GLI IDOLATRI, di Giuseppe Germinario – tratto al sito www.conflittiestrategie del 02/02/2013

Un intero partito in adorazione. Siamo a quei rari momenti epocali di “una storia ed insieme una profezia che si auto adempie”. “La riprova, insomma, di quell’astuzia della storia che talora dà compimento all’impossibile, che, al di là di interpretazioni eroistiche, accetta di veder condizionati i propri sviluppi dalla presenza e dall’azione di un singolo, comunque espressione di un movimento profondo, di cambiamenti tellurici, qual è, appunto, BARACK Hussein Obama”. Così recita l’articolo iniziale del giornalista deputato Paolo Corsini su “Tam Tam Democratico”, la rivista mensile on line del PD, interamente dedicata a “Gli USA di Obama Secondo”http://www.tamtamdemocratico.it/doc/247734/barack-hussein-obama-la-biografia-come-programma.htm; così il tenore di tutti gli articoli successivi. Una orgia osannante che, se ancora in vita, sconvolgerebbe addirittura il buon Durkheim. Si potrebbe attribuire all’ingenuità dei neofiti tanto accaloramento; a ben vedere le firme degli autori, si tratta di personaggi ben inseriti e da tempo sulla cresta dell’onda; il neofitismo è evidentemente di altra natura.

Obama è insieme tradizione e innovazione, ripresa di una continuità e assunzione del moderno, sintesi del passato e speranza del nuovo, oltre la politica praticata e conosciuta all’interno dello stesso filone democratico, sino a Bill Clinton”

Obama diventa la figura determinante, il profeta e la guida destinata ad aprire le chiuse e indirizzare una corrente che percorre l’intero pianeta. Ha chiesto ed ottenuto altri quattro anni per completare la propria opera. Non è il capo di stato, tanto più di quello più potente; guai a parlare di stato in epoca di globalismo. È il messia che guida una corrente di pensiero cosmica che ha prevalso, finalmente, sulla iattura del liberismo conservatore e che sta dando fiato e speranza ai discepoli nel mondo. Ça va sans dire chi siano gli eletti nel Bel Paese. Ha sancito innanzitutto “la conclusione, sul piano della politica internazionale, dell’unilateralismo e la ripresa del dialogo in nome di un multipolarismo rinnovato. Come a dire una dichiarazione di dipendenza degli Stati Uniti d’America dalla realtà e dal mondo”. Prosegue Giorgio Tonini, importante senatore di area liberal, sancendo “l’esaurirsi della lunga stagione di egemonia del pensiero neo-conservatore, fondato sulla convinzione che fosse la disuguaglianza sociale, insieme allo squilibrio macroeconomico globale, l’unico vero motore dello sviluppo”. In alternativa “La dottrina Obama è pertanto una specie evoluta, adattatasi con successo all’ambiente del nuovo secolo, del più ampio genere di pensiero, progressista e riformista, che va sotto il nome generico di “Terza Via” la cui paternità risale a Clinton e Blair, Schröder e Prodi. Obama è, quindi, investito dell’immane compito di far crescere un paese in declino relativo “fino ad esercitare il ruolo di “presidente democratico” di una comunità internazionale che ha ancora e forse più che mai bisogno di un“egemone responsabile”. Il suo è “Un pensiero che considera semplicemente insensata la distinzione e ancor più la divisione del lavoro, tra sinistra e centro, tra progressisti e moderati”; un buon quarto di Monti ben insediato nel PD, con un quarto restante in attesa di collocarsi tra le eventuali spoglie del PDL.

Ci pensa Laura Pennacchi a rimettere i puntini sulle i; con Obama “Il discrimine destra/sinistra sarà praticato più intensamente e non solo perché” nel “l’America “generosa”, “aperta”, “tollerante” che è nel cuore di Obama, rispetto all’America gretta, intollerante, chiusa evocata dai repubblicani”. “Concentrando tutte le sue energie sul rilancio della “piena e buona occupazione, l’innovazione più interessante che Obama metterà in atto riguarderà, anche sotto il profilo delle politiche di welfare, la stessa concezione della politica economica e il suo rapporto con le politiche sociali” Siamo al nuovo modello di sviluppo con il quale i democratici “sanno che bisogna affrontare quattro sfide immani: 1) procedere a una salutare definanziarizzazione (il che rende necessaria una radicale riforma della finanza), 2) dare più valore ai consumi collettivi (tra cui spiccano quelli connessi al welfare state) rispetto ai consumi individuali, 3) sostenere maggiormente la domanda interna rispetto alla domanda estera ma intervenire anche dal lato dell’offerta, 4) creare lavoro e combattere le diseguaglianze”. Arriviamo al clou, al dilemma della guerra e della pace con la destra su un verso e la sinistra sull’altro. La Pennacchi merita una attenzione particolare; la sua analisi è un insulto a decenni di ricerca storica: “il “mercantilismo” emblematicamente impersonato dalla Germania della Merkel, con cui non a caso Obama è in polemica, non è modernità ma regressione all’Ottocento, a un’epoca in cui l’adozione generalizzata di strategie mercantilistiche (privilegianti in modo ossessivo le esportazioni) generò la spinta al colonialismo, le guerre, la diffusione di pratiche commerciali scorrette, in ossequio al principio che l’obiettivo dei governi non fosse l’elevamento del benessere e della qualità della vita dei cittadini, ma incrementare le esportazioni per aumentare la potenza economica dei paesi. È stato, viceversa, proprio attraverso il travaglio della crisi degli anni ’30 che le culture riformiste maturarono – grazie a Roosevelt, Keynes e Beveridge, la socialdemocrazia scandinava – un’idea alternativa. L’idea, cioè, che il fine della crescita economica dovesse essere non più la potenza economica del Paese ma il benessere dei suoi cittadini e il compito della politica economica dovesse essere la piena utilizzazione delle sue risorse, prima di tutto il lavoro. Quest’idea si incarna oggi nel modello dello “sviluppo umano” di straordinaria modernità innovatività, a cui solo un big push finalizzato alla creazione di lavoro e veicolato da un rinnovato motore pubblico può dare vita.” “da parte di Obama e dei democratici americani il richiamo al New Deal di Roosevelt svela anche il significato più profondo, attinente proprio agli alternativi obiettivi attribuiti all’economia e alla politica economica: dare la priorità non alla potenza e alla forza ma al benessere dei cittadini e alla qualità delle loro vite.” Ormai quella di Obama è una marcia Trionfale. Pietro Marcenaro, altro Senatore ex sindacalista, ci lascia con il fiato sospeso; “Non dico che siamo lì”, ma “Dopo le primavere arabe è realistico pensare che democrazia, stato di diritto, diritti umani possano camminare sulle gambe dei popoli e che ci siano le condizioni perché l’idea della loro esportazione con la forza possa essere accantonata” “Lo sviluppo di questo confronto, che ha attraversato l’Islam sunnita come quello sciita, è stato fortemente favorito dal cambiamento avvenuto alla guida dell’amministrazione americana” “Mai in passato era stato così forte ed era risultato così chiaro il legame tra una prospettiva di pace e di stabilizzazione in Medio Oriente e il progresso di un processo di democratizzazione”. Gli orizzonti, come l’esaltazione si ampliano: “L’altro grande tema sul quale la politica estera americana durante il secondo mandato di Obama sarà chiamata alla prova è quella del multilateralismo”; “Obama aveva presieduto la riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che aveva adottato all’unanimità la risoluzione su disarmo e non proliferazione nucleare”; le ombre dei responsabili che possano offuscare tanto slancio si stagliano evidenti: “La tragica spirale nella quale è precipitata la crisi siriana – lo spettacolo del veto di russi e cinesi al Consiglio di sicurezza, il fallimento delle missioni di Kofi Annan e di Brahimi, l’incapacità di fermare i massacri e di imporre un negoziato – è l’esempio più drammatico di questa crisi.”, con l’Europa malinconico assente. L’incoronazione finale non può spettare che a Lapo Pistelli, il responsabile esteri del PD. “Barack Obama è stato la gioia di ogni internazionalista democratico; affiancato da uno straordinario Segretario di Stato come Hillary Clinton, il giovane Presidente è stato la prima personalità del mondo politico a guadagnarsi un Premio Nobel per la Pace “preventivo””. Quell’elenco di impegni, indulge Pistelli, era troppo ambizioso perché “proprio grazie alla inedita offerta di responsabilizzazione e coinvolgimento di alleati e avversari – dipendeva in misura equivalente dalla volontà americana e dalla risposta altrui. Il caso russo e quello iraniano testimoniano di una mano tesa cui si è risposto più volentieri con un pugno chiuso.” Vedremo, purtroppo, il profeta dileguarsi dai lidi europei e dal Medio Oriente, sollevandolo, bontà sua, dalla lacerazione morale di “un faticoso percorso di contenimento delle incoerenze fra principi e interessi, fra la retorica politica sul valore della democrazia e il sostegno alle petro-monarchie sunnite del Golfo”; “ridotta in quantità, l’America nel mondo orienterà comunque anche le proprie priorità in direzioni diverse” verso l’Asia e il Pacifico; l’attenzione, comunque, sarà rivolta maggiormente al proprio interno anche se “potrebbe essere comunque richiamata dal disordine che regna in ogni fase di transizione multipolare. Se, ad esempio, la Russia proseguisse nella propria traiettoria involutiva, qualche altra transizione araba degenerasse in conflitto aperto, lo scontro fra Israele e Iran passasse dalle parole ai fatti” Termino il pot pourri con Umberto Ranieri cui spetta trarre un bilancio. “Nel complesso si è consolidata l’immagine di Obama come leader pronto ad ascoltare la voce altrui e ad agire nel solco di una radicata tradizione di liberalismo multilaterale”, “In politica estera ha messo da parte gli approcci nazionalisti e unilaterali che producevano rigetto e ostilità di gran parte del mondo”. Il realismo comincia a farsi strada: “un ripensamento della politica americana verso il mondo arabo investito da trasformazioni e cambiamenti spesso drammatici; scongiurare che a prevalere nel sommovimento nel mondo arabo siano forze che si ispirano al fondamentalismo, aggressive verso l’Occidente. Il punto drammatico è la Siria”. Uno spiraglio di luce si apre anche per gli europei: “Nel contesto di un mondo multipolare le relazioni transatlantiche possono ritrovare il proprio originario carattere strategico”.

GLI ADEPTI

Due pagine di citazioni possono abusare della pazienza dei lettori, ma offrono un quadro dell’appiattimento critico dell’intero quadro dirigente, dalla vecchia guardia sino alle nuove leve. Una vera e propria mutazione antropologica, avviatasi negli anni ’70 e ormai compiutasi. Verrebbe da pensare cosa il Profeta potrebbe farsene di automi così rudimentali i quali più che di aggiornamenti saltuari di software sembrano aver bisogno di un telecomando continuamente in funzione. Dovrebbero operare nei loro spazi con margini operativi e di giudizio relativamente autonomi, dovrebbero essere espressioni di realtà comunque complesse, impossibili da gestire altrimenti direttamente da parte dei centri dominanti; in realtà somigliano sempre più a spettri che appaiono di luce riflessa.

Riprendo il discorso dalla Pennacchi, dalla tesi secondo la quale lo scontro politico nascerebbe dal conflitto e dall’interazione tra due grandi correnti di pensiero; quella di destra, “mercantilista”, creatrice di squilibri, diseguaglianze, di conflitti e guerre, di potenza; quella di sinistra, neokeynesiana, creatrice di benessere, di uguaglianza, di sviluppo, di pace e dialogo, attenta alla costruzione di ceti intermedi con la funzione di modello e collante dell’intera società. La prima trova la sua massima espressione nella Germania di Merkel, la seconda in Obama, a sua volta legata al new deal roosveltiano.

Il new deal non fu solo un movimento americano, né fu un movimento di per sé pacifico e propedeutico alla pace. Tra i tanti paesi, conobbe analoghi processi nella Germania nazista e nell’Italia fascista. Negli Stati Uniti fu una formidabile fase di ristrutturazione e riorganizzazione, portata avanti per tentativi e conflitti con i settori tradizionali dell’establishement, basata su nuovi sistemi gestionali e manageriali, forte di un consenso popolare ma soprattutto di nuovi ceti; costruì una struttura e una nuova classe dirigente le quali furono perfettamente in grado di sostenere lo sforzo bellico, organizzare il nuovo sistema di dominio e innescare la fase di sviluppo del secondo novecento. Gli anni ’30 non ebbero nemmeno l’esclusiva di quelle politiche. Nella Germania guglielmina di fine ottocento, il militarismo, parallelo a quello delle altre potenze europee, procedette di pari passo con l’affermazione di uno stato sociale all’avanguardia per quell’epoca; così come l’America di Lyndon Johnson nel mentre si impelagava nella guerra in Vietnam, ampliò ulteriormente il welfare e favorì la crescita dei ceti intermedi. Come faccia la Pennacchi ad attribuire una corrispondenza diretta tra politiche keynesiane di eguaglianza e politiche pacifiche del tutto agnostiche rispetto alla ricerca di potenza dei paesi e degli stati è un mistero degno di un atto di fede, piuttosto che di una ricerca accurata. La stessa Germania, portatrice di quelle politiche mercantiliste, sta operando per difendere con le unghie e con i denti il proprio sistema economico-sociale, compreso quel welfare che, secondo la logica demo progressista, dovrebbe invece liquidare a spron battuto. Ha ragione Giorgio Tonini, quindi, a riconoscere una funzione dinamica e creatrice anche al pensiero “neocon”. Gli anni di Thatcher e di Reagan, più che un periodo di tagli generalizzati della spesa pubblica, comportarono la rapida destrutturazione di settori ed apparati obsoleti mantenuti in piedi dalle inerzie burocratiche e dagli apparati concertativi privi di basi economiche valide. Fu il periodo della crisi di grandi aziende e multinazionali decotte (Xerox, minatori), ma anche quello degli sviluppi della ricerca scientifica, dei settori dell’elettronica, dell’aereonautica, delle biotecnologie e dell’informatica; lo stato sociale non fu significativamente ridimensionato se non per i suoi aspetti più parassitari; si cercò di costruire su basi diverse il ceto medio; lo stesso sistema finanziario fu riorganizzato in funzione di quelle esigenze e della concentrazione delle risorse necessarie. Su quest’ultimo aspetto destra e sinistra addirittura si contesero il primato alimentando la politica del credito facile sostenuta dalla liberalizzazione finanziaria; il democratico Clinton, negli Stati Uniti, fu appunto il maggior artefice e l’epigono di queste politiche liberalizzatrici. L’esaurirsi di una fase, secondo Tonini, pone le premesse per l’affermarsi su basi nuove di un nuovo ciclo basato su una nuova corrente di pensiero, all’interno dei filoni storici, ma con tratti fortemente originali. Per questo è contrario ad una riproposizione delle tesi socialdemocratiche care, si fa per dire, alla componente d’alemiana, di Fassina e quant’altri.

LE LUCCIOLE

Per tutta l’intelligentjia democratica, però, queste correnti sono appunto flussi che percorrono il pianeta, attraversano una struttura reticolare senza gerarchie; è, in pratica, la cosiddetta globalizzazione. Sta ai soggetti avere la capacità di coglierli e valorizzarli. Per Tonini le comunità sono i soggetti, le cerniere in grado di catturare e valorizzare le proprietà dei flussi; per il resto dei pensatori, altri tipi di cellule se non proprio gli individui, mai gli stati. Le relazioni, comprese quelle conflittuali, assumono l’aspetto di legami multilenticolari. Non esistono gerarchie, livelli di potenza, strutture in grado di coagulare, sedimentare ed esprimere la forza. Se esistono sono solo l’espressione residuale di resistenze conservatrici, forze oscurantiste autocratiche di vecchio stampo (l’Iran, la Cina, La Russia, la Siria). Alle forze statuali classiche in declino, si contrappongono sino ad eroderle, i movimenti di emancipazione; se proprio le prime dovessero ostinarsi a resistere, tutt’al più, se dovesse occorrere una spallata, subentrerebbe la comunità internazionale cosiddetta, di solito un manipolo di prepotenti che si identificano con il bene comune se non addirittura con quello dell’umanità. Sostenere una simile rappresentazione comporta, però, una rimozione degli eventi a dir poco sconvolgente. Si parla di multilateralismo, quindi di una molteplicità di stati nominalmente di pari dignità; appena, però, traspare questa ambizione, si rischia di diventare dei paria. Quando nei contenziosi tra dirittoumanitaristi e stati diventati canaglia, appaiono gruppi di stati intenzionati ( i BRICS) a porsi come mediatori, sono semplicemente ignorati e rimossi, pena il rischio di equiparare la diversa dignità dei contendenti. È stata sufficiente la rivendicazione primaverile di libertà di particolari gruppi in gran parte isolati dal resto del paese, avulsi da ogni discorso di salvaguardia di sovranità di quegli stati e di quelle comunità, per consentire inopinatamente l’infiltrazione, l’intromissione determinante e l’impantanamento secondo le convenienze geopolitiche, sino al sostegno diretto, all’investitura e all’utilizzo delle peggiori marmaglie di predoni che affliggono le zone di conflitto endemico. Il Kosovo, la Libia, la Siria sono solo gli esempi più drammatici dello sfoggio di ipocrisia dei benpensanti a danno dei loro “beneficiati”. Si arriva così al paradosso che una potenza economica di medio/alto rango economico, ma di basso rango politico come la Germania, solo perché portatrice del pensiero mercantilista neocon, diventi la responsabile principale delle nequizie e l’avversario politico da battere, mentre il peggior mestatore dei tempi recenti, arrivato ormai a condurre contemporaneamente ben tre guerre dichiarate, sia stato investito, ancor prima di cominciare, dell’aura sacra del riformatore, dell’umanista, del pacifista, del difensore dei diritti umani, del giustiziere sociale keynesiano. Una fama, del resto, del tutto immeritata compreso in quest’ultimo aspetto, se è vero che i risultati sono così magri e il livello di consenso interno così lontano da quello riaffermato per ben tre volte dal suo antesignano Roosvelt. Devono ammetterlo tra le righe, a denti stretti, gli stessi apologeti.

LE LANTERNE

Ancora una volta, prima o poi, i nostri invasati dovranno ammettere che non esistono politiche di per sé giuste, come anche una politica, per essere tale, ha bisogno di una gerarchia, di una geografia (uno spazio) e di una cadenza temporale. Una politica keynesiana non è giusta, praticabile e conveniente di per sé. È certamente una opzione, probabilmente adesso la migliore, per un paese in piena sovranità, in grado di continuare a drenare sotto varie forme risorse dal suo circondario e di esprimere la forza necessaria a realizzare i propositi. Gli Stati Uniti rientrano in questo paradigma; un massiccio intervento keynesiano potrebbe addirittura servire a rinforzare la coesione interna attualmente un po’ scricchiolante. Di sicuro quelle politiche non renderanno automaticamente quel paese un fautore di pace e di democrazia, come vorrebbero far credere i nostri della sinistra. Per un paese intermedio come la Germania, impegnato a lucrare in maniera predatoria ai danni dei suoi vicini più sciocchi e deboli, senza però mettere minimamente in discussione le gerarchie geopolitiche fondamentali e l’attuale liberalizzazione finanziaria, una politica di apertura indistinta al mercato occidentale, una politica finanziaria più disposta alla spesa e alla condivisione di garanzie comuni esporrebbe il paese alle stesse fibrillazioni e ricatti dei vicini e si vedrebbe minacciato nella propria precaria situazione.

Il discorso si potrebbe porre diversamente solo se preliminarmente singoli stati, o gruppi (ad esempio quelli europei) si ponessero il problema del livello di sovranità e di forza e delle conseguenti politiche necessarie a preservarle.

IL DIBATTITO SERIO

Negli Stati Uniti, come di solito nei paesi storicamente centrali, le modalità di dibattito sono molto più trasparenti che nella periferia, specie quella sottomessa e prona come la nostra italica; è anche meno ovattato di quel pathos ideologico e retorico tipico di quei paesi impegnati a conquistarsi una condizione più autonoma, come ad esempio la Russia di Putin, tanto più se appena sfuggiti alle fauci fameliche dell’America dei Clinton.

Nelle scuole di economia americane da anni le teorie liberiste non hanno più il monopolio culturale. Accanto ad esse hanno piena cittadinanza, compreso negli organismi finanziari internazionali, altre teorie tese a riconoscere al contesto culturale, agli influssi naturali e ultimamente alle stesse scelte politiche un peso sempre più importante nelle teorie e nelle scelte economiche stesse. Per non parlare dei centri di elaborazione strategica, laddove l’economia stessa è uno dei campi, dei fattori e degli elementi del gioco politico. Sono scuole e correnti di pensiero che offrono argomenti, motivazioni e costruzioni ideologiche e culturali ai vari centri di potere in lotta e collusione tra di loro per l’affermazione.

Lo stesso predominio americano del secondo novecento è nato su un presupposto diverso da quello delle potenze coloniali precedenti. Se i rapporti tra le colonie in precedenza dovevano passare necessariamente, spesso per norma, tramite il paese dominante, uno dei capisaldi stabiliti dagli Stati Uniti fu la possibilità di rapporti reticolari tra gli stati dell’impero con il ruolo di mediatore, arbitro e parte in causa della potenza dominante. Un modo più dinamico di concepire le gerarchie che consentisse comunque la formazione ed il consolidamento degli stati nazionali e che in qualche maniera mantenesse un equilibrio economico generale con politiche nazionali dotate tendenzialmente di una certa autonomia operativa. Questo equilibrio fu incrinato più volte nei decenni precedenti e fu rotto nella situazione di relativo unipolarismo negli anni ’90 e giustificato con l’affermazione piena delle teorie neoliberiste. Con l’emergere di paesi più autonomi le teorie delle opzioni politiche e della sussunzione a queste delle scelte economiche hanno ritrovato piena legittimità non solo in quei paesi ma sono riapparse apertamente anche nel paese ancora dominante, non solo come riflesso ma come argomento esplicito di battaglia politica in mano ai vari centri. La stessa teoria della MTT, certamente non la più importante e ancora limitata al ristretto ambito economico finanziario, è nata negli Stati Uniti. Sta di fatto che il dibattito sulle condizioni politiche di creazione ed accesso ai mercati regionali, con l’esclusione esplicita di paesi rivali, è sempre più aperto anche negli Stati Uniti e corroborata da scelte politiche come il TPP nell’area del Pacifico; come è sempre più esplicita la negoziazione politica della difesa del proprio mercato interno e dei propri processi di reindustrializzazione in controtendenza con le delocalizzazioni avvenute negli ultimi trent’anni verso la Cina.

Un po’ per provincialismo, un po’ per inettitudine, un po’ per servilismo congenito, in Italia faticano ad arrivare gli echi di questo dibattito. Nel PD pare siano riusciti a sintetizzare particolarmente bene le due ultime qualità e a rivestire di cosmopolitismo senza radici la prima.

Hanno sposato con entusiasmo una delle due opzioni in campo nel centro dominante, confidando nella definitiva prevalenza nei prossimi anni e nella possibilità di salvaguardare per qualche tempo ancora la propria base sociale e politica, quella tra l’altro meno adatta, da sola, a salvaguardare un minimo di autonomia del paese. Non hanno compreso che quell’opzione assume compatibilità, dimensioni e connotati diversi a seconda del paese che ne sarà portatore e fautore; è probabile che si siano messi felicemente nelle mani della componente più predatoria di quel paese.

goldencalfMALINCONICHE ILLUSIONI

Certamente si sono preclusi ogni chiave realistica di interpretazione della situazione politica e garantiti la cecità che li sta facendo annaspare nei momenti critici, compresa l’attuale campagna elettorale.

Parlano di prosecuzione delle primavere arabe, di un movimento di massa maggioritario in quei paesi, con il rischio, tutt’al più di un colpo di mano dei fondamentalismi, ma non vedono il carattere elitario e l’isolamento di quasi tutti quei movimenti, compreso quello islamico. Le recenti elezioni in Egitto, compreso il tentativo di colpo di stato, sono emblematiche di questa cecità. Si è spacciata, nel peggiore stile degli ascari, una vera e propria guerra di aggressione tesa al risultato minimo dello smembramento di un paese una rivolta tribale, settaria in Libia e poi in Siria. In quest’ultimo caso rientrata inizialmente dalle sue caratteristiche popolari appena iniziata l’opera di infiltrazione e provocazione dei servizi occidentali, della Turchia e delle monarchie della penisola araba e trasformatasi progressivamente in lotta tra fazioni etniche. Non vedono, quindi, o fingono di non vedere il sostegno aperto o surrettizio offerto dal dirittoumanitarista di Washington alle componenti più retrive e mercenarie. L’esempio più eclatante arriva sicuramente dalla Turchia dove le forze più apertamente europeiste, più aperte formalmente ai diritti civili sono diventate sorprendentemente quelle forze islamiche le quali, pur di sconfiggere la componente politica maggioritaria dell’esercito, li hanno scavalcati nelle velleità comunitarie e hanno trasformato repentinamente la loro politica di buon vicinato con i paesi vicini, in una politica aggressiva e destabilizzante, molto più compatibile con i disegni occidentali ma che rischia di destabilizzare il loro stesso paese.

Come non vedono quello che succede nel circondario, non vogliono vedere ancor meno quello che succede nel cortile, soprattutto nella soggezione e nell’insulsaggine di questo processo unitario europeo a beneficio di terzi. I più audaci, come Ranieri, arrivano ad auspicare un rinnovato afflato strategico dell’alleanza euro atlantica. I più, tra i nostri pdiini, paventano malinconicamente e con rassegnazione un proposito di affievolimento dell’interesse se non proprio di abbandono dello scacchiere europeo e mediorientale da parte dell’alleato americano; una interpretazione manichea esattamente speculare alla denuncia altrettanto manichea dell’unilateralismo guerrafondaio di Bush tutt’altro che cieco e scevro, allora, da compromessi. Quell’unilateralismo presupponeva una sorta di residuo riconoscimento di ruolo bipolare alla Russia di Putin, del resto ricambiato con alcuni favori tra i quali il transito sul territorio russo di truppe e materiale americani diretto in Afghanistan e l’insediamento “provvisorio” di alcune basi nelle ex repubbliche sovietiche confinanti con esso; nonché l’annichilimento di ogni velleità europeista autonoma di Francia e Germania. Una politica che lasciò spazi di manovra a Berlusconi sia di rottura di alcune scelte europee, sia di avvicinamento alla Russia, alla Libia e alla Turchia di allora, paese ben diverso dall’attuale. Il momento di evidente contraddizione e svolta di quella politica avvenne con la guerra in Georgia, con Berlusconi e dietro di lui Bush impegnati a contenere i danni con Putin e Gates e il profeta annunciato Obama a proseguire nella politica di provocazione antirussa.

Una illusione, quella del defilamento americano verso il Pacifico e verso la politica interna, pericolosa se non ipocrita la quale maschera il ben accetto ruolo ancillare predestinato ai nostri prematuri orfanelli. La linea calda dei conflitti dal Sahel africano al Pakistan lascia intravvedere ancora quali saranno ancora per tanti anni le linee di conflitto caldo, pericolosamente vicine all’Europa.

NOTARELLA

Vi è un altro argomento forte che angustia le prefiche del neoisolazionismo americano, espresso in un articolo della rivista apparentemente avulso dal contesto redazionale (http://www.tamtamdemocratico.it/doc/247710/la-rivoluzione-energetica.htm ). La prossima acquisizione dell’indipendenza energetica ad opera degli Stati Uniti e la possibilità che il paese diventi esportatore di materie prime energetiche. Per i nostri orfanelli un ulteriore segno dell’incipiente isolazionismo. Nell’articolo c’è però una notiziola cruciale, del tutto anodina, destinata a sconvolgere la già debole costruzione di questa tesi: il petrolio ed il gas destinato attualmente in Europa è gravato da un prezzo di almeno il 20% superiore ai prezzi correnti, del tutto ingiustificato rispetto agli stessi costi trasporto delle materie prime. Probabilmente uno scotto alle rendite dei paesi produttori; sicuramente una cedola necessaria a garantire la prosecuzione delle primavere arabe. È sicuramente il margine che consente agli Stati Uniti di sfruttare convenientemente le proprie riserve non convenzionali e di proporre una alternativa agli europei alla propria “dipendenza” dai paesi arabi, dal Nord-Africa, sui quali per altro gli americani sono ben impiantati a fungere da controllori, ma soprattutto dalla Russia; è sicuramente quell’autonomia, quell’assicurazione che consente loro di operare in maniera più spregiudicata e con minor nocumento personale in quelle aeree, compreso un parziale defilamento che possa attirare su quei posti nuovi protagonisti diretti e nuove occasioni di conflitto da alimentare e/o arbitrare. Un po’ come successo tra Cina e Russia dopo l’abbandono dell’Indocina da parte degli States negli anni ’70.

Discorsi che potrebbero provocare l’agorafobia, l’opposto della claustrofobia, a un ceto abituato a rifugiarsi sotto le gonne pur di evitare scelte autonome ma rischiose e a rimuovere più o meno coscientemente ogni discorso legato alla autorevolezza e alla potenza di un paese dietro magari propositi ecumenici di cooperazione internazionale, di sovranazionalità, di diritto internazionale senza sovranità che mascherano avventure sempre più squallide e balorde; come anche prefigurare una sorta di interventismo per conto terzi, ulteriormente affinato rispetto allo spettacolo offerto in Libia. La fine tragica di Gheddafi, purtroppo, è stata prontamente rimossa; rimane il ghigno mostruoso, gioviale e terribile di “quel formidabile Segretario di Stato” di nome Hillary così invidiato dai nostri buonisti oltranzisti da salotto. Più la situazione si incancrenisce, più facilmente si trovano volontari a fornire giustificazioni teoriche a questo arbitrio. Habermas è l’ultimo arrivato, ma ce ne saranno ancora e di più lucidi.

Il Messia di Washington ha compreso che una potenza militare soverchiante, oltre il doppio di quella dei restanti paesi messa insieme oltre ad essere, probabilmente, ormai economicamente insostenibile serve a catalizzare gli avversari contro l’unico avversario. Da qui il ridimensionamento e la ridislocazione delle forze.

Certamente, il Profeta di Washington ha di che temere nello Stivale, più che la fedeltà, pressoché gratuita, la lucidità e l’utilità di queste schiere adoranti. Sarà per questo timore, oltre che per il giusto riconoscimento, che ha invitato a metà febbraio, nello Studio Ovale, il più fedele nel tempo, da lungo tempo, ma anche il più lucido dei servitori. Ha dimostrato di saper operare sotto mentite spoglie e allo scoperto; merita, a fine carriera, l’onore delle armi e non si sa quale altro riconoscimento. Potrà dispensare sicuramente ancora qualche buon consiglio ed eseguire un’ultima direttiva in tempi così incerti e con persone così inaffidabili.

LA RIVINCITA _ EN MARCHE, di Giuseppe Germinario

Il colpo clamorosamente fallito sette mesi fa a Washington, negli Stati Uniti, è perfettamente riuscito questa volta, il 7 maggio, a Parigi. Almeno per adesso.

Gli artefici dei due eventi appartengono, fatte salve le dovute gerarchie, allo stesso establishment. La compattezza del sodalizio è apparsa lampante al momento della sconfitta della Clinton; così pure la complicità e la simbiosi inestricabile di quel groviglio di affinità ed interessi svelate dai ripetuti attacchi del tutto inusitati nella loro forma e natura e dal muro eretto dalle due sponde dell’Atlantico contro il neopresidente americano.

Nessuna giustificazione a posteriori delle repentine ed improvvide giravolte di Trump; piuttosto una semplice constatazione.

A novembre l’inaspettata vittoria di “the Donald” aveva potuto contare sulla supponenza di una classe dirigente sicura del proprio totale controllo dei media tradizionali e sull’accondiscendenza e la complicità delle gerarchie addomesticate dalle epurazioni perpetrate negli ultimi venti anni tra gli alti gradi militari, negli apparati amministrativi e nell’intelligence e culminate nell’apoteosi degli ultimi sei di amministrazione Obama; tanto supponente da riproporre imperterrita una vecchia guardia ormai logorata. Una élite talmente tronfia da tollerare l’ascesa di un outsider alle primarie repubblicane nella convinzione che fosse il miglior nemico da battere alle presidenziali; vittima sacrificale più o meno inconsapevole sull’altare della sacra alleanza tra esportatori di diritti umani e interventisti militari fautrice dei numerosi focolai di guerra sempre più pericolosamente prossimi al nemico dichiarato: la Russia di Vladimir Putin. Una sicumera che ha accecato la loro mente e reso invisibile sino ad un paio di settimane dalla scadenza elettorale l’azione coordinata di un manipolo di “carbonari cospiratori”. Tanto limitato nel numero quanto compatto e sagace nello sfruttare ogni interstizio ed ogni crepa di quel moloch per scovare una improbabile candidatura, nello stringere i giusti contatti tra le pieghe degli apparati insofferenti ed esasperati da quella strategia, nel canalizzare con nuovi strumenti il consenso a un nuovo corso sino al successo finale di Trump.

Quanto quel successo si sia rivelato al momento e per il prossimo futuro effimero e foriero di un trasformismo che sta riconducendo rapidamente lo scontro politico nell’alveo e nelle ambizioni tradizionali della politica americana, pare ormai probabile; non basta però a ridimensionare la rilevanza di quell’impresa. Lo testimonia l’acutezza dello scontro ancora in atto dal giorno del suffragio e la inusitata trasparenza di un conflitto che in altri frangenti si ha solitamente cura di condurre dietro le quinte. Segno che i giochi non sono ancora conclusi, né tanto meno il risultato consolidato. Qualche avvisaglia di un ritorno alle intenzioni originarie infatti lo si coglie nella rimozione del capo del FBI, nella decisione di armare i curdi, nella gestione dell’esito elettorale in Corea del Sud favorevole ad una maggiore apertura a Cina e NordCorea. Staremo a vedere.

Con Macron, invece, è filato tutto meravigliosamente liscio.

La Francia di Le Pen e forse di Fillon avrebbe potuto diventare quella sponda necessaria a recuperare almeno alcuni aspetti delle originarie intenzioni in politica estera dichiarate a piena voce da Trump; a costruire un ponte stavolta più discreto verso la Russia di Putin, ad isolare quella classe dirigente tedesca così implicata e imbrigliata nelle strategie demo-neocon americane. Una evenienza da scongiurare assolutamente, secondo i canoni del politicamente corretto.

Da qui la selezione di un candidato, fresco di età e di esperienza sulla scena politica, ma già navigato nella tessitura di relazioni; da qui il suo repentino distacco dalla gestione presidenziale di Hollande, l’apparente ripudio della tradizione politica della sinistra socialista e della destra repubblicana conservatrice e la fondazione di un movimento di rinascita nazionale basato sull’iperattivismo e l’esasperazione delle attuali politiche di declino piuttosto che su un reale programma di rifondazione del paese e della nazione.

Agli evidenti impacci di gioventù del neofita ha sopperito per il resto l’incensamento mediatico orchestrato dai gruppi editoriali, tutti, ancor più che nella precedente avventura americana, direttamente implicati nella campagna elettorale e impegnati nella costruzione del personaggio come nel censurare apertamente sin dalla fonte le informazioni controproducenti. Ad essi si è aggiunta una sottile campagna giudiziaria tesa a eliminare l’avversario più pericoloso, Fillon, per quanto scialbo e improvvido, e a insinuare il discredito verso Marine Le Pen, la candidata vincente al ballottaggio, ma con ancora sulla fronte il marchio pur sbiadito dei collaborazionisti, dei traditori della Resistenza e della Repubblica e del razzismo da additare agli indignati o sedicenti tali.

Il successo di Macron è incontrovertibile, ma non così schiacciante e solido come la percentuale dei voti e il battage mediatico lascerebbero intendere. Non va sottovalutata la capacità di aggregazione e di ricomposizione degli interessi, ma nemmeno la loro fragilità e scarsa pervasività.

Ci sarebbero i milioni di schede bianche e nulle a certificare che il muro non è più così granitico e che tra i due schieramenti esiste ormai una zona grigia contendibile o quanto meno neutrale.

Buona parte dei voti presi, a dispetto dell’ostentata positività di Macron, sono voti contro l’avversario piuttosto che a lui favorevoli; disponibili probabilmente a rientrare in qualche misura nell’alveo classico dei vecchi partiti e ad alimentare una frammentazione politica propedeutica alla paralisi e allo stallo.

Il sostegno proviene da un movimento, “en marche”, dalle scarse probabilità di diventare una forza strutturata, mosso da motivazioni generiche; l’humus destinato a alimentare uno scontro di oligarchie tanto agguerrite quanto ristrette, rissose e instabili perché svincolate dalla ricerca di consensi organizzati estesi. Una dinamica che porta a sconvolgere le modalità di cooperazione e conflitto tra centri di potere così come regolate.

La grande stampa ha già iniziato ad evidenziare il gaullismo di Macron dimenticando che l’ascesa di De Gaulle coincise con il suo isolamento politico nell’Europa comunitaria dei Sei giustapposto ad un recupero dei legami con l’Unione Sovietica e con il mondo arabo; in particolare con un progetto di comunità europea antitetico a quello di Macron. Il richiamo al gaullismo appare credibile solo perché quel movimento è ormai frammentato e disperso in gran parte tra chi per recuperare parte degli antichi fasti perduti ha spinto verso la sudditanza atlantista e chi sogna un recupero della “grandeur” della Francia anacronistica e velleitaria dovesse prescindere da una politica di alleanze tra i più grandi paesi europei che si affranchi dalla sudditanza scaturita nel secondo dopoguerra. Non è casuale il silenzio di Macron sulla crisi che sta investendo l’organizzazione dell’ossatura economica delle passate ambizioni gaulliste: l’industria nucleare, quella del complesso militare e la meccanica pesante. La rivendicazione di una Unione Europea riformata rischia ancora una volta  di risolversi nella versione francese della battaglia renziana sui decimali di deficit da conquistare, su un efficientismo apparentemente fine a se stesso e su una precarizzazione dell’economia.

Il suo reale programma si può arguire dalla statura dei sostenitori indigeni e stranieri, a cominciare da Obama, già attivamente impegnato due anni fa nella ricerca di un candidato alle elezioni presidenziali francesi. Sta di fatto che, fondata sulla disgregazione dei due partiti tradizionali, in particolare il Partito Socialista, piuttosto che sulla loro trasformazione, Macron è riuscito al momento laddove in Italia Renzi ha subito un drastico rallentamento.

LIMITI DEL MINORITARISMO

La forza e la persistenza di Macron non rifulge però solo di luce propria; deriva soprattutto dalla incertezza, dalla approssimazione e dalle ambiguità delle due forze contrapposte, opposizioni nell’indole e nell’anima; quella di sinistra di Melenchon e quella del Front National di Marine Le Pen.

Opposizioni per l’appunto, non forze alternative di governo.

Sino a quando la sinistra continuerà a fondare la propria azione sugli esclusi, sugli “indisciplinati”, sugli “insoumis” (ribelli, non sottomessi) per esistere avrà sempre bisogno di oppressori; sarà sempre destinata ad essere forza di mera redistribuzione, di rimessa rispetto ad altri decisori, di sostanziale collateralismo. Negli ultimi tempi lo si è visto con “Podemos” in Spagna e con Syriza in Grecia. Melenchon sembra destinato a seguire quella traiettoria solo con qualche convulsione e conflitto più radicale e con qualche attenzione in più alla condizione dello Stato, come da tradizione francese.

L’ultimo  confronto preelettorale tra Le Pen e Macron ha rivelato come questa impronta non sia una prerogativa della sola sinistra, ma continua a pregiudicare l’aspirazione del Fronte Nazionale a costruire una linea coerente di ricostruzione nazionale e un indirizzo di politica estera tesa a fondare un’alleanza dei principali paesi europei in grado di sostenere il confronto soprattutto con gli Stati Uniti libero da rapporti di sudditanza.

Non è l’unico indizio rivelatore di tale incapacità.

Quattro anni fa ci fu un primo avvicinamento tra alcune componenti gaulliste meno attratte dalla svolta atlantista degli ultimi dieci anni e il FN. Avrebbe potuto fornire l’embrione di una nuova classe dirigente in grado di consentire il controllo degli apparati statali e l’attuazione concreta delle linee operative. Un avvicinamento durato appena due anni e in gran parte malamente rifluito. Non è un caso che il sostegno garantito da Dupont-Aignan non sia riuscito nemmeno a convogliare la totalità dei propri voti su Le Pen. La stessa campagna elettorale non solo ha conosciuto oscillazioni repentine e contraddittorie delle parole d’ordine e una debolezza di argomentazioni specie sul futuro dell’Unione Europea; ha rivelato un comportamento schizofrenico con linee e comportamenti antitetici degli esponenti tra un distretto elettorale e l’altro. La stessa performance protestataria poco presidenziale tenuta nell’ultimo confronto, più che a un errore o a un cattivo consiglio potrebbe essere, al netto di eventuali trappole ben congegnate del contendente, il risultato dell’impulso di contenere innanzi tutto il dissenso della componente identitaria del partito reso alla fine pubblico con la rinuncia della nipote Marion Le Pen a candidarsi alle elezioni parlamentari di giugno.

Sta di fatto che un pur rispettabile incremento di consensi, inferiore per altro alle aspettative, rischia di risolversi in uno stallo che impedirà l’assunzione della leadership e la definitiva maturazione di una forza nazionale scevra da grandi lacerazioni e fratture traumatiche.

A differenza della leadership americana, in Italia ed in Francia il tentativo in atto nasce da una rimozione improbabile di retaggi politici originari di queste formazioni, assolutamente incompatibili con il nuovo corso auspicabile.

Se, inoltre, in qualche maniera negli Stati Uniti si è trattato di uno scontro politico sostanzialmente impermeabile ad influenze esterne, vista la posizione dominante di quel paese, in Francia tali influssi risultano determinanti anche se non dalla direzione denunciata dalla stampa, quella russa. Si può affermare, al contrario, che l’interesse di quest’ultima sia scemato man mano che risaltavano le contraddizioni del movimento.

La recente tornata elettorale in Austria, Olanda, Stati Uniti e Francia ha rivelato ciò che la scuola del realismo politico ha sempre evidenziato. Le elezioni politiche “democratiche” non sono il momento fondamentale e decisivo del confronto politico.

Intanto i centri decisivi di potere, luoghi di confronto e conflitto di gruppi decisionali, coincidono solo marginalmente con le sedi di governo, in particolare quelli su base elettiva. Il controllo o la destrutturazione di quei centri è decisivo per l’affermazione o meno delle strategie politiche. Ogni forma di confronto e conflitto politico, anche quello più partecipato, si sviluppa tramite l’azione di gruppi dirigenti e con la manipolazione delle leve di potere e degli strumenti di formazione ed informazione secondo i punti di vista di gruppi dirigenti più o meno emergenti. La formazione di blocchi di consenso sono, quindi, sempre il frutto di azione politica. La detenzione delle leve di governo non comporta necessariamente la detenzione delle leve di potere. Una formazione politica tesa al cambiamento ma tutta concentrata nella competizione elettorale è destinata per tanto a vivere cocenti delusioni se non pesanti trasformismi dettati dalla realtà dello scontro politico.

PRIGIONIERI DEI PROPRI SLOGAN 

Anche se essenziale, il limite decisivo che impedisce il salto di qualità alle forze cosiddette sovraniste non è questo.

Il dibattito e lo scontro politico di questi ultimi anni si è sviluppato secondo dicotomie semplificatrici: sovranismo/globalismo, stato/sovrastatalismo, nazionalismo/mondialismo, pubblico/privato, protezionismo/liberismo, tecnocrazia/popolo, mercato/comunità, élite/popolo e così via.

Una dinamica comprensibile e inevitabile in una fase di stridenti contraddizioni, di contrapposizione aperta ad una ideologia sino a poco tempo fa ormai sulla soglia dell’affermazione del pensiero unico.

In effetti è servita a riproporre il ruolo e la funzione dello Stato e delle comunità nazionali, quello delle strategie e della decisione politica nei vari ambiti dell’agire umano, compreso quello economico, nonché il problema della costruzione di formazioni sociali e comunità nazionali più coese ed inclusive, fondate su valori condivisi piuttosto che sul mero scambio di valori economici.

Una rappresentazione antitetica elementare, necessaria a fondare un punto di vista e a motivare e compattare schieramenti politici, nel tempo può diventare fuorviante se non addirittura un ostacolo all’affermazione in mancanza di una analisi concreta e di una tattica efficace di una leadership politica.

L’assolutizzazione dei poli della coppia protezionismo/liberismo rimuove il fatto che il mercato, anche il più liberista, è comunque un luogo normato  attraverso il quale si afferma il predominio di una formazione sociale sull’altra; un luogo dove le tariffe doganali assumono un’importanza sempre minore e dove divengono predominanti la definizione delle caratteristiche dei prodotti, le modalità di formazione ed espansione delle imprese, la regolazione del commercio estero, il controllo dei flussi finanziari, l’orientamento del mercato interno, la detenzione delle tecnologie, ect. Lo scontro politico va condotto sulla definizione di queste norme e gli esempi storici, oggetto di analisi e studio, di formazione di sistemi economici sono innumerevoli.

L’analoga assolutizzazione dei poli pubblico/privato tende ad identificare il pubblico come bene esclusivo della collettività contrapposto all’interesse privato nell’economia. Riduce ad un aspetto morale una necessità storica, ignora che la funzione pubblica, con modalità diverse, è altrettanto importante anche nelle gestioni più privatistiche come quella americana, glissa sul fatto che anche il pubblico è gestito da élites e centri di potere in competizione.

Quella tra sovranismo e globalismo tende a mettere in relazione un concetto di potere con un flusso di relazioni molecolari, quando in realtà anche i più accesi globalisti, almeno quelli non accecati dalla taumaturgia delle parole, comprendono e utilizzano benissimo il ruolo fondamentale degli stati di appartenenza a scapito degli altri.

Lo stesso vale per le altre dicotomie, sulle quali si dovrebbe riflettere piuttosto che ridurre a slogan.

Più che per il valore intrinseco, i poli delle dicotomie andrebbero valorizzati in relazione agli obbiettivi politici di un gruppo dirigente. Il rischio, altrimenti, è di ricadere in una ottica reazionaria che cambi semplicemente le modalità di degrado delle formazioni sociali e in operazioni trasformistiche dal respiro corto.

Il recupero, la ridefinizione ed il rafforzamento delle prerogative degli stati nazionali devono essere, quindi, lo strumento e la modalità attraverso le quali ridefinire le relazioni internazionali, così come si sono delineate ad esempio nell’Unione Europea, sia nella definizione di una politica estera autonoma, sia nella regolamentazione ad esempio di un mercato che consenta la formazione di imprese adeguate nelle dimensioni e nelle capacità tecnologiche e impedisca la distruzione delle capacità produttive e manageriali di interi settori e paesi, sia nella composizione di formazioni sociali più coese e dinamiche dove possano trovare posto anche gli attuali “esclusi”.

La perdurante, anche se ormai logorata, superiorità   del vecchio establishment deriva soprattutto dalla paralisi di una nuova classe dirigente ancora prigioniera dei propri slogan.

In Francia il Fronte Nazionale si sta avvicinando rapidamente ad una cruenta resa dei conti interni con un successo elettorale insufficiente a garantire il netto predominio dell’attuale gruppo dirigente e a favorire il processo di affrancamento da un atteggiamento minoritario. L’ambizione, quindi, di guidare un fronte gaullista/sovranista appare al momento frustrata; sarebbe già significativo riuscire a svolgere e mantenere un ruolo da comprimario.

In Italia la situazione appare ancora più disgregata, proprio perché gli attuali maggiori aspiranti a dirigere un tale movimento non provengono nemmeno da forze di impronta nazionale e devono, quindi, liberarsi di retaggi ancora più vincolanti per assumere una linea sufficientemente coerente e realistica.

 

NATURA MORTA 3a parte, di Giuseppe Germinario

qui la 1a e 2a parte

NATURA MORTA (1a parte), di Giuseppe Germinario

NATURA MORTA 2a parte, di Giuseppe Germinario

 

“Vogliamo essere da stimolo affinché il Partito democratico riprenda questo cammino arrestando la sua deriva neocentrista”, così recita la parte finale del documento fondativo del Movimento dei Democratici Progressisti (http://www.huffingtonpost.it/2017/02/25/movimento-democratico-pro_n_15005420.html ). Una intenzione che rivela lo spirito gregario di una iniziativa lanciata evidentemente di mala voglia, dallo scarso respiro strategico, la cui inerzia connoterà inesorabilmente la precisa funzione del neonato soggetto politico, così come degli altri in via di formazione nella stessa area: quella di mosca cocchiera.

Ogni movimento degno di questo nome per altro indirizza la propria azione costruendosi il proprio Pantheon di numi ispiratori. Massimo d’Alema, l’incubatore del MDP (articolo I Movimento Democratico e Progressista), ancora una volta ci ha illuminati e sorpresi per il suo spirito di accoglienza, già rivelatosi per nulla schizzinoso, sin troppo generoso ed aperto alle novità di fine secolo; nel suo Olimpo in terra, nel tempio degli “illuminati” è riuscito ad assegnare un posto di prestigio niente meno che al Senatore John Mccain, il a suo dire “conservatore illuminato”, acerrimo nemico dell’apprendista stregone neopresidente Donald Trump. La ragione della inopinata ascesa al tempio sono le sue dichiarazioni sulla natura guerrafondaia delle politiche di “the Donald”. Il pulpito dal quale provengono le filippiche non potrebbe essere di certo più credibile. Si tratta proprio di quel McCain immortalato ultimamente, tra le sue innumerevoli peregrinazioni nei vari focolai di guerra nel mondo, in amabile compagnia dei più sanguinari e settari esponenti qaedisti in servizio attivo in Siria ed Iraq, nonché dei più convinti e truculenti esponenti neonazisti impegnati ad alimentare la guerra civile in Ucraina.

Verrebbe da chiedersi il motivo di cotanto spirito d’accoglienza.

Certamente al nostro Leader Maximo non difetta il realismo politico; ne consegue l’accettazione tra le proprie fila dei nemici, secondo il noto principio di Clausewitz, del suo nemico Trump, il capostipite dei populisti e dei reazionari dell’universo-mondo. Si comprende anche, dopo oltre venti anni di imbarazzi e di contorsioni sempre più inverosimili, il sollievo determinato da una situazione che consente di riproporre finalmente il vecchio schema di una sinistra democratica mondiale fautrice di diritti e di pace contrapposta ad una nuova destra razzista, divisiva e militarista. Un buon viatico per garantirsi la sopravvivenza politica ancora per qualche tempo al prezzo però della disinvolta rimozione dei misfatti bellicisti democratico-progressisti degli ultimi trenta anni. Una rimozione certamente resa più disinvolta dall’attitudine e dallo spessore della scorza acquisita nella prima mutazione del nostro dal passato originario nel Partito Comunista. A queste qualità proattive, “diciamo”, fa probabilmente però da retroterra motivazionale alle scelte politiche, una certa inguaribile provinciale sudditanza psicologica di chi ha costruito la propria ascesa politica sulla partecipazione ad una sola guerra, quella contro la Federazione Jugoslava, condotta per di più dall’alto, costruita anch’essa sulla menzogna, tanto propedeutica alla costruzione del sodalizio tedesco-americano quanto nefasta per la federazione jugoslava e deleteria per gli italici interessi; sudditanza psicologica, quella di d’Alema, al cospetto di un personaggio come McCain, al quale deve essere sfuggito persino il novero dei focolai di guerra sino ad ora fomentati. Più prosaicamente deve spingerlo all’azione politica contingente anche il rischio di rottura dello stretto sodalizio con i democratici di Clinton che tanto ha contribuito, assieme ai benefici politici legati alle privatizzazioni degli anni ’90, al successo della sua fondazione;  una incognita determinata dall’esito delle elezioni presidenziali americane e dal possibile conseguente declino della famiglia sconfitta.

Basterebbe questa sintetica rappresentazione a qualificare un movimento politico destinato a raccogliere ormai consensi residuali nel paese.

Il problema è che questa residualità potrà consentire a queste formazioni comunque di ritagliarsi un proprio peso nel processo di frammentazione politica in atto e ritardare se non pregiudicare definitivamente un qualche sviluppo di positiva maturazione politica di una parte sia pure ridotta dei suoi quadri dirigenziali e della gran parte dei militanti di questa area in via di formazione.

Da qui la necessità di sviluppare una critica più puntuale delle tesi adottate non solo dal MDP (Articolo 1 MDP), ma anche dalla costellazione di formazioni interne al PD (mozione Orlando e marginalmente mozione Emiliano), esterne ad esso ma propedeutiche alla ricostituzione del centro-sinistra (MDP di D’Alema, Bersani e Speranza; Campo Progressista di Pisapia); esterne ma intenzionalmente alternative al PD (SI- Sinistra Italiana di Fratoianni e Fassina).

Ad eccezione della mozione Emiliano, conglomerato più che altro destinato ad alimentare formazioni politiche su base civica e territoriale in particolare del Centro-Sud, il resto delle formazioni politiche citate poggia, come si vedrà dai documenti e dagli interventi prodotti, su fondamenti ed analisi politiche comuni, ma su posizionamenti politici diversi frutto di contingente opportunismo.

Ad offrire gli spunti di discussione è sempre d’Alema.

Le sue linee portanti sono le seguenti:

  • Il processo di globalizzazione non ha portato ad una spontanea condizione di pace e di sviluppo omogeneo e ad una estinzione del ruolo degli stati. Le erronee aspettative alimentate in tal senso hanno penalizzato soprattutto le sinistre
  • La globalizzazione ha accentuato le disuguaglianze e favorito quindi l’emergere del potere finanziario, l’emarginazione o la sottomissione della funzione politica a questo potere e una reazione di difesa dei ceti emarginati strumentalizzate da forze antiestablishment (antisistema) piuttosto che populiste
  • Il recupero delle prerogative degli stati nazionali e la riproposizione del nazionalismo sono un lusso consentito alle formazioni e ai paesi più grandi. In quelli medi e piccoli, come quelli europei, si risolvono in una caricatura velleitaria ed impotente
  • Il processo di globalizzazione va quindi governato; per i paesi europei rimane fondamentale ed imprescindibile costruire entità sovranazionali per assumere un ruolo politico significativo
  • La sinistra democratica e progressista deve recuperare una certa radicalità e la capacità di difesa degli interessi dei soggetti deboli assumendo come parola d’ordine il principio di uguaglianza

Inutile ricercare nei suoi interventi una qualche autocritica coerente di posizioni sostenute da lui stesso sino a pochi mesi fa.

Rimane, tra le righe, un approccio che impedisce di valutare adeguatamente la permanenza del ruolo degli stati nazionali, la composizione dei centri strategici che determinano le strategie politiche nei vari ambiti, compreso quello economico e finanziario; che nella permanenza dell’equivoco del predominio delle forze economiche consente di riproporre la solita logica di divisione tra destra e sinistra, soprattutto tra democrazia e dittatura, funzionale al mantenimento degli attuali legami di subordinazione politica nell’agone internazionale; che nella proclamata pretesa di difesa a se stante dei ceti deboli non si fa che riproporre una divisione tra destra e sinistra che assegna a quest’ultima al meglio un ruolo subordinato di redistribuzione di risorse e alla prima la funzione determinante delle scelte produttive e di organizzazione economica funzionali alle strategie geopolitiche e di controllo delle formazioni sociali. Al peggio rimane il ruolo assunto nel determinare l’attuale condizione del nostro paese.

L’analisi dei documenti congressuali consentirà un maggior approfondimento di questi spunti.

Quelle espresse da d’Alema non sono solo debolezze e carenze di analisi, delle semplici incongruenze. Sono anche l’espressione consapevole di una strategia politica da sconfiggere senza remore, oggetto di una battaglia politica. La seguente intervista lascia intravedere di cosa si tratta e di come il personaggio sia parte del meccanismo ( http://www.huffingtonpost.it/2017/04/24/massimo-dalema-spiega-ad-huffpost-la-lezione-francese-una-sin_a_22053364/  )

M5S, la stampella del potere Scritto il 12 giugno 2015 by Federico Dezzani

Mi pare utile riprendere un articolo di Federico Dezzani, con il quale l’autore ricostruisce la genesi del movimento- Giuseppe Germinario

M5S, la stampella del potere

Scritto il 12 giugno 2015 by Federico Dezzani

Twitter: @FedericoDezzani

link originario dell’articolo:  http://federicodezzani.altervista.org/m5s-la-stampella-del-potere/
Le recenti elezioni regionali certificano l’arretramento del M5S che perde 900.000 voti rispetto alle europee del 2014 e quasi 2 mln di voti rispetto alle politiche del 2013: è il prezzo della defezione di Beppe Grillo, ritiratosi nel novembre 2014 dalla guida del movimento perché “un po’ stanchino”. Perché Grillo abdica quando la situazione economica dell’Italia, sempre più esplosiva, permetterebbe di assestare il colpo definitivo al governo Renzi e realizzare la “rivoluzione araba” promessa nel 2013? La risposta è che M5S è la stampella dell’establishment euro-atlantico. Dall’American Chamber Of Commerce alla Telecom Italia, come è stata assemblata la piattaforma di Gian Roberto Casaleggio: l’arroganza è che tale che è apposta pure la firma “nuovo ordine mondiale”.

Italia: poligono per le sperimentazioni politiche

Quando una nuova arma è perfezionata è abitudine sperimentarla in qualche poligono di tiro lontano dal territorio metropolitano, oppure in qualche teatro bellico: ne sanno qualcosa i cittadini sardi che subiscono gli effetti del poligono sperimentale Salto di Quirra, il più grande della NATO in Europa, oppure i ribelli Houthi dello Yemen, contro cui è stata di recente scagliata una bomba termobarica, immortalata nel video che mostra tutta la potenza devastatrice dell’ordigno1. Le armi convenzionali sono solo uno degli strumenti cui il sistema euro-atlantico ricorre per esercitare il proprio dominio. Esiste poi un vasto arsenale di armi riconducibile alla “guerra psicologica”, combattuta contro nemici esterni o contro le opinioni pubbliche di paesi alleati se non, come sempre più spesso capita, direttamente contro i propri cittadini: rientrano tra le armi psicologiche gli attentati falsa bandiera, la propaganda contro governi ostili, gli omicidi politici e le rivoluzioni colorate.

Anche in questo campo l’Italia, uscita sconfitta dall’ultima guerra, ha il triste primato di essere uno dei poligoni preferiti dalla NATO, dove sono testate le nuove armi psicologiche che, se funzionanti, sono poi applicate all’occorrenza in altri Paesi. È nel Bel Paese ad esempio che è sperimentata la strategia delle tensione, applicata poi negli stessi USA con gli attentati dell’11 settembre e le lettere all’antrace.

Le basi della strategia della tensione sono poste nel settembre 1963, tre mesi prima che nasca il primo governo di centrosinistra (DC,PSI, PSDI, PRI) presieduto da Aldo Moro: è in quei giorni che dall’Ufficio Ricerche Economico Industriali del SIFAR parte una relazione riservata indirizzata al generale Giovanni Allavena, capo del controspionaggio del Servizio Informazione Forze Armate. Qui si contempla, pur di arginare l’avanzata comunista, la possibilità di2:

“creare gruppi di attivisti, di giovani, di squadre che possano usare tutti i sistemi, anche quelli non ortodossi, dell’intimidazione, della minaccia, del ricatto, della lotta di piazza, dell’assalto, del sabotaggio, del terrorismo”.

Ad attuare questo innovativo, eversivo, disegno (che metabolizza molti concetti della guerra rivoluzionaria marxista-leninista) è chiamato il maggiore Adriano Magi Braschi, tra i massimi esperti della NATO in guerra psicologica e futuro ponte tra servizi segreti e terrorismo nero, anche internazionale (è infatti in stretto contatto con l’Organisation armée secrète francese).

Due anni dopo, nel maggio del 1965, si svolge presso l’hotel romano Parco dei Principi, il convegno organizzato dall’Istituto di studi militari Alberto Pollio che posa il primo mattone della futura strategia della tensione: intervengono alla conferenza il suddetto maggiore Magi Braschi, alti esponenti delle forze armate e dei servizi, accademici e figure di spicco dell’estremismo di destra (tra cui Pino Rauti e Guido Giannettini).

La fine del mondo bipolare e la volontà di procedere a tappe forzate verso il “nuovo ordine mondiale” (Stati Uniti d’Europa, allargamento della NATO a est, neoliberismo e finanza selvaggia) comporta per l’establishment euro-atlantico la necessità di sbarazzarsi della vecchia classe politica dei “paesi alleati”, con sui si è vinta la guerra fredda: abituati a ritagliarsi una certa libertà di manovra entro i paletti della NATO e propugnatori dell’intervento dello Stato nell’economia, questi politici sono infatti obsoleti nel nuovo assetto unipolare.

In Italia è quindi testata una nuova arma psicologica che negli anni a venire sarà largamente impiegata in tutto l’Occidente: gli scandali mediatici-giudiziari, con cui si discreditano e/o eliminano politicamente singole figure o intere classi dirigenti. Quest’arma psicologica, recentemente impiegata contro i vertici della FIFA rei di non aver cancellato i mondiali in Russia del 2018, si avvale di illeciti o di ipotesi di reato, portati alla luce se e quando la vittima disobbedisce alle direttive o occorre sostituirla con uomini più freschi e fidati.

La prima e, la più potente in Europa Occidentale, bomba mediatica-giudiziaria è sganciata su Milano nel 1992, facendo leva sul finanziamento illecito dei partiti che, fino a quel momento, era stato il segreto di Pulcinella della politica italiana: è l’inchiesta Mani pulite condotta, come ha ammesso l’ex-ambasciatore americano Reginald Bartholomew prima di morire per un tumore3, dal pool milanese di Francesco Saverio Borrelli in stretto contatto con il consolato americano di Milano. Il console generale americano a Milano, Peter Semler, riceve nei suoi uffici il futuro uomo simbolo di Mani Pulite, il magistrato Antonio Di Pietro, quattro mesi prima dello scoppio dell’inchiesta: scopo dell’incontro è essere “informato” sulle implicazioni politiche delle indagini.

Antonio Di Pietro (che attira l’ammirazione del console Semler perché sa usare il computer “a differenza di gran parte degli italiani”) entra alla procura di Milano nel 1985 e la sua padronanza degli strumenti informatici (poi persa nel tempo se, come vedremo in seguito, per aprire il suo blog deve avvalersi di Gianroberto Casaleggio) gli consente di essere cooptato nel 1989 dal Ministero della Giustizia come consulente per l’informatizzazione.

Di Pietro, il cui italiano incerto corrobora le voci di una laurea in giurisprudenza parecchio opaca, ha un trascorso nel SISDE: negli anni ’80 figura tra i poliziotti di scorta al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa4 ed un appunto del centro Sisde di Milano afferma che in quegli stessi anni Di Pietro è in contatto con un diplomatico USA attivo nel nord Italia e con una società vicina alla CIA5. Perché gli americani inseriscono Di Pietro nel pool di Mani pulite, quando la squadra di Borelli sarebbe capace di condurre l’inchiesta contro i vertici della Prima Repubblica anche senza il suo apporto? La spiegazione è duplice: la volontà di avere un proprio referente fidato dentro la squadra di Mani Pulite e, non meno importante, il piano di lanciare Di Pietro, l’eroe nazionale che libera l’Italia dal marciume del DC ed il PSI, come nuovo astro nascente della politica italiana.

Tutti i media del periodo infatti, dal Corriere a Repubblica, preparano il terreno in questo senso6 e, non appena Di Pietro lascia la toga nel dicembre del 1994, gira l’ipotesi che l’ex-magistrato si schieri a destra dell’arena politica, usando come base di partenza il Movimento Mani pulite.

Nel luglio del 1995 Antonino Di Pietro compie il terzo misterioso viaggio negli USA dalla scoppio di Mani Pulite (un primo nell’ottobre del 1992 finanziato dalla United States Information Agency ed il secondo nel 1994 prima di lasciare la magistratura): là è ricevuto dall’American Enterprise Institute7 (lo stesso pensatoio che 15 anni dopo sforna Matteo Renzi) e dal politologo Edward Luttwak.

Al suo ritorno in Italia, stupendo tutti i collaboratori, Di Pietro decide di non entrare in politica con un soggetto autonomo bensì appoggiandosi al centro-sinistra. A Washington devono avergli spiegato che saranno infatti i governi di sinistra a spadroneggiare negli anni successivi, dopo l’effimera esperienza del governo Berlusconi I: il loro compito sarà smantellare l’industria di Statoagganciare l’Italia all’euro a qualsiasi costo e piegarsi alla politica angloamericana nei Balcani.

Tonino è ministro dei lavori pubblici del governo Prodi I (1996) e poi nuovamente ministro delle infrastrutture del governo Prodi II (2006-2008): è nella veste di responsabile di questo dicastero che l’ex-pm, in ottimi rapporti con gli USA, nomina nel febbraio 2007 Gianroberto Casaleggio ed i fondatori della Casaleggio associati (Mario Bucchich e Luca Eleuteri) come esperti del ministero per le strategie comunicative ed i nuovi media8.

Siamo entrati nella sperimentazione dell’ultima arma psicologica, concepita ed applicata con discreto successo già in Ucraina con la rivoluzione arancione del 2004: l’impiego della rete per influenzare l’opinione pubblica, screditare i governi ostili e, all’occorrenza, organizzare manifestazioni di piazza o moti contro le istituzioni.

È nel 2004 che Casaleggio allestisce il sito Beppegrillo.it e, a distanza di tre anni, replica l’operazione con il sito di Antonio Di Pietro: è singolare che tra le centinaia di esperti di comunicazione operanti in Italia, un ministro della Repubblica italiana si affidi “per imparare a schiacciare i bottoncini di Twitter e di Facebook”9allo stesso guru informatico che sta preparando il primo Vaffanculo-day contro il governo Prodi.

La collaborazione tra l’ex-pm di Mani Pulite e Casaleggio prosegue per tre anni, finché Di Pietro si accorge che non è più lui a dettare la linea politica del proprio sito, bensì a subirla, talvolta anche con imbarazzo a causa del toni sempre più aggressivi e denigratori dei contenuti: nel settembre del 2009 si consuma il divorzio tra il segretario dell’Idv e l’esperto informatico.

Da quel momento Di Pietro non è più un socio, seppur di minoranza, della corazzata Casaleggio bensì un rivale politico con cui spartirsi il voto di protesta: a due riprese, man mano che il governo Berlusconi IV affonda sotto il peso degli scandali-mediatici giudiziari e si avvicinano le elezioni, Tonino è liquidato. Nel febbraio del 2010 è pubblicata sul Corriere delle Sera un foto di 18 anni prima che immortala Di Pietro a cena con l’allora capo del Sisde del Lazio, Bruno Contrada, ed uno 007 in servizio all’ambasciata americana. Poi, nel novembre del 2012, la conduttrice di Report Milena Gabanelli assesta il colpo letale all’Italia dei Valori con un’inchiesta sui rimborsi elettorali.

Addio Di Pietro!

Il sol dell’avvenire è ora il Movimento 5 Stelle, nato e cresciuto attorno al blog beppegrillo.it messo a punto dalla Casaleggio Associati. È quindi tempo di indagare sul passato del guru informatico, diviso tra Olivetti, esoterismo e finanza anglosassone.

 

Casaleggio: tra Olivetti, Telecom, Goldman Sachs e nuovo ordine mondiale

Telecomunicazioni e servizi segreti sono pressoché diventati sinonimo dopo le rivelazioni dell’ex-tecnico informatico della CIA Edward Snowden, che nel 2013 dimostra come l’NSA intercetti e sorvegli illegalmente americani e stranieri, semplici cittadini o capi di Stato, appoggiandosi anche a servizi segreti alleati per coprire i rispettivi territori nazionali. Al vertice della piramide che vaglia centinaia di petabite al giorno è il Five Eyes, l’alleanza spionistica tra le potenze anglosassoni (USA, Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda e Canada). Sotto, in base ad affinità politiche e peso internazionale, scendono a cascata gli altri Paesi della NATO.

È superfluo dire che l’Italia, dove il governo Letta neppure fiata quando esplode lo scandalo NSA, è considerata un’espressione geografica, preziosa solo perché dalla Sicilia transitano i fondamentali cavi sottomarini che connettono l’Europa con tutto l’Oriente ed il Sud America: il controllo di Telecom Italia cui fa capo la rete fissa e le linee transoceaniche (Telecom Sparkle) è quindi fondamentale per Washington, tanto che ciclicamente ricorre l’ipotesi di una fusione con la texana AT&T. La penetrazione dei servizi angloamericani nell’ex-monopolio dei telefoni affonda le radici già nel dopoguerra e, dal confezionamento di dossier alle intercettazioni diffamatorie, è sempre stata usata per esercitare il ferreo controllo sul Paese.

È nella cornice Telecom/servizi segreti che deve essere inquadrata la figura di Gianroberto Casaleggio. Perito informatico, mai laureato, entra nel 1975 alla Olivetti dove incontra la prima moglie, la britannica Elizabeth Clare Birks da cui ha un figlio. Il padre di Gianroberto è interprete di lingua russa e questo è un dato interessante perché Adriano Olivetti (1901-1960), l’imprenditore visionario che lascia un’impronta indelebile all’azienda, è appassionato di letteratura russa. In particolare Adriano Olivetti, che con il nome in codice “Brown” è in stretto contatto con i servizi segreti inglesi sin dalla primavera del 194310, è un fervido appassionato di occultismo russo11Helena Blavatsky, fondatrice della Società Teosofica ed autrice del libro Iside Svelata, ed il teosofo russo Vladimir Sergeevič Solov’ëv.

Ad un occultista russo, George Gurdjieff (1877-1949), Gianroberto Casaleggio si richiama espressamente, definendosi suo discepolo12. Il profilo esoterico di Gianroberto Casaleggio si arricchisce poi di nuovi importanti particolari nel marzo del 2013, quando sul settimanale Panorama compare l’intervista al massone Giuliano Di Bernardo, ex-Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, dove, commentando la visione del guru di M5S, sono evidenziate le forti analogie tra il Casaleggio-pensiero e l’esoterismo della massoneria speculativa. Sia per Casaleggio che per l’ex- Gran Maestro del GOI, in un futuro non troppo lontano scompariranno le differenze ideologiche, politiche e religiose, ma secondo Di Bernardo13:

Per me a governare sarà una comunione di illuminati, presieduta dal “tiranno illuminato”, per Casaleggio a condurre l’umanità sarà la rete.

Nel 1999, con un’azzardata scalata a debito che lascerà un segno indelebile, la Olivetti di Roberto Colaninno, attiva nella telefonia con Omnitel ed Infostrada, lancia un’offerta pubblica d’acquisto su Telecom Italia, arrivando a detenerne il 51%. Da circa un anno l’ex-monopolio dei telefoni è guidato da Franco Bernabé che, legato a doppio filo con l’establishment euro-atlantico (è uno dei massimi referenti italiani del Round Table, nella veste di membro del Council on Foreign Relations, gruppo Bilderberg, International Council di JP Morgan e vice presidente di Rothschild Europe14), è reduce dell’esperienza in ENI, dove da amministratore delegato ha curato la privatizzazione del gigante petrolifero italiano al motto di “vendere, vendere, vendere”15.

Il 22 febbraio del 2000 l’Olivetti acquista, per 52 mld di lire, dalla britannica Logica Plc il 45% della società Logicasiel, di cui Finsiel (controllata da Telecom Italia) detiene il restante 55%: la società, che cambia il nome in Webegg Spa, è quindi ora in mano al 100% al gruppo Telecom Italia/Olivetti16.

La britannica Logica plc non è un’azienda qualsiasi, bensì il colosso inglese delle nuove tecnologie: nel 1974 è la prima azienda europea ad importare sul Vecchio Continente il papà di internet (Arpanet) quando è ancora un tecnologia militare statunitense e, in quegli stessi anni, disegna la rete elettronica per lo scambio di dati tra banche (il celebre SWIFT, Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication).

La neonata Webegg Spa che, si legge nel comunicato aziendale,“offre consulenza e soluzioni informatiche alle aziende che si organizzano in rete su modello delle web company17 è davvero ben inserita nel comunità economica anglofona, se si considera che appena un anno prima, nel 1999, ha siglato un accordo di collaborazione con la società di nuove tecnologie Neon (New Era Of Networks, con sede in Colorado), fondata nel 1995 dal responsabile informatico di Goldman Sachs, Rick Adam18 (laurea a West Point, già ufficiale della US Air Force ed ex-esperto informatico presso il colosso degli armamenti Litton Industries19, poi Northrop Grumman. Un personaggio decisamente in odore di servizi).

Amministratore delegato delle ex-Logicasiel, ora Webegg spa, è nientemeno che Gianroberto Casaleggio, affiancato dai fidi collaboratori che il guru porterà poi con sé nelle future esperienze aziendali e politiche: Luca Eleuteri (direttore generale tra il 2000 ed il 2003), Mario Bucchich (responsabile della comunicazione tra 2000 e 2003) e Enrico Sassoon (membro del cda dal 2001 al 200320). Merita qualche approfondimento quest’ultimo: Sassoon, membro del consiglio della camera di commercio americana in Italia sin dal 1998 e direttore responsabile della Harvard Business Review dal 2006, ha le sembianze del classico “agente di collegamento” tra l’ambasciata americana di Via Vittorio Veneto e gli uffici della Webegg Spa.

Come sono le prestazioni economiche del gruppo Webegg? Nel 2011 il bilancio si chiude con 91 mln di fatturato ed un utile di 6 mln 21; nel 2002 la società è consolidata da Telecom, gli utili crollano a 45 mln e l’utile a 2,8 mln; nel 2003 continua la caduta dei ricavi che si attestano per la Webegg Spa a soli più 19 mln22. Nonostante i non eclatanti risultati, la Webegg di Casaleggio non bada a spese per i propri dipendenti, come se la società godesse di qualche connaturato privilegio: tre sedi con uffici avveniristici, feste di fine anno con celebri personaggi delle tv, trasferte internazionali per partecipare a tornei di calcio aziendali, etc. etc.

L’enigmatica attività di Casaleggio in Webegg, tale da richiedere la collaborazione del responsabile informatico di Goldman Sach e la consulenza della camera di commercio americana, si interrompe bruscamente sotto il governo Berlusconi II: nel giugno del 2001 il Cavaliere vince le elezioni, il presidente di Pirelli Marco Tronchetti Provera acquista nel luglio successivo, grazie al placet del governo, il controllo di Telecom Italia e, a distanza di due anni, Gianroberto Casaleggio è costretto a lasciare la Webegg Spa. Poi, nel giugno del 2004, la controllata della Telecom è venduta alla società Value Partners.

Con l’avvento del governo Prodi II (2006-2008), Tronchetti Provera perde la sponda con l’esecutivo: prima si dimette dalla presidenza e poi accetta un nuovo patto di controllo che diluisce progressivamente la percentuale di Pirelli fino all’uscita definitiva. È facile scorgere nella salace satira23 di Beppe Grillo contro Tronchetti Provera, eletto a suo bersaglio preferito finché questi non cede Telecom, una vendetta di Casaleggio per la chiusura del “laboratorio Webegg”.

L’ex-perito informatico dell’Olivetti non si perde d’animo: traghetta i suoi uomini più fidati e soprattutto il consigliere della American Chamber of Commerce in Italy, Enrico Sassoon, verso nuovi lidi e nel gennaio del 2004 nasce la Casaleggio Associati. È molto significativo che il blasonato Sassoon (è corrispondente de il Sole 24 Ore e consulente per le maggiori multinazionali americani operanti in Italia), anziché permanere nel cda di Webegg, decida di seguire Casaleggio nella neonata impresa. Corrobora il sospetto che Sassoon, più che alle nuove tecnologie, sia interessato alla specifica attività cui sta lavorando l’enigmatico perito.

Siamo nel 2004 ed internet è parte integrante dell’allora innovativa strategia angloamericana per rovesciare i governi ostili: l’Ucraina è teatro di un primo tentativo di cambio di regime, la rivoluzione arancione finanziata da George Soros e dal Dipartimento di Stato americano24, dove sono massicciamente impiegati blog e siti d’informazione, ampiamente pubblicizzati dai media anglofoni.

Proprio in quell’anno, stando alla ricostruzione ufficiale, Beppe Grillo legge un libro di Casaleggio, ne rimane affascinato e gli telefona25. I due si incontrano al termine di uno spettacolo a Livorno e stordendolo con racconti sull’esoterista Gurdjieff e sul celebre scrittore dell’imperialismo inglese, il massone Rudyard Kipling, Casaleggio convince il comico genovese (fino ad allora un fervente luddista26) ad affidarsi alle sue mani per la creazione del blog Beppegrillo.it.

La verità deve essere probabilmente un’altra: il comico genovese (che con l’ex agente del Sisde Antonio di Pietro condivide il profilo giustizialista, anti-casta e demolitore) deve essere stato segnalato da qualcuno come idoneo al progetto che Casaleggio sta sviluppando. Chi è questo qualcuno? Gli indizi portano all’ex-colonnello della Guardia di Finanza Umberto Rapetto: amico di Grillo sin dagli anni ’9027, in contatto sin dal 2000 con Franco Bernabé che lo nomina 12 anni dopo consulente strategico in Telecom, Rapetto è docente alla NATO School di Oberammergau e consulente del Pentagono in materia di sicurezza28.

Una peculiarità che Casaleggio conserva dalla precedente esperienze in Webegg è la prodigalità negli investimenti: nell’autunno del 2004 la neonata società di Casaleggio sigla infatti un accordo di collaborazione con Enamics, società di Stanford fondata “dall’esperto mondiale di IT ed autore di best seller internazionali”29 Faisal Hoque, che costruisce le architetture informative per giganti come GE, MasterCard, American Express, Northrop Grumman, PepsiCo, IBM, Netscape, Infosys, JP Morgan Chase, etc. etc.

Come è possibile che un divo dell’informatica che lavora per i colossi delle finanza e degli armamenti americani si lasci coinvolgere nei progetti di una neo-costituita ed anonima azienda italiana? Bisogna forse porre la domanda ad Enrico Sassoon ed ai suoi amici dell’American Chamber of Commerce in Italy, perché difficilmente la Casaleggio Associati avrebbe le risorse finanziarie per pagare la parcella di Faisal Hoque.

Arriviamo ad un punto fondamentale: se in Telecom Italia i progetti del guru di Beppe Grillo erano finanziati direttamente dall’ex-monopolio dei telefoni, dove trae ora sostentamento la Casaleggio Associati? In rete sono disponibili i bilanci per il triennio 2009-201230 che mostrano ricavi ed utili in costanti calo, passando da un 1,6 mln a 1,4 e da un attivo di 118.000 € ad un perdita di 57.000 €. Nulla si sa circa i clienti, ma se si considera che nel 2012 il sito beppegrillo.it è già nato da otto anni, M5S da tre, e che circa un milione di ricavi proviene dai servizi venduti dall’ex-Sisde Antonio Di Pietro31, sorgono spontanei i dubbi sulla capacità della Casaleggio Associati di stare sul mercato senza qualche aiuto interessato.

Di certo, come nel caso di Antonio Di Pietro, è la Casaleggio Associati che produce i contenuti del blog di Grillo, stabilisce la linea politica, decide quando e contro chi alzare i toni.

Direttamente prodotti dalla Casaleggio Associati e diffusi in rete dalla società milanese sono i celebri video Prometheus – la Rivoluzione dei media32 (2007) e Gaia – The future of politics (2008): prescindendo dagli scenari ivi contenuti (terza guerra mondiale, pace perpetua, fusioni tra colossi della rete, trionfo dell’informazione angloamericana), è interessante soffermarsi sui richiami esoterici che, come abbiamo precedentemente visto, sono parte integrante del profilo di Casaleggio. Si cita espressamente il “nuovo ordine mondiale” che, da George Bush senior a Giorgio Napolitano passando per Jacques Delors è sulla bocca di tutti i membri dell’élite euro-atlantica. Inoltre, al termine di “Prometheus” (personaggio chiave della dottrina massonica/teosofica), compare il celebre occhio divino nel triangolo raggiante.

Siamo nel 2008: sfruttando il sito Meetup per l’organizzazione di incontri e manifestazione, Grillo ha iniziato da tre anni a radicarsi sul territorio e, l’8 settembre dell’anno precedente, si è tenuto in diverse piazze italiane il Vaffanculo-Day con cui il comico genovese (condannato nel 1985 a 14 mesi di reclusione per omicidio colposo) pubblicizza l’iniziativa “Parlamento pulito” contro la casta, la corruzione, i segretari di partito, i politici condannati in appello, etc. etc.

Già in quell’occasione a dare un particolare rilievo mediatico al Vaffanculo-day di Grillo sono, ça va sans rien dire, i media anglofoni: in particolare la BBC inglese (che fomenta disordini a casa altrui dai tempi della rivoluzione iraniana del 1979) non perde mai di vista il comico giustizialista, diffondendo su radio34, televisione e internet, gli spettacoli con cui, come ai tempi di Mani Pulite, si demolisce la classe politica italiana.

I tempi sono quindi maturi per il primo incontro ufficiale tra l’astro nascente della politica italiana ed il corpo diplomatico americano in Italia: nell’aprile del 2008, George Bush junior imperante, si consuma il pranzo/esame tra Beppe Grillo e l’ambasciatore americano Ronald Spogli (lo stesso che di lì a poco ammonirà Silvio Berlusconi per i suoi pericolosi legami con la Russia).

Al termine dell’incontro, l’intimo amico di Bush, consigliere tra l’altro della J. William Fulbright Foreign Scholarship (emanazione del Round Table), scrive soddisfatto un cablo al segretario di Stato Condoleeza Rice dal titolo “Lunch with italian activist Beppe Grillo: No hope for Italy. Un obsession with corruption35. Grillo, dice Spogli, è un tipo berbero ma capisce di tecnologie ed è all’avanguardia nella lotta contro la corruzione che mina l’economia italiana (insomma, il Di Pietro degli anni 2000).

L’esame è superato e dalla politica arriva il via libera al progetto sui cui i servizi d’informazione britannici e statunitensi lavorano dai tempi della Logicasiel/Webegg: il 4 ottobre 2009, al Teatro Smeraldo di Milano, nasce il Movimento 5 Stelle come filiazione del blog di Beppe Grillo, appena eletto dalla rivista americana Forbes a settima celebrità mondiale della rete36.

Dalla “rivoluzione araba” allo “sono un po’ stanchino”

Arriviamo all’interrogativo decisivo: a cosa serve il Movimento 5 Stelle?

In base alla storia recente, i movimenti politici finanziati dagli angloamericani e costruiti attorno alla rete, sono riconducibili a tre tipologie: movimenti per rovesciare governi ostili, per rovesciare governi amici e, infine, per mantenere lo status quo, fornendo una valvola di sfogo al malcontento.

Alla prima categoria è riconducibile il golpe ucraino del 2014 o l’attuale tentativo angloamericano di rovesciare il governo macedone di Nikola Gruevski: tramite siti d’informazione, blog e microblog si organizzano manifestazioni e proteste contro l’esecutivo in carica, accusandolo normalmente di corruzione, brogli elettorali e repressione dei dissidenti (stranamente nessuna protesta è mai scoppiata nel Regno Unito contro l’infamante piaga delle pedofilia che da sempre affligge la BBC e Westminister37). La protesta ha la tendenza a fallire perché l’apparato di sicurezza, fedele al governo, reprime i disordini: occorrono quindi attentati falsa bandiera di grande impatto mediatico, come l’impiego di cecchini o attentati dinamitardi, per conseguire il risultato.

Il secondo caso è quello della Tunisia o dell’Egitto del 2011: fantomatici blogger incitano alla rivolta con l’ausilio della rete Otpor!/CANVAS, il movimento di protesta si evolve in un’aperta disobbedienza alle istituzioni, le forze di sicurezza fedeli agli USA non reprimono i disordini, ed il cambio di regime si conclude con un limitato spargimento di sangue e la fuga del premier.

Il terzo caso è invece quello del Movimento 5 Stelle che, dopo aver dato ottimi risultati Italia, è riprodotto perfino negli Stati Uniti attraverso il movimento Occupy Wall Street, finanziato dal miliardario George Soros, come ammesso dall’agenzia Reuters nell’ottobre del 2011 prima di ritrattare rapidamente38.

Scrive infatti il fondatore di Occupy Wall Street, il trentenne Micah White, sul blog di Grillo39:

Al momento il M5S è il più importante movimento sociale al mondoSiete voi che ci state mostrando la strade dove andare, la direzione. E adesso vi voglio spiegare perché il vostro movimento è così importante. Noi siamo come il popolo eletto, siamo i prescelti, i prescelti per creare una nuova realtà. Ci troviamo davanti a tre grosse sfide, che hanno bisogno di soluzioni urgenti.

Sia in Italia, colonia americana sin dal 1945, che, a maggior ragione negli USA, non c’è nessuna volontà di rovesciare l’establishment né di metterlo in discussione: come le rivoluzioni colorate di Ucraina, Georgia o Libia, si agisce sì sul malcontento e sulla frustrazione della popolazione per organizzare manifestazioni e occupazioni di luoghi pubblici, ma lo scopo è offrire una valvola di sfogo, impedendo che l’accumularsi della tensione esploda in autentici disordini o moti di piazza contro la classe dirigente.

Da quando l’Italia è precipitata nella depressione economica, l’unica genuina ed autentica protesta è stata quella dei Forconi, commercianti e piccoli imprenditori piegati dalla crisi, non a caso ignorati o disprezzati dai media, messi in quarantena dal M5S40 e duramente repressi dalle autorità giudiziarie41.

Il Movimento 5 Stelle ha quindi il compito, in una prima fase, di catalizzare la protesta esacerbando i toni, e poi, superate le scadenze elettorali decisive, sterilizzare i voti raccolti, lasciando ai partiti d’establishment la possibilità di governare indisturbati, autonomamente o in coalizione se necessario.

Il sito Beppegrillo.it e M5S fa proprie le tematiche più impellenti per l’elettorato e più scottanti per la UE/NATO (l’ostilità verso la moneta unica, il rifiuto alle installazioni militari americani, l’impopolarità delle sanzioni alla Russia, lo sdegno per la responsabilità degli angloamericani nel golpe ucraino, etc.) ma poi le castra, proponendo soluzioni irrealistiche o limitandosi a qualche innocua invettiva (il referendum sull’euro cui la nostra Costituzione non riconoscerebbe nessun valore, l’esultanza per la sentenza per il provvedimento della procura di Caltagirone con cui è stato sospeso il MOUS, generiche indignazioni contro la rivoluzione colorata ucraina, etc. etc.).

Ripercorriamo la breve parabola del M5S per dimostrare la nostra tesi.

Nell’autunno del 2012 imperversa la campagna elettorale per le imminenti politiche, dove, tra l’altro, l’apparato del PD è riuscito a bloccare l’Opa ostile di Matteo Renzi, cavallo di Troia degli americani, presentando Pierluigi Bersani come candidato premier.

Il duo Casaleggio-Grillo alza al massimo i toni dello scontro, non perché voglia espugnare i palazzi romani con la forza e mettere in discussione il sistema, ma perché deve risucchiare tutto il voto di protesta: è la fase dei “giornalisti carogne”, “se va avanti così ci sarà una rivoluzione violenta”, “il sistema sta collassando”, “la rivoluzione è iniziata” etc. etc..

L’imponente tsunami tour che porta Grillo in 87 città, e di cui manca qualsiasi rendicontazione sui costi e sulle fonti di finanziamento42, è un grande successo di piazza. Il 25 febbraio 2013, prima ancora che le urne siano chiuse, sul sito OpenDemocracy finanziato da George Soros si può leggere43:

There is no telling what the outcome of today’s remarkably uncertain Italian elections will be. But the real story might just be Beppe Grillo’s Movimento 5 Stelle, which could become the third political force in the country, and set a model for others in Europe to follow.

La profezia di Soros è corretta, perché M5S, raccogliendo il 25% delle preferenze, si afferma come la terza forza del Paese, dietro alle coalizioni guidate da Pierluigi Bersani e Silvio Berlusconi.

A questo punto scatta la seconda fase della strategia per cui M5S è stato studiato, ovvero la sterilizzazione del voto di protesta: entrati in Parlamento, i grillini bocciano qualsiasi tipo di alleanza in Parlamento, bollato come “inciucio”, condannando così all’irrilevanza gli 8 mln di voti raccolti.

Il problema che si pone per gli angloamericani è ora quello di sbarazzarsi di Pierluigi Bersani, portando Matteo Renzi prima alla segretaria del PD e poi a Palazzo Chigi.

A inizio di aprile 2013, in vista delle elezioni del nuovo presidente della repubblica, Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo si recano in pellegrinaggio all’ambasciata inglese per discutere sulle votazioni del nuovo presidente della Repubblica44.

È significativo che gli inglesi propongano loro la riconferma di Giorgio Napolitano: il loro obbiettivo è infatti bloccare ad ogni costo l’elezione di Romano Prodi, considerato anti-americano e filo-russo, assestando così un colpo definitivo anche a Pierluigi Bersani. Grillo si adegua, dichiarando che i suoi parlamentari non voteranno mai il professore bolognese45, mentre Matteo Renzi coalizza i famosi 101 parlamentari che affossano Prodi46: l’effetto domino non riserva sorprese e cadono prima Bersani e poi il premier Letta. L’americano Matteo Renzi è finalmente a Palazzo Chigi e può recitare un simpatico teatrino con il sodale Beppe Grillo, quando si incontrano tête-à-tête nel febbraio del 2014.

Siamo nella primavera del 2014 e si avvicinano le fondamentali elezioni europee di maggio, importanti non perché si decide la composizione dell’inutile Parlamento europeo, ma perché servono a dare un’investitura pseudo-democratica a Matteo Renzi, il cui ultimo vaglio elettorale risale alle comunali di Firenze del 2009.

Grillo riveste i panni dell’agitatore blanquista, coadiuvato dai sondaggi falsati e dai media che danno il M5S ad un soffio dal PD o addirittura in testa47: urlando come un ossesso “Siamo il primo partito! Siamo al 60%! Chiederemo le dimissioni di Napolitano e vinceremo le politiche!”, Grillo spinge il voto moderato, allarmato da una vittoria del M5S, verso il PD di Renzi. È la celebre vittoria del 40%, stranamente sfuggita a qualsiasi sondaggista, che consente a Renzi di presentarsi come il trionfatore delle europee, celebrato da tutti i media di regime (“Si legge PD, si scrive DC”48, “Con Renzi ha vinto il partito della Nazione”49).

Arriviamo all’autunno del 2014: malauguratamente per Renzi, ma soprattutto per 60 mln di italiani, le ricette della Troika si confermano fallimentari, il terzo trimestre del 2014 si chiude con un PIL a -0,1% rispetto all’anno precedente e ci si avvia verso l’ennesima stagione di recessione, con un PIL a -0,4% su base annua50.

La congiuntura economica dovrebbe fornire l’assist decisivo a Beppe Grillo: la cura della BCE-UE-FMI ha precipitato l’Italia nella depressione economica, Renzi ha fallito nell’impresa di rivitalizzare l’economia, la disoccupazione continua a crescere e il malcontento pure… È tempo di assestare il colpo decisivo al governo e scatenare quella “rivoluzione araba” promessa nel 201351.

Invece Giuseppe Piero Grillo che fa?

Sostiene di essere “un po’ stanchino, come direbbe Forrest Gump”52 e, tra lo sconcerto della base, passa la palla ad un direttorio di cinque parlamentari del M5S, sotto l’occhio vigile della Casaleggio Associati. Adieu, révolution!

Da allora, ghiottissime occasioni per mandare al tappeto le fatiscenti istituzioni della Repubblica italiana scorrono placidamente sotto i ponti (perché M5S non organizza un oceanico Vaffanculo-day in Piazza del Popolo contro Mafia Capitale? Misteri d’Italia).

In cambio, l’establishment euro-atlantico, lo stesso che marchia i video della Casaleggio Associati coll’occhio divino nel triangolo irradiato, prepara l’ennesima mostruosa trasformazione del M5S, questa volta in partito di governo da sostituire/affiancare al già fuso PD di Matteo Renzi.

Sull’americana La Stampa del 3 giugno si legge l’articolo53 “D’Alimonte: l’anti Renzi non può essere Salvini. Il politologo: con l’Italicum sarebbe più favorito Di Maio”.

Stanno apparecchiando un governo Renzi-Di Maio per tenerci agganciati alla UE?

P.S.: non ce ne vogliano i grillini per il nostro articolo. A noi interessa solo la verità. Per il resto, chioserebbe Gianroberto Casaleggio con un equivocabile motto massonico54, “honi soit qui mal y pense”.

 

 

1https://www.youtube.com/watch?v=OTE_Eshm2xw

2La altre Gladio, Giacomo Pacini, Einaudi Storia, 2014, pag. 275

3http://www.lastampa.it/2012/08/29/italia/cronache/cosi-intervenni-per-spezzare-il-legame-tra-usa-e-mani-pulite-tTSX3uC51vAtqfACDDKGUI/pagina.html

4http://www.italiaoggi.it/giornali/dettaglio_giornali.asp?preview=false&accessMode=FA&id=1617080&codiciTestate=1

5http://www.ilgiornale.it/news/usa-007-e-seychelles-lato-oscuro-pietro.html

6http://www.liberoquotidiano.it/news/libero-pensiero/936673/Facci-racconta-Mani-Pulite–cosi.html

7http://www.ilgiornale.it/news/interni/tonino-pendolare-stati-uniti-quattro-viaggi-avvolti-nel-833406.html

8http://www.liberoquotidiano.it/news/politica/11619935/Quando-Casaleggio-lavorava-al-ministero-con.html

9http://www.liberoquotidiano.it/news/politica/11619935/Quando-Casaleggio-lavorava-al-ministero-con.html

10Il Golpe Inglese, Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella, Chiare Lettere, 2011, pag. 58

11http://spazioinwind.libero.it/gburrini/arch2002/olivetti.html

12http://archivio.panorama.it/news/politica/Gianroberto-Casaleggio-l-uomo-che-ha-inventato-Grillo

13http://www.panorama.it/news/politica/gianroberto-casaleggio-massoneria/

14http://www.auditorium.com/download/download/?file_id=5767123

15http://archiviostorico.corriere.it/1993/giugno/09/NUOVO_PIGNONE_ceduta_entro_anno_co_0_93060910298.shtml

16http://www.01net.it/il-45-di-logicasiel-a-olivetti-che-lancia-webegg/

17http://www.marketpress.info/notiziario.php?g=20000223

18http://www.01net.it/logicasiel-neon-alleanza-per-il-middleware/

19http://www.avweb.com/news/profiles/182463-1.html

20http://www.affaritaliani.it/politica/casaleggio-ecco-il-guru-che-ha-creato250512.html

21https://www.telecomitalia.com/content/dam/telecomitalia/it/archivio/documenti/Investitori/AGM_e_assemblee/2005/Olivetti-2001-bilancio.pdf

22http://www.valuepartners.com/downloads/PDF_Comunicati/scrivono%20di%20noi/2004/rep_040615_computerworld_acquisizione.pdf

23https://www.youtube.com/watch?v=_KOR4EmTouU

24http://www.theguardian.com/world/2004/nov/26/ukraine.usa

25http://www.blitzquotidiano.it/politica-italiana/chi-e-gianroberto-casaleggio-influencer-beppe-grillo-1339710/

26https://www.youtube.com/watch?v=mRhqllCLjss

27http://mag.corriereal.info/wordpress/?p=20432

28https://it.linkedin.com/in/rapetto

29http://www.faisalhoque.com/pdf/NetForum1104.pdf

30http://www.ilfattoquotidiano.it/wp-content/uploads/2013/05/AA-CASALEGGIO-ASSOCIATI-6626519-Bilancio-Ottico.pdf

31http://www.unita.it/italia/m5s-di-pietro-casaleggio-grillo-web-grillini-guru-movimento-cinquestelle-italia-valori-idv-pm-blog–1.506600

32https://www.youtube.com/watch?v=HsJLRX-nK4w

34http://www.beppegrillo.it/2005/12/radio_londra.html

35http://www.lastampa.it/rw/Pub/Prod/PDF/4aprile2008.pdf

36http://www.forbes.com/2009/01/29/web-celebrities-internet-technology-webceleb09_0129_land.html

37http://www.corriere.it/esteri/14_luglio_05/scandalo-pedofilia-westminster-mistero-dossier-scomparso-10033346-042a-11e4-80b4-bb0447b18f3b.shtml

38http://www.corriere.it/esteri/14_luglio_05/scandalo-pedofilia-westminster-mistero-dossier-scomparso-10033346-042a-11e4-80b4-bb0447b18f3b.shtml

39http://www.beppegrillo.it/2013/12/oltre_-_v3day_micah_white_e_la_solidarieta_globale.html

40http://www.ilpost.it/2013/12/11/morra-m5s-forconi/

41http://www.adnkronos.com/fatti/cronaca/2015/01/13/forconi-blocchi-nel-torinese-processo-nel_4M2G8WINwgJAiHoP6K1OtN.html

42http://www.panorama.it/news/politica/grillo-il-rendiconto-dello-tsunami-tour-e-falso/

43https://www.opendemocracy.net/jamie-bartlett/beppe-grillos-five-star-revolution

44http://www.secoloditalia.it/2014/05/gli-strani-incontri-di-casaleggio-e-grillo-allambasciata-inglese-con-letta-che-pranzava-al-piano-di-sotto/

45http://www.lastampa.it/2013/04/19/italia/speciali/elezione-presidente-repubblica-2013/grillo-votare-prodi-non-esiste-DWxYl9vvEDtafqaw205gaP/pagina.html

46http://www.ilgiornale.it/news/politica/fassina-accusa-renzi-era-capo-dei-101-che-fecero-fuori-prodi-1085115.html

47http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-europee2014/2014/05/26/news/sondaggi_flop_europee-87221057/

48http://espresso.repubblica.it/palazzo/2014/05/26/news/si-scrive-pd-si-legge-dc-1.166704

49http://www.unita.it/politica/elezioni-2014/voto-renzi-vinto-partito-nazione-evento-italia-europa-argine-garanzia-sinistra-grillo-protesta-stato-1.572042

50http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-11-14/istat-pil-01percento-iii-trimestre-04percento-2013-economia-italiana-ai-livelli-2000-100100.shtml?uuid=AB5wcqDC

51http://www.giornalettismo.com/archives/869691/la-primavera-araba-di-beppe-grillo/

52http://www.corriere.it/politica/14_novembre_28/grillo-io-blog-non-bastiamo-piu-nomina-cinque-vice-voto-rete-f65f46e8-76e6-11e4-90d4-0eff89180b47.shtml

53http://www.lastampa.it/2015/06/03/italia/politica/dalimonte-salvini-non-pu-essere-lanti-renzi-e73xzRtvBnEkSZwO11X0jN/pagina.html

54http://www.beppegrillo.it/2012/05/honi_soit_qui_mal_y_pense.html

 

Una chiosa di Massimo Morigi a “NATURA MORTA”

Nella “Natura morta (Prima parte)” di Giuseppe Germinario assieme alla esemplare definizione – se mai ce ne fosse ancora bisogno – della natura di parvenu della politica dell’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi e alla descrizione dello spappolamento dello scenario politico italiano che ha consentito che un tal personaggio, unicamente dotato di prontezza ferina di riflessi ma senza alcun spessore umano e politico, abbia potuto arrivare così lontano, emerge anche un dato di fondo che consente anche riflessioni sulla attuale involuzione dei sistemi politici retti dalle cosiddette democrazie rappresentative. E questo dato di fondo è che non solo in Italia, ma in tutti i paesi del perimetro di queste democrazie, quello che è sempre più solarmente evidente – e si cerca di nascondere con tutti i mezzi della propaganda per le masse e della dottrina politica per le classi meno indòtte della popolazione – é che il concetto di politica visto come rappresentanza/rappresentazione dei vari strati e diversificati strati della popolazione non sta letteralmente più in piedi. Non sta in piedi in primo luogo perché si è visto bene che le democrazie non riescono de facto a dare rappresentanza/rappresentazione armonica della società ma solo di coloro che in virtù della loro posizione privilegiata potrebbero benissimo fare a meno di delegare un ceto politico per avere una rappresentanza/rappresentazione parlamentare-teatrale dei loro desiderata e se lo fanno lo fanno solo perché così la realtà vera dei rapporti di forza viene meglio mascherata e, in secondo luogo, non sta nemmeno in piedi dal punto di vista scientifico perché ormai dopo un più che secolare rimbambimento ingenerato dalla scienza politica liberal-liberista dovrebbe, anche al più stolto cultore di scienze politiche e/o filosofico-politiche, risultare del tutto evidente che la politica non è rappresentanza/rappresentazione di qualcos’altro ma non è altro che un episodio del morfogenetico conflitto espressivo della società. Che poi la politica dei paesi nel perimetro liberaldemocratico possa assumere la Gestalt della rappresentanza/rappresentazione politico-teatrale, non contraddice la natura intimamente conflittuale della politica ma non è altro che una sua “astuzia” per coprire questa natura e rendere perciò lo scontro ancora più efficace. Frank Ankersmit con il suo “Political Represention” è il massimo esponente di questa farlocca visione teatrale della politica e Matteo Renzi, pur probabilmente non conoscendone nemmeno l’esistenza, è con la sua postmoderna “narrazione”, senza possibilità di smentita, il massimo interprete della dottrina di questo professore olandese. Ma ciò, come ben sappiamo, non è il problema: il problema non è cioè Renzi ma una politica in Italia e all’estero e, ugualmente, le relative conoscenze teoriche sulla stessa, che sono tutte da rifondare buttando a mare il concetto che la politica sia una specie di rappresentazione di marionette (in effetti, sotto un certo punto di vista lo è, lo è, cioè, per coloro che credono nella visione teatrale della politica), dove quello che conta, in ultima istanza, sono le leggi eterne dell’economia, indiscusse ed indiscutibili (e, in effetti, l’economia riveste un grandissimo ruolo ma non perché questa sia l’espressione di leggi eterne ma perché l’economia non è altro che un episodio, come la politica del resto, dello scontro all’interno fra le classi egemoni e di queste classi egemoni contro le classi sottomesse). Nell’articolo di Germinario viene riferito di un Orlando in cerca anche di nuove categorie di pensiero. Se sia coloro che rimangono dentro il PD in posizione falsamente critica che coloro che ne escono cercheranno, come è sicuro, con un tardo e poco creativo ricalco della visione Ankersmitiana rappresentativo-parlamentar-teatrale, queste categorie in un stupido ed irriflessivo rifiuto delle “narrazioni” renziane (rifiutino, cioè, il postmodernismo narrativo di Renzi per un “sano” ritorno alle vecchie retoriche della sinistra), costoro avrebbero potuto darsi anche meno pena. Se, come invece di tutta evidenza, il loro scopo è stato quello di meglio rappresentare il loro guicciardiniano “particolare” (ottenere una parte più o meno da comprimari nel futuro parlamento-teatro), lo sforzo sarà valso lo sputtanamento di aver combattuto il segretario del partito senza alcun apparentemente valido motivo di fondo. E a questo punto dobbiamo veramente rivalutare Ankersmit e le sue (apparentemente ma anche realmente) svianti elucubrazioni teatrali.
Massimo Morigi – 27 febbraio 2017

NATURA MORTA (1a parte), di Giuseppe Germinario

Tra i dirigenti del PD il più consapevole dell’attuale condizione della classe dirigente, in particolare quella del proprio partito, è apparso Andrea Orlando, attuale Ministro della Giustizia  (http://www.partitodemocratico.it/partito/lintervento-andrea-orlando-4/  – dal 3° al 5° minuto). Nel suo intervento all’Assemblea Nazionale del 19 scorso ha giustificato il distruttivo livello di conflittualità e la personalizzazione dello scontro nel partito con la divaricazione crescente tra le categorie concettuali interpretative della realtà adottate e la realtà stessa nonché con la totale assenza, diversamente da Stati Uniti e Germania, di idonei luoghi di riflessione sulle strategie politiche da adottare. Una constatazione banale ma non scontata su una condizione che al momento sta investendo clamorosamente il Partito Democratico ma che non tarderà ad aggredire le altre forze politiche, compresa la Lega e con la parziale probabile eccezione almeno temporanea del M5S, man mano che ci si avvicinerà alle prossime inderogabili scadenze politiche; al netto di per altro consuete operazioni di trasformismo, tanto più costose per la credibilità dei protagonisti quanto più radicali sono le opzioni politiche presenti sul campo.

Uno smarrimento che deve aver colto persino un iperdecisionista, stando almeno alla sua persistente maschera, come Matteo Renzi, spinto ciò non ostante ad anticipare il suo consueto pellegrinaggio estivo in California.  Ha motivato il suo viaggio improvviso come una necessaria vacanza e un indispensabile momento di depurazione; successivamente lo ha giustificato come un momento di apprendimento di brillanti politiche di sviluppo da mutuare nel proprio paese. Si spera che la sua non sia la tardiva acculturazione e l’infatuazione di un neofita, di un parvenu pronto a mutuare pedissequamente da quel paese le politiche liberal/liberiste un po’ come i futuristi italiani negli anni ’20/’30 fantasticavano su un mondo futuro che scoprirono con meraviglia nei loro viaggi già esistere negli Stati Uniti di quegli anni.

Una impronta che si sta invece confermando; attuazione in realtà di narrazioni piuttosto che di politiche economiche concrete di quel paese, perfettamente in linea con quanto fatto dalla nostra classe dirigente degli ultimi trenta anni. Narrazioni le quali omettono accuratamente il presupposto fondamentale del successo di quelle politiche liberiste: la detenzione di quella potenza e di quella egemonia necessarie che gli Stati Uniti stanno relativamente perdendo ed esercitate sì anche dal nostro paese, ma non meno di duemila anni fa e mai più riacquisite.

Il motivo reale del viaggio sembra in realtà essere molto più prosaico e purtroppo in linea con le propensioni della quasi totalità della nostra classe dirigente; si tratta di chiedere lumi e direttive.

Gli incontri in corso non escono però dalla ristretta cerchia delle abituali frequentazioni americane sino ad ora coltivate; sono esattamente le stesse di questi ultimi quattro anni. Tanto furbo e baldanzoso, il nostro continua imperterrito a prestare ascolto a chi lo ha mandato o istigato allo sbaraglio, facendosi pagare profumatamente alcuni di essi per di più le improvvide consulenze; con grave sfregio dei principi di meritocrazia, neppure uno sconto legato ai deludenti risultati conseguiti.

Eppure qualcosa è con ogni evidenza cambiato ultimamente negli Stati Uniti e un vero leader dovrebbe saper cogliere ed approfittare delle eventuali opportunità offerte da un nuovo corso politico.

Al momento della stesura dell’articolo il viaggio dell’ex premier non è ancora terminato; rimane ancora qualche spiraglio, ma tutto sta per concludersi con ogni evidenza all’interno del cerchio tradizionale degli habituè.

Il nostro in verità ci ha abituati a dosi insolite, a volte eccessive, di spregiudicatezza, del tutto inusuali nel gruppo dirigente così compassato ed ingessato del suo partito.

Mentre D’Alema, tanto per citare il più importante, ha circoscritto il proprio sodalizio alla famiglia Clinton e attraverso questa ha potuto tessere altre relazioni in quel paese e costruirsi un futuro con la propria fondazione e il proprio think-thank, Renzi, in questo facilitato dall’assenza di retaggi ingombranti legati al passato comunista, ha potuto coltivare anche ambienti americani neocon. Lo stretto sodalizio consolidatosi attorno alla presidenza Obama tra la sinistra dei diritti umani e la destra neoconservatrice interventista, esportatrice di democrazia gli ha offerto le chiavi, ma lui non ha esitato ad aprire le porte lasciate socchiuse da quei circoli americani.

L’eventuale protrarsi della Presidenza Trump, ma su linee coerenti con le intenzioni programmatiche, rischia di logorare o far saltare quel sodalizio così nefasto per il genere umano ma così propedeutico alle carriere politiche nostrane.

Purtroppo per lui, Renzi è stato l’unico statista europeo rimasto impigliato al carro dell’Imperatore Obama sino alla fine del mandato in attesa che salisse la Presidenta (mi scuso per l’omaggio alla sintassi boldriniana) predestinata; un destino beffardo gli ha assegnato il posto di unico apostolo al desco della sua ultima cena.

Mal gliene incolse! Da allora quelli che parevano occasionali incidenti su di un sentiero luminoso si sono trasformati in disastri tali da compromettere la marcia trionfale.

La stella di Renzi ha ormai oltrepassato il proprio azimut e la sua parabola volge ormai verso la fase discendente.

Si è imposto a ragione l’obbiettivo fondamentale di modernizzare e razionalizzare il sistema politico, istituzionale ed amministrativo del paese; è partito acquisendo una base di consenso all’interno del partito intorno al 30% e coagulando un altro 50% di forze lottizzate, espressione di interessi ed esperienze locali, dallo scarso respiro nazionale; ha raccolto in pratica e confezionato i frutti avvelenati della riorganizzazione del partito avviata da Veltroni e Bersani (http://italiaeilmondo.com/2017/02/26/lassemblea-programmatica-del-pd-del-45-febbraio-2011-di-giuseppe-germinario/   http://italiaeilmondo.com/2017/02/26/dal-lingotto1-al-lingotto2_-dai-sussulti-ai-singulti-di-giuseppe-germinario-31-01-2011/ ) . Nel frattempo non è riuscito a coagulare il consenso necessario a dar forza al suo programma e l’adesione di quei centri di potere potenzialmente più disponibili alle riforme in grado di garantire più coerenza al progetto. Non gli è rimasto ben presto che giostrare con le forze in campo sino a rimanere vittima delle proprie stesse trame; sino a mettere a nudo l’origine stessa della propria investitura, non molto diversa dall’avvento del podestà straniero Mario Monti.

La forza e il successo di un programma di riorganizzazione di un sistema deriva dalla capacità di un leader e di una classe dirigente di renderlo funzionale ad una prospettiva di autorevolezza e di sviluppo tale da mobilitare energie sufficienti preparate e determinate. Renzi al contrario ha ritenuto che la riorganizzazione “motu proprio” avrebbe innescato la dinamica di efficienza della macchina istituzionale e di sviluppo dell’economia; un impulso tutt’al più coadiuvato da un programma di sostanziale liberalizzazione del mercato del lavoro, di distribuzione impersonale di incentivi, di ulteriori privatizzazioni e collocamenti azionari esteri che avrebbero liberato le virtù intrinseche di sviluppo economico del mercato.

In realtà l’economia tende ancora a ristagnare, il mercato del lavoro più che ridurre ha modificato le caratteristiche del proprio precariato. Nei vari comparti economici i provvedimenti hanno effettivamente avviato, al prezzo di un drastico ridimensionamento dell’apparato industriale, un processo di razionalizzazione e di parziale ammodernamento ma con il drammatico risultato della ulteriore perdita di controllo dei gruppi industriali strategici e di maggiore dimensione e con il rafforzamento relativo di settori marginali o complementari nella catena di valore internazionale. Così facendo ha ulteriormente indebolito proprio quei “poteri forti” dei quali avrebbe bisogno per dare forza ad un vero programma di rinascita nazionale.

Un peccato originale che riduce ad una rappresentazione macchiettistica il suo proposito di “partito della nazione”. Sacrifica la condizione di alcune categorie arroccate nella difesa fine a se stessa di diritti e prerogative in nome di una visione apparentemente astratta del bene comune e dei meccanismi “naturali” tesi a garantirlo.

Fallisce così il proposito di conquistare i voti del centrodestra, conservando l’essenziale dei voti del centrosinistra; il conflitto aperto in sede europea con la Germania si riduce a schermaglie verbali centrate su pochi decimali di deficit da destinare a spese improduttive e di redistribuzione assistenziale di risorse con il risultato di ricondurre puntualmente la conflittualità latente tra gli stati europei nella logica di controllo della potenza egemone americana.

Il risultato è l’isolamento politico in Europa compensato dall’ulteriore subordinazione all’alleato d’oltreatlantico ma senza le coperture che la Presidenza Obama pareva disposto a concedere al nostro; una struttura economica e finanziaria ormai terreno di conquista dei tre principali paesi del mondo occidentale componenti dell’Alleanza Atlantica; un leader politico sempre teso a strappare voti e consensi nel campo berlusconiano ma per garantirsi la mera sopravvivenza piuttosto che la fondazione di un grande partito maggioritario.

La scissione controvoglia della sinistra clintoniana del PD, pronta per altro a rientrare una volta regolato il contenzioso con l’intruso, apre lo spazio a numerose opzioni e contribuisce a rimettere in campo politici ormai da tempo sulla via del tramonto, a destra come a sinistra; mette a nudo tatticismi sterili e povertà di proposta politica addirittura maggiori rispetto a quanto espresso dal segretario dimissionario del PD.

Di questo si tratterà nella seconda parte dell’articolo.

Renzi, al contrario, corre seri rischi di sparire dalla scena politica soffocato nelle spire dell’attuale paralisi istituzionale.

Una volta liberatosi in parte della propria fronda interna, ha tuttavia diverse frecce ancora a disposizione del proprio trasformismo teso a rilanciare il suo nazionalismo verbale di facciata ed il suo efficientismo apparentemente fine a se stesso, magari torcendo a proprio profitto il consenso raccolto dai dissidenti. Un trasformismo evidenziato e reso inevitabile dalla totale assenza di analisi delle cause della sconfitta referendaria che non vada oltre la consueta giustificazione legata ai difetti di comunicazione del messaggio.

Una possibile resurrezione a patto però che si realizzino due condizioni:

  • che riesca a controllare la propria indole e trarre frutto dall’esperienza;
  • che a livello internazionale l’anomalia della Presidenza Trump sia ricondotta in qualche maniera nell’alveo del tradizionale scontro e della discreta collusione tra democratici e neoconservatori americani

Il prossimo rientro di Renzi ci offrirà qualche indizio sui prossimi passi da cogliere una volta caduta definitivamente la maschera delle elezioni anticipate; l’esito delle elezioni francesi aprirà le danze a corte e consentirà di cogliere più chiaramente i ruoli degli attori e la posta in palio anche qui in Italia. Sarà, probabilmente, la raccomandazione più accorata che il vecchio establishment americano, restio ad abbandonare più che la scena le leve dello stato profondo, deve aver suggerito al nostro solerte viaggiatore.

LA TAUMATURGIA DELL’INVESTIMENTO SOCIALE, di Giuseppe Germinario

Riprendo un interessante articolo di Luca Ricolfi apparso su il sole 24 ore del 25 settembre scorso dal titolo “Quando a crescere è il lavoro degli immigrati”, le cui conclusioni hanno provocato a suo tempo in me, devo confessarlo, una certa ripulsa ( http://www.pdmeda.it/pd/2016/09/26/quando-a-crescere-e-il-lavoro-degli-immigrati/ ).
Il testo parte dalla considerazione che il divario tra la pesante situazione occupazionale e la percezione di essa ancora più catastrofica derivi dal dato che la perdita in otto anni di quasi due milioni di posti di lavoro di italiani, i cosiddetti facitori di opinione pubblica è in parte mascherata dall’incremento di ottocentomila occupati tra gli immigrati, estranei alla costruzione mediatica. Il sociologo adduce tre ragioni di queste tendenze divaricanti. La prima è fisiologica, legata alla quota crescente di immigrati stanziati in Italia. Le altre due meritano la citazione integrale:”La seconda ragione è che, durante la crisi, la domanda di lavoro è crollata nelle posizioni ad alta qualificazione (tipicamente ricercate dagli italiani) ed è aumentata sensibilmente in quelle a bassa e bassissima qualificazione (tipicamente accettate dagli stranieri). La terza ragione è più generale, e probabilmente più difficile da riconoscere. Anche se molti si lamentano della situazione e della mancanza di prospettive, la realtà è che la maggior parte degli italiani hanno raggiunto un livello di benessere sufficiente a renderli alquanto “choosy” (copyright Elsa Fornero) nella ricerca di un lavoro. In tanti non cercano semplicemente un lavoro, bensì un lavoro adeguato all’opinione che essi si sono fatti di sé stessi, opinione che scuola e università si incaricano di certificare. L’esatto contrario degli stranieri, che sono disposti ad accettare un lavoro anche al di sotto, molto al di sotto, delle qualificazioni acquisite e certificate.” Da qui il giudizio: “Si può deplorare quanto si vuole questa situazione, e immaginare che quelli degli italiani siano diritti negati, e la condizione degli stranieri sia di puro e bieco sfruttamento (come in effetti talora è: vedi le tante Rosarno, vedi la piaga del lavoro nero). E tuttavia c’è anche un altro modo di raccontare le cose. Gli stranieri immigrati in Italia sono esattamente come noi, solo che vivono in un altro tempo, un tempo che noi abbiamo vissuto negli anni ’50 e ’60, quando il nostro livello di istruzione era più basso e non c’erano genitori e nonni disposti a mantenerci finché trovavamo un lavoro coerente con le nostre aspirazioni. Quanto a noi italiani, è certamente vero che i posti sono pochi, troppo pochi (ce ne mancano circa 6 milioni per diventare un paese appena normale, con un tasso di occupazione in media Ocse), ma purtroppo è anche vero che paghiamo lo scotto di aver liceizzato tutto –scuola e università – senza valutarne le conseguenze. In un paese che, colpevolmente, ha scarso bisogno di laureati e continua ad avere bisogno di innumerevoli competenze tecniche e professionali intermedie, aver svuotato di ogni vero saper fare la maggior parte dei diplomi di scuola secondaria superiore non è stata una grande trovata”; quindi la conclusione:” Forse, l’avanzata occupazionale degli immigrati, con la loro umiltà e determinazione, è anche un silenzioso segnale rivolto a noi, un invito a riflettere sullo scarto fra quel che siamo e quello cui crediamo di avere diritto”.
Si direbbe una salutare immersione nella realtà; dopata però a mio parere da dosi eccessive di senso comune dalle scarse prospettive.
• La crisi ha determinato quindi un crollo nelle posizioni ad alta qualificazione. In realtà il crollo riguarda alcuni paesi, tra questi l’Italia, mentre altri vivono un declino, una riorganizzazione o addirittura una espansione. La crisi, la situazione di rottura, quindi, agisce e produce condizioni e tendenze diverse. Non è la crisi di per sé, ma la condizione di un paese in questa situazione di rottura e transizione e la capacità e l’ambizione della sua classe dirigente a determinare il realismo delle aspettative individuali.

Avviciniamoci dunque al cuore del problema posto da Ricolfi, la schizzinosità (choosy) degli italiani nella ricerca del lavoro. Pur con tutte le tare e le precauzioni da adottare su di un argomento così esposto alla demagogia e al pressapochismo, è indubbio che le dinamiche di sviluppo ed emancipazione del paese degli ultimi trenta/quaranta anni abbiano ingenerato altrettante notevoli aspettative ed aspirazioni individuali, specie in alcune zone e categorie sociali del paese.
Altrettanto vero che tali aspettative siano state alimentate da una concezione della scuola e della università che riduceva spesso e volentieri l’istruzione e la specializzazione ad un sinonimo orientato più verso la prima che la seconda, fermo restando l’indubbio progresso sociale rappresentato da un elevato livello di istruzione.
Le stesse specializzazioni si sono orientate prevalentemente tra l’altro verso ambiti diversi da quelli tecnico-scientifici.
Una combinazione micidiale di orientamenti individuali che hanno distorto pesantemente il mercato del lavoro, spesso sostituito alla professione e alla competenza professionale l’aspirazione all’impiego e concesso prestigio e status a determinati ambiti rivelatisi alla fine pletorici e parassitari.
Da qui l’invito dell’autore a “riflettere sullo scarto fra quel che siamo e quello cui crediamo di avere diritto”.
Si tratta però di un invito che nel migliore dei casi si risolve in un moralismo sterile e inconcludente, giacché una tendenza e un orientamento diffuso se non generalizzato non può essere il mero frutto della sommatoria di scelte individuali. Nel peggiore e purtroppo sempre più corrispondente al clima politico e culturale del paese, non fa che assecondare quel tentativo di salvaguardia della posizione dei ceti intermedi più fortunati nella difesa e preservazione delle proprie prerogative di ceto e di casta le quali stanno bloccando completamente le possibilità di mobilità sociale verso l’alto e soffocando le possibilità di trasformazione e riorganizzazione positiva del paese.
Quegli orientamenti e quelle scelte individuali sono la conseguenza diretta di caratteristiche strutturali del paese e dei suoi ordinamenti che le classi dirigenti succedutesi hanno alimentato e promosso piuttosto che scoraggiato.
A titolo di esempio, l’inflazione di avvocati e commercialisti e il corrispondente alimento di aspettative trova corrispondenza esatta nelle caratteristiche del sistema fiscale e tributario e in quelle del sistema giudiziario e giuridico; una saturazione aggravata dallo scarso peso della grande industria e dal conseguente scarse possibilità di accesso in altri settori di queste professionalità.
L’ambizione all’impiego è solo in parte il riflesso della necessaria natura burocratica delle amministrazioni pubbliche; è soprattutto la conseguenza della particolare e concreta organizzazione burocratica dello Stato Italiano, del suo particolare ordinamento gerarchico, dell’effettivo livello di responsabilità esercitato nelle funzioni, delle procedure di selezione e nomina dei quadri dirigenziali, della sovrapposizione di competenze.
Non siamo giunti però ancora al cuore del problema.
L’errore secondo Ricolfi è “aver liceizzato tutto –scuola e università” “In un paese che, colpevolmente, ha scarso bisogno di laureati e continua ad avere bisogno di innumerevoli competenze tecniche e professionali intermedie”.
Intanto lo stesso autore sembra smentirsi in un altro articolo (http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-10-16/il-problema-e-difficolta-non-latino-112506.shtml?uuid=ADC45JdB&fromSearch) perché il problema maggiore della scuola italiana sembra essere, secondo me a ragione, la svalutazione della difficoltà nello studio.
Uno studio della Fondazione Edison del 2012, con il direttore Marco Fortis non ancora pervaso dall’ottimismo oltranzistico legato alla sua partecipazione al Governo Renzi, quantificava la necessità insoddisfatta di personale qualificato nel Nord-Italia in poco più di centomila unità. Una cifra attualmente, secondo me sovrastimata, visto che in questi ultimi due anni la crisi sta decimando ormai anche aziende sane dal punto di vista organizzativo e tecnologico. Una cifra comunque certamente importante, della quale tener conto negli indirizzi scolastici, ma sicuramente poco significativa rispetto ai “sei milioni di posti mancanti” necessari a raggiungere un tasso di occupazione paragonabile a quello dei paesi del Nord-Europa.
Del resto, l’esodo che sta colpendo da alcuni anni il paese non riguarda più soltanto i laureati, specie quelli in materie tecnico-scientifiche, ma anche i diplomati, buona parte dei quali trovano collocazione nei settori produttivi-manufatturieri dei paesi ospitanti.
Alla luce di queste ultime due considerazioni l’affermazione finale dell’autore assume un tono particolarmente inquietante se non funereo.
Rappresenta soprattutto il de profundis ad un altro caposaldo delle politiche di sviluppo e di progresso tipiche del sodalizio progressista di questi ultimi decenni: l’investimento sociale.

LA TAUMATURGIA DELL’INVESTIMENTO SOCIALE

Negli ultimi anni l’espressione “INVESTIMENTO SOCIALE” ha assunto il valore taumaturgico di uno slogan. Piuttosto che la spesa sociale ex-post mirante a tappare le falle con criteri assistenziali, piuttosto che la tesi liberista di alleggerimento o soppressione del welfare, ritenuto un mero costo, mirante a ripristinare le condizioni di equilibrio tra domanda e offerta di lavoro, “le politiche sociali andrebbero viste come un investimento che la società mette in campo per garantirsi un miglior ritorno economico e sociale nel futuro” (dal libro di Ranci, Ascoli, Sgrata “Investire nel sociale”); nella fattispecie “la strategia dell’investimento sociale lega, invece, la problematica della disoccupazione innanzitutto alla carenza di adeguate qualificazioni e competenze necessarie per trovare lavoro oggi e in futuro… orientata a privilegiare politiche sociali volte alla crescita del cosiddetto capitale umano” (idem). Politiche, si concede tra i più avveduti, “accompagnate da interventi strutturali”, lungi però questi ultimi da essere definiti nel corso di questi decenni.
Il Governo di Renzi, sostenuto dal suo mentore Gutgeld, è stato il più convinto sostenitore di questo indirizzo. Nell’ambito ad esempio della formazione scolastica, l’autonomia degli istituti scolastici, il ruolo dei finanziatori privati, i progetti di alternanza scuola-lavoro, la riforma dell’apprendistato rientrano coerentemente in questi indirizzi; indirizzi che, a prescindere dal merito e tenuto conto dei necessari tempi di attuazione, immediatamente hanno dovuto scontrarsi con la realtà della struttura produttiva e di servizi del paese.
Così, pochi mesi dopo il varo della legge sono stati aboliti gli obblighi formativi esterni all’azienda degli apprendisti; i casi di alternanza scuola-lavoro sono ancora limitati; l’attenzione del mondo imprenditoriale verso la scuola, in particolare gli istituti tecnici e professionali è “ancora” abbastanza residuale; permane l’enorme problema del ruolo delle scuole tecniche e professionali nelle vaste zone del paese economicamente depresse.
Sono politiche, come pure quelle del job act, mutuate da altri paesi; nel migliore dei casi ignorano il contesto produttivo ed imprenditoriale, nel peggiore ne assecondano le tendenze praticamente ormai irreversibili ad un declassamento “spontaneo” delle strutture produttive nel contesto internazionale.
Si tratta di un contesto profondamente mutato rispetto agli scenari di appena trenta anni fa.
• La grande azienda è praticamente scomparsa e soprattutto è pressoché scomparso il loro controllo strategico. Ne consegue la crescente estraneità degli interessi del paese dalle scelte strategiche delle imprese, dalle pianificazioni di marketing e dalle politiche di innovazioni di prodotto con buona pace della beota euforia per le acquisizioni estere espressa dai vari Renzi e Fassino
• Le stesse aziende capofila delle filiere produttive composte da medie e piccole aziende sono sfuggite anch’esse in gran parte al controllo dell’imprenditoria locale
• La stessa gestione delle reti e della logistica integrata, quest’ultima in via di formazione con anni di ritardo, deve subire profondi condizionamenti esterni e risolvere in diversi casi enormi problemi legati alla frammentazione dell’apparato produttivo
• L’innovazione tecnologica e la miglioria di prodotto, già deficitaria, è in buona parte legata all’iniziativa occasionale interna alle piccole aziende difficilmente trasmissibile nei software indispensabili alla digitalizzazione dei processi
Sono una parte importante dei fattori che subordinano la ricerca e soprattutto il riconoscimento professionale ad altri fattori del tutto estranei.
Arretratezza tecnologica e dei criteri di gestione, struttura proprietaria delle aziende, fuga delle posizioni strategiche, politiche sindacali, specie nelle grandi aziende di servizio, le quali assecondano gli interessi delle grosse concentrazioni di dipendenti piuttosto che la collocazione professionale; tutti aspetti che contribuiscono ad accentuare i processi di precarizzazione già presenti nel mondo del lavoro a livello globale con l’aggravante del disconoscimento massivo delle competenze professionali. Il plus proviene dalla confermata beotitudine di gran parte della nostra classe dirigente, tra questi il nostro “bomba” (Renzi) prontissimo a esaltare il bassissimo livello retributivo dei nostri ingegneri e tecnici e ad avallare ad esempio con le ipotesi di appiattimento delle prestazioni previdenziali a prescindere dalle erogazioni contributive e di reddito di cittadinanza tale disconoscimento.
Si tratta di una classe dirigente che non fa che assecondare le peggiori tendenze prevalenti nel paese e nel mondo imprenditoriale tese a trasformare nel migliore dei casi il nostro apparato produttivo in un opificio e in un cultore di nicchie esposti alla peggiore concorrenza, subordinati alle strategie altrui con scarsissime possibilità, grazie alla cessione degli asset strategici, di partecipare con un qualche ruolo decisionale ai processi di concentrazione ed integrazione. Non si tratta, quindi, di scelte economiche neutre, ma di politiche economiche legate al tipo di collocazione e di autonomia decisionale che una classe dirigente intende subire o scegliere.
Una politica di investimento sociale può essere il giusto corollario di una politica generale minimamente ambiziosa e autonoma; slegata da obbiettivi di recupero delle prerogative di un paese o addirittura complementare e propedeutica a questa politica di subordinazione non fa che alimentare sprechi di risorse, formazione di ceti magari pure colti quanto parassitari, corporativi e istupiditi, formazione di quadri e risorse disponibili per altri paesi e di strutture amministrative autoreferenziali. Una politica storicamente attenta alla redistribuzione ma altrettanto apparentemente indifferente alla modalità e alle finalità di produzione delle risorse. In questo si può racchiudere probabilmente la parabola efficientista di Matteo Renzi.
Le politiche degli ultimi due governi, per ultimo il programma di implementazione di industria 4.0, non fanno altro che sancire irreversibilmente tale tendenza e rendere particolarmente duro e problematico un programma di recupero. Stride il silenzio che circonda un programma così importante. Ne parlerò, appena possibile, in un articolo dedicato.
Per concludere, la chiosa finale dell’articolo di Ricolfi più che una presa d’atto realistica per ripartire, mi pare sia la sanzione complice di una cattiva condizione del paese. Il contributo dell’immigrazione mi pare che si risolva anch’esso in questo. Tanto più che la segnalazione di questi sviluppi occupazionali positivi, nascondono un altro esodo del tutto ignorato; quello di una manodopera immigrata, qualificatasi professionalmente nel corso di questi ultimi lustri nel nostro paese e fuggita all’estero attirata da migliori condizioni.

IL GIORNO DEL RINGRAZIAMENTO, di Giuseppe Germinario

Un epilogo beffardo!
Appena sette settimane fa Renzi era accolto a tavola del Presidente degli Stati Uniti d’America, uscente ma pur sempre il Presidente.
Trattandosi dell’Ultima Cena, non risulta alcun gesto scaramantico da parte di Renzi al suo ingresso a tavola.
Il suo futuro del resto si prospettava fulgido e pregno di aspettative. Uno dei suoi mentori principali presiedeva lo staff elettorale della pressoché certa nuova Presidente statunitense e da quegli ambienti aveva attinto buona parte dei propri consiglieri; con l’uscita, al momento proclamata, della Gran Bretagna dall’Unione Europea, l’Italia si accingeva a sostituirla nel ruolo primario di contraddittorio dell’asse franco-tedesco e di portavoce diretto dell’alleato d’oltreatlantico in sede europea.
Un Capo di Governo che deve la propria fortuna soprattutto all’investitura esterna più che al radicamento negli interessi forti e diffusi del proprio paese, non poteva del resto che costringere le proprie sorti principalmente alle vicende d’oltre confine.
L’elezione di Trump ha rappresentato la rottura della faglia principale su cui era costruito il castello delle aspettative. La sua politica estera e la sua politica economica, almeno nei proclami e nelle intenzioni, sono antitetiche rispetto al progetto e ai legami esibiti sin troppo spavaldamente dal nostro indomito.
La vittoria di Fillon alle primarie repubblicane francesi prefigura una particolare interpretazione della svolta trumpiana fondata su un asse tattico franco-russo-americano potenzialmente antitedesco e, in una prospettiva più larga, anticinese.
La ricandidatura di Angela Merkel, lo sponsor più controproducente da esibire, rappresenta invece il probabile tentativo di conservare la preminenza del sodalizio tedesco-americano in Europa fondato sulla permanenza esplicita o surrettizia del vecchio establishment americano e sulla sconfitta o neutralizzazione della svolta trumpiana.
Sono le due faglie secondarie destinate a rendere ancora più precaria la condizione del paese e la posizione del Matteo dimissionario. Meriteranno assieme alla prima senz’altro un articolo a parte.
Si tratta comunque di uno sciame sismico che ha dissestato le fondamenta e messo a nudo la precarietà dell’edificio renziano.
Un edificio che aveva come tetto una riorganizzazione istituzionale e amministrativa che tendeva correttamente ad una centralizzazione, ad un riordino e ad una semplificazione delle competenze e delle funzioni ma le cui pareti erano costituite da una politica economica e sociale del paese disastrosa non solo per le ripercussioni, la disgregazione, i corporativismi che stanno innescando nella formazione sociale ma soprattutto perché porta a perdere il controllo della produzione di quelle risorse necessarie a garantire l’autonomia politica, la riorganizzazione istituzionale, la coesione della formazione sociale e la prospettiva del nostro paese.
Il risultato è stato una riforma pasticciata della quale si è assunto il patrocinio Renzi ma della quale sono responsabili tutti i partiti; un tentativo di centralizzazione di stampo oligarchico perché incapace di dare una prospettiva di sviluppo e di autorevolezza politica, frutto quindi di un compromesso precario estorto a quelle stesse forze che avrebbe dovuto sconfiggere ed emarginare.
Il piano di implementazione dell’industria 4.0, presentato dal serissimo ministro Calenda, rappresenta l’emblema di quella politica economica. Un piano fondato su incentivi generalizzati ed investimenti di ricerca tesi a digitalizzare, informatizzare ed integrare i processi industriali assecondando però il processo di periferizzazione della merceologia e della tecnologia di prodotto. Una politica antitetica rispetto a quei paesi emergenti tesi a competere con gli Stati Uniti, ma soprattutto del tutto disallineata rispetto alla politica economica tracciata da Donald Trump in America.
Una vittoria non troppo schiacciante del sì probabilmente avrebbe segnato il destino delle due componenti, accorciato una loro agonia comunque in corso e reso più trasparente il sistema politico.
Sta di fatto che l’esito del referendum ha riportato in campo almeno temporaneamente e più saldamente Silvio Berlusconi e la componente minoritaria del PD. Assisteremo al tentativo di ricostituire il gioco destra-sinistra e con questo puntare ad ingabbiare la Lega e Fratelli d’Italia nel centrodestra e rinsaldare una sinistra progressista comunque minoritaria. Alla bisogna si troveranno le forme di collusione necessarie a neutralizzare l’ascesa del Movimento Cinque Stelle (M5S). La Lega, dal canto suo, sino a quando non si emanciperà dal proprio peccato originale di forza localistica ed autonomistica difficilmente potrà resistere a lungo alle sirene dei vecchi schieramenti. Non si conoscono però ancora casi di emancipazione dal peccato originale se non rinnegando la religione che lo inculca.
Il risultato, però, ha anche confermato l’esistenza di tante talpe capaci di rendere instabile il terreno ma ancora cieche ed incapaci di individuare la via di uscita in superficie. Una luce fioca ma esposta attualmente alla disgrazia di avere, quelle stesse talpe, delle guide le quali piuttosto che indirizzarle e tracciare loro la strada pretendono direttive precise da loro stesse.
È appunto la retorica della democrazia dal basso e dell’annichilimento dei poteri forti, tanto cara alle forze politiche proclamatesi alternative, in particolare il M5S, tanto loquaci quanto in realtà inconcludenti; è questo l’aspetto oscuro e paralizzante del cosiddetto populismo. Il paese, al contrario, ha disperatamente bisogno di un ceto politico deciso ed autorevole, di poteri forti capaci di aggregare la pletora di interessi in cui è frammentato il paese in un progetto di emancipazione politica.
L’elezione di Trump da questo punto di vista rappresenta un vero e proprio caso di studio.
Il declino drammatico del nostro paese è passato d’altro canto proprio attraverso l’annichilimento e la subordinazione di questi poteri piuttosto che dal loro rafforzamento.
All’inizio ho parlato di epilogo. Forse è una affermazione troppo drastica.
Renzi è stato colpito e probabilmente si metterà da parte per qualche tempo. La personalizzazione dello scontro non è stato solo un calcolo sbagliato del protagonista, ma era intrinseca al fatto che il suo governo è nato per fare le riforme istituzionali. Il suo destino sarebbe stato comunque legato all’esito del referendum. Se riuscirà a conservare la carica di Segretario avrà ancora diverse carte da giocare anche nell’immediato; dovesse perdere anche quella, dovrà altrimenti attendere le eventuali invocazioni dei ribelli che lo hanno scalzato ma che si sono dispersi nella palude. A quel punto il suo progetto di Partito della Nazione circondato da satelliti assumerebbe un significato del tutto diverso e più integrato nella logica degli schieramenti classici.
Con un Trump però forte e soprattutto coerente con se stesso difficilmente potrà assurgere ad un ruolo di primo piano.
Piuttosto cresceranno spazi per un Berlusconi quasi esanime o qualcuno dei suoi eventuali eredi, ma con scarsi benefici per il paese; oppure, ma è solo una speranza poco corroborata, qualcosa di realmente nuovo potrebbe sorgere dalle macerie delle forze di opposizione e mettere in condizione di trattare su basi più dignitose e paritarie la nostra collocazione estera e le nostre condizioni di sviluppo.
Dipenderà ancora una volta soprattutto dal comportamento dei nostri vicini di casa.

ps_ per una ricostruzione storica del Governo Renzi consiglio la seguente lettura http://italiaeilmondo.com/2016/12/05/%CE%BC%CE%B1%CE%B8%CE%B8%CE%B1%CE%B9o%CE%BD-matteo-dono-di-dio-2a-parte-di-giuseppe-germinario-gia-apparso-il-12-novembre-2014-sul-sito-www-conflittiestrategie-it/

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