sovraniste, non fa altro che cercare mantenere integro e pienamente vigente il vero nucleo palpitante della nostra Costituzione (che ha giurato di rispettare, e quindi egli col suo comportamento delatorio e ostile verso queste forze non fa altro che fare il suo dovere), vera e propria teleologia costituzionale che dice che l’Italia ha perso definitivamente e per sempre la sua sovranità. Del resto che il nodo della Costituzione scritta italiana nonché di quella materiale sia quello della sovranità (negata e conculcata) ce lo suggerisce non solo la storia del  settantennio postfascista della Repubblica Italiana ma anche quel minimo di logica giuridica che dovrebbe essere impiegata in materia di diritto, e questo minimo di logica giuridica ci suggerisce l’elementare verità che quando disposto dall’articolo 11 in materia di sovranità è, de iure, un processo irreversibile per il semplice fatto che una volta ceduta la sovranità ad un altro soggetto è quest’altro soggetto il detentore della stessa e quindi è impossibile tornare indietro qualora non si sia contenti del comportamento del nuovo detentore della sovranità. In altre parole l’articolo 11 della Costituzione italiana configura la situazione di un patto hobbessiano, dove sì gli uomini conferiscono a un sovrano le loro illimitate prerogative derivategli dal diritto di natura ma questo conferimento, al contrario che nel patto lockiano in cui il sovrano può essere revocato o rovesciato se non compie il suo dovere di difendere e rispettare le libertà  e le proprietà dei sudditi,  non è più reversibile anche se il sovrano, ahimè, si dovesse rivelare un tiranno nemico del popolo. Nel Leviatano recita infatti il patto hobbessiano: «Io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo o a questa assemblea di uomini, a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile. Fatto ciò, la moltitudiine così unita in una persona viene chiamata uno stato, in latino civitas. Questa è la generazione di quel grande Leviatano o piuttosto –  per parlare con più riverenza –  di quel Dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa». Nel Leviatano l’irrevocabilità del patto è quindi prima di tutto  all’interno della logica stessa di quel tipo di patto, caratterizzato dal fatto che i cittadini non si sono accordati fra loro di nominare un sovrano – come invece in buona sostanza accade in Locke e alla luce di una teleologia del patto stesso legata ai risultati che sarà in grado di conseguire il sovrano –  ma si sono accordati fra loro di cedere la propria sovranità per arrivare alla costruzione del sovrano e logicamente, una volta ceduta la sovranità a favore di un terzo, non è più possibile tornare indietro. Siccome nella realtà dell’articolo 11 l’impossibilità di tornare indietro dalla cessione della sovranità non viene palesemente espressa alla luce di una argomentazione logica (difficilmente si potrebbe farlo in una costituzione, il cui compito è enunciare principi e le principali linee guida dello Stato e non certo di giustificarle in dottrina), potrebbe sembrare che questa digressione hobbessiana sia forse interessante ma forse non pienamente attinente al giudizio che si deve fornire sul comportamento del Presidente della Repubblica nei confronti delle forze populiste e sovraniste che vogliano andare al potere e sul (pietoso) stato della sovranità del nostro Paese. In realtà, oltre che una puntualizzazione logico-giuridica in merito alla irreversibilità de iure del processo della cessione della  sovranità contemplata dall’articolo 11 della Costituzione, la digressione ci consente anche di fare il punto in merito all’attuale stato pietoso dell’attuale scienza politica italiana. Attuale stato pietoso della scienza politica italiana, della cui condizione pensiamo possa essere preso a simbolo il magistero di Gianfranco Pasquino, che riguardo all’articolo 11, con totale cecità e manipolazione storica (e totale ridicola assenza di  ragionamento logico-giuridico) è arrivato a scrivere:  «L’elaborazione della nostra Costituzione è avvenuta nel difficilissimo periodo dei primi anni del dopoguerra e della ricostruzione quando bisognava risollevare il paese sia materialmente che moralmente. Il nostro paese si impegna a partecipare alle organizzazioni internazionali che promuovono la pace e la giustizia fra i popoli. L’impegno che si è assunto la nostra Repubblica, fin dalla sua nascita, è stato di partecipare alla creazione di un ordinamento mondiale più giusto, che potesse esprimere quei valori fondamentali, considerati come cardine della vita democratica. In tale prospettiva, l’Italia aderisce all’Organizzazione delle Nazioni Unite, nel dicembre del 1955. L’ONU, costituitosi ufficialmente il 24 ottobre del 1945 sulla disciolta Società delle Nazioni, ha nel suo statuto, come programma, quello di garantire alle nazioni del mondo, la pace e il progresso della democrazia come pure l’affermazione del rigoroso rispetto per i diritti e le pari dignità di tutti gli stati, sia grandi che piccoli. L’articolo 11 della Costituzione fu scritto e pensato anche per consentire l’adesione dell’Italia all’ONU che richiedeva, come condizione essenziale per tale adesione, che lo stato si fosse dichiarato “amante della pace.” Questo articolo si configura come essenziale anche per l’adesione alla Comunità Europea (1951 – anno di nascita della Comunità Europea e 1957 – Trattato di Roma). Nel preambolo della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata in occasione del Consiglio di Nizza del 7 dicembre 2000, si dichiara che i popoli europei, nel creare tra loro un’unione sempre più stretta, hanno deciso di condividere un futuro di pace fondato su valori comuni. Diversamente da alcune costituzioni di altri paesi europei, l’articolo 11 non ha subito modifiche riguardanti l’inserimento di una esplicita clausola europea. Il mutato ordinamento politico mondiale, dopo la fine della “guerra fredda”, ha portato la comunità internazionale ad un diverso orientamento, volto a legittimare l’intervento, anche militare, nei confronti di stati in cui siano emerse emergenze umanitarie, con palese violazione dei diritti umani. (deportazioni, genocidi, stupri etnici). Tuttavia, le azioni di forza dovrebbero essere sempre condotte sotto l’egida di un’organizzazione internazionale e impedite a quegli stati che decidano l’azione di forza unilateralmente, anche se per fini umanitari.» Gli URL originari di queste perle di wishful thinking e affabulazione mitologica espresse in un linguaggio apparentemente avaloriale, che noi non commentiamo lasciando questo allegro esercizio ai lettori dell’  “Italia e il mondo”, sono https://gianfrancopasquino.com/tag/limitazioni-di-sovranita/ e https://gianfrancopasquino.com/2015/11/19/guerra-e-pace-nella-costituzione-gli-strumenti-per-una-pace-giusta/   (documento  che noi perché queste perle non vengano vanificate dalla volatilità delle fonti internet abbiamo anche provveduto a caricare  presso gli URL https://archive.org/details/LimitazioniDellaSovranita,https://ia601500.us.archive.org/15/items/LimitazioniDellaSovranita/LimitazioniDiSovranitGianfrancopasquino.html,https://archive.org/details/GuerraEPace e https://ia601503.us.archive.org/13/items/GuerraEPace/GuerraEPace.NellaCostituzioneGliStrumentiPerUnaPaceGiustaGianfrancopasquino.html): quello che a noi preme sottolineare con questa citazione è l’attuale pochezza dell’attuale pensiero politologico mainstream (di cui l’illustrissimo professore dello Studio bolognese è uno dei massimi rappresentanti), dove questa (pavida) pochezza è uno dei non minori aspetti in cui storicamente si è dipanata ed evoluta la progressiva perdita di sovranità dell’Italia avvenuta in seguito alla sconfitta militare nel secondo conflitto mondiale e certificata dalla “costituzione più bella del mondo”, in specie attraverso l’articolo 11. In conclusione: tutta la nostra umana simpatia al nostro caro Presidente della Repubblica che col suo comportamento dilatorio ed ostruttivo contro le forze populiste e sovraniste non fa altro che portare doveroso rispetto alle sue prerogative di custode della costituzione scritta e materiale italiana che all’art. 11 implica che progressivamente l’Italia perdendo la sua sovranità sia ridotta a pura colonia ma anche una ancor più grande solidarietà ed incoraggiamento al popolo italiano perché de facto, cioè con tutte le dinamiche conflittuali contemplate da una vitale Res publica, cioè detto in una parola, con la politica, sappia sbarazzarsi di tutti quei veri e propri orrori che de iure non lasciano alcuna via di scampo per la dignità del nostro paese. Con i migliori auguri quindi, oltre che di buona salute e felice vecchiaia, a che il nostro beneamato Presidente della Repubblica continui ad essere il “guardiano della Costituzione” ma di una ormai defunta costituzione, la cui difesa sia ormai affidata solo al suo solito “banale dire” –   in questo supportato dalla grande scienza politica italiana mainstream – e non alle sue augurabilmente sventate e tutt’altro che banali (e deleterie) azioni.

Massimo Morigi – 23 maggio 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa della libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

 

L’elaborazione della nostra Costituzione è avvenuta nel difficilissimo periodo dei primi anni del dopoguerra e della ricostruzione quando bisognava risollevare il paese sia materialmente che moralmente. Il nostro paese si impegna a partecipare alle organizzazioni internazionali che promuovono la pace e la giustizia fra i popoli. L’impegno che si è assunto la nostra Repubblica, fin dalla sua nascita, è stato di partecipare alla creazione di un ordinamento mondiale più giusto, che potesse esprimere quei valori fondamentali, considerati come cardine della vita democratica. In tale prospettiva, l’Italia aderisce all’Organizzazione delle Nazioni Unite, nel dicembre del 1955. L’ONU, costituitosi ufficialmente il 24 ottobre del 1945 sulla disciolta Società delle Nazioni, ha nel suo statuto, come programma, quello di garantire alle nazioni del mondo, la pace e il progresso della democrazia come pure l’affermazione del rigoroso rispetto per i diritti e le pari dignità di tutti gli stati, sia grandi che piccoli. L’articolo 11 della Costituzione fu scritto e pensato anche per consentire l’adesione dell’Italia all’ONU che richiedeva, come condizione essenziale per tale adesione, che lo stato si fosse dichiarato “amante della pace.” Questo articolo si configura come essenziale anche per l’adesione alla Comunità Europea (1951 – anno di nascita della Comunità Europea e 1957 – Trattato di Roma). Nel preambolo della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata in occasione del Consiglio di Nizza del 7 dicembre 2000, si dichiara che i popoli europei, nel creare tra loro un’unione sempre più stretta, hanno deciso di condividere un futuro di pace fondato su valori comuni. Diversamente da alcune costituzioni di altri paesi europei, l’articolo 11 non ha subito modifiche riguardanti l’inserimento di una esplicita clausola europea. Il mutato ordinamento politico mondiale, dopo la fine della “guerra fredda”, ha portato la comunità internazionale ad un diverso orientamento, volto a legittimare l’intervento, anche militare, nei confronti di stati in cui siano emerse emergenze umanitarie, con palese violazione dei diritti umani. (deportazioni, genocidi, stupri etnici). Tuttavia, le azioni di forza dovrebbero essere sempre condotte sotto l’egida di un’organizzazione internazionale e impedite a quegli stati che decidano l’azione di forza unilateralmente, anche se per fini umanitari.

 

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https://ia601500.us.archive.org/15/items/LimitazioniDellaSovranita/LimitazioniDiSovranitGianfrancopasquino.html

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https://ia601503.us.archive.org/13/items/GuerraEPace/GuerraEPace.NellaCostituzioneGliStrumentiPerUnaPaceGiustaGianfrancopasquino.html

Io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo o a questa assemblea di uomini, a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile. Fatto ciò, la moltitudiine così unita in una persona viene chiamata uno stato, in latino civitas. Questa è la generazione di quel grande Leviatano o piuttosto – per parlare con più riverenza – di quel Dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa…

KKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKK

Perciò il fine grande e principale per cui gli uomini si riuniscono in comunità politiche e si sottopongono a un governo è la conservazione della loro proprietà. A questo fine infatti nello stato di natura mancano molte cose. In primo luogo manca una legge stabilita, fissa e conosciuta. In secondo luogo, nello stato di natura manca un giudice noto e imparziale, con l’autorità di decidere tutte le controversie in base ad una legge stabilita. In terzo luogo, nello stato di natura manca spesso un potere che sostenga e sorregga la sentenza, quando essa è giusta, e ne dia la dovuta esecuzione. Ma, sebbene gli uomini, quando entrano a far parte della società, rinuncino all’eguaglianza, libertà e potere esecutivo che avevano nello stato di natura, per riporre queste cose nelle mani della società, affinché il potere legislativo ne disponga nella misura richiesta dal bene della società, tuttavia, poiché ciascuno fa ciò soltanto con l’intenzione di meglio conservare per se stesso la libertà e la proprietà (dal momento che non si può supporre che nessuna creatura razionale cambi la propria condizione con l’intenzione di peggiorarla), non si può mai supporre che il potere della società, ossia il potere legislativo costituito dai membri della società, si estenda al di là del bene comune; anzi esso è obbligato ad assicurare a ciascuno la sua proprietà, prendendo provvedimenti contro quei tre difetti sopra menzionati, che fanno lo stato di natura cosí insicuro e disagevole. Perciò chiunque abbia il potere legislativo, ossia il potere supremo, di una comunità politica, è tenuto a governare con leggi stabilite e fisse, promulgate e rese note al popolo, e non con decreti estemporanei; deve servirsi di giudici imparziali e giusti, che devono decidere le controversie in base a quelle leggi; deve impiegare la forza della comunità all’interno soltanto per eseguire quelle leggi, o all’esterno per prevenire o riparare torti provocati da stranieri, e assicurare la comunità da incursioni e invasioni. E tutto ciò deve essere diretto a nessun altro fine, se non alla pace, alla sicurezza e al bene pubblico del popolo.

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GUERRA E PACE. Nella Costituzione gli strumenti per una pace giusta

NOVEMBRE 19, 2015 8:00 AM / 1 COMMENTOSU GUERRA E PACE. NELLA COSTITUZIONE GLI STRUMENTI PER UNA PACE GIUSTA

 

Il testo che pubblichiamo è il commento all’art. 11 della Costituzione italiana scritto da Gianfranco Pasquino per il suo libro La Costituzione in trenta lezioni (UTET, fine gennaio 2016)

 

La vita della maggioranza dei Costituenti italiani era stata segnata da due guerre mondiali e dall’oppressione del regime fascista nato sulle ceneri della Prima Guerra Mondiale e pienamente responsabile della partecipazione alla Seconda. In nome di un nazionalismo malposto e esasperato, il fascismo aveva causato enormi danni all’Italia entrando in una guerra di conquista e perdendola con il sacrificio di molte vite e della stessa dignità nazionale. L’art. 11 è il prodotto di una riflessione sull’esperienza storica, non soltanto italiana, e del tentativo di porre le premesse affinché sia bandito qualsiasi ricorso alla guerra ‘come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali’. Il ripudio, questo è il termine usato nell’articolo, è, al tempo stesso rinuncia e condanna della guerra, più precisamente di esplicite guerre di offesa e aggressione. Il ripudio della guerra non è in nessun modo interpretabile come l’espressione di un pacifismo assoluto e, il seguito dell’articolo lo dice chiaramente, neppure come neutralismo. Al contrario, per assicurare ‘la pace e la giustizia fra le Nazioni’, l’Italia dichiara la sua disponibilità a limitazioni di sovranità e a promuovere e favorire ‘le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo’. Naturalmente, la Costituzione riconosce che lo Stato italiano mantiene il diritto di difendere, anche con il ricorso alle armi, il suo territorio e la sua popolazione. Tuttavia, qualsiasi reazione militare deve essere proporzionata alla sfida e non deve sfociare in nessuna conquista territoriale. Coerentemente, neppure le azioni militari condotte sotto l’egida delle organizzazioni internazionali debbono mirare a e tantomeno possono concludersi, per uno o più dei partecipanti, con guadagni territoriali, ai quali l’Italia ha l’obbligo costituzionale e politico di opporsi.

Le limitazioni alla sovranità italiana derivano dall’adesione, deliberata e approvata dal Parlamento, a tutte le organizzazioni internazionali, ma, in particolare, per quello che attiene alla guerra (e alla pace), alla NATO, alle Nazioni Unite e all’Unione Europea. In seguito alla sua adesione, l’Italia si è impegnata a partecipare alle attività decise in ciascuna di quelle sedi, quindi anche ad attività che implichino il ricorso ad azioni di natura militare. Talvolta, queste azioni sono problematiche poiché in non pochi casi vanno contro il principio di non ingerenza negli affari interni di uno o più Stati. Il principio guida di questa giustificabile ingerenza è dato dai rischi e dai pericoli ai quali sono effettivamente esposte le popolazioni di quegli Stati ovvero una parte di loro. Le missioni militari ‘umanitarie’, a favore delle popolazioni, alle quali l’Italia ha il dovere di prendere parte, sono quelle deliberate nelle organizzazioni internazionali, in modo speciale, l’ONU e, quando è minacciata l’indipendenza e l’integrità di uno Stato membro, la NATO. Possono avere una durata indefinita nella misura in cui servono ad alcuni popoli e ad alcuni governanti per costruire le strutture statali indispensabili alla difesa contro pericoli esterni e alla creazione di ordine politico interno rispettoso dei diritti civili e politici dei cittadini.

Nel secondo dopoguerra, in particolare, dopo la caduta del muro di Berlino, si sono moltiplicate le occasioni, da un lato, di oppressione delle loro popolazioni ad opera dei rispettivi dittatori, dall’altro di vere e proprie guerre civili, soprattutto nel Medio-Oriente e in Africa, ma anche nei Balcani. Seppure con qualche controversia interna, tutte le volte che l’Italia è stata chiamata in causa ha risposto positivamente in applicazione degli impegni e dei compiti derivanti dalla sua appartenenza all’ONU e alla NATO. Naturalmente, la valutazione della efficacia, dei costi e degli effetti, e della costituzionalità dell’attività delle missioni militari italiane all’estero e della eventuale necessità di una loro prosecuzione rimane nelle mani del Parlamento.

Che la pace, duratura e giusta, che non significa mai puramente e semplicemente assenza di conflitto armato, possa essere conseguita soltanto fra regimi democratici, lo scrisse memorabilmente il grande filosofo illuminista prussiano Immanuel Kant nel suo breve saggio Per la pace perpetua (1795). In un certo senso, questo obiettivo di pace è stato perseguito anche dall’Unione Europea delle cui organizzazioni l’Italia ha fatto parte fin dall’inizio (1949). Nel 2012 all’Unione Europea è stato attribuito il Premio Nobel per la pace con la motivazione di avere effettuato grandi ‘progressi nella pace e nella riconciliazione’ e per avere garantito ‘la democrazia e i diritti umani’ nel suo ambito che è venuto allargandosi nel corso del tempo fino a ricomprendere ventotto Stati-membri. A sua volta ognuno degli Stati-membri dell’Unione Europea deve avere e mantenere un ordinamento interno democratico e deve accettare le limitazioni di sovranità che conseguono alla sua adesione all’Unione. Preveggente, l’art. 11 della Costituzione mette la parola fine al nazionalismo, non soltanto bellico, ma autarchico e isolazionista, aprendo la strada a molteplici forme di collaborazione internazionale e sovranazionale che costituiscono la migliore modalità per garantire la pace nella giustizia sociale.

Pubblicato il 18 novembre 2015

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OLTRE SESSANTA E LI DIMOSTRA, di Teodoro Klitsche de la Grange

SESSANTA E LI DIMOSTRA

  1. Il 14 agosto 1941 ad Argentia nella baia di Placentia (Terranova) si incontravano il premier Winston S. Churchill e il presidente Franklin D. Roosevelt. Al termine dei lavori ritennero opportuno render noti taluni principi comuni della politica dei rispettivi Paesi, sui quali essi fondavano le loro speranze per un “più felice avvenire del mondo”. In particolare il terzo principio era il seguente “Essi rispettano il diritto di tutti i popoli a scegliersi la forma di governo sotto la quale intendono vivere; e desiderano vedere restituiti i diritti sovrani di autogoverno a coloro che ne sono stati privati con la forza”.

Tale dichiarazione è evidentemente rispettosa dell’autodeterminazione e della sovranità dei popoli: si riconosce il diritto a scegliersi la forma di governo; si auspica che tale diritto possa esercitarsi anche da coloro cui è stato sottratto con la forza.

Il tono muta decisamente con le dichiarazioni della conferenza di Yalta, nel febbraio 1945, pochi mesi prima della fine della guerra mondiale, quando buona parte dell’Europa già occupata dalla Germania era già stata liberata dagli alleati. Nella Dichiarazione sull’Europa liberata, (uno degli accordi raggiunti a Yalta) infatti si può leggere: “Il Premier dell’URSS, il Primo Ministro del Regno Unito e il Presidente degli Stati Uniti d’America si sono tra loro consultati nel comune interesse dei popoli dei propri rispettivi Paesi e di quelli delle Nazioni dell’Europa liberata. Durante il temporaneo periodo di instabilità che attraverserà l’Europa liberata essi dichiarano di aver congiuntamente deciso di uniformare le politiche dei loro tre Governi al fine di dare assistenza ai popoli liberati dalla dominazione della Germania Nazista e ai popoli degli stati satellite dell’Asse Europeo al fine di risolvere con strumenti democratici i loro pressanti problemi politici ed economici.

Il ristabilimento dell’ordine in Europa e la ricostruzione della vita economica nazionale dovranno essere raggiunti attraverso processi che permettano ai popoli liberati di distruggere ogni traccia di Nazismo e Fascismo e di creare proprie istituzioni democratiche. Questo principio contenuto nella Carta Atlantica, sancisce il diritto di tutti i popoli di scegliere liberamente la forma di governo che desiderano e riafferma la necessità di ripristinare il diritto alla sovranità per quelli che ne sono stati privati con la forza.

Per creare le condizioni nelle quali i popoli liberati possano esercitare questi diritti, i tre Governi, qualora fosse necessario, offriranno assistenza per:… Istituire delle autorità di governo provvisorie largamente rappresentative di tutti i settori democratici della società civile che si impegnino nel più breve tempo possibile e attraverso libere elezioni, a costituire dei Governi che siano espressione della volontà popolare;

Nel momento in cui, secondo l’opinione congiunta dei tre Governi, le condizioni di uno degli Stati Europei liberati o di quelli satelliti dell’Asse Europeo imponessero di intervenire, i suddetti tre Governi si consulteranno immediatamente tra loro per stabilire le misure necessarie da adottare e adempiere così agli obblighi previsti da questa dichiarazione.

Con tale dichiarazione intendiamo riaffermare la nostra fiducia nei principi contenuti nella Carta Atlantica, il nostro impegno a rispettare quanto stabilito nella Dichiarazione delle Nazioni Unite e la nostra determinazione a costruire in collaborazione con le Nazioni amanti della pace, un mondo in cui siano garantite legalità, sicurezza, libertà e benessere”; seguono le disposizioni per lo smembramento della Germania, sui risarcimenti, sui criminali di guerra, su alcuni Stati europei e sul Giappone. Di particolare interesse è una delle disposizioni relativa alle future elezioni in Polonia “Il Governo Provvisorio di Unità Nazionale dovrà impegnarsi ad indire al più presto libere elezioni a suffragio universale e a scrutinio segreto. Per tali elezioni tutti i Partiti democratici e anti-Nazisti avranno diritto a presentare liste di propri candidati”.

  1. Il significato di tale Dichiarazione, in cui si sottolinea la continuità rispetto alla Carta Atlantica, è in effetti assai differente e, in molti punti, opposto a quella[1].

In primo luogo, e seguendo l’ordine della Dichiarazione, i (prossimi) vincitori si presentano come curatori-interpreti dell’interesse dei popoli dell’Europa liberata. Nella realtà politica – e del rapporto politico – chi cura un interesse altrui è il protettore del tutelato e, per il “rapporto hobbesiano”, ha diritto all’obbedienza. Una enunciazione apparentemente “neutra” e benevola sottende ed esprime una realtà inquietante. Che si rivela già nel periodo successivo dove ai popoli europei si promette assistenza per risolvere con “strumenti democratici” i loro problemi: il che significa negarla a chi ne persegue la soluzione con strumenti – a giudizio delle potenze vincitrici – non democratici. Rafforzato ulteriormente nel passo seguente dove si delineano i caratteri e funzioni del “nuovo ordine”: distruggere il Nazismo e creare istituzioni democratiche. Il che è palesemente  in contrasto con quanto segue, che richiama la Carta Atlantica nel diritto dei popoli a scegliere liberamente la forma di governo “che desiderano” e ripristinare “il diritto alla sovranità”. Ma è chiaro che l’uno e l’altro diritto (che sono poi lo stesso, enunciato sotto diverse angolazioni, come scriveva tra i tanti Orlando) ha un senso solo se assoluto  e illimitato: a farne qualcosa di relativo, e limitato, lo si distrugge[2]. Per cui è chiaro che la “sovranità” limitata non è un’invenzione di Breznev all’epoca dell’invasione della Cecoslovacchia, ma aveva un autorevole precedente (e supporto) in questa dichiarazione, dove la libertà di darsi un ordinamento era limitata nei confini disegnati (e imposti) dalle potenze vincitrici.

Le quali si riservavano un diritto d’intervento, ovviamente generico, e illimitato nei presupposti e nel contenuto dei provvedimenti (le misure necessarie); diritto presentato come adempimento “degli obblighi previsti da  questa dichiarazione”: cioè un obbligo a carico di chi l’aveva costituito (un’auto-obbligazione). In realtà quella disposizione delinea la competenza a decidere dello “stato d’eccezione” all’interno degli Stati, ed è così un’attribuzione di sovranità alle potenze vincitrici. Peraltro la dichiarazione sulla Polonia, a meglio chiarire il concetto, prescrive subito che i partiti non democratici e non antinazisti non hanno diritto a presentare liste di candidati. Con queste premesse in pochi anni l’Europa (e non solo) fu tutto un fiorire di costituzioni: Italia (1948), Cecoslovacchia (1948), Bulgaria, (1947) Polonia (1952), Iugoslavia (1946), Albania (1946), Germania occidentale (1949), (e così via).

Anche la non sconfitta Francia sentì la necessità di darsene una, per la verità per motivi più “interni” che per le pressioni dei (veri) vincitori. Questa fioritura costituzionale, ovviamente, aveva meno a che fare con i principi ideali che connotano il potere costituente – in primis di costituire l’espressione della volontà della nazione – che con la necessità di adeguarsi ai nuovi rapporti di forza internazionali (più che interni).

Così capitò, che mentre le nazioni liberate dagli anglosassoni si dettero costituzioni – nella varietà istituzionale – tutte riconducibili ai “tipi” dello Stato borghese e connotate da sistemi pluripartitici, quelle al di là della cortina di ferro, si dettero carte da “socialismo   reale” e sistemi partitici fondati sull’egemonia del partito comunista. Cioè istituzioni, che lassallianamente, riproducevano il colore delle divise degli occupanti. Qualcuno, affezionato all’idea che a far le costituzioni siano (o debbano essere) i giuristi (i quali hanno la più circoscritta funzione di tradurre in regole quei rapporti di forza), ne sottolinea la diversità e varietà delle norme relative. Ma è un’obiezione che conferma la fecondità della distinzione schmittiana tra Costituzione e leggi costituzionali: la prima comprende le decisioni fondamentali e non può non esserci, perché altrimenti lo Stato non esisterebbe e/o non avrebbe capacità di agire (il che è come non esistere); mentre le altre sono per così dire, anche se importanti, accidentali: possono non esserci, o essere le più diverse. Ciò perché, come spiegava Lassalle non sono quella “forza attiva decisiva, tale da incidere su tutte le leggi che vengono emanate … in modo che esse in una certa misura diventano necessariamente così come sono e non diversamente”.

La variabilità di queste e l’invarianza e la “costanza” di quella sono conseguenze del diverso carattere. L’una che attiene alla sostanza e all’essenza del “politico”: comando, obbedienza, pubblico, privato, amico, nemico, in quanto presupposti fondamentali dell’esistenza e dell’organizzazione politica. Le altre, le regole, più o meno importanti ma comunque poco o punto incidenti sul “politico”.

  1. Quando si afferma che la Costituzione italiana è nata dalla Resistenza, si fa un’affermazione vera in astratto, ma errata in concreto.

Che sia vera in astratto lo prova la storia: quasi tutte le “nuove” costituzioni nascono da una crisi, per lo più bellica o in rapporto con una guerra. Non è vero che ogni guerra comporta una nuova costituzione; ma è vero l’inverso che (quasi) ogni costituzione nuova è il risultato e la conseguenza di una guerra.

Quando poi la guerra è civile la percentuale di “innovazione” costituzionale è quasi pari alla totalità. E quindi la resistenza, come qualsiasi guerra civile, avrebbe prodotto la nuova costituzione. Tuttavia, è errato pensare che la causa determinante della Costituzione vigente sia stata la resistenza. Perché in definitiva, vale sempre la tesi di Lassalle, il quale  afferma con dovizia di argomenti che gli “effettivi rapporti di potere che sussistono in ogni società sono quella forza effettivamente in vigore che determina tutte le leggi e le istituzioni giuridiche di questa società, cosicchè queste ultime essenzialmente non possono essere diverse da come sono”. “Questi effettivi rapporti di forza li si butta su un foglio di carta, si dà loro un’espressione scritta e, se ora sono stati buttati giù, essi non solo sono rapporti di forza effettivi, ma sono anche diventati, ora, diritto, istituzioni giuridiche, e chi vi oppone resistenza viene punito!”[3] .

E in realtà nel ’45 l’Italia era stata liberata ed era occupata da quasi un milione di armatissimi soldati americani e inglesi (e alleati); di fronte ai quali il potere delle Forze armate nazionali e di qualche decina di migliaia di partigiani era ben piccola cosa. Vale a proposito, occorre ripeterlo, il detto di Lassalle “un re cui l’esercito obbedisce e i cannoni – questo è un pezzo di costituzione”; e anche di potere costituente.

Per cui il fatto che le potenze vincitrici si fossero riservate di intervenire e che tutti quei soldati fossero delle Potenze anglosassoni significava non solo che il potere costituente sarebbe stato esercitato, ma che lo sarebbe stato in un certo senso. Cosa che fu colta, tra gli altri, da un politico realista e acuto come Togliatti: chi non lo capì fece la fine della Grecia, dilaniata da una seconda guerra civile, in cui, ovviamente, la fazione monarchico-legittimista vittoriosa era appoggiata dagli Anglosassoni.

  1. Fino alla fine del secolo XVIII ci si limitava a chiudere la guerra con un trattato che “registrasse” i nuovi rapporti di forza lasciando inalterato l’ordinamento del vinto; dopo la rivoluzione francese è invalso spesso d’imporre al vinto anche l’ordinamento. E con ciò di cambiare la propria costituzione con una nuova, frutto d’imposizione del vincitore. Già così s’esprimeva la mozione La Revellièrè-Lepeaux votata dalla Convenzione nel dicembre 1792, e con la quale s’iniziava, anche teoricamente e programmaticamente, la guerra civile internazionale, che vedeva contrapposti più che Stati contro Stati, borghesi contro aristocratici, giacobini contro cattolici, chaumiéres contro chateaux. Il cui esito comportava la rifondazione dell’ordine concreto del vinto con sostituzione dei governanti, delle istituzioni, delle norme con i modelli imposti dal vincitore. E di cui furono applicazioni le “repubbliche-sorelle” tra cui la nostra cisalpina (e le effimere romana e napoletana). Tale prassi, per la verità contenuta nel periodo post-napoleonico, ha ripreso vigore nel secolo scorso. In modo appena cennato dopo la prima guerra mondiale; del tutto apertamente a conclusione della seconda quando l’esercizio del potere costituente delle nazioni europee liberate e/o sconfitte fu, per così dire, sollecitato dai vincitori. In precedenza la prassi era l’inverso. Un giurista come Vattel nel Droit de gens (1758) già scriveva che “La nazione è nel pieno diritto di formare da se la propria costituzione, di mantenerla, di perfezionarla, e di regolare secondo la propria volontà tutto ciò che concerne il governo”. Questo era in linea con il pensiero pre-rivoluzionario, e, agli esordi, anche di quello rivoluzionario. Per Rousseau la costituzione è il prodotto della volontà della nazione. Polemizzando con le tesi dei privilegiati Sieyès partiva dall’affermazione “La nazione esiste prima di tutto, è all’origine di tutto. La sua volontà è sempre legale: è la legge stessa”: premesso ciò era impossibile che fosse legata da disposizioni preesistenti, anche se costituzionali “Una nazione è indipendente da qualsiasi forma ed è sufficiente che la sua volontà appaia, perché ogni diritto positivo cessi davanti ad essa come davanti alla sorgente e al signore supremo di ogni diritto positivo”. Nella Costituzione giacobina (quella mai applicata, perché chiusa nell’arca di legno di cedro in attesa della fine della guerra) il principio era inserito nella dichiarazione dei diritti: l’art. 28 proclamava solennemente che “un popolo ha sempre il diritto di rivedere, di riformare e di cambiare la propria Costituzione. Una generazione non può assoggettare alle sue leggi le generazioni future” ma la prassi delle conquiste rivoluzionarie e poi napoleoniche era l’inverso: gli Stati-satelliti si davano degli ordinamenti ricalcati su quello francese. Ciò che era ovvio per la Nazione francese, non lo era per le altre. Kant, nel trattare del nemico ingiusto, scrive che il diritto dei vincitori non può arrivare “fino a dividersi tra loro il territorio di quello Stato e a fare per così dire sparire uno Stato dalla terra, perché ciò sarebbe una vera ingiustizia verso il popolo che non può perdere il suo diritto originario a formare una comunità; si può invece imporgli una nuova costituzione, che per la sua natura reprima la tendenza verso la guerra”[4]; ma pur ammettendo il diritto ad imporre la costituzione, nulla esplicitamente afferma sul potere costituente[5].

In effetti, nel pensiero di Kant sembra che ciò non possa escludersi: quando, scrive, ad esempio, “deve pur essere possibile al sovrano cambiare la costituzione esistente”[6]; è chiaro che o ha questo diritto o non è più sovrano. Il che è contrario alla concezione kantiana. Anche il passo sopra citato, che il popolo “non può perdere il… diritto…” significa, implicitamente, che conserva il potere costituente. Quindi se pure è, secondo il filosofo di Königsberg, possibile imporre una costituzione al nemico ingiusto, non è lecito impedirgli di cambiarla e sottrarre o limitarne, così, il potere costituente.

  1. Nella realtà la costituzione vigente è il risultato di quella sollecitazione, esternata negli accordi di Yalta, ben sostenuta dall’argomento-principe della sconfitta militare e dalla conseguenziale occupazione.

Si potrebbe obiettare che il procedimento democratico seguito – e l’alta partecipazione alle elezioni della Costituente – hanno attenuato il carattere d’imposizione e legittimato, in certa misura, la Costituzione che ne è conseguita. Anzi si potrebbe aggiungere che la procedura relativa – conclusasi politicamente anche se non giuridicamente, con l’elezione, il 18 aprile 1948 del primo Parlamento – abbia costituito un esempio di applicazione del consiglio di Machiavelli che regola della decisione politica è di scegliere quella che presenta minori inconvenienti[7].

E sicuramente dato il disastro militare e l’occupazione, non esistevano le condizioni per sfuggire (forse per attenuarla sì, a seguire il discorso di V. E. Orlando, sopra ricordato) alla logica degli accordi di Yalta.

  1. Ma in tale materia è importante essere consapevoli che certe scelte sono state in gran parte frutto di necessità (e di imposizione) e non prenderle per quelle che, a una visione giuridica (peraltro parziale e riduttiva), appaiono come scelte (ottime) del “popolo sovrano” il quale, come scriveva Massimo Severo Giamini, è sovrano solo nelle canzonette; e, in quel frangente, forse neppure in quelle. La sovranità implica libertà di scelta: quella non vi era né in diritto – limitata com’era dalle clausole dell’armistizio e del Trattato di pace – e quel che più conta era inesistente di fatto per la sconfitta e l’occupazione militare. Per cui alla Costituzione del ’48, ed alla relativa decisione si può applicare il detto romano per la volontà negli atti annullabili: che, il popolo italiano coactus tamen voluit.

Se quindi la madre della Costituzione fu l’Assemblea Costituente, i padri ne furono i vincitori della Seconda guerra mondiale. Ma se è vero che, a seguir Kant, al nemico ingiusto (e vinto) è consentito imporre la Costituzione, non lo è pretendere (meno ancora consentire) che quella Costituzione, nata in circostanze sfortunate, divenga come le tavole mosaiche, immodificabile come se fosse stata data da Dio, cosa non richiesta neppure da gran parte dei teologi cristiani. Infatti secondo la teologia tomista il potere costituente, la possibilità di darsi determinate forme di Stato e di governo compete al popolo: non est enim potestas nisi a Deo, cui deve aggiungersi per popolum[8].

Per cui, a cercare di comprendere perché sia vista per l’appunto, come il Decalogo la spiegazione può essere data in termini sociologici, richiamandosi a quella concezione di Max Weber per cui al mantenimento di certe tradizioni “possono connettersi degli interessi materiali: allorchè ad esempio in Cina si cercò di cambiare certe vie di trasporto o di passare a mezzi o vie di trasporto più razionali, venne minacciato l’introito che certi funzionari ricavavano dal pedaggio”[9]; ovvero quella ancora più cruda e demistificante di Pareto, per cui certi tipi di argomentazione sono riconducibili a quella classe di residui che chiamò della persistenza degli aggregati, ovvero nella inerzia e resistenza all’innovazione manifestate dai rapporti sociali in atto, che tendono a perpetuarsi nelle stesse forme, regole, relazioni (e fin quando possibile, persone).

Giacché le situazioni e relative decisione politiche, tra cui la normazione costituzionale, sono frutto di certi rapporti di forza (e di potere), ne producono e riproducono di compatibili; tra cui personale politico selezionato sulla base di quelli, è chiaro che sia a questi sgradito un ri-esercizio del potere costituente che metterebbe in discussione quei rapporti, e la stessa classe politica che ne è stata riprrodotta plasmata. La quale, pertanto, si oppone in ogni modo a qualsiasi cambiamento sostanziale della costituzione. Tra gli argomenti – le derivazioni all’uopo costruite, anche al fine di suscitare la fede nella propria legittimità – c’è di averne ricondotta integralmente la genesi alla lotta ed alla volontà del popolo italiano. Che è, una mezza verità. Purtroppo come tutte le mezze verità  ha l’inconveniente di nascondere una mezza menzogna (se non una menzogna tutta intera); e quello, ancora più pericoloso, di costituire un ostacolo ad una piena consapevolezza politica. Attribuire la costituzione ad una scelta (tutta) propria, occultare la parte nella genesi della stessa svolta dagli alleati, prendere la situazione politica dal primo dopoguerra e le scelte conseguenziali come un criterio di valutazione … per secoli, significa, come scriveva Croce, raccontar favole d’orchi ai bimbi. Nella specie, agli italiani, che, anche per questo, non assumono piena consapevolezza politica. E questa, in politica, significa se non l’impotenza, una mezza potenza, una ridotta attitudine a sviluppare le proprie potenzialità. Una sorta di  emasculazione volontaria .

  1. Che questo sarebbe stato l’esito della situazione e dell’ordine nato alla fine della seconda guerra mondiale era chiaro a qualcuno, tra cui Vittorio Emanuele Orlando che già lo prevedeva nel discorso, sopra citato, contro il Trattato di pace.

La cosa che più colpisce del discorso dell’anziano statista è come stigmatizza la coniugazione tra buone intenzioni (propositi) quali lo sviluppo della democrazia, la repressione del fascismo, la tutela dei “diritti democratici” del popolo, oltre che naturalmente di quelli umani contenuti nelle clausole del Trattato da un lato, e le conseguenti limitazioni e controlli sulla sovranità e sull’esercizio dei massimi poteri dello Stato, dall’altro. Diceva Orlando “Ho detto che questo Trattato toglie all’Italia l’indipendenza che non sopporta altri limiti che non siano comuni a tutti gli altri Stati sovrani. Or bene, approvando questo Trattato, voi approvate un articolo 15,…”[10] e prosegue “Questo articolo si collega con quella educazione politica di cui sembra che abbisogni l’Italia, e cioè la Nazione del mondo che arrivò per la prima all’idea di Stato, e l’apprese a tutti i popoli civili. Dovevamo proprio noi ricevere lezioni di tal genere! E meno male se fosse soltanto un corso di lezioni: ma si tratta di un umiliante limite alla nostra sovranità[11]; quanto all’art. 17 che imponeva di vietare la rinascita delle organizzazioni fasciste, sosteneva: “Non è già, dunque che l’art. 17 mi dispiaccia per sé stesso, ma mi ripugna come un’offesa intollerabile alla sovranità del nostro Stato. Qualunque atto di Governo può prestarsi ad una interpretazione che dia luogo alla accusa della violazione dell’art. 17. Intanto tutte le espressioni in esso usate sono elastiche, atte a favorire ogni punto di vista soggettivo. Una organizzazione dei così detti giovani esploratori potrà essere considerata come militarizzata”[12]. E così prosegue, ricordando l’iniquità delle clausole sul disarmo, sulle limitazioni alla ricerca che possa avere applicazioni militari “ma chi può dire  e sino a qual punto una scoperta in qualsiasi campo possa avere applicazioni militari? In conclusione anche i gabinetti delle nostre Università potrebbero essere assoggettati  ad un controllo, capace di impedire il proseguimento di uno studio scientifico!”[13]. Per cui conclude su questo punto: “l’indipendenza sovrana del nostro Stato viene dunque meno formalmente, cioè come diritto”[14] (oltre che di fatto come espone nel prosieguo). Orlando anticipava così l’opposizione ancora oggi ripresentantesi con frequenza tra tutela di certi “diritti” universali (o trans-nazionali) e integrità della sovranità e indipendenze nazionali. Lo Stato che assume la funzione di tutela di certi diritti, esercita un’influenza interna allo Stato “tutelato”. Così nella tradizionale “impermeabilità” tra interno ed esterno allo Stato si aprono falle, probabilmente destinate ad ampliarsi.

L’altra (principale) preoccupazione  di Orlando era la fragilità dell’assetto politico (e costituzionale in fieri) dell’Italia, incrementata dall’attitudine “psicologica” italiana ad accondiscendere a pretese esterne. Così distinguendo tra Italia e Francia afferma “Ma egli è che una vera superiorità alla Francia su di noi può riconoscersi nella fierezza dei suoi rappresentanti, per cui l’ipotesi di una Francia  come grande Potenza fu ed è sempre una pregiudiziale che si deve ammettere se si vuole conversare con un francese”[15], mentre “nei rapporti con l’estero noi ci dobbiamo sempre precipitare; noi sentiamo sempre l’urgente bisogno di dar prova al mondo che siamo dei ragazzi traviati, i quali avendo demeritato e non bastando la tremenda espiazione sofferta, ammettono la loro indegnità e non aspettano altro di meglio che di riabilitarsi e essere ripresi in grazia[16]. Per cui concludeva l’orazione con la ben nota invettiva “Questi sono voti di cui si risponde dinanzi alle generazioni future: si risponde nei secoli di queste abiezioni fatte per cupidigia di servilità[17]. Ansia condivisa da Benedetto Croce, il quale nel discorso contro il Trattato di pace (pronunciato all’Assemblea costituente il 24 luglio 1947) diceva “Il governo italiano certamente non si opporrà all’esecuzione del dettato; se sarà necessario, coi suoi decreti o con qualche suo singolo provvedimento legislativo, la seconderà docilmente, il che non importa approvazione, considerato che anche i condannati a morte sogliono secondare docilmente nei suoi gesti il carnefice che li mette a morte. Ma approvazione, no! Non si può costringere il popolo italiano a dichiarare che è bella una cosa che esso sente come brutta e questo con l’intento di umiliarlo e togliergli il rispetto di sé stesso, che è indispensabile ad un popolo come a un individuo, e che solo lo preserva dall’abiezione e dalla corruttela[18]; e proseguiva “coloro che questi tempi chiameranno antichi, le generazioni future dell’Italia che non muore, i nipoti e pronipoti ci terranno responsabili e rimprovereranno la generazione nostra di aver lasciato vituperare e avvilire e inginocchiare la nostra comune Madre a ricevere rimessamente un iniquo castigo;… ma vi dirò quel che è più grave, che le future generazioni potranno sentire in se stesse la durevole diminuzione che, l’avvilimento, da noi consentito, ha prodotto nella tempra italiana, fiaccandola”.

In ambedue i vecchi patrioti era evidente che quell’approvazione era il primo passo verso una capitis deminutio dell’indipendenza italiana; riecheggia in entrambi lo sferzante giudizio di Gobetti, che Mussolini non aveva tempra di tiranno, ma gli italiani avevano ben animo di servi.

  1. Il secondo “momento” di questa “rieducazione” era la Costituzione: pur nelle buone intenzioni, di chi l’aveva redatta, e nel pregevole tentativo – particolarmente riuscito nella prima parte – di coniugare l’impianto liberal-democratico con il c.d. “Stato sociale”, la repubblica parlamentare e regionale organizzata dalla seconda parte della Carta, era già obsoleta al momento di entrare in vigore. Scriveva Hauriou a proposito del “prototipo”di quella italiana, cioè la Terza repubblica francese “al momento della redazione della nostra Costituzione del 1875, non si era mai vista al mondo una Repubblica parlamentare, e fu una grande novità”. E ne attribuiva la durata a diversi fattori, istituzionali: d’essere il “giusto mezzo” tra dittatura dell’assemblea e quella dell’esecutivo; di perpetuare il governo delle assemblee, e con esso l’oligarchia parlamentare, pur svolgendo la funzione d’integrazione politica di altri strati della popolazione; ma anche sociali, costituendo un compromesso tra borghesia (vie bourgeoise) e “proletariato” (vie de travail). Tuttavia ne intravedeva già negli anni ’20 del secolo scorso, il tramonto[19]; come d’altra parte altri giuristi francesi. Cosa che avvenne puntualmente nel 1958, perché la repubblica parlamentare aveva esaurito la propria funzione, così acutamente esposta da Hauriou, e non era più adatta ai tempi nuovi, che erano quelli, a un dipresso, in cui l’Italia adottava questa “formula” politica e istituzionale. In Francia, dopo poco, dismessa.

La decisione italiana per la Repubblica parlamentare fu determinata da più motivi.

La ripulsa per il governo “forte” fascista, che fece preferire tra le tante forme di governo quella più “debole” possibile; il ricordo (positivo) del parlamentarismo liberale dello Statuto, cui però erano tolti proprio i principali fattori di stabilità e di governabilità, cioè la monarchia e il sistema elettorale maggioritario; la necessità di garantire un assetto policratico dei poteri pubblici finalizzato alla co-esistenza di partiti ideologicamente radicati quanto distanti; la mancata – o insufficiente – percezione dell’evoluzione economico-sociale dello Stato e delLa società moderna.

Tutte ragioni di carattere (e genesi) essenzialmente e in grande prevalenza “interno” ed “endogeno”; tuttavia alcune in (evidente) accordo col modello delineato (e imposto) a Yalta, specificato dall’occupazione militare anglosassone.

  1. Le condizioni del secondo dopoguerra sono cambiate, fino alla cesura rappresentata dal crollo del comunismo sovietico e dalla fine della guerra fredda; seguita dalla dissoluzione dell’URSS; speculare questa alla divisione, al termine della seconda guerra mondiale, della Germania – ora riunificata all’esito della guerra fredda – e dell’Impero giapponese.

Le conseguenze, anche in Italia, sono state notevoli; la caduta del sistema partitico della prima repubblica – salvo il PCI “graziato”; la fine della conventio ad excludendum nei confronti della destra; la sostituzione della legge elettorale proporzionale con sistemi (sia per il Parlamento che per gli enti territoriali) maggioritari. Buona parte della costituzione materiale è stata cambiata. Ma quella formale – se si eccettua l’innovazione al titolo V (cioè della parte “periferica” e non solo in senso territoriale della carta costituzionale) e qualche altra piccola modifica (come all’art. 11) è rimasto inalterato col suo impianto di repubblica parlamentare e policratica.

Permane quindi il “tabù” dell’intangibilità della parte essenziale della Costituzione, malgrado l’evidente inadeguatezza al governo di una società e uno Stato moderno e, più ancora, il venir meno della situazione politica e delle condizioni politiche e sociali che ne giustificavano, in una certa misura, l’adozione.

  1. Neppure è spiegabile questa durata con un interesse delle potenze vincitrici a “determinare” l’esercizio (e il prodotto) del potere costituente. Questo per (almeno) due ragioni. In primo luogo perché, come accennato, la situazione politica è distante anni-luce da quella del dopoguerra. Pensare che gli USA abbiano un interesse rilevante che l’Italia sia una repubblica presidenziale o parlamentare o una monarchia costituzionale o quant’altro appare difficile: crollato il comunismo è venuta meno anche la funzione dell’Italia quale paese di frontiera tra l’Est e l’Ovest.

Dall’altro perché la dissoluzione del comunismo ha eliminato il nemico anche sul piano interno. Di qui l’indifferenza – o lo scarso interesse – che la dialettica politica italiana e i modi in cui si svolge, possono oggi suscitare all’estero.

Piuttosto l’attaccamento a quella Costituzione si può spiegare con la funzione del mito (Sorel), dato che la Resistenza ha avuto la funzione di mito “fondante” della Repubblica, e la Costituzione ne è – secondo questa concezione – la figlia unigenita.

Ma più ancora ci può soccorrere, come sempre cennato, Pareto. Questi divide del Trattato i residui (cioè le azioni non logiche e gli istinti e sentimenti che le determinano) in sei classi; una delle quali è composta dai residui che si esprimono nella tendenza alla persistenza degli aggregati. Gli è che, applicando anche all’inverso la formula di Lassalle, la Costituzione formale, non solo garantisce i rapporti di forza che l’hanno determinata, ma li cristallizza e tende a riprodurli. Da cui consegue la resistenza al cambiamento di quelli che dalla stessa sono favoriti e garantiti, anche se la situazione – e le esigenze – sono sostanzialmente cambiate. Ed il fenomeno si è presentato tante volte nella storia: dalla crisi di Roma repubblicana nel I secolo a.C., a quella dell’Ancien régime (e del potere dei ceti privilegiati), già in gran parte demolito dall’assolutismo borbonico. Nihil sub sole novi.

L’importante è ricordare, e Pareto è qui quanto mai utile, che le ragioni esternate sono derivazioni di quei residui. E più ancora che dietro quelle ci sono concreti rapporti di forza che come tutte le relazioni sociali crescono, si mantengono e poi decadono, come mutano le situazioni reali che li hanno determinati; per cui è compito degli uomini, di rimodellare la nuova forma politica; com’è stata opera degli uomini aver realizzato quella sorpassata. Come scriveva Miglio la Costituzione non è la camicia di Nesso in cui il popolo italiano deve essere avvolto in eterno.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Si riprende la tesi esposta da Jeronimo Molina Cano in “La Costituzione come colpo di Stato” in Behemoth n. 38 luglio-dicembre 2005 p. 5 ss.

[2] Diceva V. E. Orlando nel vibrante discorso contro il Trattato di pace dell’Italia con i vincitori della Seconda guerra mondiale pronunciato nell’Assemblea Costituente il 30 luglio 1947 “anche grammaticalmente sovrano è un superlativo: se se ne fa un comparativo, lo si annulla” v. in Behemoth n. 3 luglio-dicembre 1987 p. 37.

[3] v. Über verfassungswesen trad. it. in Behemoth n. 20 luglio-dicembre 1996 p. 8

[4] Methaphisik der Sitten § 60.

[5] Anzi Schmitt la interpreta nel senso che “non intende ammettere… che un popolo fosse privato del potere costituente” v. Der nomos der erde, trad. it. Milano 1991, p. 205.

[6] Op. cit. § 52.

[7] V. Discorsi, lib. I, VI.

[8] Sul punto si richiamano i giuristi francesi citati nelle note del mio scritto Diritto divino provvidenziale e dottrina dello Stato borghese in Behemoth n. 41 gennaio-giugno 2007 p. 25 ss.

[9] M. Weber, Storia economica, trad. it. rist. Roma 2007, p. 261.

[10] Behemoth cit., p. 35.

[11] Ivi p. 35-36.

[12] Ivi p. 36.

[13] Ivi p. 36.

[14] Ivi p. 37.

[15] Ivi cit., p. 32.

[16] Op. loc. cit..

[17] Ivi cit. p. 40.

[18] V. in Palomar n. 18, p. 48.

[19] V. “Ce régime pourra durer tant que les nouvelles couches de la population garderont l’ambition de la vie bourgeoise, et il montre des qualités précieuses pour les embourgeoiser successivement sous le couvert des étiquettes politiques les plus variées. Mais le jour où la distinction de la vie bourgeoise et de la vie de travail aura disparu, il devra probablement s’effacer devant les institutions faisant une place plus large au gouvernement direct ” ; Précis de droit constitutionnel Paris 1929, p. 341 – v. anche p. 346.

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