POLARIZZAZIONI, di Pierluigi Fagan
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Per la prima volta nella storia dei finanziamenti nazionali nessun PRIN (Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale) è stato finanziato per l’area filosofica. I progetti di quest’area rappresentavano il 10% dei progetti presentati, ma sono stati bocciati tutti.
Al netto del dispiacere per i mancati finanziamenti, credo che ci si possa compiacere di questo evento almeno per il suo contributo a fare chiarezza.
Si tratta di una scelta che si inquadra perfettamente nell’atmosfera del nuovo pragmatismo emergenziale, che non ha più tanto tempo da perdere con le apparenze.
Dopo tutto, come ha detto il ministro Cingolani, basta studiare quattro volte le guerre puniche. Ci vogliono più conoscenze tecniche.
Questo nuovo “pragmatismo” sta rapidamente dismettendo tutti gli orpelli, tutti i passati omaggi alla Costituzione, ai diritti, alla libertà di pensiero ed espressione, e sta andando rapidamente al cuore del progetto tecnocratico contemporaneo, senza più infingimenti. L’imperativo è la rapidità d’esecuzione previa cancellazione di controlli, pratiche di mediazione, tempi di riflessione.
In questo senso si tratta di un evento chiarificatore, molto meglio della strategia adottata sui finanziamenti alla ricerca a livello europeo, dove vige ancora (ma vediamo per quanto) un altro stile d’azione, quello per cui si finanziano progetti “trendy”. Adesso è il momento del Greenwashing e dunque i finanziamenti alla libera ricerca cadono e cadranno su progetti che si raccomandano per la capacità di sostenere l’attuale narrazione sull’emergenza climatica.
Beninteso, naturalmente non c’è niente di male a svolgere ricerca su questo importante tema.
Il problema – non proprio marginale per la libertà di ricerca – è che il finanziatore stabilisca i temi degni di essere ricercati a monte (e, in effetti, scelga anche le linee di fondo delle tesi che si andranno a testare). Questo qualche problema direi che lo genera, visto che l’agenda del finanziatore è eminentemente politica, mentre quella del ricercatore dovrebbe essere il perseguimento della verità.
In attesa di vedere come verranno valutati in futuro progetti filosofici su “Spinoza e la Piccola Era Glaciale” e “La stufa di Cartesio e il Global Warming“, possiamo apprezzare la chiarezza fatta dalla scelta italiana.
Va detto che l’idea stessa di concepire i finanziamenti, specificamente per aree come quelle afferenti a forme di pensiero critico, nella modalità di pochi grandi finanziamenti, è parte del problema. Questo modello viene promosso come “altamente competitivo”, e il presunto “alto livello della competizione” rende l’esclusione anche di progetti manifestamente meritevoli del tutto normale. Dunque, che i meritevoli, anche gli assai meritevoli, restino fuori è un’idea cui il modello ci abitua.
In questa idea di “alta competizione” c’è qualcosa di profondamente fuorviante. Qui non siamo in una gara di corsa in cui il più veloce arriva primo, o in un incontro di boxe in cui il più forte resta in piedi. Qui siamo in un ambito più simile a un concorso di bellezza, dove si mettono in mostra i propri punti di forza sperando di convincere la giuria. E siccome “la bellezza è negli occhi di chi guarda”, questo modello conferisce alle “giurie” un totale controllo su quali linee di ricerca promuovere. Questo fatto stesso, a prescindere dall’obiettività e buona fede delle giurie che può essere adamantina, limita la libertà di ricerca, in quanto promuove implicitamente un gioco di anticipazione dei desiderata dei giudici. Progetti ambiziosi, fondati, ma “strani” tendono a scomparire per autocensura.
Detto questo, che la filosofia debba riciclarsi in un formato disciplinare “self-contained“, in un campo ben delimitato e dunque “tecnicizzabile”, è qualcosa di promosso e incentivato da tempo. Tuttavia la riflessione filosofica – finché esiste e non sono ottimista sul suo stato di salute – è intrinsecamente refrattaria alla chiusura in un campo.
Con qualche semplificazione, si potrebbe dire che mentre tutte le altre scienze possono di principio (magari malvolentieri) concepirsi come studio di “mezzi”, di “tecniche”, la filosofia perde completamente la sua natura se non è sempre insieme indagine sui “mezzi” e sui “fini”, sui mezzi in rapporto ai fini, sui fini in rapporto ai mezzi. E ogni discussione che chiami in campo i fini tende ad avere carattere olistico, non settoriale.
Ora, dovrebbe essere chiaro a chiunque sia aduso a riflettere sulla politica e sulla storia che, per il potere – chiunque lo gestisca di volta in volta – un sapere relativo ai mezzi è prezioso, perché ti fornisce ulteriore potenza; ma una riflessione aperta sui fini è invece esiziale, perché il potere la propria agenda di fini ce l’ha già e non desidera affatto che sia messa in discussione. Dunque i saperi tecnici sono i benvenuti, ma tutte le forme di riflessione che possono mettere in discussione l’agenda dei fini (forme che comunque, di fatto, possono nascere in qualunque area del sapere) rappresentano un problema.
La filosofia in questo senso, nella misura in cui esiste ancora in forme tradizionali, rappresenta un piccolo scandalo, una sorta di atavismo, il residuo di epoche al tramonto. In filosofia porsi domande intorno all’intero, alla storia e alla società in cui si è collocati, alla propria posizione nel cosmo, e farlo sulla base della critica radicale, del dubbio verso l’opinione maggioritaria, dell’uscita dallo schema pregresso, è precisamente la base, il cuore da cui tutto parte.
Per questo motivo la filosofia – finché esiste e nella misura in cui ancora esiste – esige innanzitutto libertà di pensiero ed espressione, e se c’è una battaglia rispetto a cui nessun filosofo che voglia dirsi tale può arretrare è una battaglia per la libertà di pensiero e di espressione.
Per far capire alla fine di che cosa ne va al momento, è utile riportare un breve passo da l’Avvenire; qui, proprio all’inizio di un articolo in cui si discute della mancata erogazione dei PRIN al settore filosofico, troviamo scritto:
“Qualche maligno attribuisce il risultato negativo a qualche isolato e presenzialista “avversario del Green pass” e all’avversione che può avere suscitato verso la disciplina, ma la comunità filosofica ha reagito con tempestività e con contributi di valore, mostrando al contrario di quanto bisogno vi sia di buone elaborazioni concettuali anche di fronte a un’emergenza sanitaria.”
Traduzione informale:
“Non lo dico io, naturalmente, mai mi permetterei; è solo una voce maligna, però, però, pensateci sopra, non sarà mica che il sostenere tesi eterodosse da parte di qualcuno che si fregia del nome di filosofo (Agamben? Cacciari?) abbia attratto sull’intera comunità filosofica l’ira funesta dei Giudici? No, no, cosa vado mai a pensare! Infatti – e per fortuna, altrimenti chissà cosa sarebbe potuto accadere – c’è stata una reazione pronta che ha riportato la nave sulla giusta rotta.”
Ecco, questa, per chi non lo avesse colto, è una garbata forma di intimidazione, ed è esattamente ciò che si desidera diventi la filosofia – altrimenti poi non ci si lamenti se non verrà finanziata: un amplificatore colto di tesi ortodosse, con bollinatura governativa.
Insomma veniamo lasciati scegliere come morire, se per soffocamento, senza soldi, o per snaturamento, senza critica.
Seguono alcuni dei commenti apparsi su facebook:
È pubblicato in nuova edizione, con postfazione di A. Cecchinato, il saggio di Francesco Calasso del 1954, già all’epoca oggetto di attenzioni diffuse.
La postfazione nota come l’attività scientifica dell’autore con la sua aura di antiformalismo “ha infuso l’esperienza scientifica di Calasso d’una piena fiducia nel valore autoritativo della tradizione, che è stata la vera cifra – come ha insegnato Manlio Bellomo – di una vita condotta per il diritto”.
A distanza di oltre cinquant’anni e malgrado la materia – la storia del diritto – il saggio di Calasso suscita interessi d’attualità.
In primo luogo per la “rinascita” del diritto romano, avvenuta nei primi secoli del passato millennio, in Italia ad opera, in particolare, d’Irnerio e della scuola di Bologna. Lentamente i giuristi del diritto comune, interpretando il corpus juris in una con consuetudini, statuti e (anche) contaminazioni, contribuiscono all’unità giuridica. Ovviamente nei e con i limiti di un sistema non codificato, e le cui fonti non avevano il carattere formale di un’organizzazione che le ponesse in essere e ne garantisse l’applicazione. Caratteri ambedue, ancorché non esclusivi, del (successivo) Stato moderno. Come scrive Calasso, il sistema giuridico è un tutto, un’unità. E il quid che gli da vita è “un’organizzazione cioè nella quale distinguiamo un meccanismo che produce le norme e degli organi che le applicano e ne garantiscono l’osservanza”. Come successe che, malgrado la debolezza dell’organizzazione politica medioevale, avvenisse quella “unificazione”? Fu, scrive l’autore per “un ideale supernazionale: quella monarchia universale che perpetua il nome di Roma”.
Tale tesi ricorda quella di Vittorio Emanuele Orlando che sia fonte di equivoci ed errori “la pretesa di assumere come caratteri assoluti dello Stato e del Diritto, non che dei rapporti intercedenti fra loro, le forme moderne, in cui quelle nozioni han trovato il loro attuale assetto”. E che l’affermarsi di un ordinamento superiore e generale avviene per gradi, onde in relazione alla realizzazione coattiva delle pretese perdura “l’esistenza e continui l’efficacia, anche se ridotta, della forza spettante alle forme anteriori: il diritto pubblico romano dimostra tangibilmente il valore politico e istituzionale che, per lungo tempo dopo la loro trasfusione nello Stato, serbarono la familia, la gens, la curia, la tribus”, scriveva Orlando.
Secondariamente, molti hanno notato, come, a partire dal secolo scorso, ma in particolare dagli ultimi decenni del medesimo, sia in atto il percorso inverso: da un monopolio statale della decisione politica e della forza legittima (la coazione) ci stiamo avviando verso una pluralizzazione normativa (e anche istituzionale): il conferimento di funzioni a organismi internazionali, la progressiva crescente diffusione di Tribunali internazionali (e l’efficacia delle di essi decisioni sul diritto interno), e la stessa legittimazione di guerre e di occupazioni militari attraverso l’appello ai diritti dell’uomo (et alia) e le conseguenti espressioni lessicali che le designano (“operazioni di polizia internazionale”), mostrano il processo in atto. Al quale corrisponde una nuova antitesi politica, prevalente in gran parte del mondo sviluppato: quella tra globalizzatori, cioè sostenitori – per ora – di un diritto (ed un’economia) universale, e sovranisti, cioè partigiani di diritto e scelte economiche particolari (cioè statali).
Come andrà a finire questa contrapposizione è in mente jovis. Anche qua tuttavia la tesi di Calasso che il diritto comune si fondò (e si diffuse) in forza di un’idea universale, di “un fatto spirituale” può indicarci come dal diritto, anzi dall’aspirazione a un diritto, possa nascere l’istituzione.
Teodoro Klitsche de la Grange
PER UNA AUTONOMIA NAZIONALE BISOGNA ROMPERE LA SERVITÙ VOLONTARIA VERSO GLI STATI UNITI D’AMERICA
a cura di Luigi Longo
Propongo la lettura dello scritto Conflitti tra stati e autonomia nazionale. Perchè? di Gianfranco La Grassa apparso su www.conflittiestrategie.it il 12/11/2021.
Premetto che riprenderò il costruendo paradigma del conflitto strategico di Gianfranco La Grassa in un altro scritto complessivo e sistematico. Il conflitto strategico, visto in una logica multidisciplinare, rappresenta una lettura approfondita, originale ed altra della conoscenza, dell’interpretazione e della progettualità della coda della realtà. E’ chiaro che occorre avere acutezza nell’individuare il sapere che illumina e avvolge gli altri saperi assumendo a base dell’analisi i rapporti sociali reali e il loro sistematico insieme nazionale e mondiale, soprattutto in questo periodo di decisivo sviluppo della fase multicentrica che la cesura storica della guerra batteriologica da Covid-19 ha accelerato. Il conflitto strategico apre nuove strade teoriche e pratiche.
Vengo, ora, allo scritto proposto. E’ una riflessione stimolante che inizia a fare chiarezza sulle seguenti questioni principali: 1) la distinzione tra lo stato (gli strumenti degli agenti strategici dominanti articolati sull’intero territorio nazionale, la robusta catena di fortezza e di casematte di Antonio Gramsci) e la nazione (il territorio della comunità con la sua storia, il suo rapporto sociale, la sua cultura, la sua lingua, il suo paesaggio, il suo costume, la sua natura, eccetera); 2) il conflitto tra gli agenti strategici delle varie nazioni europee non si gioca intorno ad una idea di sviluppo autonomo dell’Europa (qualunque sia la forma dello stare insieme che le diverse nazioni si vorranno dare) ma si consuma nella corsa di posizione privilegiata verso la servitù statunitense. Preciso che divido gli agenti strategici in: quelli che pensano le strategie, quelli che gestiscono le strategie e quelli che eseguono le strategie; 3) la necessità di rompere con la servitù volontaria verso gli USA (potenza dominante in declino che è per un mondo monocentrico a sua immagine e somiglianza) e la possibilità della costruzione di relazioni con l’Oriente (Russia e Cina, potenze in ascesa che sono per un mondo multicentrico); 4) l’autonomia nazionale per la costruzione di un modello di sviluppo che renda possibile stabilire nuove relazioni interne e mondiali a partire da una nuova idea di Europa (bisogna andare oltre il progetto statunitense dell’Unione Europea che è sempre più sostituito dalla nuova NATO come strumento degli Usa nel conflitto strategico della fase multicentrica); 5) le riflessioni critiche dell’esperienza rivoluzionaria del secolo scorso (soprattutto quella russa e quella cinese) e sul tipo di società che sono diventate oggi (a prescindere dall’eterogenesi dei fini che è un concetto a me poco simpatico) che nulla hanno a che fare né con il socialismo né tantomeno con il comunismo; 6) il conflitto per scalzare gli agenti strategici esecutori e servili (per esempio, Mario Draghi è un esecutore e per questo è un pericolo per gli interessi nazionali con le sue articolazioni sociali: la sua storia a partire dagli anni Novanta del secolo scorso è illuminante per le funzioni svolte) per costruire una vera autonomia nazionale in grado di guardare a Oriente per il consolidamento della fase multicentrica (nell’attesa della costruzione di una Europa in grado di essere un soggetto politico autonomo capace di costruire relazioni altre nel rispetto della diversità tra l’Occidente e l’Oriente?); 7) lo stabilizzarsi della fase multicentrica aprirebbe il conflitto all’interno delle singole potenze per la messa in discussione delle relazioni di potere e di dominio che dominano i rapporti sociali, storicamente determinati, a vantaggio di una esigua minoranza delle popolazioni.
Credo che si possa ragionevolmente affermare che la questione fondamentale si sposta nella Politica, intesa come azioni strategiche per l’acquisizione del potere e del dominio nel senso che il potere degli agenti strategici delle diverse sfere sociali (economica, politica, culturale, eccetera) si indirizza, nel conflitto, verso la costruzione di un blocco egemone per il dominio dell’intera società. Tale dominio non è mai definitivo ma temporalmente dinamico proprio a causa del continuo e ineliminabile conflitto per conquistare il potere e il dominio sociale (rimanendo nell’ambito dell’ordine simbolico maschile). E’ nel suddetto blocco egemone che si gioca l’egemonia degli agenti strategici espressione della potenza di fuoco rappresentata simbolicamente dal denaro accumulato con tutti i mezzi legali e illegali (Vincenzo Ruggiero). Le relazioni nelle diverse sfere sociali hanno un comune denominatore che è dato dal rapporto di potere che nelle diverse sfere (economica, politica, eccetera) si configura in maniera diversa tra chi ha gli strumenti (che variano da fase a fase della storia umana sessuata) per conquistare il potere (la minoranza) e chi non ha niente (la maggioranza).
Chi si deve far carico, nel breve-medio-lungo periodo, di queste questioni: una forza nuova, un nuovo principe sessuato o altro?
L’importante è non scordare la lezione attuale di Karl Marx quando afferma: << È né più né meno che un inganno sobillare il popolo senza offrirgli nessun fondamento solido e meditato per la sua azione. Risvegliare speranze fantastiche […] lungi dal favorire la salvezza di coloro che soffrono, porterebbe inevitabilmente alla loro rovina: rivolgersi ai lavoratori senza possedere idee rigorosamente scientifiche e teorie ben concrete (corsivo mio, LL) significa giocare in modo vuoto e incosciente con la propaganda, creando una situazione in cui da un lato un apostolo predica, dall’altro un gregge di somari lo sta a sentire a bocca aperta: apostoli assurdi e assurdi discepoli.
In un paese civilizzato non si può realizzare nulla senza teorie ben solide e concrete; e finora, infatti, nulla è stato realizzato se non fracasso ed esplosioni improvvise e dannose, se non iniziative che condurranno alla completa rovina la causa per la quale ci battiamo. L’ignoranza non ha mai giovato a nessuno! (Hans Magnus Enzensberger, a cura di, Colloqui con Marx e Engels, Einaudi, Torino, 1977, pag. 53).
CONFLITTI TRA STATI E AUTONOMIANAZIONALE. PERCHE’?
di Gianfranco La Grassa
1. Tratto normalmente Stato, paese o anche nazione quasi si trattasse di sinonimi. So che non è così, ma per quanto riguarda quanto devo dire in merito al problema dell’autonomia nazionale, credo si capisca comunque il discorso. Ammetto di non sapere mai con precisione che cosa debbo intendere con la parola Stato. Mi sembra che se ne parli sempre in modo metafisico o quasi; e in ogni caso come ci si riferisse ad un vero e proprio soggetto, di cui si possa disquisire quasi avesse volontà, desideri, intendimenti, finalità, ecc. propri, esattamente come quando si parla di un singolo individuo umano o di un determinato gruppo sociale, insieme di individui espletanti funzioni specifiche o che assuma decisioni in comune. Diciamo pure che per Stato si potrebbe intendere un grande raggruppamento di individui, in genere con ben preciso insediamento territoriale definito da confini, spesso (ma non sempre) unito da una sola lingua, che accetta un dato complesso di regole di comportamento fissate da leggi e il cui non rispetto viene sanzionato mediante un sistema di perseguimenti e di punizioni posto in atto da organi unanimemente accettati nel loro funzionamento a tali fini.
Preferirei tuttavia che si specificasse meglio il complesso, strutturato, di apparati che costituisce quello che chiamiamo Stato, sia nell’esercizio dei compiti relativi all’intero territorio posto sotto la sua potestà sia in quello decentrato nelle diverse parti in cui è suddiviso quest’ultimo. In particolare, darei la massima rilevanza a quegli apparati addetti all’esercizio della Politica, intesa quale insieme organico di mosse – che possiamo definire strategia – compiute per raggiungere determinate finalità all’interno di un dato paese così come all’esterno d’esso, nei confronti degli altri paesi. Un conto è quella che potremmo definire l’amministrazione di determinati affari riguardanti il coordinamento d’insieme di una data comunità territoriale (suddivisa in diversi gruppi sociali); un altro è il vero potere di esplicare la Politica diretta all’interno o all’esterno di quel paese. Il controllo degli apparati dotati di tale potere è il vero oggetto della lotta che si svolge tra diverse associazioni di individui (partiti o altri organismi di vario genere).
Di questi apparati (di potere) si dovrebbe soprattutto discettare per meglio definire i compiti che si pone chi intende perseguire l’autonomia del proprio paese. In questi ultimi anni si era diffusa una particolare concezione, che tuttavia mi sembra oggi un po’ in decadenza. Si sosteneva la fine della funzione degli Stati nazionali. Con ciò s’intendeva sostenere precisamente che quegli apparati di potere (interno ed esterno), di cui ho appena detto, non avevano più alcun reale compito in quanto ormai il potere in questione spetterebbe ad organismi sovranazionali, in particolare di carattere finanziario; vere massonerie che ormai comanderebbero in tutto il mondo o quasi. A tali organismi dovrebbero ribellarsi tutti i cittadini (le “moltitudini”), senza più distinzione di questo o quel paese (di tutto il mondo appunto). Tale tesi, che sembra voler essere una sorta di versione aggiornata e moderna dell’antico “internazionalismo proletario” (essa è in genere propagandata da vecchi arnesi della pseudo rivoluzione sessantottarda e sue propaggini ulteriori), mira di fatto a salvaguardare il potere di quei gruppi che, all’interno di ogni paese, controllano gli apparati statali in questione (sia rivolto all’interno che verso l’estero). I “vecchi arnesi” sono ormai parte integrante, e subordinata, dei gruppi dominanti.
In realtà, in ogni paese (o nazione, se si preferisce) vi sono gruppi dominanti dotati di potere (decisionale), che controllano gli apparati statali di cui stiamo parlando; questi sono costantemente in funzione, per nulla superati e riposti in un qualche museo. Il problema è diverso. Esistono complessi (e spesso ben mascherati) legami internazionali tra i vari gruppi decisionali nei diversi paesi. E tali legami assicurano a quelli attivi nei paesi preminenti – oggi sopra tutti stanno gli Stati Uniti – un particolare potere di “influsso” (chiamiamolo così) sui gruppi decisionali di paesi che si pongono in una determinata filiera di potere via via discendente; per cui abbiamo gruppi che potremmo definire subdominanti, subsubdominanti, ecc. fino a quelli via via sempre più subordinati. I gruppi di potere nei vari paesi, anche i più subordinati, hanno pur sempre capacità decisionali nell’ambito degli apparati statali appositamente addetti alla Politica, alla strategia, alle mosse da compiere per giungere a certe finalità interne ed esterne. Semplicemente, i loro poteri decisionali si subordinano a quelli dei gruppi dominanti di altri paesi, secondo una gerarchia che muta di fase storica in fase storica; e ha gradazioni differenti anche nell’ambito di ognuna di queste fasi.
Tanto per fare un “banale” esempio, i gruppi decisori italiani sono sempre stati subordinati a quelli statunitensi dalla fine della seconda guerra mondiale. E oggi siamo sempre in quella fase storica iniziata nel 1945, in cui sono stati creati vari organismi per sanzionare la supremazia Usa, fra cui la NATO e poi le varie organizzazioni intereuropee, fino a questa indecorosa UE. Tuttavia, il grado di subordinazione dei gruppi decisori italiani ha avuto un netto scatto in crescita con la fine della prima Repubblica, con la sporca operazione di falsa “giustizia” denominata “mani pulite” e tutto ciò che ne è seguito. E oggi appare in ulteriore continuo accrescimento.
Bene, una volta chiarito questo punto, e dichiarata pura mistificazione la tesi della fine degli Stati nazionali, passerò ad un altro ordine di considerazioni. In effetti, la nostra attuale attenzione ai problemi dell’autonomia nazionale potrebbe sembrare un semplice cambiamento di impostazione teorica. In quanto marxisti, eravamo interessati un tempo alla lotta di classe e al problema dell’abbattimento e trasformazione della società capitalistica; ci siamo oggi innamorati della geopolitica, dell’interazione tra Stati? Oppure siamo stati folgorati da una visione nazionalistica e quindi abbandoniamo ogni discorso di conflitto (in verticale) tra classi per abbracciare quello (in orizzontale) tra comunità nazionali? Non è affatto questa la nostra effettiva posizione.
2. Personalmente, continuo a ritenere importante, in linea di principio, la struttura dei rapporti sociali (rapporti tra diversi gruppi in cui è suddivisa la società). Proprio per questo, malgrado la mia critica non marginale al marxismo, continuo tuttavia ad avere grande attenzione per tale teoria della società. E, sempre in linea di principio, la ritengo più avanzata rispetto all’individualismo tipico delle teorie liberali. Tuttavia, in Marx è fondamentale, nella costituzione di società, la sfera produttiva. In una sua lettera a Kugelman (mi sembra del 1864) si afferma che anche i bambini sanno che, se non si producesse nulla per un breve periodo di tempo, ogni società verrebbe a dissolversi. E’ quindi logico che i rapporti sociali per questo pensatore decisivi sono quelli di produzione. E simili rapporti si annodano intorno al problema della proprietà (potere effettivo di disposizione) o meno dei mezzi produttivi. In base a quest’ultima, Marx distinse, nella società capitalistica, la classe borghese (i proprietari) e quella proletaria (o operaia) solo in possesso della propria capacità lavorativa da vendere in qualità di merce come ogni altro bene circolante nella società in questione. Da qui – corro perché ho scritto in proposito ormai centinaia di pagine – deriva l’ipotesi della dinamica capitalistica che avrebbe condotto infine ad una borghesia assenteista rispetto alla direzione dei processi produttivi, mentre in questa sfera sociale si sarebbe andato consolidando un corpo di produttori associati; dal massimo gradino dirigente fino all’ultimo di carattere esecutivo. Già nel grembo del capitalismo, quindi, si sarebbe formata la condizione base della nuova società socialista, primo gradino di quella comunista.
Nulla di tutto questo si è storicamente verificato; in nessuna delle società a capitalismo avanzato si è mai andato costituendo il “lavoratore collettivo cooperativo” (i produttori associati) così come previsto da Marx. E, soprattutto, le rivoluzioni più radicali si sono avute in società a prevalenza contadina e non operaia. Il cosiddetto socialismo del XX secolo – o quanto meno la “costruzione” (solo presunta purtroppo) dello stesso – si è rivelato essere una società estremamente verticistica, in cui la sfera produttiva era completamente sottomessa alla direzione di quella degli apparati del potere strettamente politico. Non intendo qui diffondermi su che cosa è stata questa particolare formazione sociale venuta a crearsi con le rivoluzioni guidate da partiti comunisti in paesi sostanzialmente precapitalistici. Mi sembra comunque evidente che non si è creata alcuna società socialista nel senso marxiano del termine. Lascio perdere i tentativi di diffondere l’idea (del resto tarda, ultimo sbiadito tentativo di difendere l’indifendibile) che si trattava di un “socialismo di mercato” (questa la definizione data della Cina odierna da alcuni “ritardati”).
Di fronte al fallimento storico di un movimento rivoluzionario guidato da una specifica teoria – del resto ormai molto modificata rispetto all’originale e ridotta a pura agitazione di tipo ideologico con presa sempre minore fino al suo azzeramento – ho proposto già da tempo l’abbandono del principio guida della proprietà o meno dei mezzi produttivi, andando invece nella direzione della Politica intesa appunto quale conflitto tra le strategie di più gruppi sociali in cerca di una supremazia nel controllo dei vari apparati funzionanti nelle diverse sfere sociali: produttiva, politica, ideologico-culturale. Credo che questo mutamento abbia effetti abbastanza positivi nella considerazione realistica delle lotte sociali sussistenti all’interno della società in cui viviamo; anche perché fa vedere come gli “attori” in conflitto non siano, prevalentemente, quelli attivi nella sfera produttiva, ma vi siano invece svariati rapporti, e spesso piuttosto stretti, tra agenti in opera nelle diverse sfere per la conquista di una supremazia sociale complessiva. Tuttavia, è ovvio che la teoria del conflitto tra strategie non consente alcuna divisione netta tra le classi in lotta, riducendole a due soltanto. E non pone in luce alcuna dinamica, intrinseca all’attuale formazione sociale di tipologia capitalistica, diretta alla sua trasformazione in altra nettamente differente che possa pensarsi quale fase di transizione ad una qualsiasi forma di socialismo o comunismo.
I gruppi sociali, insomma, non possono essere definiti classi nel senso in cui queste erano intese nel marxismo in base al criterio, rivelatosi piuttosto semplicistico, della proprietà o meno dei mezzi produttivi. Inoltre, tali gruppi non possono mai ridursi a due; a meno che il conflitto diventi tanto acuto da spingere vari gruppi ad allearsi tra loro in modo che, alla fine, si trovano a confrontarsi due schieramenti contrapposti, che non saranno mai comunque due classi in lotta, ma due coacervi di gruppi riunitisi per le concrete esigenze “di combattimento” in quella particolare fase storica e in quella determinata formazione sociale, in cui si è prodotto un contrasto così netto e ormai irrisolvibile con semplici mediazioni. Vi è di più. Si possono verificare – per contingenze non riconducibili all’intenzione consapevole di trasformare quella data formazione sociale in un’altra considerata superiore – dei cosiddetti “sollevamenti di masse”, causati dal malcontento e disagio sociale particolarmente acuti, in genere susseguenti all’incapacità ormai manifesta di coloro, che hanno in mano gli apparati del potere, di saperli gestire in modo minimamente appropriato ai bisogni complessivi di quella società. Questi sollevamenti non produrranno mai effetti stabili e di reale trasformazione, se nel loro ambito non agiscono dati nuclei dirigenti dei “malcontenti”, che possono allearsi, in genere solo temporaneamente, per dare risposta alla gravità della crisi provocata dalla suddetta incapacità dei vecchi nuclei al potere.
In ogni caso, sia se si producono, abbastanza raramente, situazioni così estreme sia se ci si trova in una situazione di più “normale” e non sconvolgente conflitto tra strategie per ottenere la supremazia (in base ad esigenze di lungo periodo o invece per risolvere problemi di portata momentanea e d’ambito ristretto), non si è in presenza del semplificato scontro tra dominanti e dominati di cui troppo spesso si blatera. In un certo senso esiste un confronto, più o meno serrato, tra gruppi sociali con maggiori o minori (in certi casi magari nulle) prerogative decisionali. Tuttavia, nel reale conflitto, sempre condotto in base alla Politica (cioè secondo varie linee strategiche), si enucleano alcune élites dirigenti, che tendono a rappresentare più gruppi sociali. E anche quando si tratti di gruppi formati principalmente da “non decisori”, le loro dirigenze partecipano comunque, con maggiore o minore forza, alle decisioni sociali di maggiore portata. Esempio tipico ne è la lotta sindacale. I nuclei dirigenti di quei gruppi situati alla base della piramide sociale (i cosiddetti ceti lavoratori) non sono certo privi di qualsiasi potere decisionale in merito a questioni interessanti l’intera collettività di quel dato paese.
3. Giungiamo adesso al problema centrale che ci interessa. E che ci interessa – almeno per quanto mi riguarda e riguarda, credo, anche coloro che con me hanno dato vita a “Conflitti e Strategie” – proprio in quanto abbiamo dovuto prendere atto del fallimento delle finalità poste al movimento delle cosiddette “masse popolari” da una data concezione dello sviluppo sociale, quella concezione che è appunto il marxismo. Si è dovuto prendere atto che non c’è stata finora alcuna effettiva possibilità di evoluzione dell’attuale società verso strutture di rapporti da definire oltre-capitalistiche. Quello che abbiamo sempre chiamato capitalismo (e così continuiamo a denominarlo) si è andato indubbiamente trasformando profondamente rispetto al suo punto di partenza; o anche semplicemente considerando l’ultimo secolo. Tuttavia, alcuni suoi moduli non si sono modificati; non si è certo giunti al rivolgimento della sua configurazione piramidale caratterizzata dalle concentrazioni imprenditoriali e dal correlato assetto degli apparati politici, fortemente verticistico anche nei paesi dove si ciancia sempre di “democrazia parlamentare” e si esaltano le periodiche “chiamate al voto”, che si fanno passare per espressione genuina della “volontà popolare” in grado di governare gli affari del paese, sempre invece nella sostanza affidati a contrapposizioni tra date élites.
Intendiamoci bene. Nessuno di noi svaluta quelle lotte sociali che mirino a migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle più vaste “masse” situate nei gradini medi e bassi della piramide sociale. E dobbiamo ammettere che oggi, anzi, quelle lotte stentano perfino a mantenere vecchie “conquiste” in tema di benessere. Di conseguenza, un rilancio di queste lotte sarebbe senz’altro visto da tutti noi con estremo favore. Tuttavia, dobbiamo rilevare alcuni semplici fatti. Simili lotte diventano sempre più difficili, sono viepiù spezzettate e condotte spesso in modo da lasciare largo spazio a quella divisione tra strati sociali medio-bassi che favorisce i vertici della società (il ben noto “dividere per imperare”). E’ però un caso che ciò avvenga? E soprattutto nella presente fase storica (che dura da due-tre decenni)? Non posso dilungarmi nella considerazione delle condizioni storiche che avevano consentito un qualche elevamento della posizione degli strati sociali in questione. Noto solo che l’attuale peggioramento di tale posizione dimostra a iosa come non si fosse compiuto alcun decisivo passo in direzione dell’indebolimento di quella società denominata capitalismo.
Si è dovuto constatare un fatto ancora più rilevante per le nostre convinzioni ideologiche (e anche teoriche). Sia l’iniziale successo (relativo) di certe lotte sociali, sia la loro crescente irrilevanza attuale, sono fondamentalmente dipesi dalla predominanza di fatto che sempre hanno mantenuto gli Stati Uniti dalla seconda guerra mondiale in poi. Credevamo che il mondo bipolare fosse un contrasto tra capitalismo e socialismo. Siamo stati messi in crisi dalla rottura tra Urss e Cina, ma non abbiamo interpretato correttamente (e non sappiamo farlo ancora adesso) che cosa in realtà fosse accaduto. Abbiamo preso il successo di certe lotte anticoloniali (vedi Vietnam) come si trattasse di un allargamento del campo “socialista”; un allargamento durato l’espace d’un matin, con conflitto tra Vietnam e Cina e poi il progressivo spostarsi di quel paese verso l’orbita statunitense (sia pure dopo il crollo dell’Urss, che comunque non è stato un caso “sfortunato”). Oggi dobbiamo prendere atto – in una considerazione di più lungo periodo; ed è su questo che la storia deve essere “misurata” nei suoi effettivi andamenti – che gli Stati Uniti sono stati sempre il perno più solido dell’andamento degli affari mondiali.
In definitiva, è ora di ammettere infine che non esiste più da molto tempo (ammesso che sia mai esistita nei termini pensati dai marxisti) la lotta di classe su cui tante speranze erano un tempo riposte. Non esiste soprattutto un antagonismo tra due grandi blocchi sociali alternativi, foriero di trasformazioni anticapitalistiche. Nei paesi a capitalismo sviluppato – che ha conosciuto varie trasformazioni da giudicarsi interne a quel certo “modulo” sociale – si sono verificati contrasti, anche assai forti a volte, che sono sempre stati di tipo redistributivo; soprattutto di reddito, in parte anche di potere. E’ tuttavia mancato proprio l’effetto che alcuni attribuivano a tale conflitto, la trasformazione in senso anticapitalistico. Chiunque ancora ne parli – ormai alcuni rimasugli di dementi – va proprio ignorato. Ripeto che questo tipo di lotte va appoggiato proprio per quello che può al massimo conseguire: la difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei ceti medio-bassi, oggi in deciso peggioramento. E sempre con la precisa consapevolezza che simili conflitti sono diretti da determinati gruppi dirigenti politici e sindacali, i maggiori beneficiari degli eventuali risultati positivi dello scontro, oggi piuttosto rari.
Cosa invece si nota nettamente nell’attuale fase storica? I conflitti più acuti e più significativi sono quelli tra Stati. Di conseguenza, diventa in un certo senso scopo preminente seguire gli eventi di quella che è la politica internazionale, l’interrelazione tra i diversi Stati, lo stabilirsi di determinati rapporti di forza tra essi, il loro eventuale modificarsi i cui effetti ricadono immediatamente anche sull’andamento dei sistemi economici. Tuttavia, abbiamo già ricordato come gli Stati siano un insieme organico di svariati apparati, di cui alcuni sono quelli adibiti all’effettivo uso del potere (mentre altri hanno un carattere più propriamente amministrativo, diciamo così). E’ allora rilevante la comprensione dei contrasti in atto tra quei gruppi d’élite che si battono per il controllo e l’uso di tali apparati. Poiché questo “battersi” è appunto la Politica, è un intreccio tra differenti strategie svolte per conquistare la supremazia, i gruppi d’élite (se tali sono effettivamente) debbono essere strettamente correlati con dati nuclei in cui si elaborano le strategie. E poiché le mosse della Politica mirano al successo nell’ambito di uno scontro tra le varie élites, la segretezza è d’obbligo; e ogni venir meno della stessa o è una di queste mosse o è lo sgretolamento della “copertura” (lo sbucciarsi della “corteccia”) dovuto ad un acuirsi del combattimento tra due o più “attori”.
Del resto ho già ricordato un fatto ben noto a chiunque segua minimamente le vicende politiche. Non esistono élites dirigenti dei gruppi sociali nei diversi paesi, che non siano variamente interrelate tra loro in senso economico, politico, culturale. E certamente nel nostro paese, e più generalmente in tutti i paesi europei, in misura maggiore o minore queste élites sono strettamente collegate con quelle statunitensi, ponendosi nei loro confronti in una situazione di maggiore o minore subordinazione. In questo senso, gli Stati Uniti sono ancor oggi il centro di un ampio sistema mondiale di paesi; in particolare, hanno la guida, per quanto a volte appena mascherata, dell’intera UE che, come già detto, è in definitiva un’organizzazione parallela a quella della NATO. E’ impossibile seguire le vicende politiche interne di un qualsiasi paese europeo senza tener conto dei rapporti di subordinazione rispetto al paese predominante. Questo è particolarmente valido per l’Italia, paese la cui subordinazione è di alto livello e va crescendo. E continuerà a crescere per quanto diremo subito appresso.
4. Con quanto appena sostenuto, sia pure succintamente, abbiamo svelato il “segreto” della nostra pretesa preferenza – soltanto temporanea e secondo me obbligata dai “fatti” – per la politica internazionale e per il tema dell’indipendenza o autonomia di singoli paesi; ma non certo per spirito nazionalistico, ci mancherebbe altro! Abbiamo semplicemente preso atto della fine della ormai “mitica” lotta di classe; e constatiamo che attualmente sono in ribasso perfino le lotte sindacali per la semplice “redistribuzione”, pur anche soltanto nel tentativo di evitare l’arretramento delle cosiddette “conquiste sociali” di alcuni decenni fa. Dopo circa mezzo secolo di mondo bipolare e con i pericoli, spesso esagerati e montati a bella posta, relativi alla “guerra fredda”, si è avuto il “crollo” del campo sedicente socialista ed è sembrato che ci si avviasse verso una sorta di monocentrismo Usa. La sensazione è durata poco e ormai, malgrado sia ancora predominante quel paese, pare assai probabile che ci si avvii intanto verso un multipolarismo per quanto ancora imperfetto. Il caos nel mondo va accentuandosi come sempre avviene in epoche del genere; più volte ho fatto il paragone con la fine del secolo XIX.
In una situazione simile, è del tutto evidente un crescente impegno degli Stati Uniti per accentuare la presa sull’Europa e scongiurare quanto indubbiamente sembra serpeggiare al suo interno con il rafforzarsi di movimenti detti “euroscettici”; per quanto essi sembrino ancora abbastanza deboli e del tutto confusionari. Il “Trattato transatlantico” (TTIP) dal punto di vista economico (che ha sempre riflessi politici), gli sconvolgimenti, più o meno ben riusciti, suscitati nel Nord Africa e in Medioriente, la crisi ucraina (dopo il primo approccio in Georgia), l’impulso dato alle organizzazioni islamiche “estremiste” poi ovviamente combattute (con forti ambiguità e senza ancora una conclusiva decisione), le situazioni estremamente confuse e di sostanziale stallo (pur assai sanguinoso) in Libia e Siria, così come altre egualmente poco chiare (in Egitto come in Turchia o Iran, ecc.),sono operazioni che avranno certo motivazioni legate ai rapporti di forza nelle aree interessate; e tuttavia non vi è dubbio che il principale obiettivo degli Stati Uniti è, in ultima analisi, il mantenimento della presa in Europa e l’isolamento massimo possibile della Russia.
Se veniamo al nostro paese, credo che esso sia abbastanza importante per le suddette finalità perseguite dagli Stati Uniti. La posizione geografica dell’Italia è in tutta evidenza significativa per le operazioni nelle aree investite, non sempre direttamente, dagli Usa (con l’Amministrazione Obama ci si è largamente serviti di “sicari”). Tuttavia, con l’operazione “giudiziaria” che mise fine alla prima Repubblica (solo dopo il crollo del campo “socialista”) si è reso del tutto manifesta la funzione che a noi spetta nelle intenzioni americane di tenere strettamente agganciata l’Europa. Dobbiamo essere decisamente affermativi in proposito. L’Europa è l’area in cui ancora si giocheranno i destini del probabile prossimo scontro policentrico per conquistare una nuova centralità preminente (uno scontro non temporalmente vicino, meglio essere espliciti in proposito). E l’Italia è paese fondamentale per il controllo europeo. Ci sono forti tendenze – a mio avviso tutte ben finanziate da chi di dovere – a sostenere l’ormai irreversibile decadenza europea e la crescente dipendenza italiana. Sia chiaro che l’ultimo premier (il ben noto sedicente tecnico sempre in linea da dove soffia il vento) è in realtà un commissario di poteri stranieri e soprattutto americani.
Mai si era visto in quest’area e in questo paese un degrado sociale (e culturale) come quello odierno. Tutto questo avviene però proprio perché l’Europa (e, al suo interno, l’Italia) sono aree di importanza decisiva per gli Usa nel loro tentativo di restare preminenti; anzi di arrivare un giorno a porsi in una situazione di sostanziale monocentrismo, magari attraverso un futuro regolamento generale di conti. In questa fase, la pressione Usa sul nostro paese è massima, anche se non viene solitamente rilevata perché ovviamente non si esprime con le vecchie modalità. Di conseguenza, nella presente fase storica di non breve momento, chiunque straparli di lotta anticapitalistica, inganna scientemente quelle minoranze che cominciano a rendersi conto della situazione di degrado e sfascio sociale (e anche istituzionale), in cui ci hanno condotto le forze politiche padrone dell’andamento degli “affari” nel nostro paese.
Non ci sono per nulla prospettive di superamento del capitalismo in Italia (e in Europa); e nemmeno si saprebbe in che direzione si dovrebbe andare in una simile fantasiosa prospettiva. Ripeto che nessuno (di noi) si oppone a che i ceti medio-bassi difendano le proprie condizioni di vita aggredite dal potere esistente. Questo però non significa avere la forza (e le idee) in grado di abbattere il capitalismo (e di quale si sta parlando, del resto, se non a vanvera?). E non c’è nessuna difesa possibile se restiamo un paese governato da élites che si pongono nella relazione di subordinazione rispetto a quelle del paese predominante. E’ di una evidenza palmare che il primo passo da compiere è (diciamo sarebbe) togliere il governo ai servi del potere statunitense. E vorrei essere preciso. Quando parlo in questo contesto di governo non mi riferisco soltanto a quelle forze politiche che hanno in mano la direzione dell’Italia. Tutte quelle oggi in campo sono invischiate in quel gioco elettorale che fa dimenticare ogni problema di reale potere, con il mero scopo di conquistare favori nell’“opinione pubblica” onde migliorare la propria posizione all’interno dell’attuale struttura politica, comunque sempre subordinata alla predominanza degli Stati Uniti.
Ecco allora spiegato perché è indispensabile battersi oggi per un minimo di autonomia nazionale (lo ripeto: senza ideologie nazionalistiche!). E per porsi in quest’ottica, è necessario dedicare i nostri sforzi soprattutto all’analisi degli intrecci internazionali tra i vari paesi; nelle loro filiere di predominanti, subdominanti, subsubdominanti….ecc. fino alle ultime propaggini della subordinazione, laddove siamo tutto sommato situati noi italiani. E mi sembra lampante che passi in avanti di questa autonomia sarebbero favoriti dall’affermarsi crescente della tendenza al multipolarismo. Quindi ci si deve battere per il rafforzamento delle relazioni – non solo economiche, bensì proprio politiche e di collegamento tecnico-scientifico e di “Informazione” e magari anche militari – con i paesi che hanno maggiori prospettive “oggettive” di ergersi quali antagonisti degli Stati Uniti; e fra questi, a mio avviso, il principale è la Russia (senza per questo trascurare la Cina). Nessuna particolare simpatia per questo paese e nessuna particolare antipatia per gli Stati Uniti. Semplicemente, è necessario battersi per l’accentuarsi del multipolarismo e, dunque, per la nostra autonomia. Multipolarismo e indipendenza sono in relazione biunivoca. E sono il primo compito per la fase attuale.
5. C’è poco da aggiungere, io credo. Ritengo auspicabile – nella fase storica che viviamo e che non sarà di breve momento – una politica tesa all’autonomia dei paesi europei rispetto a quello ancora oggi preminente, pur se a mio avviso procediamo, in modo certo non lineare e continuo, verso una situazione multipolare. Qualcuno potrebbe obiettare che sarebbe bene allora battersi per una profonda revisione dell’attuale organizzazione dell’Europa Unita in modo da ottenere l’effetto voluto. Credo che ci si avvierebbe lungo una strada fallimentare. La UE non mi sembra affatto riformabile per come è nata e si è andata configurando sulla base dell’accettazione di una chiara subordinazione – sia pure con accenti diversi nei vari paesi – agli Stati Uniti. Mi sembra anche non molto chiara l’agitazione di alcuni movimenti per l’uscita del proprio paese dalla UE e dall’euro.
Il problema centrale è la lunga subordinazione che, soprattutto i più sviluppati paesi europei (quelli “occidentali”), hanno dovuto subire rispetto agli Usa. Bisogna invertire questo processo – economico, politico, culturale – di dipendenza. Per far questo, nei vari paesi europei devono crescere movimenti consapevoli della difficoltà e complessità di tale compito, che comporterà infine la necessità di abbattere con energia i governi del servilismo. E’ un processo che va sviluppato all’interno dei vari paesi; e che, se avrà successo, lo avrà in modi e tempi specifici per ognuno d’essi. Ogni movimento dovrà rispettare le caratteristiche del proprio paese, delle proprie popolazioni (e, in questo senso, tornerà utile anche l’analisi delle differenti strutture dei rapporti sociali).
I movimenti di autonomia devono senza dubbio ricercare il reciproco collegamento nel contesto europeo, ma senza mai dimenticare le differenze del proprio paese rispetto agli altri; pena il diffondersi di una nuova “mistica” europeista che ha già prodotto in passato i guasti che vediamo oggi sotto i nostri occhi. E’ stata proprio la propaganda di questa idea di una generica Europa unita a consentire il prevalere nella nostra area di élites dirigenti che – oggi finalmente è venuto in chiara luce – si sono piegate, spesso con pingui finanziamenti, agli intendimenti e voleri degli Stati Uniti. Alcuni si saranno anche “venduti”, ma altri hanno superficialmente creduto che, come si erano fatti gli Stati Uniti d’America, si potessero fare quelli d’Europa, i cui paesi hanno ben più complessa e “antica” storia. E sono sempre stati in costante antagonismo d’interessi; per molto tempo perfino bellico, oggi con altre modalità. Pur sempre politiche, lo si tenga presente. Chi insiste sui problemi del dominio della finanza e altre superficialità consimili, è al servizio – consapevole o meno – degli interessi dei gruppi subdominanti europei legati ai dominanti statunitensi.
Ulteriore problema. Malgrado molti paesi europei siano economicamente piuttosto avanzati, è altrettanto evidente la loro debolezza politica e – perché voler essere pacifisti ad oltranza – bellica. Ogni movimento che si batta per l’autonomia del proprio paese – lo ripeto ossessivamente, autonomia soprattutto in direzione degli Usa – dovrà non soltanto cercare i collegamenti con i propri simili europei, bensì sviluppare precise politiche verso est; in particolare nei confronti della Russia. Inutile nascondersi che simili politiche potrebbero un giorno provocare il passaggio dalla tendenza multipolare all’affermarsi di un reale policentrismo conflittuale, con tutti i rischi che ben conosciamo dal XX secolo. Se si teme questo, è inutile mettersi sulla strada dell’autonomia; si resti subordinati come lo si è adesso.
E veniamo così all’ultimo punto. Ci sono molti sciocchi che credono ad un’Italia di benessere diffuso sulla base del turismo, sfruttando i suoi mari blu, i cieli azzurri, le cosiddette bellezze paesaggistiche (come se altrove mancassero), i suoi cibi (che nemmeno gli italiani più giovani sanno ormai apprezzare); e altre litanie del genere. Se l’Italia rimane a questo livello, resterà pure tranquillamente subordinata; e avvizziranno progressivamente in essa tutti quei settori che consentono il maggiore sviluppo di un qualsiasi paese nell’epoca moderna (a meno che non si tratti di quei paeselli, magari isole, che sono piccole oasi per i “ricchi del mondo”). E mancando l’autonomia e il tipo di sviluppo ad essa connesso, inutile anche pensare a chissà quali possibilità di lotta sociale per difendere le proprie condizioni di vita, soprattutto da parte dei già più volte ricordati ceti medio-bassi.
Lasciamo perdere per favore la lotta anticapitalistica; abbiamo una concezione arretratissima di capitalismo, ancora primonovecentesca se va bene. Non abbiamo assolutamente l’idea di quel che dovrebbe essere una società non più capitalistica (a parte le ubbie anti-grande finanza diffuse oggi). Ho però sostenuto che è approvabile la resistenza dei ceti meno abbienti di fronte ad un chiaro peggioramento delle prospettive nei nostri paesi detti avanzati. E’ bene mettersi in testa che in un periodo di multipolarismo in accentuazione, si amplifica il “caos” nelle relazioni internazionali; e non solo politicamente, ma pure economicamente. In poche parole, quella che chiamiamo crescita (aumento del Pil) non conoscerà andamenti travolgenti per molto tempo. Molti finalmente cominciano ad arrivare a simili conclusioni. Tuttavia, la debole (o nulla) crescita non impedisce uno sviluppo, cioè un miglioramento di certe strutture sociali e
l’arresto del progressivo smantellamento delle “conquiste” ottenute già da tempo.
Tuttavia, non vi sarà nulla di tutto questo se si cede sul punto dell’autonomia propria, dello sviluppo di settori innovativi che la subordinazione invece sacrificherà sempre più. Cari “amici delle lotte sociali”, volete che possano essere ancora condotte almeno in un certo grado? Ebbene, battetevi per l’autonomia del paese rispetto all’attuale piatta subordinazione agli Stati Uniti. Battetevi per una diversa politica internazionale. Invece di fissarvi sul superamento del capitalismo (che si supera da solo in sempre nuove forme che vi lasciano poi a mani, e testa, vuote), concentratevi sull’attuale evoluzione dei rapporti di forza tra Stati (paesi), in modo da giocare nel suo ambito con opportune politiche di “nuove alleanze” al fine di non veder peggiorare gravemente le condizioni del vostro paese e, dunque, dei ceti sociali in esso meno favoriti.
E con questo fervorino finale, veramente Amen.
http://www.conflittiestrategie.it/conflitti-tra-stati-e-autonomia-nazionale-perche
Murray N. Rothbard, L’etica della libertà, Liberilibri editore, Macerata 2021, pp.468, € 14,00.
Pubblicata dall’editore Liberilibri oltre vent’anni fa, ora è ristampata dallo stesso editore, in un momento in cui il “liberalismo” (come inteso dai media mainstream) è colpevolizzato di tutto: dalla globalizzazione fino all’inadeguatezza della risposta alla crisi pandemica. Non riportiamo quanto già scritto in molte recensioni, tra cui una apparsa sull’Opinione circa un mese orsono. Ci limitiamo alla critica che un liberale “archico”, come chi scrive può muovere ad un libertario (o liberale anarchico).
Rothbard propone una società in cui sia abolito il monopolio statale della violenza (legittima) e tutti i servizi pubblici siano offerti (ed acquistati) sul mercato. L’etica di tale società senza Stato si basa sul carattere pre-statale e naturale (giusnaturalistico) dei diritti dell’individuo; sviluppa (in particolare) il pensiero di John Locke. La contrarietà dello Stato all’etica è costituita dal fatto che obbliga i sudditi senza il consenso (individuale e volontario) degli stessi.
Così sintetizzando al massimo quello che Rothbard sviluppa in centinaia di pagine di Etica della libertà.
A questo un liberale archico può svolgere due critiche fondamentali.
La prima che l’uomo è sia homo aeconomicus che zoon politikon; ma politico ed economico sono essenze non dipendenti – anche se interferiscono l’una sull’altra – e tantomeno la scelta per una può eliminare ragioni, presupposti e regolarità dell’altra. Come scriveva tra i tanti e da ultimo Miglio, vi sono contratti-scambio e obbligazioni politiche. Quest’ultime intese hobbesiamente, volte a barattare protezione con obbedienza. Prima di Miglio, Hauriou riteneva che ci sono (sempre) due diritti (e due giustizie): quella comune tra soggetti pari e quella disciplinare (istituzionale) tra soggetti non in condizione di parità. Pretendere di eliminare uno dei due è, in sostanza, voler cambiare la natura umana. Cioè proprio quello che non solo preti e teologi, ma anche i giusnaturalismi non credono.
L’altra è che, anche perciò il liberalismo ha costruito lo Stato borghese di diritto, al quale accanto alla tutela dei diritti fondamentali è essenziale la distinzione dei poteri (Montesquieu); come mezzo e organizzazione di uno Stato attento alle libertà politica, sociale ed economica. Il potere statale non è così eliminato, ma limitato e controllato. In fondo, vale quanto scritto nel Federalista sul rapporto tra natura umana e governi: che se gli uomini fossero angeli, i governi non sarebbero necessari; e se fossero angeli i governanti, non servirebbero i controlli sui governi. Ma dato che gli uomini (tutti) non sono angeli, sono necessari sia i governi che i controlli sui medesimi.
Una concezione realistica della natura umana conduce necessariamente, coniugata all’aspirazione alla libertà, alla forma dello Stato di diritto, allo Stato liberale. Il quale è una species del genus “Stato”. Vi appartengono altre species, lo Stato assoluto che l’ha preceduto, gli Stati comunisti del XX secolo (meteore spente), gli Stati nazi-fascisti, e così via.
Lo Stato liberale è uno Status mixtus, mescolanza di principio politico (in genere, prevalentemente democratico) e dei principi dello Stato borghese di diritto. In questa fusione testimonia l’impossibilità di prescindere dal politico (e da uno o più principi politici) per realizzare una sintesi che sia “la realtà della libertà concreta” (Hegel).
Rothbard trascura perciò la realtà storica dalla forma che ha assunto il liberalismo, man mano che si realizzava, divenendo ordine ed istituzione. La polemica sull’immoralità dello Stato del filosofo nordamericano è serrata, radicale e a giro d’orizzonte: la tassazione è “obbligatoria e perciò indistinguibile dal furto, segue che lo Stato, che prospera grazie ad essa, è una vasta organizzazione criminale, di gran lunga più fortunata e formidabile di qualsiasi mafia privata”; essendo un’istituzione permanente, ha bisogno al contrario di un bandito di strada, di assicurarsi almeno l’acquiescenza dei governati attraverso una pletora di tirapiedi ideologici la cui funzione è “di spiegare alla popolazione che in realtà il re indossa bellissime vesti. In sintesi gli ideologi devono spiegare che, mentre il furto commesso da una persona o più persone o gruppi è un male, se è lo Stato a compiere tali azioni, allora non si tratta più di un furto, bensì dell’atto legittimo, e persino consacrato, detto tassazione” e anche “quando è lo Stato a uccidere, allora non si deve parlare di omicidio, ma di una pratica glorificata detta “guerra” o “repressione della sovversione interna””, onde “Il successo consolidato nel tempo degli ideologi dello Stato è probabilmente la più colossale frode nella storia dell’umanità”. Dato però che lo Stato è necessariamente fondato sul furto e l’omicidio, è costretto a servirsi di intellettuali che giustifichino queste pratiche giudicate da Rothbard immorali.
E qui troviamo un problema di etica politica che va da Platone a Croce (ed oltre), passando per la teologia cristiana: per il governante (lo “stato”) vale la stessa etica che per i governati? La risposta dei teologi e dei filosofi (molti) è che non è la stessa: sostenuta dai teologi con l’argomento che difendere la vita e la proprietà dei sudditi è opera “preziosa e divina”, come sosteneva (tra i tanti) Lutero. Deducendolo dall’antropologia negativa (l’esistenza del male e dei malvagi) cui il potere politico, istituito dalla Provvidenza divina, deve porre rimedio.
Malgrado il mio (parziale ma esteso) dissenso, il libro di Rothbard è comunque una lettura quanto mai salutare, soprattutto perché contraddice in modo radicale quegli idola propinati con dovizia e costanza da governanti e dai loro intellos, con argomenti che il filosofo nordamericano demolisce con acume e vis polemica. Una terapia di cui, in tempi di decadenza, non si può fare a meno.
Teodoro Klitsche de la Grange
Anthony M. Esolen, Sex and the unreal city. La demolizione del pensiero occidentale, Il Timone, Milano 2021, pp. 233, € 22,00.
Come scrive l’autore “ora, in questa nostra epoca così apparentemente illuminata, abbiamo dichiarato che restare ancorati alla realtà sia una cosa da condannare. Perciò non abbiamo semplicemente finito col credere in alcune falsità”, ma alla falsità, compreso il non essere, inteso al minimo come ciò che non esiste, anzi ciò che ragionevolmente non può esistere. La diffusione di tale credenza è sorprendente, e contraddice la pretesa di essere, nel contempo, dei “fedeli della ragione”. Perché credere in una cosa che non è ma addirittura non può essere, serve solo ad illudersi o ingannare gli altri. Come scrive Dante “ti fai grosso / col falso imaginar, sì che non vedi / ciò che vedresti, se l’avessi scosso”. Così una volta creduto nell’irrealtà, si deve conseguentemente svincolarsi dalla logica e dall’esperienza. Scrive Esolen: “Uno dei sintomi dell’irrealtà è sicuramente l’incapacità di riconoscere la propria stupidità… Tutti, in qualche maniera, siamo degli sciocchi: ci sono gli sciocchi che lo sanno, e gli sciocchi che, non sapendolo, sono ancora più sciocchi”, scrive l’autore descrivendo la parabola delle università americane popolate, del tipo umano homo academicus saecularis sinister.
Nell’illudersi un’importanza decisiva ha il linguaggio “Una delle strane caratteristiche della Città Irreale è l’ossessione simultanea per il linguaggio e un rifiuto generale di riconoscere a cosa serve il linguaggio”. Nomina sunt coinsequentia rerum dicevano i romani: invece oggi, precisa l’autore “Vogliamo creder che le nostre parole possono alterare la realtà”. Solo che questo significa creare il falso: un uomo che afferma di essere una donna, e pretende di essere considerato e chiamato tale, continua ad essere un uomo. D’altra parte secondo un noto detto il Parlamento inglese poteva fare qualsiasi cosa, tranne che cambiare l’uomo in donna; tale limite non c’è per i creatori e fedeli di certi idola, tendenzialmente creduli nell’onnipotenza (delle parole).
Il che somiglia assai più che a un ragionamento a un desiderio che si trasforma in obiettivo, in un quid da realizzare. Senza però chiedersi se sia realizzabile. Con ciò presupporrebbe una potenza (o onnipotenza) che non è nelle disponibilità umane. Basta all’uopo constatare – a livello macroscopico – qual è stata la sorte del comunismo, il cui esito era la società comunista o senza classi. Già nel giovane Marx il comunismo era indicato come la soluzione dell’enigma irrisolto della storia. Ossia la formula per cambiare la natura umana mutando i rapporti di produzione. L’instaurazione della società senza classi avrebbe comportato l’estinguersi dello Stato e del politico. Solo che non c’era un esempio nella storia che ciò si fosse verificato. I presupposti del politico, cioè l’insopprimibilità (la costanza) del comando/obbedienza, del pubblico/privato, dell’amico/nemico, risultavano dati in ogni comunità umana conosciuta (l’uomo è zoon politikon). Il resto della parabola dimostra che il comunismo realizzato (cioè il socialismo reale) ha retto solo perché (contrariamente alle intenzioni) ha potenziato le tre costanti. Ha creato dittature sovrane, società che hanno quasi completamente annichilito il “privato”, ha avuto nemici (la borghesia, ecc.) come qualsiasi altro regime politico.
Dopo poco più di settant’anni (al massimo, per l’URSS) il tutto è finito per implosione, dato che la stessa classe dirigente non credeva più nel sistema e della società senza classi non si sentiva il profumo, neanche alla lontana. Il tutto può ripetersi in utopie/illusioni che presentino caratteri analoghi: obliterare la realtà per andare appresso all’immaginazione di essa. Cosa che, come scriveva Machiavelli, porta alla “ruina sua”.
E causa di quella ruina è aver creduto all’impossibile. Cioè alla fuga dalla realtà e dalle costanti che la governano.
Teodoro Klitsche de la Grange
TELLURICI O COSMOTERRORISTI
Ci si interroga sulle intenzioni dei talebani, ma senza particolare interesse al dubbio se cercheranno di esportare il conflitto oltre l’Afghanistan ovvero di rimanere nei confini del loro Stato. La domanda non è peregrina e coinvolge concetti, criteri e presupposti del pensiero politico e del diritto internazionale.
Scrive Schmitt nella “Teoria del partigiano” che il partigiano ha carattere tellurico “Tale caratteristica è importante per definire la posizione del partigiano la quale, a prescindere da ogni mobilità tattica, rimane fondamentalmente difensiva; ed egli deforma la sua natura quando fa propria un’ideologia di aggressività assoluta e tecnicizzata o vagheggia una rivoluzione mondiale…” e aggiunge relativamente a come distinguere il partigiano “è indispensabile fondarlo sul carattere tellurico, per rendere più evidente nello spazio la difensiva, cioè la limitatezza dell’ostilità e preservarla dalle pretese assolute di una giustizia astratta”. Questo lo differenzia da altre “categorie” di combattenti irregolari come il pirata o il corsaro, per necessità non-tellurici in quanto operano in un altro “spazio”, il mare. Tuttavia “Con l’ausilio della motorizzazione la sua mobilità si fa tale che egli corre il pericolo di sradicarsi completamente dal suo ambiente. Nelle situazioni provocate dalla guerra fredda egli diventa un tecnico del combattimento clandestino, un sabotatore e una spia… La motorizzazione fa perdere dunque al partigiano la sua connotazione tellurica ed egli finisce per diventare un ingranaggio della mastodontica macchina che opera politicamente su un piano mondiale”.
E con la “motorizzazione” e le possibilità che offre tende ad appannarsi il carattere difensivo del partigiano e della guerra partigiana.
Il connotato difensivo del partigiano non andò smarrito neanche dopo che la guerra partigiana divenne – per lo più – il mezzo di un’ostilità ideologica assoluta come durante la guerra fredda, specie da parte del blocco comunista. In effetti nessuna delle lotte partigiane, né dei capi, giunse a mutarne il carattere prevalentemente difensivo. Né Mao, né Ho Chi Min né il Fln algerino o l’Irgun hanno condotto operazioni offensive nel territorio del nemico.
Questo è cambiato con Al-Qaeda e con parte del terrorismo islamico contemporaneo: ormai è normale che ad un’occupazione militare da parte di una potenza (anche in mancanza) si risponda con attentati terroristici offensivi (dalle Torri gemelle al Bataclàn).
Vent’anni fa, in occasione dell’attentato alle Twin Towers mi capitò di scrivere che il successo dell’attentato era stato determinato: a) dalla sostanziale invulnerabilità di Al-Qaeda, gruppo terroristico senza popolazione e territorio, onde era quanto mai difficile organizzare una reazione b) il tutto lo distingueva dai movimenti partigiani, i quali, come insegna Santi Romano, hanno gli stessi elementi caratteristici dello Stato, solo in misura poco determinata e fluttuante.
Onde se era vero che ciò assicurava a Bin Laden un vantaggio militare, costituiva un handicap politico, impedendone o rinviando sine die la conversione in istituzione.
Non così sembra per i talebani, in questo assai più vicini ai movimenti partigiani “classici”. La prima volta che conquistarono il potere, la dinamica e il contesto sia della lotta contro l’occupante sovietico che della fase successiva per i talebani – come per gli altri movimenti afgani di resistenza, il rapporto con la popolazione e territorio era costituito almeno con i territori occupati dai gruppi etnici di riferimento (per i talebani i pastun).
Il fatto che i talebani avessero così compiuto il percorso “canonico”, diventando forza al governo dello Stato afgano, ne provocò la rovina. Dando protezione e asilo a Bin Laden e rifiutandosi di consegnarlo agli USA, si assunsero così la responsabilità politica, normale nel diritto internazionale, del territorio e di quando vi succedeva.
Da qui l’intervento americano, che, a quanto risulta dai mass-media – non riusciva a pacificare e a controllare (se non in parte) – il territorio del paese – né a consolidare il governo insediato dall’occupante.
Le zone “libere” (ossia controllate dai movimenti di resistenza), probabilmente la maggior parte del territorio, e la popolazione lì residente continuava ad essere il “santuario” dei partigiani. Santuario fluttuante, ma pur sempre accomunante il movimento partigiano all’istituzione statale.
Anche se la resistenza afgana – al contrario di Al-Qaeda così poteva fruire solo relativamente dei suggerimenti di Sun-Tzu. Questi sostiene che di fronte al nemico ci si deve assottigliare… “più del sottile fino a rendersi privi di forma… Soltanto così saremo in grado di diventare gli arbitri del loro (dei nemici) destino” e questo perché “Il Nemico manifesta una forma e con ciò si rende umano. Io invece sono privo di forma”; “dimodoché per quanto concerne la forma dell’azione militare, in guerra cioè, si attinge propriamente l’enfasi con l’assenza di forma”; da ciò conclude “Insomma per quanto concerne l’azione militare una forma siffatta è quella che si assimila all’acqua” (i corsivi sono miei).
Quest’anno la situazione si è ripetuta: i talebani hanno ottenuto il governo dell’Afghanistan: sono così divenuti la classe dirigente dell’istituzione statale. Di conseguenza hanno riacquistato sia la responsabilità conseguente che l’obbligo politico di protezione della popolazione. A quanto risulta, pare abbiano capito la lezione del 1998-2001. Tutto sommato le azioni terroristiche compiute in occasione della sgombero delle forze occidentali e dei loro alleati locali sono state opera di altri gruppi di resistenza islamica, noti per averle praticate anche altrove.
Occorre trarre da ciò che l’insegnamento della teologia cristiana e controriformata, la quale tanto ha influenzato il diritto internazionale westphaliano ha ancora una sua validità: sia che bellum defensivum semper licitum, onde non si può tacciare di jniustus hostis chi difende il proprio territorio e la propria gente; e che fare guerra per violazione dei diritti (non dei propri sudditi o cittadini) ma degli altri (ad vindicandas iniurias totius orbis) è illecito: neque a deo data est necque ex ratione colligitur. E cioè un (aduso) pretesto che cerca di giustificare un intervento militare non meglio argomentabile. Di converso rispondere ad azioni aggressive è sempre consentito.
Così quando sentiamo in TV che i talebani avrebbero imposto il burqa o disposto che le scuole non siano miste, e se ne mena scandalo, mi rallegro. Personalmente sono convinto che facciano di peggio, ma se le malefatte fossero limitate a quelle non posso che riconoscere che condizione della pace è (da sempre) che ognuno decida di come vivere a casa propria.
Teodoro Klitsche de la Grange