Loris Zanatta, Popolo_recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

 

Loris Zanatta, Popolo, Liberilibri, Macerata 2023, pp. 76, € 14,00.

Questo è il secondo titolo della nuova collana  “Voltairiana”, di cui vale la pena trascrivere parte della nota dell’editore sulla ragione della stessa: “Nel convincimento che ormai anche il nostro Paese ha assunto connotati marcatamente illiberali in tutti gli ambiti… perdipiù consentendo nel suo seno l’esistenza e il prosperare di caste intoccabili come magistratura e sindacato, abbiamo concepito questa nuova collana “Voltairiana” per “offrire agli italiani, di parole chiave che affollano il discorso pubblico, una lettura diversa rispetto a quella imposta dal canone semantico  ufficiale e unico… Un’operazione di ortopedia lessicale? Sicuramente. Ma soprattutto di disintossicazione concettuale”. Con ciò la casa editrice, ed il compianto editore da poco scomparso Aldo Canovari, proseguono l’opera meritoria di  disintossicazione da banalità ed idola del pensiero unico.

Anche questo pamphlet evita demonizzazioni a priori; piuttosto avvalendosi (anche) delle  concezioni di Tönnies e Max Weber, sostiene che di popoli ce ne sono  essenzialmente due: il popolo sacro, caldo e  naturale, e il popolo profano, freddo e innaturale. Essendo dei tipi ideali, nel concreto convivono, ma sono “separati in casa”. Ogni popolo concreto è così, un po’ sacro e un po’ profano, anche se l’uno e l’altro aspetto possono, nel corso della storia, prevalere. I connotati distintivi dell’uno e dell’altro idealtipo sono diversi: il primo è monista, organicista, bellicista e mistico, vive la politica come religione e la religione come politica. Al contrario “il popolo profano esprime una vocazione al disincanto, alla razionalità, alla stoica moderazione degli impulsi… Non crede in salvezze, Regni di Dio, terre promesse. E diffida di chi invoca il popolo in loro nome… Questo popolo , insomma, non è un organismo naturale  ma un artefatto più o meno razionale, non è monista ma pluralista, non garantisce identità ma molteplicità, non ha coesione , ma un certo grado di frammentazione… soprattutto, non presuppone un fine morale comune, per nobile che suoni: la grandezza della patria o il riscatto dei lavoratori, la volontà di Dio o il primato della razza”.

Scrive l’autore che nel secolo passato l’intermezzo tra le due guerre mondiali, e le guerre stese costituiscono l’apogeo del “popolo sacro”, diffusosi in quasi tutta Europa. Il secondo dopoguerra, quello del popolo profano. Di solito il popolo sacro “finisce imbrigliato nelle maglie del popolo profano, con cui la sua pulsione totalitaria viene addomesticata da leggi e regole, logorata da polemiche e sfottò, sfiancata da negoziati e compromessi”. Il popolo sacro ne esce spesso “profanato, normalizzato, sgonfiato, finché si accasa a malincuore nei freddi regimi costituzionali”. Il che ricorda assai le considerazioni di Max Weber sulla conversione dei regimi politici carismatici in pratica quotidiana.

D’altra parte scrive l’autore “Se nella storia percorsa finora v’è una pallida regolarità, sta nel fatto che non v’è ondata globalista che non generi una reazione localista, pulsione cosmopolita che non causi un rinculo nativista, spinta secolare che non subisca un rigurgito religioso”. Quanto alla situazione odierna pare che ci sia ripresa del “popolo sacro”.

D’altra parte “popolo sacro e popolo profano ci sono dagli albori ed è probabile che in forme sempre mutevoli e sempre nuove miscele ci saranno sempre, in ogni civiltà, in ogni società e, in fondo, nel cuore e nella mente di ogni individuo”. S’alimentano a vicenda. Tuttavia nell’epoca moderna è il popolo profano che “vanta più progressi che tonfi, che  s’è allargato più che ristretto”. E il motivo è che ha desacralizzato il popolo. “Penso che la desacralizzazione del popolo sia un correlato chiave del processo di secolarizzazione… Secolarizzazione e desacralizzazione, secolarizzazione e popolo profano, secolarizzazione e democrazia camminano  in parallelo nella storia occidentale. Non è una legge, ma una tendenza sì”.

Una nota: è vero che gli idealtipi del popolo ricorrono sempre, e quindi sono compresenti nello stesso popolo concreto e nella stessa epoca. Tuttavia desacralizzare – anche per questo – non basta. Anche il popolo profano deve (nel senso che è necessitato) sacralizzare qualcosa. Se è ad esempio il relativismo, sarà questo il nucleo “sacro” e non modificabile della Costituzione. Le “tavole dei valori” costituzionali, scrivono le Corti e i giuristi, sono l’espressione  di ciò che è immodificabile pena il passaggio da una ad un’“altra” costituzione. Questo in estrema sintesi ciò che risulta da tante decisioni e opinioni. Perfino il PD, la cui concezione pare così vicina all’idealtipo del popolo profano, in occasione del conflitto russo-ucraino (specialmente) è partito alla carica  contro la Russia, chiamando alla lotta delle democrazie (sedicenti) liberali contro le autocrazie. Ma ciò conferma che nelle istituzioni politiche (e nelle comunità umane, come scriveva Maurice Hauriou, c’è sempre un fond (anche) teologico e un involucro (couche) giuridico. Non è possibile sfuggire al fond come non si può prescindere dalla couche, è una regolarità. Comune ai popoli sacri e a quelli profani, e alle loro istituzioni.

Teodoro Klitsche de la Grange

La battaglia per i confini dell’Eurasia, di Antonia Colibasanu

La battaglia per i confini dell’Eurasia
Oggi il Mar Nero, domani il Mar Cinese Meridionale.

di Antonia Colibasanu – 19 aprile 2023Apri come PDF
Le zone di confine sono da tempo oggetto di attenzione nel regno della geopolitica, in quanto rappresentano un punto di convergenza, interazione e spesso conflitto tra nazioni e sistemi politici. L’importanza di queste regioni non può essere sopravvalutata, in quanto spesso fungono da crogiolo per le lotte politiche e militari, nonché da sito per intricati negoziati e manovre diplomatiche. Inoltre, le terre di confine sono spesso testimoni dell’interazione di diversi sistemi economici e sociali, dando origine a culture e identità ibride distinte.

L’analisi geopolitica classica, che si concentra sui settori politico, economico e militare per comprendere gli imperativi geopolitici di un Paese, tradizionalmente non è stata in grado di tenere conto delle complessità delle regioni di confine, al di là della loro posizione geografica. Tuttavia, il mio progetto di ricerca relativo a un libro di prossima pubblicazione che sto scrivendo sulle terre di confine, a partire dal ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan, e il mio lavoro sugli eventi attuali per Geopolitical Futures, hanno evidenziato la diversità dei ruoli giocati dalle terre di confine nella stabilità regionale e globale.

Terre di confine e nodi geopolitici centrali

Approfondendo le teorie di Halford Mackinder, Nicholas Spykman e Alfred Thayer Mahan – tutti pensatori geopolitici di spicco provenienti da epoche e contesti politici diversi – ho iniziato a scorgere un denominatore comune per le terre di confine del mondo o, più precisamente, per le terre di confine dei continenti. Queste regioni sono caratterizzate da una posizione strategica, da caratteristiche socio-economiche distintive e da un interesse costante da parte delle grandi e medie potenze che cercano di garantirne la stabilità. In effetti, la stabilità stessa di queste terre di confine è fondamentale, poiché senza di essa il rischio di guerre e conflitti si fa largo, minacciando di riversarsi nelle regioni vicine e potenzialmente ridisegnando il panorama geopolitico di un intero continente.

La nozione di quello che chiamo “core borderland” emerge come concetto cruciale per comprendere la stabilità del sistema internazionale. La terra di confine centrale del continente eurasiatico si trova in Asia centrale, dove convergono le influenze di Europa, Russia, Cina, India, Iran e Pakistan, proprio come avveniva per i loro antenati. L’Afghanistan è un esempio paradigmatico di terra di confine centrale, come dimostra il costante interesse delle grandi potenze per la sua stabilità nel tempo. Questo è anche il motivo per cui l’Afghanistan non potrà mai essere completamente controllato.

Eurasian Borderlands
(clicca per ingrandire)

Il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan ha creato un vuoto di potere nell’Asia centrale e sudoccidentale, innescando cambiamenti che si sono riverberati in tutta Europa e nelle sue terre di confine. La tempistica dell’invasione russa dell’Ucraina non è casuale: segue un periodo prolungato di ritiro degli Stati Uniti dal Grande Medio Oriente, per non parlare della pandemia globale. Nel frattempo, altre potenze europee, come la Polonia e la Turchia, si sono mosse per consolidare le loro posizioni nelle zone di confine. Di conseguenza, le tensioni sono aumentate in queste aree storicamente vitali per il commercio e gli investimenti internazionali. Chiamo queste aree “nodi geopolitici”, luoghi di importanza strategica dove si incontrano due o più potenze regionali o globali. A differenza di una zona di confine centrale, dove gli interessi delle grandi potenze si scontrano, un nodo geopolitico ospita importanti rotte commerciali che sostengono le interdipendenze tra gli Stati.

Nelle loro teorie, sia Mackinder che Spykman indicano potenziali nodi geopolitici senza necessariamente chiamarli così. Mahan ha posto l’accento sulla potenza navale, ma combinando gli elementi delle loro teorie, risulta evidente che il Mar Nero e il Mar Cinese Meridionale sono i nodi geopolitici più importanti dell’Eurasia.

Nel corso della storia, il Mar Nero è stato un punto d’incontro per gli imperi, facilitando i contatti tra Europa, Asia e Medio Oriente. Rimane un nodo vitale per la stabilità regionale. Tuttavia, è anche il nodo più colpito dalla guerra in Ucraina. Lo specchio d’acqua all’altra estremità dell’Asia centrale è il Mar Cinese Meridionale, un nodo relativamente recente che sta rapidamente crescendo di importanza. Il Mar Cinese Meridionale ospita un terzo del commercio marittimo in termini di valore, soprattutto grazie alla rinascita della Cina negli ultimi decenni. Nel frattempo, nell’ultimo decennio, in preparazione della guerra in Ucraina, la Russia ha cercato rotte commerciali alternative verso l’Europa che aggirano il Mar Nero e ha aumentato la sua presenza nel Mar Cinese Meridionale.

Gli Stati Uniti, che rimangono la classica potenza marittima e terrestre globale, devono affrontare due concorrenti. Il primo è una Russia risorgente, una potenza terrestre regionale che sta cercando di estendere la sua portata oltre l’Europa. Il secondo è un nuovo tipo di concorrente eurasiatico, la Cina, che è sia continentale che marittima.

La terra di confine principale, dove si incontrano, è l’Asia centrale. In questo senso, l’Afghanistan è stato la metafora perfetta di come gli imperi si scontrano e si coordinano. I nodi del Mar Nero e del Mar Cinese Meridionale si stanno equilibrando l’uno con l’altro, interagendo attraverso le strategie perseguite da Stati Uniti, Russia e Cina. Più si protrae il conflitto in Ucraina, più aumenta l’incertezza nelle acque del Mar Nero e la pressione sulla Cina, sulle rive del Mar Cinese Meridionale, affinché si unisca alla guerra economica globale.

Rivalità Russia-Cina

Negli ultimi 20 anni la Russia ha svolto un ruolo silenzioso ma importante intorno al Mar Cinese Meridionale. Pur avendo stretti legami con Pechino, Mosca ha costantemente armato i pretendenti rivali alle acque del Mar Cinese Meridionale, come il Vietnam e, in misura minore, la Malesia, cercando anche di costruire legami di difesa con le Filippine e l’Indonesia. Inoltre, la Russia ha contribuito in modo significativo allo sviluppo delle risorse energetiche offshore sia nel Mar Cinese Meridionale che nel cosiddetto Mare di Natuna Settentrionale, al largo delle coste dell’Indonesia. Mentre le compagnie energetiche occidentali hanno spesso ridotto gli investimenti nelle aree contese per evitare conflitti con la Cina, le loro controparti russe hanno colmato ogni lacuna significativa in termini di investimenti. L’accordo energetico trentennale da 400 miliardi di dollari firmato nel 2014 tra la China National Petroleum Corp. e la società statale russa del gas Gazprom ha segnato l’inizio della svolta diplomatica della Russia verso l’Asia. È stato anche l’anno in cui la Russia ha invaso la Crimea e l’Ucraina orientale.

Nel 2001, il commercio russo con l’Europa era quasi il triplo di quello con l’Asia (106 miliardi di dollari contro 38 miliardi). Nel 2019, il commercio europeo ammontava a 322 miliardi di dollari, contro i 273 miliardi dell’Asia. Dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia, l’Europa ha tagliato i legami commerciali e di investimento con Mosca, mentre l’Asia l’ha accolta.

L’avvicinamento della Russia è stato accolto con particolare favore nel Sud-Est asiatico. Vietnam, Laos e Myanmar – i suoi tradizionali alleati in Indocina – hanno intensificato la loro cooperazione di difesa con Mosca. Negli ultimi due decenni, il solo Vietnam ha speso 7,4 miliardi di dollari in armi russe, tra cui jet da combattimento e sottomarini all’avanguardia. Inoltre, i due più grandi Paesi del Sud-Est asiatico, le Filippine e l’Indonesia, hanno stipulato accordi di difesa con la Russia. Mosca ha inviato per la prima volta un addetto alla difesa nelle Filippine e le navi da guerra russe hanno iniziato a frequentare la baia di Manila. Rodrigo Duterte, l’allora presidente filippino, è entrato nella storia diventando il primo capo di Stato filippino a visitare due volte Mosca e nel 2019 ha perseguito attivamente accordi energetici e di difesa con la Russia.

Inoltre, le aziende energetiche russe hanno aumentato la loro presenza nella zona economica esclusiva del Vietnam e hanno sostenuto gli sforzi di esplorazione energetica dell’Indonesia al largo delle isole Natuna. Di conseguenza, in un’interessante svolta degli eventi, Mosca si è trovata ad armare e sostenere gli avversari marittimi della Cina in tutto il Sud-est asiatico.

La Russia ha cercato di diminuire la pressione su Pechino organizzando regolarmente esercitazioni militari congiunte con la Cina, che hanno interessato il Mar Cinese Orientale, l’Asia Centrale e l’Estremo Oriente. Mosca si è trovata ampiamente d’accordo con la posizione di Pechino sia sulla presenza navale statunitense nella regione sia sulla sentenza del tribunale arbitrale dell’Aia del 2016 che ha invalidato la maggior parte delle ampie rivendicazioni cinesi nel Mar Cinese Meridionale.

Una Russia intraprendente si è posizionata come terza forza affidabile rispetto all’Occidente e alla Cina, tenendo conto dell’innata propensione dei Paesi del Sud-Est asiatico alla diversificazione strategica. Pechino ha ampiamente tollerato le buffonate strategiche del suo presunto alleato nel proprio cortile marittimo perché vuole tenere Mosca dalla sua parte, soprattutto nel bel mezzo di un conflitto che la oppone all’Occidente. Ma questa situazione precaria potrebbe essere drasticamente cambiata dalla decisione del presidente Vladimir Putin di invadere l’Ucraina, che ha reso la Russia il Paese più sanzionato al mondo.

La maggior parte dei Paesi del Sud-Est asiatico è rimasta sconvolta dall’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca, che ha portato al fatidico voto a favore della risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che denunciava l’invasione nel 2022. Descrivendo la crisi come una “questione esistenziale”, Singapore, la nazione più sviluppata della regione, ha imposto sanzioni senza precedenti alla Russia. Altri hanno fatto lo stesso.

Le sanzioni occidentali, sempre più complesse, non solo renderanno difficile per Mosca raggiungere importanti accordi in materia di difesa ed energia; la crescente dipendenza del Paese dalla Cina potrebbe indurlo a ritirarsi strategicamente dal Mar Cinese Meridionale. Pechino probabilmente farà pressione su Mosca affinché si astenga dall’armare e sostenere i suoi avversari nel Mar Cinese Meridionale e altrove, dato che il suo potere continua a eclissare quello della Russia. Ciò significherebbe inoltre che la Cina sarà ben posizionata per affermare la propria sfera di influenza nel Sud-Est asiatico in generale e nel Mar Cinese Meridionale in particolare, a spese della Russia.

Per l’Europa, il nodo geopolitico del Mar Cinese Meridionale è lontano. Tuttavia, è probabile che le mosse della Russia in Asia scatenino una reazione degli Stati Uniti, soprattutto se portano a un cambiamento nella strategia della Cina. Questo, a sua volta, avrebbe un impatto diretto sull’Europa.

Il nostro mondo si sta sfilacciando ai bordi, a partire dalle terre di confine europee, ma potenzialmente si sta estendendo in Asia. I nodi geopolitici diventeranno sempre più importanti con la riformulazione delle catene di approvvigionamento, la crescente competizione per le materie prime e i cambiamenti tecnologici che frammentano il cyberspazio e altro ancora. I nodi più critici sono il Mar Nero e il Mar Cinese Meridionale, dove Stati Uniti, Russia e Cina si contendono l’influenza e il controllo.

https://geopoliticalfutures.com/the-battle-for-eurasias-borderlands/

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Se avessimo più di un martello… Forse non saremmo in questo guaio, di AURELIEN

Se avessimo più di un martello…
Forse non saremmo in questo guaio.

AURELIEN
19 APR 2023

Forse avete osservato la politica occidentale nei confronti dell’Ucraina nell’ultimo anno o giù di lì con stupefacente incredulità, e di tanto in tanto vi siete posti domande come: Si accorgono che non funziona, perché continuano così? Perché non accettano l’ovvio? Perché non provano almeno a fare qualcosa di diverso? Non sarete stati i soli. Non sorprende quindi che Internet, alla ricerca di qualsiasi spiegazione, abbondi di teorie cospirative di europei ricattati da Washington o altro. In realtà, quello che stiamo vedendo accade in molte crisi politiche. Io la chiamo la teoria dell’inerzia della politica, e spesso incoraggia gli Stati e le alleanze a continuare a fare cose stupide, perché non riescono a mettersi d’accordo collettivamente su qualcosa di meno stupido.

Si potrebbe pensare che ormai le leadership politiche occidentali abbiano iniziato a nutrire qualche piccolo dubbio sull’utilità della loro politica di confronto con la Russia, soprattutto dopo l’intervento di quest’ultima in Ucraina. Ci sono fattori di complicazione, naturalmente: per la classe dirigente europea, come ho spiegato, questa è una guerra santa contro l’anti-Europa a est. Per molte nazioni più piccole, con poche o nessuna fonte di informazione indipendente e poca influenza, c’è poca alternativa all’assecondare ciò che vogliono gli Stati più grandi. Allo stesso modo, alcuni Stati sono guidati principalmente da uno storico razzismo anti-slavo. (Non pretendo di capire cosa stia succedendo a Washington). Ma si potrebbe comunque pensare che ormai i dubbi si stiano insinuando: dopo tutto, gli europei alla fine hanno interrotto le Crociate quando è diventato chiaro che la Terra Santa non sarebbe mai stata liberata dagli invasori arabi.

Ma, come ho suggerito, questo schema è molto comune nelle crisi internazionali, e tra poco fornirò alcuni esempi passati. La teoria dell’inerzia della politica afferma che le istituzioni e i gruppi politici continueranno sempre a seguire le politiche esistenti, a meno che non venga esercitata una forza contraria sufficiente a farle cambiare. Pensate a una politica come a un oggetto che si muove nello spazio libero. Continuerà il suo percorso fino a quando qualche altra forza non lo colpirà. Maggiore è la velocità e maggiore è la massa, maggiore è la forza che deve essere esercitata. Ciò implica che il contenuto effettivo della politica, che sia sensato, fondato o addirittura praticabile, non è importante. Ciò che conta è l’inerzia accumulata della politica: quanto sostegno ha, da quanto tempo è in vigore e quanto è determinato questo sostegno. Nel caso dell’Ucraina (e non è l’unico) le forze che hanno agito sulla politica hanno di fatto aumentato la sua massa e la sua velocità nella stessa direzione. (Questo ha una relazione con le teorie di Jacques Ellul, di cui ho già parlato in precedenza, che sosteneva che quella che lui chiamava tecnica consiste in processi che pensiamo di sviluppare perché ci sono utili, ma che alla fine finiscono per controllarci).

Perché? Perché la politica è essenzialmente una questione di compromessi e di interessi condivisi. Ogni volta che è coinvolta più di una nazione, è necessario un compromesso di qualche tipo, perché, per definizione, gli obiettivi e le situazioni di due Paesi non possono mai essere identici. Aumentando aritmeticamente il numero dei Paesi, aumentano geometricamente le relazioni tra di essi. Questo significa che qualsiasi politica collettiva è un po’ come un iceberg: si vede la parte pubblica, che è il consenso, spesso faticosamente raggiunto, ma non si vede la massa privata, molto più grande, fatta di riserve, di accomodamenti inopportuni, di sordidi accordi di retroguardia, di eccezioni e trattamenti speciali richiesti, di resistenze nascoste e di molte altre cose. È normale che il consenso sia complesso e fragile, e questo va bene finché tutti vanno nella stessa direzione. Ma cosa succede quando ci si trova nella condizione di dover cambiare qualcosa?

Pensate a un esempio classico: La NATO alla fine della Guerra Fredda. L’intera giustificazione pubblica della NATO era stata la minaccia sovietica, che era appena scomparsa. Era dunque giunto il momento di chiudere i battenti? Beh, come ho già sottolineato in precedenza, la NATO presentava diversi vantaggi, non dichiarati ma importanti, per tutta una serie di Paesi, e di conseguenza c’erano preoccupazioni reali su ciò che sarebbe potuto accadere in Europa occidentale se fosse improvvisamente scomparsa. Ma in ogni caso, la NATO non poteva scomparire all’improvviso, perché i suoi membri avevano firmato, individualmente e in blocco, il Trattato sulle Forze Armate Convenzionali in Europa, che di fatto imponeva alla NATO di amministrarne la metà. Molto bene, quindi, ma che dire del futuro? I problemi fondamentali erano due. Uno era il ritmo isterico degli eventi dell’epoca e la proliferazione dei problemi. Oltre alla fine della Guerra Fredda in sé, alla fine del Patto di Varsavia e alla caduta dell’Unione Sovietica, all’unificazione della Germania e al piccolo problema di cosa fare delle armi nucleari sovietiche al di fuori della nuova Russia, c’erano banalità come la Prima Guerra del Golfo e le sue conseguenze, e (per gli europei) i Trattati di Maastricht sull’Unione Politica e Monetaria, oltre alla solita schiera di problemi transitori che reclamavano l’attenzione dei governi occidentali venticinque ore al giorno. Anche solo liberare un po’ di spazio nelle menti dei governi per iniziare a pensare al futuro della NATO sarebbe stato uno sforzo erculeo.

Il secondo problema era che non c’erano alternative. O meglio, ce n’erano un numero quasi infinito, senza possibilità di scelta. Chiudere la NATO significava molto di più che vendere un edificio per uffici a Bruxelles. C’era un’intera infrastruttura militare e politica con istituzioni ovunque, un regime giuridico in base al quale le forze straniere erano stanziate in Germania e un sistema di comando che comprendeva, ad esempio, la subordinazione di tutte le forze tedesche al comando diretto della NATO (e quindi degli Stati Uniti): non tutti in Europa erano contenti di rinazionalizzare la difesa. Anche solo gestire questo aspetto sarebbe stato un incubo amministrativo e politico che avrebbe richiesto anni di sforzi. E cosa l’avrebbe sostituita? All’epoca si chiedeva di sostituire la NATO con la nuova OSCE, ma sarebbe stato come sostituire l’auto di famiglia con un aereo ultraleggero. Non ho mai parlato con nessuno che avesse la più pallida idea di come l’opzione OSCE potesse funzionare in pratica.

Non è stata solo la complessità intrinseca del problema e l’inerzia del passato, e nemmeno la massa e la complessità di altre questioni, a uccidere l’idea: è stato che nessuno era in grado di articolare quale fosse l’alternativa e come avrebbe dovuto funzionare, e non c’era alcuna possibilità di ottenere un accordo collettivo su un’alternativa anche se fosse stata identificata. Quindi, sebbene la NATO abbia subito enormi cambiamenti interni nel corso del tempo, ha continuato a esistere per la mancanza di un’alternativa condivisa.

Questo vale sia per le politiche e le idee che per le istituzioni. Se si dovesse stilare una lista di politiche davvero, davvero, pessime e fallimentari adottate per fare pressione sugli Stati, le sanzioni economiche sarebbero in cima alla lista di chiunque. È stato così praticamente fin dall’inizio. Naturalmente i blocchi navali facevano parte della guerra da molto tempo, ma la novità era l’idea, promulgata per la prima volta durante i negoziati di Versailles del 1919, che le sanzioni potessero essere un sostituto della guerra, un modo per fare pressione sugli Stati senza l’uso della forza. In effetti, alla maniera dei liberali, si toglieva la coercizione dalle mani dei militari e la si metteva nelle mani di avvocati ed esperti commerciali che operavano sulla base di regole dettagliate.

È difficile pensare a un caso in cui si possa dire che le sanzioni abbiano “funzionato” nel senso previsto dai loro ideatori. Nella maggior parte dei casi (il Sudafrica sotto l’apartheid è un buon esempio) ciò che hanno fatto è stato semplicemente incitare i governi e il settore privato a trovare alternative creative per qualsiasi cosa strategica, infliggendo al contempo difficoltà alla gente comune. Un decennio dopo, le sanzioni contro l’ex Jugoslavia hanno distrutto l’economia serba e consegnato il controllo effettivo del Paese alla criminalità organizzata. Una mossa intelligente. (In effetti, una delle conseguenze inevitabili delle sanzioni di qualsiasi tipo è che chi ha soldi e conoscenze non ne risente, mentre la gente comune ne soffre).

Eppure, le sanzioni vengono utilizzate ancora oggi, probabilmente più che in qualsiasi altro momento della storia. Perché? Tutto dipende dalla definizione di “successo”. I governi, e ancor di più i gruppi di Stati, raramente possono permettersi il lusso di non affrontare i problemi. I media e il complesso industriale delle ONG sanno bene che le loro incessanti richieste di “fare qualcosa” saranno ben accolte dal pubblico, oltre a conferire superiorità morale a coloro che fanno le richieste. Così, ogni volta che si verifica una crisi nel mondo, un gruppo di stanchi rappresentanti nazionali si riunisce per produrre proposte per “fare qualcosa”. Esagero solo un po’ quando dico che spesso la discussione si svolge come segue:

Dobbiamo fare qualcosa.

Questo è qualcosa.

Ok, facciamolo.

Dopodiché, il gruppo di Stati, l’organizzazione internazionale o qualsiasi altra cosa, può dichiarare il proprio successo sulla base del fatto che ha fatto qualcosa e non è “rimasto a guardare” mentre accadevano o meno cose terribili. Questo può sembrare cinico, ma in realtà non lo è. La realtà è che gli attori esterni hanno molta meno capacità di influenzare positivamente le crisi di quanto si creda, ma che ci sono molte forze potenti nella politica e nei media che hanno un forte interesse a fingere il contrario. Pertanto, è politicamente meglio fare qualcosa di inutile e persino controproducente che non fare nulla. Non si tratta semplicemente del fatto che se tutto ciò che si ha è un martello ogni problema sembra un chiodo. Piuttosto, se tutto ciò che avete è un libro su come curare i problemi piantando chiodi, e nessuno vi permette di provare altri metodi di risoluzione dei problemi, allora tutte le vostre iniziative dovranno riguardare i martelli, e i gruppi di lavoro saranno impegnati a progettare martelli migliori e tecniche di martellamento più efficaci.

Inoltre, soprattutto in caso di crisi, c’è un ovvio vantaggio nel fare qualcosa che si è già fatto e che si sa fare. Potrebbe non esserci il tempo, e certamente non ci sarà molta voglia, di cercare reazioni nuove e innovative alle crisi. Le decisioni devono essere prese e annunciate rapidamente, e attuate il prima possibile. Inoltre, devono essere ampiamente comprese e accettate. Infine, per una nota autosuggestione psicologica, diamo per scontato che le cose che sappiamo fare saranno necessariamente efficaci, e che se non sembrano funzionare bene, bisogna dar loro tempo, e se ancora non funzionano, allora dobbiamo solo provare di più. Una franca ammissione che le sanzioni non hanno funzionato in Ucraina, ad esempio, non significherebbe solo che una particolare politica ha fallito, ma comporterebbe l’ammissione che l’Occidente non ha leve economiche efficaci sulla Russia. Allo stesso modo, l’ammissione che le forniture di armi occidentali all’Ucraina sono servite solo a prolungare la guerra, ma non a vincerla, comporterebbe l’ammissione che tutta una serie di decisioni politiche per diversi anni sono state sbagliate e fuorvianti, e che l’Occidente non può fare altro che ritardare l’inevitabile.

Ammissioni come questa, che avrebbero un impatto su un gran numero di persone in molti governi, vengono estratte con la stessa facilità con cui si estraggono i denti e con altrettanto entusiasmo. E poi lasciano una domanda fondamentale: che cosa facciamo adesso? L’inerzia che ho descritto in precedenza, che aumenta con il passare della crisi, con dichiarazioni pubbliche feroci (“Non faremo mai…” “In nessun caso…” “Faremo sempre…”) che in qualche modo devono essere gettate in un buco della memoria, fa sì che non sia mai veramente il momento giusto per una rivalutazione fondamentale della situazione. Dopo tutto, le cose potrebbero non essere così brutte come sembrano, e chi sa cosa potrebbe accadere domani, o la prossima settimana? Quindi continueremo la politica attuale alla prossima riunione, e a quella successiva, e a quella ancora successiva, tenendo le dita incrociate e fischiettando nel buio.

Perché qual è l’alternativa? Con qualcosa come trenta governi diversi coinvolti, quali sono le possibilità di concordare rapidamente una strategia alternativa efficace? Sono così vicine allo zero che non vale la pena misurarle. Ora, se, per esempio, gli Stati Uniti elaborassero una nuova strategia sensata da discutere prima in modo informale con gli alleati più stretti, con l’UE e la NATO, e poi da presentare in qualche conferenza internazionale, ci sarebbe una ragionevole possibilità che la politica occidentale si muova in una nuova e più ragionevole direzione. Ma questo genere di cose non accade più, anche perché Washington è irrimediabilmente divisa sulla questione e molti dei responsabili delle decisioni sembrano vivere in un universo parallelo. Data l’enorme disparità di interessi e punti di vista tra gli Stati e la totale mancanza di soluzioni alternative, è probabile che prima della fine dell’anno assisteremo a un brutto incidente stradale. Un gruppo di Stati più illuminato e meno eccitabile starebbe già lavorando a piani di emergenza, ma non ne vedo traccia. La cosa migliore che l’Occidente può sperare è che tutte le nazioni accettino un’enorme operazione di pubbliche relazioni volta a convincere l’opinione pubblica occidentale che la sconfitta è in realtà una vittoria se si cambiano i criteri di vittoria. Ma se ciò sarà accettabile, ad esempio, per i nazionalisti polacchi è un’altra questione.

Come per le sanzioni, un altro vecchio strumento di difesa è il potere aereo. Fin dall’inizio dell’aviazione militare, è stato chiaro che ci sono dei vantaggi nel poter colpire un avversario che non può rispondere. Sebbene la prima letteratura popolare sull’argomento avesse toni stridenti e apocalittici, l’esperienza reale dell’uso del potere aereo nella Seconda Guerra Mondiale fu, come minimo, deludente. Rimaneva il fatto che aveva dei vantaggi politici, in particolare perché non era necessario rischiare la vita del proprio personale. Inoltre, la mitologia dell’uso moderno del potere aereo (ad esempio in Iraq nel 1990-91) era sufficientemente forte da far credere a molti in Occidente che la semplice minaccia dell’uso del potere aereo occidentale fosse sufficiente a risolvere le crisi.

Così, quando alla fine degli anni Novanta le potenze occidentali volevano disperatamente provocare la caduta di Slobodan Milosevic, considerandolo il principale ostacolo all’instaurazione di un regime di pace e sicurezza nei Balcani, le minacce di azioni militari vennero prese in considerazione come un modo per umiliare il suo governo e fargli perdere le elezioni presidenziali del 2000. Dopo il 1996, in Kosovo era scoppiata un’insurrezione, piccola ma sgradevole, e la NATO aveva sviluppato l’idea di minacciare la Serbia di intervenire militarmente se non avesse consegnato la provincia al controllo internazionale (in pratica occidentale). Tuttavia, poiché l’uso di truppe di terra avrebbe comportato delle perdite e quindi era impensabile, l’unica minaccia militare possibile era l’uso del potere aereo. In generale si riteneva che la sola minaccia dei bombardamenti sarebbe stata sufficiente a costringere il governo serbo a ritirarsi, a consegnare il Kosovo e quindi a consegnare il controllo del Paese ai “moderati filo-occidentali” nelle prossime elezioni. L’opinione più scettica, minoritaria, era che sarebbero stati necessari un paio di giorni di bombardamenti simbolici. Con sorpresa e costernazione delle autorità della NATO, è iniziata un’intera guerra aerea, che è durata tre mesi. Fu in gran parte inefficace, non da ultimo a causa delle restrizioni sugli obiettivi: gli aerei volavano solo di notte, per evitare vittime, e non potevano bombardare attraverso le nuvole perché non potevano essere sicuri dei loro obiettivi. Chi è stato in quella parte del mondo sa che tempo fa in primavera, e in molte occasioni gli aerei sono tornati indietro senza aver lanciato le armi.

Quello che nessuno aveva capito è che la Jugoslavia aveva passato quarant’anni a prepararsi e ad esercitarsi per un’invasione aerea di terra da parte dell’Unione Sovietica, e aveva fatto ampi preparativi per sopravvivere. La stragrande maggioranza degli obiettivi colpiti dalla NATO erano esche e si scoprì che, ad esempio, sotto l’aeroporto di Pristina era nascosta un’intera base aerea militare di cui la NATO non era a conoscenza. Le forze serbe si sono infine ritirate in buon ordine dopo che la Russia è venuta in soccorso della NATO, facendo pressione politica sul governo serbo affinché cedesse. Se ciò non fosse accaduto, la NATO avrebbe dovuto prendere in seria considerazione un’invasione di terra, che avrebbe probabilmente distrutto ciò che rimaneva della fragile solidarietà all’interno della NATO stessa.

Si potrebbe quindi pensare che, dopo questa scoraggiante esperienza, l’idea di utilizzare il solo potere aereo per risolvere le crisi sarebbe diventata meno attraente. Invece no, poiché il potere aereo continuava ad avere il vantaggio di essere essenzialmente privo di vittime dal punto di vista dell’Occidente, perché era qualcosa che sapevamo fare e perché l’Occidente godeva generalmente di un dominio aereo totale, è diventato una politica consolidata. Tuttavia, la Libia nel 2011 e la Siria successivamente, hanno dimostrato che il potere aereo da solo non può ottenere molto: quando i russi sono intervenuti in modo decisivo in Siria, è stato utilizzando il potere aereo tattico a sostegno delle forze di terra. Non sorprende quindi, anche se è deludente, che non appena è scoppiato il conflitto in Ucraina, le solite voci chiedano la magica costruzione di una No-Fly Zone, senza sapere che esiste già e che viene fatta rispettare dai russi, non con gli aerei ma con i missili. In effetti, una delle tante conseguenze della crisi ucraina è stata la consapevolezza che non solo l’uso del potere aereo, ma anche tutti i metodi di intervento tradizionali (anche se inefficaci) preferiti dall’Occidente non funzionano contro un avversario potente e pronto a colpirti.

È difficile spiegare perché questi fallimenti non abbiano ancora portato a cambiamenti politici senza addentrarsi in un po’ di psicologia politica. Una componente importante è la fallacia dei costi irrecuperabili: la stessa fallacia per cui si rimane al cinema a guardare la fine di un film di cui si è delusi, perché si è già pagato il biglietto. In breve, in politica, quanto più a lungo una politica è stata in vigore, tanto più è psicologicamente difficile per coloro che l’hanno ideata accettare il fallimento o la necessità di cambiarla, a prescindere dal suo successo o fallimento, perché il loro ego individuale e collettivo è legato ad essa. Nel caso della Russia, l’ego, l’autostima e il senso di diritto morale delle élite politiche occidentali richiedono che le sanzioni e le forniture di armi continuino, indipendentemente dalle loro conseguenze pratiche. È già chiaro che, alla fine di questo episodio raccapricciante, nessun politico dirà “ci siamo sbagliati”. Qualche persona intelligente verrà mandata a redigere una dichiarazione del tipo: “Sebbene le sanzioni non abbiano avuto il successo inizialmente sperato in alcuni settori, hanno contribuito a porre fine alla guerra prima e a condizioni più accettabili di quanto sarebbe stato altrimenti, e hanno fornito una dimostrazione concreta della volontà delle nazioni occidentali di resistere all’aggressione” o qualcosa del genere.

Il secondo è il rifiuto istituzionale di imparare dall’esperienza, perché l’esperienza potrebbe insegnare la lezione sbagliata. Questo è pervasivo in tutto il campo dei meccanismi di risposta alle crisi occidentali ed è, ovviamente, una caratteristica del liberalismo, le cui idee non possono fallire, possono solo essere fallite. Questo non significa che istituzioni come l’ONU e l’UE non abbiano la capacità di “trarre lezioni” (anche se di questi tempi il termine generalmente utilizzato è il più modesto “lezioni individuate”). Ma il peso dell’inerzia politica, l’investimento egoico e la natura intrinsecamente autocompiaciuta del pensiero liberale fanno sì che queste “lezioni” siano, alla fine, altamente tecniche e procedurali. Così, ad esempio, è quasi universale che i rapporti sulle “lezioni individuate” identifichino la necessità di un “migliore coordinamento” tra gli attori internazionali, che altrettanto universalmente non avviene mai. L’intero apparato degli interventi post-conflitto occidentali (forze di mantenimento della pace, dialoghi nazionali inclusivi, elezioni anticipate, disarmo, smobilitazione e reintegrazione, riforma del settore della sicurezza, combinazione di diverse forze in un nuovo esercito nazionale, tribunali penali, commissioni per la verità e la riconciliazione e molti altri) è un guazzabuglio di idee diverse e spesso in conflitto tra loro, provenienti da diverse comunità di donatori, legate solo da una comprensione vagamente liberale delle questioni di guerra e pace. C’è una resistenza attiva a qualsiasi tipo di valutazione indipendente del successo di tali idee, nel caso in cui si ottenga la risposta sbagliata.

Dopo aver scritto questo paragrafo, ho notato dal mio feed RSS che un altro progetto di riforma del settore della sicurezza, organizzato in fretta e furia e sponsorizzato dall’Occidente, è fallito e ha portato a nuove violenze, questa volta in Sudan, dove uno sforzo affrettato e mal consigliato di fondere l’esercito con un gruppo paramilitare dell’opposizione ha portato a un nuovo conflitto. Questo tipo di iniziativa va avanti da trent’anni e funziona (come in Sudafrica) solo in presenza di condizioni particolari. Non è solo che alcune persone non possono imparare, è che sono attivamente resistenti all’apprendimento.

Oppure prendiamo le elezioni. La teoria politica liberale vede le elezioni come una forma di competizione tra squadre di professionisti per presentare la formula migliore per la gestione del Paese, al termine della quale uno si aggiudicherà un contratto in esclusiva. Quindi, qualunque sia la questione, le elezioni sono la risposta, perché a quel punto la comunità internazionale può affidare il problema ai locali, che avranno la legittimità che le elezioni conferiscono automaticamente, e tornare a casa. Il fatto che le elezioni dopo un conflitto siano solitamente divisive, che possano mettere a nudo ed esacerbare le tensioni che hanno causato il conflitto in primo luogo, e che siano solitamente combattute su divisioni locali, etniche e culturali, sono cose che il concetto liberale di politica non può accettare, e che quindi non esistono. I problemi causati dalle elezioni vengono quindi liquidati come il risultato di “guastatori” e “disturbatori” che non accettano la volontà democraticamente espressa dal popolo. Sembra incomprensibile, ad esempio, che dopo trent’anni l’Occidente stia ancora cercando di raggiungere la pace in Bosnia attraverso le elezioni. La fantasia occidentale di uno Stato unitario “multietnico” con partiti politici “multietnici” gestiti da politici di stampo occidentale ha probabilmente avuto molto a che fare con lo scatenarsi del conflitto ed è stato il sogno impossibile a cui molte cose sono state sacrificate da allora. La labirintica complessità del sistema politico emerso dalla guerra bosniaca, con le sue numerose e diverse gerarchie di voto, potrebbe essere considerata una prova di distruzione della convinzione che le elezioni promuovano la stabilità: in tutta la storia dell’umanità, non è mai stato richiesto a così pochi di votare così tanto, così tante volte, per un risultato così scarso. Il problema era che gli elettori continuavano a dare la risposta sbagliata, quindi era necessario farli votare di nuovo. Questo è dipeso soprattutto dalla mancanza di alternative politiche evidenti: pare che quando a un alto funzionario dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa è stato chiesto perché la sua organizzazione organizzasse incessantemente elezioni in Bosnia, abbia risposto “beh, è quello che sappiamo fare”.

Infine, prendiamo il mantenimento della pace: o “operazioni di sostegno alla pace” o “operazioni di pace” o anche “applicazione della pace”, a seconda di chi si parla. Questo deriva in ultima analisi dalla convinzione che il semplice fatto di inviare una forza militare in un’area di conflitto possa stabilizzare la situazione. In pratica, la forza diventa un ostaggio o semplicemente congela il conflitto, consentendo che continui più a lungo di quanto sarebbe stato altrimenti. Le missioni con mandati precisi e mirati (come l’UNTAG in Namibia) possono funzionare, ma la tendenza ad avere aspettative enormi e mandati ambiziosi, insieme a risorse inadeguate, fa sì che la maggior parte di esse fallisca, spesso malamente, diventando talvolta parte del problema. Il classico è stato, ovviamente, l’UNPROFOR in Bosnia, dove le richieste stridenti di “fare qualcosa”, il crescente militarismo umanitario e la totale ignoranza delle basi del problema hanno portato al dispiegamento di una forza incapace di adempiere a un mandato ambizioso, ambiguo e in continua evoluzione. Soprattutto, la Forza è stata sovradimensionata dai combattenti locali: anche con un massimo teorico di 20.000 effettivi, solo il dieci per cento della Forza poteva essere impiegato nelle operazioni, e la maggior parte delle nazioni si è rifiutata di permettere alle proprie truppe di entrare in combattimento o di essere messe in pericolo. Almeno nel caso del mantenimento della pace, c’è stato un serio tentativo di trarre lezioni, nella forma del rapporto Brahimi, ed è un peccato che quel rapporto non abbia avuto un’influenza più pratica. Le missioni di “pace” continuano a proliferare in tutto il mondo.

Può darsi che uno dei molti sottoprodotti inattesi del disastro ucraino sia la brutale constatazione che l’intero modo occidentale di pensare ai problemi della pace e della sicurezza, guidato come è da presupposti liberali a priori, non solo è completamente irrilevante per l’Ucraina, ma non ha comunque alcuna possibilità di svolgere un ruolo. La “cassetta degli attrezzi” per la risoluzione dei conflitti di cui l’Occidente ama parlare, di cui ho fornito alcuni esempi sopra, e il manuale in tre volumi costantemente aggiornato sulle tecniche di martellamento, semplicemente non saranno presenti. Già adesso, in alcuni ambienti, c’è la curiosa e ingenua supposizione che la fine dei combattimenti in Ucraina porterà al dispiegamento del menu standard di misure occidentali. Ci sarà una conferenza di pace a cui si inviteranno gli Stati Uniti e l’Europa, la NATO e l’UE, ci sarà un rappresentante speciale delle Nazioni Unite a presiedere la conferenza, ci saranno accordi per il ritiro delle truppe, la smobilitazione delle milizie dei separatisti russi, misure di rafforzamento della fiducia, processi e commissioni per la verità, una missione delle Nazioni Unite nel Paese per promuovere questo e quello, l’OCSE organizzerà elezioni libere ed eque, una forza internazionale sotto l’egida dell’ONU o dell’UE riqualificherà le Forze Armate ucraine …. E perché, di grazia, i russi dovrebbero accettare tutto questo?

La combinazione di inerzia politica e di un insieme indiscusso di assunti normativi a priori sulla pace e sul conflitto spiegano perché l’Occidente sembra sfrecciare su una traiettoria suicida che non mostra segni di arresto, o addirittura di rallentamento, nonostante il disastro sia chiaramente visibile davanti a noi. Se siete il Ministro degli Esteri di un Paese di medie dimensioni, probabilmente sentite dire dieci volte al giorno che “le sanzioni funzionano”, leggete che “le sanzioni funzionano” sui media, e le vostre stesse note informative vi dicono di rassicurare gli altri che “le sanzioni funzionano”, e dopo un po’ arrivate ad accettare che le sanzioni funzionano. Se non funzionano, se l’intero approccio occidentale all’Ucraina sembra crollare, allora si aprirebbe un buco esistenziale sotto i vostri piedi. Inoltre, cosa si potrebbe dire? Quali altre opzioni sono possibili?

Alla fine, molti crolli politici hanno un’origine intellettuale piuttosto che pratica e istituzionale. Le rivoluzioni francese e russa sono avvenute in ultima analisi perché le strutture di potere tradizionali erano intellettualmente incapaci di immaginare qualche modifica del sistema politico e qualche compromesso con i suoi sfidanti. L’inerzia politica accumulata in centinaia di anni di monarchia assoluta era tale che i sistemi erano effettivamente paralizzati mentre il disastro incombeva su di loro. Qualcosa di simile sembra essere accaduto quando la stessa Unione Sovietica è crollata nel 1991: c’era la possibilità di una riforma, ma i responsabili non hanno capito come gestire una transizione politica al di fuori del quadro intellettuale molto ristretto che l’inerzia politica aveva lasciato loro, e il risultato, quando è arrivato, è stato brutale e violento.

Non credo che oggi in Occidente si stia andando incontro a qualcosa di così grave. Ma il treno liberale, che notoriamente non ha freni né retromarcia e che ha accumulato un’inerzia politica senza precedenti nell’ultima generazione, sta per schiantarsi contro le barriere e il risultato, sospetto, sarà una sorta di esaurimento nervoso politico di massa da parte della classe dirigente. E, mentre si affannano ad uscire dai rottami, cominceranno a riconoscere una semplice e nauseante verità. I russi hanno un martello dannatamente grande.

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Machiavelli, di Teodoro Klitsche de la Grange

Questo articolo è stato pubblicato nel Behemoth n. 53 del 2015, nel 500°
anniversario della scrittura del “PRINCIPE”.

Teodoro Klitsche de la Grange

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I cinque dettagli più importanti che molti osservatori hanno tralasciato della visita di Lavrov in Brasile, di ANDREW KORYBKO

Il viaggio di Lavrov ha evidenziato il ruolo significativo che la Russia attribuisce al Brasile quando si tratta della dimensione latinoamericana della grande strategia di Mosca. La retorica di entrambe le parti è stata positiva, ma resta da vedere se alla fine ne uscirà qualcosa di concreto, che sarà determinato in gran parte dalla partecipazione o meno di Lula al Forum economico internazionale di San Pietroburgo di quest’anno, tra meno di due mesi, come è stato appena invitato a fare.

L’ultima visita del ministro degli Esteri russo Lavrov in Brasile è andata esattamente come ci si aspettava, con la promessa di un’espansione globale della cooperazione tra i due Paesi BRICS, ma ci sono stati anche cinque dettagli molto importanti che sono sfuggiti alla maggior parte degli osservatori. Il primo è che il comunicato stampa ufficiale brasiliano ha informato tutti che l’anno scorso il commercio bilaterale ha raggiunto il record storico di 9,8 miliardi di dollari, che si è verificato interamente sotto il mandato del predecessore di Lula, Bolsonaro.

Questo fatto contraddice la narrazione della comunità Alt-Media secondo cui l’ex leader sarebbe stato un burattino degli Stati Uniti, poiché nessun mandatario di questo tipo avrebbe mai portato il commercio con la Russia al livello più alto mai raggiunto, soprattutto nel contesto della guerra per procura tra NATO e Russia in corso in Ucraina nell’ultimo anno. La base su cui entrambe le parti si sono impegnate a rafforzare ulteriormente i loro legami è stata quindi parzialmente costruita da Bolsonaro, che a sua volta ha proseguito la traiettoria che Temer e Rousseff hanno mantenuto dai primi due mandati di Lula.

In secondo luogo, l’espressione di gratitudine di Lavrov “ai nostri amici brasiliani per la corretta comprensione della genesi di questa situazione e per il loro sforzo di contribuire alla ricerca di modi per risolverla”, riportata nella trascrizione ufficiale del Ministero degli Esteri russo della sua dichiarazione congiunta, ha un significato più profondo. Il testo dà credito a un rapporto trapelato di recente secondo il quale il suo Paese approva l’ottica della retorica pacifista di Lula, ma ciò non significa che ne approvi la sostanza.

A questo proposito, il terzo dettaglio è il tempo che il diplomatico russo ha dedicato a spiegare la posizione di Mosca nei confronti del conflitto e il desiderio di vederlo finire “il prima possibile”. Ciò segue la condanna della Russia da parte di Lula nella sua dichiarazione congiunta con Biden, il voto del Brasile a sostegno di una risoluzione antirussa dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, e poi la menzogna di Lula, proprio il giorno prima del viaggio di Lavrov, sul presunto disinteresse del Presidente Putin per la pace. Di conseguenza, le sue parole possono essere viste come una risposta educata a questi sviluppi precedenti.

In quarto luogo, la riaffermazione del sostegno di Lavrov al previsto seggio permanente del Brasile al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dimostra la de-ideologizzazione delle relazioni della Russia con l’America Latina, soprattutto dopo la summenzionata ostilità politica di Lula e i suoi piani riferiti di lanciare una rete di influenza globale con i Democratici statunitensi. Anche se la Cina e gli Stati Uniti sono i due partner più importanti del Brasile nella grande strategia di Lula, la Russia può ancora aiutarlo a portare avanti il loro obiettivo comune di accelerare la transizione sistemica globale verso il multipolarismo.

Infine, l’omologo di Lavrov ha confermato di aver trasmesso a Lula l’invito del Presidente Putin a partecipare al Forum economico internazionale di San Pietroburgo (SPIEF) a metà giugno, invito che, secondo quanto riportato dalla TASS, è stato esteso per la prima volta durante il viaggio a Mosca del suo principale consigliere di politica estera il mese scorso. Lula si era già impegnato a non visitare né la Russia né l’Ucraina a causa del conflitto in corso e la Corte penale internazionale ha chiesto al Brasile di arrestare il Presidente Putin se dovesse mai recarsi in quel Paese, quindi non è chiaro se Lula accetterà l’offerta.

Quest’ultimo dettaglio del viaggio di Lavrov in Brasile è di gran lunga il più importante, poiché è un modo intelligente ed educato per valutare la sincerità delle intenzioni dichiarate da Lula di continuare a costruire legami con la Russia nonostante le pressioni degli Stati Uniti. Naturalmente può dire che ci sono i cosiddetti “conflitti di programmazione” o magari dichiarare di essere malato proprio prima della partenza per San Pietroburgo, ma il punto è che questo dimostrerà se Lula è seriamente intenzionato a mettere in pratica tutto ciò che Lavrov e il suo omologo hanno discusso.

Nel complesso, il viaggio di Lavrov ha evidenziato il ruolo significativo che la Russia attribuisce al Brasile quando si tratta della dimensione latinoamericana della grande strategia di Mosca. La retorica di entrambe le parti è stata positiva, ma resta da vedere se alla fine ne uscirà qualcosa di concreto, che sarà determinato in gran parte dalla partecipazione o meno di Lula allo SPIEF di quest’anno tra meno di due mesi. Nel frattempo, si prevede che gli Stati Uniti eserciteranno la massima pressione per indurlo a non partecipare, quindi è difficile prevedere cosa farà.

https://korybko.substack.com/p/the-five-most-important-details-that

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SENTIMENTO E INDIFFERENZA POLITICA, di Teodoro Klitsche de la Grange

SENTIMENTO E INDIFFERENZA POLITICA

Malgrado il bombardamento anti-russo della comunicazione mainstream, non sembra, dai sondaggi ripetuti, che sia stata scalfita la maggioranza neutralista nell’opinione pubblica soprattutto, si legge, in Italia e in Romania; altrove, in Europa, tranne in quella orientale (e si capisce il perché) favorevoli e contrari si distribuiscono in blocchi pressoché uguali sull’aiuto all’Ucraina.

Dopo un simile spiegamento di mezzi, i risultati paiono modesti. Soprattutto in relazione all’argomento forte e più ripetuto, che si adagia sulle comprensibili aspirazioni degli europei, i quali dopo i due macelli collettivi del XX secolo, di aggressioni, guerre, ed aggressori non vogliono sentir neanche parlare.

Per cui appare facile demonizzare l’aggressore come turbatore della pace, e la resistenza allo stesso come justa causa.

Quale può essere il perché della tepidezza di buona parte dell’opinione pubblica? Le cause possono essere tante, ma ritengo che le principali siano:

  1. a) il timore di un’estensione (fino al coinvolgimento diretto) nella guerra;
  2. b) il non comprendere (perché non spiegato) quale possa essere l’interesse nazionale ad un esteso aiuto ad uno dei belligeranti;
  3. c) che la Russia, anche se aggressore, non ha tutti i torti (scontri nel Donbass, accordi di Minsk).

Quanto al timore dell’escalation, è bene tenerne conto, perché come sosteneva Clausewitz, è nella natura della guerra l’ascensione agli estremi. Tuttavia a rendere tale ipotesi poco verosimile è proprio il secondo elemento: la mancanza di un interesse nazionale, sia della Russia che dei popoli europei ad aggredirsi. Anzi tutto l’interesse è quello di convivere e commerciare pacificamente, per la complementarietà economica delle due aree. Relativamente al terzo aspetto è chiaro che la dissoluzione dell’Unione sovietica in Stati nazionali, le cui frontiere non coincidevano con l’omogeneità etnica, di guerre ne ha generate tante, sia nella superpotenza che nella Jugoslavia.

Basti ricordare per la prima: Georgia, Ossezia, Cecenia, Abkhazia, Nagorni_Karabach (salvo altri). Per cui la sussistenza, anche da parte dell’aggressore russo di una justa causa belli non è esclusa. Con la conseguenza che, contrariamente all’evoluzione del diritto internazionale nel XX secolo, la guerra, nel sistema westfaliano, è “giusta” da entrambe le parti.

Per cui che il sentimento ostile nei confronti dell’aggressore sia così tiepido a dispetto di tutti gli sforzi per suscitarlo e ravvivarlo non meraviglia.

Si aggiunge per l’Italia la storia degli ultimi secoli; di guerre l’Italia (prima il Regno di Sardegna) alla Russia ne ha mosse tre. La guerra di Crimea, l’intervento nella guerra civile del 1918-1921, il fiancheggiamento della Germania nell’operazione Barbarossa. Di converso l’unica volta che un esercito russo si è visto in Italia è nel 1799. Ma i russi, peraltro alleati di Stati italiani occupati dalla Francia, se ne andarono senza pretendere di tornare.

Gli è che né i russi hanno alcun interesse ad occupare l’Italia, né gli italiani la Russia. Si è cercato di compensare questa evidenza storica e politica col dipingere Putin come il diavolo guerrafondaio, affetto da aggressività compulsiva, emulo nel XXI secolo di Hitler. Ipotesi ancora più inverosimile dell’altra: vediamo perché.

É costante della Russia estendere la propria influenza a sud, in particolare intorno al Mar Nero.

Malgrado tutti gli sforzi dei professionisti dell’informazione per additare Putin come pazzo e/o malato, il Presidente russo non ha fatto altro che ripetere la politica dei suoi predecessori, da Ivan il Terribile a Pietro il Grande, da Caterina la Grande a Nicola I.

Il che rendeva assai prevedibili sia le intenzioni che il comportamento dello stesso. Ciò nonostante non è stato previsto il probabile, e neppure adottati comportamenti  idonei ad evitare che una situazione, da anni esplosiva, degenerasse in guerra.

Quando poi questa è scoppiata, non c’è stato altro da fare che cercare di coprire il tutto con la demonizzazione dell’aggressore, come mezzo per incrementare il sentimento popolare, improntato ad una paurosa indifferenza.

Scrive Clausewitz nel Von Kriege a proposito del sentimento politico, cioè l’odio e l’inimicizia verso il nemico che questo è “da considerarsi come un cieco istinto” e corrisponde al popolo; e che “Le passioni che nella guerra saranno messe in gioco debbono già esistere nelle nazioni”. Sicuramente in Polonia e in Ungheria, tenuto conto della storia le suddette passioni non mancano. Ma in Europa occidentale? Solo la Germania ha condotto nella storia e per geopolitica diverse guerre con la Russia, alternate a periodi di amicizia (spesso a scapito dei popoli che stavano “in mezzo”).

Ma Francia, Spagna, Italia (e non solo) non hanno né ragioni politiche e geo-politiche né una storia che identificasse nei russi il nemico principale e reale.

Per cui non restava che affidarsi alla propaganda, confermando, con lo scarso risultato, l’affermazione di Clausewitz.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Slittamento di paradigma, di Piero Pagliani

Slittamento di paradigma

Paradossi, nonsense e pericoli di una svolta storica

di Piero Pagliani

b10bb0598ea2cb70aeb46311c0d51d78Nell’analisi che segue enuncio quelli che mi sembrano dei dati di fatto, tiro alcune somme, pongo una domanda per rispondere alla quale avanzo un’ipotesi sull’oggi e due sul domani concludendo con un’assunzione che in modo irrituale espongo alla fine e non all’inizio. In specifico:

Primo dato di fatto: la guerra contro Kiev ha sancito la fine del monopolio statunitense della violenza planetaria.

Secondo dato di fatto: la guerra stessa ha neutralizzato le sanzioni contro la guerra perché ha ampliato istantaneamente il campo d’attrazione russo.

Terzo dato di fatto: La Russia ha trasformato in una guerra sistemica quella che per lei è alla base una guerra esistenziale.

Prima conclusione: gli Stati Uniti stanno giocando la propria egemonia globale sul terreno più favorevole al proprio avversario, quello che lo ha sempre visto vincitore.

Ipotesi dello sfasamento cronologico: Lo sviluppo ineguale e i meccanismi del circuito globalizzazione-finanziarizzazione hanno suddiviso il mondo in due parti con processi di accumulazione disallineati, cosa che ha portato a una sfasatura rispetto al loro posizionamento nella crisi sistemica: economie finanziarizzate quelle più mature (Occidente collettivo) ed economie reali quelle più giovani (Sud collettivo).

La domanda fondamentale: si tratta solo dello scontro tra blocchi con sviluppo disallineato (cosa che lo avvicinerebbe a un classico conflitto interimperialistico) o da questo conflitto sistemico uscirà (obbligatoriamente?) uno scenario socio-economico che poggia su basi diverse?

Quinto dato di fatto: una nazione oggi può essere egemone globalmente solo a costi altissimi e quindi per un periodo molto limitato di tempo.

Ipotesi sulla conseguenza del quinto dato di fatto: dallo scontro sistemico attuale uscirà un ordine multipolare, cioè non ruotante attorno a un unico centro egemone.

Ipotesi derivata: nel mondo multipolare i rapporti sociali ed economici saranno sensibilmente diversi da quelli che hanno dominato fino ad oggi, oppure il mondo multipolare si esaurirà in un nuovo e più ampio scontro.

Assunzione: Se si rimetterà al centro di questa architettura l’accumulazione senza (un) fine tutte le contraddizioni riemergeranno, ancora più gigantesche e in condizioni che renderanno la loro soluzione ancora più difficile.

 

1. L’ammiraglio statunitense Robert Bauer, presidente del Comitato militare dell’alleanza Atlantica, ha dichiarato alcuni giorni fa che la Nato «è pronta per un confronto diretto con la Russia». Questa dichiarazione segue di pochi giorni la previsione del generale a 4 stellette Mike Minihan riguardo una guerra con la Cina tra due anni. Immediatamente dopo il segretario della Nato, Jens Stoltenberg ha iniziato a preparare il terreno per trascinarci piano piano nel delirio ventilando che sebbene la Cina non sia un avversario della Nato, «la sua crescente assertività e le sue politiche coercitive hanno delle conseguenze». Parole che, in un gioco di squadra, si inserivano nella scia delle accuse di Ursula von der Leyen contro Pechino, rea di voler «rimodellare l’ordine internazionale a proprio vantaggio [così che] dobbiamo rafforzare la nostra resilienza», sottraendoci in modo crescente alla dipendenza dal commercio con la più grande economia mondiale a parità di potere d’acquisto (PPP) [1].

Seppure la minaccia di confronto diretto con la Russia e l’ipotesi di guerra con la Cina sembrino due follie o addirittura due nonsense, tuttavia hanno entrambe, separatamente e congiuntamente, una logica. O meglio una doppia logica i cui due versanti non sono sempre semplici da discernere, sia per la confusione di interessi che essi rappresentano, sia per la situazione caotica della politica statunitense.

Le due dichiarazioni hanno evidentemente degli scopi, non sono state rilasciate con leggerezza.

Uno di essi è mantenere i membri della Nato in stato di soggezione tramite una sorta di mobilitazione permanente e l’evocazione continua di nemici comuni. E’ una mossa classica, prima l’Unione Sovietica, poi il terrorismo, oggi la Russia e domani la Cina. Tuttavia ripetere la stessa mossa in condizioni drasticamente mutate può portare a risultati opposti a quelli sperati.

Io sono convinto che alle varie cancellerie europee arrivino (anche) notizie veritiere su cosa sta succedendo nel mondo e in Ucraina in specifico [2]. La domanda più immediata è allora: a parte il governo polacco benedetto da Radio Maria, quanti paesi della Nato se la sentono di fare una guerra senza speranza alla Russia per difendere gli interessi di alcune élite cosmopolite che fanno capo agli Stati Uniti e distruggere definitivamente i propri di interessi?

Ce la sentiremo di difendere la traballante egemonia mondiale di un Paese disastrato, che sta perdendo la sua ciambella di salvataggio, cioè il predominio del Dollaro, e che ci sta spingendo alla rovina assieme a lui e prima di lui? [3]

Ce la sentiremo di andare a combattere a migliaia di chilometri di distanza, in Ucraina e nel Mar Cinese Meridionale, minacciando l’integrità della Russia e della Cina nei loro stessi giardini di casa se non addirittura sul loro stesso territorio e sui loro mari? Che tradotto vuole anche dire: ce la sentiremo di sfidare per l’ennesima volta le lezioni della Storia, proprio mentre la congiuntura storica stessa è tutta a nostro sfavore?

 

2. Le risposte dipendono dal concorso di ciò che succede in varie dimensioni.

Una dimensione è legata al caso (qualche incidente può sempre esserci quando si gioca con l’alta tensione, qualche disastro naturale può sempre avvenire), mentre un’altra dimensione è legata alla personalità e alla caratura dei governanti occidentali, purtroppo drammaticamente bassa in termini di rettitudine, preparazione, capacità di analisi, e consiglieri di cui si circondano. Possiamo chiamarle “gruppo di dimensioni A” (da “aleatorie”, anche se in realtà sono semi aleatorie, dato che raramente i “disastri naturali” sono esclusivamente naturali ed è il sistema che seleziona le classi dirigenti, le coopta). Un’altra dimensione riguarda i rapporti di forza militari tra la potenza delle parti in conflitto. La chiameremo “dimensione V” (da “violenza” – credo che sia il termine più onesto). Collegata ad essa abbiamo i rapporti di forza economico-finanziari che costituiscono la “dimensione D” (da “denaro”). Infine abbiamo la differenza delle loro strutture sociali e politiche, una dimensione che non è meccanicamente deducibile dalla dimensione D, ma è ovviamente ad essa collegata; la chiameremo “dimensione T” (da “territorio”). Alla base di tutto ci sono i differenti rapporti sociali (chiamati spesso, in modo inesatto, “modelli di sviluppo”).

Collettivamente possiamo allora chiamare il compito di analisi “AVDT” e consiste nello sbrogliare il groviglio esistente individuando dove agiscono, come agiscono e come evolvono le varie dimensioni sopra accennate, descrivendo al meglio tramite esse le parti che si contrappongono, i motivi della contrapposizione (le sue origini storiche e logiche) e, infine, cercare di capire cosa uscirà da questo confronto, non per divinazione ma per applicazione della razionalità all’analisi dei processi in essere.

Un compito difficile, ma per fortuna ci sono lavori che aiutano a non brancolare del tutto nel buio. Sto parlando delle classiche analisi di Lenin, di Rosa Luxemburg, di Karl Polanyi, di Giovanni Arrighi e Samir Amin, della coppia Shimshon Bichler-Jonathan Nitzan, di David Harvey, di Jason Moore, di Gianfranco La Grassa e di Michael Hudson e, in Italia, delle recenti proposte interpretative di Raffaele Sciortino, Pierluigi Fagan, Gianfranco Formenti, del gruppo Brancaccio-Giammetti-Lucarelli, per fare alcuni nomi e, di nuovo, di Michael Hudson e di altri autori, spesso apparsi su Sinistra-in-rete, che coi loro contributi permettono di gettare luce su un aspetto o l’altro di questo complesso problema [4].

Purtroppo, non essendoci un organismo coordinante, questi contributi non riescono a consolidarsi in una lettura, per l’appunto, organica. E questo è un problema squisitamente politico. Se la guerra in Ucraina ha fornito la scusa per ampliare e approfondire l’emarginazione e addirittura la criminalizzazione delle voci dissenzienti, la nostra capacità di opporci a quello che ormai a tutti gli effetti è un regime totalitario, nel senso che impone una visione totale del mondo (sociale, politica, economica, scientifica e valoriale), è indebolita dalla suddivisione in una miriade di “voci” che non si coordinano nelle modalità di presentazione e rimangono scollegate [5]. Queste voci presentandosi prive di un moderatore politico che quanto meno le inquadri e le metta in correlazione le une con le altre, appaiono isolate anche quando concordano tra loro e anche quando sono offerte in un unico involucro, come ad esempio un medesimo portale (cosa in sé meritoria). Anche questo è un segno dei tempi.

Oltre che a rimandare alla bibliografia (che si trova agevolmente sul web) dei singoli autori sopra citati e a raccomandare la visita a portali come questi, l’esposizione che segue è in forma di note dove le varie dimensioni saranno implicite e non chiamate per nome.

 

3. La Nato che affronta direttamente la Russia e muove guerra alla Cina è un’idea folle. Tuttavia è veramente il sogno proibito dei crazy freaks neo-liberal-con al potere attualmente a Washington. Per gli ambienti statunitensi meno psicopatici è invece una minaccia per cercare di compattare gli alleati, far vedere al mondo che non si intende cedere il posto di comando e infine per spaventare Mosca e cercare di farle accettare un compromesso ed evitare il completo collasso dell’Ucraina (con eventuale spartizione tra Russia, Polonia, Ungheria e Romania) e quindi l’umiliazione dell’Alleanza Atlantica.

Una richiesta di compromesso che Mosca ha già rinviato al mittente perché giudicata poco seria, specialmente dopo l’ammissione occidentale (Hollande e Merkel riguardo gli accordi di Minsk) che noi tradiamo i patti in modo premeditato (da parte Russa potrebbe essere una scusa, o meglio un utilizzo ai propri fini della sbalorditiva provocazione franco-tedesca istigata dalla Nato).

Bisogna anche sottolineare che le politiche di sicurezza nazionale svolgono un ruolo di potente barriera unitaria protezionistica militare ed economica. Da questo punto di vista, per gli Stati Uniti il conflitto attuale è un mezzo per perseguire un fine economico più ampio dell’ovvio arricchimento dell’apparato industriale-militare: cercare di re-industrializzarsi ai danni principalmente dell’Europa.

Dualmente, l’innalzamento di una barriera unitaria protezionistica militare ed economica è stata per la Russia e la Cina una reazione obbligata all’aggressività statunitense, che ha creato ex novo percorsi che non erano previsti, ha accelerato tendenze latenti che avevano altre tempistiche o sbloccato processi che altrimenti difficilmente avrebbero visto la luce. E tutto questo si riversa e riverbera nella configurazione sociale, economica e politica dei due principali Paesi competitor degli Stati Uniti.

Siamo di fronte alla “larger picture”, cioè al quadro di quanto succede al di fuori dell’Ucraina, il quadro che spiega la guerra e che a sua volta è influenzato da ciò che avviene sui campi di battaglia. Per inserire il conflitto armato stesso nella larger picture occorre per prima cosa, accettare quanto segue:

Primo dato di fatto: la guerra contro Kiev ha sancito la fine del monopolio statunitense della violenza planetaria.

Questo è uno dei monopoli fondamentali del dominio mondiale. Gli altri sono quello dell’accesso alle fonti energetiche e alle altre risorse fondamentali (come il settore chimico-agricolo-farmaceutico), quello dei sistemi finanziari e di pagamento, quello della cultura e dell’informazione/comunicazione e infine quello dell’innovazione scientifica e tecnologica. Monopoli diversi ma collegati tra loro.

Questo collegamento spiega la famosa “resilienza” (termine che detesto) della Russia:

Secondo dato di fatto: la guerra stessa ha neutralizzato le sanzioni contro la guerra perché ha ampliato istantaneamente il campo d’attrazione russo.

E’ un’osservazione che vale in questo caso, non in generale. Un paradosso, nel senso di contraddizione reale, che non può essere né concepito né spiegato se non si ha una visione sistemica degli eventi. Infatti gli esperti occidentali di scuola canonica (economisti, politologi, geostrateghi e chiromanti d’altro tipo) si sentono spersi: “Le sanzioni non funzionano. Ma come?”. E cercano spiegazioni nelle minuzie.

Il fatto è che attorno a questa guerra tutto il sistema-mondo si muove, e velocemente, per un terzo motivo:

Terzo dato di fatto: La Russia ha trasformato in una guerra sistemica quella che per lei è alla base una guerra esistenziale.

Se non si capisce, o si fa finta di non capire, che per la Russia questa guerra è esistenziale sarà un disastro di ampiezza mai vista perché le guerre esistenziali la Russia le ha sempre vinte indipendentemente dal prezzo da pagare. Non solo dobbiamo ricordarci di Napoleone, di Hitler o dei Cavalieri Teutonici, ma è meglio che Varsavia e i Paesi baltici si ricordino di come sono finite le mire espansionistiche di Sigismondo III e della sua Confederazione Polacco-Lituana durante il “Periodo dei Torbidi” quando pure la Russia versava in stato di debolezza [6].

Ma Mosca è anche perfettamente consapevole che questa guerra si inserisce diritta nel cuore della crisi sistemica ed è quindi destinata a rivoluzionare il sistema-mondo. Basta rileggersi uno qualsiasi dei discorsi di Putin dell’ultimo anno. Anche gli Stati Uniti lo sanno perfettamente e ciò lascia sbalorditi, perché la potenza egemone non poteva concepire una strategia peggiore:

Prima conclusione: gli Stati Uniti stanno giocando la propria egemonia globale sul terreno più favorevole al proprio avversario, quello che lo ha sempre visto vincitore.

Ciò che è stupefacente è che questo esito era stato ampiamente previsto con molta precisione da uno dei maggiori geopolitici statunitensi, Georg Kennan, uno dei “padrini” della Nato, che già nel 1997 aveva avvertito: «L’opinione, per dirla senza mezzi termini, è che l’espansione della NATO sarebbe l’errore più fatale della politica americana nell’intera era post-guerra fredda. Ci si può aspettare che una tale decisione infiammi le tendenze nazionaliste, antioccidentali e militariste dell’opinione pubblica russa, abbia un effetto negativo sullo sviluppo della democrazia russa, riporti l’atmosfera della guerra fredda nei rapporti Est-Ovest, e spinga la politica estera russa in direzioni decisamente non di nostro gradimento» [7].

Durante la guerra esistenziale contro Napoleone la Russia si compattò attorno allo zar Alessandro I Romanov. Durante la guerra esistenziale contro Hitler la Russia si compattò attorno al segretario del Partito Comunista Josif Stalin. Oggi nella guerra esistenziale contro la Nato, la Russia si è compattata attorno al presidente Vladimir Putin. Difficilmente si può sostenere che non fosse prevedibile.

Questa strategia suicida dice pressoché tutto dello stato misto di disconnessione epistemologica e dissonanza cognitiva della leadership occidentale. Uno stato ormai patologico dovuto a un gioco di hubris e di disperazione che avvitandosi una sull’altra rendono impossibile l’elaborazione di un percorso alternativo, di una via di fuga non distruttiva.

 

4. Se dunque la nazione russa si compatta attorno ai suoi leader per combattere una guerra esistenziale, attorno alla guerra in Ucraina in quanto guerra sistemica la larger picture si muove.

Si pensi, ed è un solo esempio, alla recente “Dichiarazione dell’Avana” dei banchieri centrali, presidenti e parlamentari di 25 Paesi riuniti a Cuba il 27 gennaio scorso. E’ un programma per la creazione di un blocco planetario «led by the South and reinforced by the solidarities of the North».

«Il Congresso riconosce l’opportunità critica offerta dalla presidenza cubana del Gruppo dei 77 più la Cina per guidare il Sud fuori dalla crisi attuale e incanalare gli insegnamenti della sua Rivoluzione verso proposte concrete e iniziative ambiziose per trasformare il più ampio sistema internazionale». «La liberazione economica non sarà concessa ma conquistata».

Quando ci entrerà in testa che non ci sopporta più nessuno e facciamo di tutto per non essere sopportati? Quando capiremo che la maggior parte del mondo, in Ucraina ci vuole vedere umiliati, anche chi all’ONU vota secondo creanza o pressione?

La ribellione al cosiddetto “ordine internazionale” ha come protagonisti Paesi che si sentono minacciati e Paesi che si sentono soffocati dall’architettura di potere occidentale. Il verbo “sentire” è però impreciso, perché le minacce occidentali sono da tempo aperte, esplicite, spudorate, così come lo è la rapina. Dietro a questo disastro c’è l’abnorme finanziarizzazione dell’economia occidentale che è stata la via d’uscita “naturale” (in senso capitalistico) dalla crisi di sovraccumulazione degli anni Settanta. Ovviamente esiste un rapporto tra la disconnessione dell’economia dai valori reali e la disconnessione del pensiero occidentale dalla realtà. Lo studio dei suoi particolari è un tema seducente ma purtroppo non ho sufficienti conoscenze per affrontarlo e lo lascio quindi ad altri [8].

Il grosso ostacolo a una “revisione” interna all’Occidente della sua politica, suicida oltre che omicida, è dunque un blocco cognitivo e culturale connesso all’esasperante livello di finanziarizzazione raggiunto dall’economia. La bolla finanziaria incombe come un mostruoso ordigno nucleare pronto a scoppiare. Nel tentativo di depotenziare lo scoppio, le élite finanziarie obbligano l’ambiente esterno al centro capitalistico occidentale ad estrarre quanto più profitto e a sequestrare quanta più ricchezza sociale sia possibile per devolverli al centro egemone in crisi in cui la rendita finanziaria ha sostituito l’estrazione di profitto alimentando la sovraccumulazione, e parimenti obbligano l’Occidente stesso a un’operazione di auto-cannibalizzazione che consiste nell’avvitarsi in politiche di austerity e deflazione salariale e nella privatizzazione selvaggia del dominio pubblico (welfare, capitale sociale fisso, servizi).

Se l’inizio della crisi sistemica fu segnalato dal decennio di stagflazione (stagnazione con inflazione, superata dall’avvio della finanziarizzazione dell’economia), oggi, dopo poco più di mezzo secolo, nello show-down della crisi concorrono stagnazione, inflazione e finanziarizzazione, un triangolo devastante esasperato dallo scardinamento della globalizzazione dovuto allo scontro sistemico stesso.

Oggi la finanziarizzazione non può più essere un rimedio perché è stata utilizzata fino all’eccesso (come già avvertiva Thomas Friedman nel 2004 sul New York Times: “gli elefanti possono volare, ma solo per poco tempo” [9]). Non solo, ma il Paese dove oggi sono concentrati i mezzi di pagamento mondiali, la Cina, è largamente al di fuori del raggio d’azione politico imperiale e quindi della possibilità di far fagocitare le sue risorse dal sistema finanziario occidentale ormai fuori controllo.

Ecco allora un disperato tentativo imperiale di re-industrializzazione che essendo ostacolato dalla neo-compartimentazione dell’economia mondiale alimentata dagli scontri geopolitici, avviene ai danni dei vassalli in Europa e in Giappone e deve fare i conti con ritardi tecnologici, con mancanza di materie prime e con perdita di know how [10].

Negli Stati Uniti si rendono conto dell’impossibilità di una strategia coerente e solida per mantenere l’egemonia mondiale. Esclusa una guerra nucleare dalla quale i generali sanno perfettamente che gli Stati Uniti uscirebbero totalmente distrutti, l’unica speranza sarebbe un collasso interno della Russia e della Cina, inverosimile per mille ragioni, storiche, geografiche, antropologiche, culturali, economiche e politiche ampiamente studiate.

L’unica regione che è ripetutamente collassata nella Storia è stata l’Europa, il continente più violento del pianeta, suddiviso in mille poteri e con la possibilità idro-orografica di fare e disfare mille confini. Gli Stati Uniti si trovano in una situazione, anche geografica, più vantaggiosa di noi, ma il suo sistema economico-sociale ha assunto da subito un andamento “estrovertito”, cioè dipendente dalla conquista diretta o indiretta di crescenti spazi esterni, nonostante spesso si parli delle tendenze “isolazioniste” statunitensi. L’espansionismo è un fenomeno che era comprensibile per la piccola Inghilterra ma è abbastanza sorprendente in una nazione che nasce e si consolida su spazi enormi (“confederazione” e “impero” erano termini intercambiabili per i fondatori degli Stati Uniti). La spiegazione più verosimile è che esso sia dipeso dalla grande capacità di accumulazione degli Stati Uniti messa definitivamente in moto a livello internazionale proprio dal periodo protezionistico che seguì quella Guerra Civile in cui furono sconfitti gli interessi legati alla preminenza dell’impero britannico e alla triangolazione atlantica (manufatti inglesi scambiati con schiavi africani, schiavi africani scambiati con prodotti tropicali americani, prodotti tropicali americani scambiati con manufatti inglesi). E’ la ragione per cui considero la fine della Guerra Civile Americana l’inizio dell’era contemporanea, o meglio ancora dell’era “attuale”.

 

5. La necessità di “estroversione” degli Stati Uniti si scontra ora con la resistenza di due enormi competitor che storicamente non sono dipesi da un’esigenza simile. Ciò che sovente viene chiamato “imperialismo russo” e “imperialismo cinese” sono in realtà relazioni economiche internazionali di natura differente. Ad esse viene dato l’appellativo di “imperialismo” per pigrizia, per comodità, per incapacità di concepire fenomeni diversi da quelli che hanno caratterizzato l’Occidente nella sua particolare traiettoria storica. Le cose stanno in modo differente e non casualmente Giovanni Arrighi intitolò la sua ultima monografia “Adam Smith a Pechino” e non “Karl Marx a Pechino”. Per quanto riguarda la Russia mancano analisi precise che comunque non dovrebbero sottostimare l’influenza di oltre 70 anni di bolscevismo. La stessa reazione di Putin alla shock therapy messa in atto da Eltsin ha risentito, sebbene in modo altalenante, di quella tradizione e dell’attaccamento della popolazione russa ad essa (innanzitutto ai servizi statali e all’assistenza sociale, ma anche ideale, a giudicare dal fatto che il Partito Comunista della Federazione Russa col 19% è il secondo partito [11]).

L’ultima grande stagione di estroversione statunitense è stata la cosiddetta “globalizzazione”, «another name for the dominant role of the United States», come affermò candidamente Henry Kissinger in una conferenza al Trinity College di Dublino il 12 ottobre del 1999. Ma la globalizzazione ha avuto come esito inintenzionale proprio la crescita dei grandi competitor strategici degli Usa e dei competitor minori che attorno ad essi si stanno aggregando. Questo ha portato a un deterioramento della globalizzazione e a una neo-compartimentazione del sistema-mondo dove le economie giovani e dinamiche stanno da una parte e quelle mature e obsolescenti dalla parte opposta.

Ipotesi dello sfasamento cronologico: Lo sviluppo ineguale e i meccanismi del circuito globalizzazione-finanziarizzazione hanno suddiviso il mondo in due parti con processi di accumulazione disallineati, cosa che ha portato a una sfasatura rispetto al loro posizionamento nella crisi sistemica: economie finanziarizzate quelle più mature (Occidente collettivo) ed economie reali quelle più giovani (Sud collettivo)[12].

Il deterioramento della globalizzazione ha provocato quello dei processi di alimentazione delle prime da parte delle seconde. Se la globalizzazione serviva a sopperire a ciò che non potevano più fare le singole società nazionali occidentali né il loro assemblaggio/coordinamento nell’economia-mondo centrata sugli Stati Uniti, ovvero “pompare energia” sufficiente dai processi di creazione del valore a quelli di accumulazione monetaria, il suo scardinamento sta obbligando il centro dominante a ricorrere alla “accumulazione per espropriazione” ai danni dei suoi stessi vassalli. Ma facendo ciò gli Stati Uniti si stanno ritraendo dalla posizione di Paese “egemone” per assumere le vesti di Paese “dominante”. Se l’egemonia è sempre “corazzata di coercizione”, oggi gli Stati Uniti devono usare un massimo di forza dato che ormai godono di un minimo di consenso, pur avendo ancora una notevole presa culturale [13]. Detto in termini generali, il problema che si è trovato di fronte l’Occidente è stato l’impossibilità di inglobare altre economie-mondo nella propria, un’impossibilità di tipo geopolitico (la sconfitta nel Vietnam è forse stato il suo segnale più precoce).

Il problema che il mondo invece si trova oggi di fronte è proprio l’impossibilità dell’economia-mondo occidentale di coesistere con altre economie-mondo, un’impossibilità che ha le sue radici nella logica dei processi di accumulazione che si sono storicamente strutturatati in Occidente.

L’Occidente è quindi in preda a un giro vizioso perfetto: i tentativi di bloccare l’ascesa dei competitor inducono un indebolimento della sua economia e un approfondimento della crisi e questo diminuisce la sua capacità di contrastare i competitor. O l’Occidente cambia strategia, ovvero accetta di negoziare la propria posizione in un mondo multipolare, pagando ovviamente un prezzo in termini di privilegi, comunque destinati a sparire con la forza, o la situazione diventerà sempre più disperata. E questo è pericolosissimo. Il cambio di strategia deve quindi essere rapido.

La disperazione che serpeggia tra le élite occidentali ha infatti già fatto evaporare le loro residue capacità diplomatiche/egemoniche, quasi che si fosse ormai consapevoli che è meglio essere espliciti e brutali dato che non c’è più possibilità di far identificare il bene degli Usa col bene dell’Occidente e il bene dell’Occidente con quello di tutti.

Se si leggono i rapporti dell’FMI e delle altre istituzioni preposte all’ordine mondiale occidentale, si vede un quadro di desolazione che grazia solo pochi Paesi [14]. La maggior parte delle nazioni del mondo sono considerate un “problema”. Problema che deve essere risolto con macellerie sociali e, in definitiva, con l’aggravamento del problema stesso, in un giro vizioso a beneficio dei soliti pochissimi noti.

Se durante la reaganomics un Paese in via di sviluppo dopo l’altro dovette ricorrere ai prestiti delle banche di New York e Londra che riciclavano i petrodollari, accettando di pagare tassi d’interesse inauditi, mentre oggi invece la coda è a Pechino e anche a Mosca, il motivo è proprio questo: in Cina e in Russia non sono considerati come dei problemi e dei polli da spennare. Il BRICS, il BRICS+, la SCO, l’Unione Economica Eurasiatica, trattano i Paesi come soggetti legittimi, con esigenze e aspirazioni legittime.

Cos’altro è l’architettura monetaria che da alcuni anni viene studiata da Sergej Glazyev, il responsabile per l’integrazione e la macroeconomia della Commissione Economica Eurasiatica, l’organo esecutivo dell’Unione Economica Eurasiatica, e che provvisoriamente possiamo definire “Diritti Speciali di Prelievo Multipolari”, se non una sorta di Bancor, quella moneta orientata al debito, cioè ai Paesi che devono svilupparsi, anche in deficit, e non sottoposta a una singola nazione, proposta da Keynes a Bretton Woods e rifiutata a favore del Dollaro (il gold-dollar exchange standard), ovvero una moneta internazionale orientata al credito e al sostegno geopolitico di una parte sola, gli USA, che allora erano la più grande potenza creditrice del mondo?

Il BRICS, il BRICS+, la SCO e la UEE sono impetuosi corsi d’acqua che finiranno per confluire in un unico fiume, assieme al G77, la ridestata Organizzazione dei Paesi non Allineati. Ridestata, che lo si voglia o no, dall’Operazione Militare Speciale russa in Ucraina. Un fiume rappresentabile (e non certo metaforicamente) con le Nuove Vie della Seta, la Belt and Road Initiative (BRI) cinese, alla quale già aderiscono 140 Paesi in Asia, Europa e America Latina. Un’area potenzialmente allargabile a quell’80% di Paesi che non applicano nessuna sanzione alla Russia.

 

6. Gli Stati Uniti, o meglio le sue élite, o meglio ancora le sue élite neo-liberal-con legate allo strapotere della finanza e/o a una mentalità eccezionalista, le élite cresciute, spesso anche anagraficamente, e diventate potentissime con la crisi sistemica, guardano a questi processi non capendoli, considerandoli semplicemente degli insulti a un ordine “naturale” che non poteva e non doveva essere perturbato.

E li guardano sempre più impotenti e spaventate. E questo è molto pericoloso, perché può portarle ad atti disperati di cui nemmeno riuscirebbero a calcolare tutte le conseguenze, per via della loro arroganza e dalla loro inesistente, insufficiente o inadatta preparazione culturale e intellettuale.

Che ciò sia evitato dipende soprattutto da come agirà quella parte degli Stati Uniti – e quella parte dei suoi interessi – che vede meno pericoloso e più conveniente adattarsi a un mondo multipolare che cercare di lanciarsi a testa bassa contro il muro di contraddizioni politiche, economiche e militari che la crisi e la sua gestione neoliberista hanno eretto. Si farebbe per lo meno guadagnare al mondo tempo prezioso anche se una soluzione più duratura richiederà un patto che ponga la società al centro. E lo stesso vale per l’Europa.

A questo punto si passa a un altro tema d’analisi che deve rispondere alla domanda seguente:

La domanda fondamentale: si tratta solo dello scontro tra blocchi con sviluppo disallineato (cosa che lo avvicinerebbe a un classico conflitto interimperialistico) o da questo conflitto sistemico uscirà (obbligatoriamente?) uno scenario socio-economico che poggia su basi diverse?

Innanzitutto dobbiamo domandarci se tutti questi soggetti nazionali che si stanno ribellando all’ordine globale occidentale sperano che la Russia, o la Cina se per questo, prenda il posto degli Stati Uniti come nazione egemone. La risposta molto semplice è No. Ma questo non sembra nemmeno essere nelle intenzioni. Saggiamente, perché la Storia è arrivata a un punto particolare:

Quinto dato di fatto: una nazione oggi può essere egemone globalmente solo a costi altissimi e quindi per un periodo molto limitato di tempo.

E’ un dato storico. Si pensi all’egemonia statunitense entrata economicamente in crisi dopo meno di trent’anni, e si sta parlando di una potenza di primissimo livello che alla fine della II Guerra Mondiale concentrava quasi tutti i mezzi di pagamento mondiali e aveva una produttività che surclassava il resto del globo messo assieme.

La Russia e la Cina vedono perfettamente cosa sta succedendo agli Stati Uniti (ad esempio al suo Dollaro, una volta padrone del mondo). E non vogliono ripetere l’esperienza. Comunque per la Russia i costi sarebbero inaffrontabili se volesse sostituirsi agli USA (tra l’altro litigherebbe subito col suo principale alleato, la Cina, a cui si applica lo stesso ragionamento). Ne segue un’ipotesi:

Ipotesi sulla conseguenza del quinto dato di fatto: dallo scontro sistemico attuale uscirà un ordine multipolare, cioè non ruotante attorno a un unico centro egemone.

Se ciò è confermato, come molte cose fanno pensare, ci sarà (o dovrebbe esserci) di conseguenza un drastico cambio di paradigma sia nei rapporti internazionali sia nei rapporti economico-sociali interni alle singole nazioni, due aspetti dialetticamente collegati, perché da cinquecento anni a questa parte un’economia-mondo è proceduta sempre attorno a un centro egemone, si identificava con esso.

Ipotesi derivata: nel mondo multipolare i rapporti sociali ed economici saranno sensibilmente diversi da quelli che hanno dominato fino ad oggi, oppure il mondo multipolare si esaurirà in un nuovo e più ampio scontro.

In Russia la guerra stessa sta facendo rivedere il “modello” economico. È troppo presto per un giudizio, ma le cose stanno cambiando, ad esempio riguardo al ruolo dello Stato. Sono movimenti da tener d’occhio in modo critico.

Siamo di fronte a una ribellione planetaria che obbligherà i futuri studiosi a rivedere la periodizzazione storica e qualche persona non riflessiva o con scarsa capacità di raziocinio potrebbe chiedersi se io, che sono e mi considero occidentale, faccio il tifo per una parte. Di sicuro non faccio il tifo per l’ipocrisia dei bombardatori “umanitari”, per chi ritiene che mezzo milione di bambini morti in Iraq sono “un prezzo giusto”, per chi dal 1945 ad oggi ha provocato con le sue guerre 20 milioni di morti, per chi a Washington dava l’ordine di bombardare con droni matrimoni in Afghanistan, per chi ha massacrato milioni di civili in Vietnam. E non faccio il tifo per chi sventola la svastica.

Faccio allora il tifo per il compimento di un processo storico che da oltre due decenni ritengo inevitabile? Che senso avrebbe? Sarebbe come fare il tifo per il moto di rotazione della Terra attorno al proprio asse. Sarebbe del tutto insensato. Certo, quando torna la luce del giorno si possono fare cose impossibili durante la notte al buio. Ma, per l’appunto, tutto dipende da cosa si fa.

E’ troppo presto per prevedere che tipo di architettura multipolare nascerà dalla ribellione in corso contro il plurisecolare ordine internazionale occidentale.

Posso solo fare ipotesi in base alla Storia e alla logica, ma credo che nessuno possa onestamente dire che le cose sono chiare. Ci separano ancora anni da una bozza di progetto alternativo sufficientemente precisa, e anni per implementarlo, anni che saranno pieni di eventi difficili da prevedere. Anni in cui questo conflitto si amplierà e di conseguenza si approfondirà. Un decennio? Due decenni?

Sulla carta dovrebbe uscirne un sistema più equo. Ma quali livelli di equità sono necessari?

Una cosa per me è certa:

Assunzione: Se si rimetterà al centro di questa architettura l’accumulazione senza (un) fine tutte le contraddizioni riemergeranno, ancora più gigantesche e in condizioni che renderanno la loro soluzione ancora più difficile.

Non tifo dunque perché venga il giorno. Il Sole sorgerà da solo, non ha bisogno di incoraggiamenti. Io posso solo sperare che durante la notte si smetta di uccidere, si cessi di provocare sofferenze e che prevalgano il buon senso e la pietà.

Tifo invece perché durante il giorno, per parafrasare Karl Polanyi, si riesca a trovare il modo perché la società con mercato (cosa naturale) prenda il posto della società di mercato (cosa innaturale, dove i rapporti tra esseri umani sono sostituiti dai rapporti tra merci).

Altrimenti, come si suol dire, in poco tempo saremmo da capo a quindici e tutte queste sofferenze sarebbero servite solo a mettere alla luce un essere ancor più mostruoso.

«Superare il capitalismo è dunque non soltanto “correggere la ripartizione del valore” (ciò che produce solo un immaginario “capitalismo senza capitalisti”) ma anche liberare l’umanità dall’alienazione economica»(Samir Amin).


NOTE
[1] Qui le dichiarazioni di Bauer. Qui le dichiarazioni di Minihan. Qui le dichiarazioni di Stoltenberg. Per quelle della von der Leyen si veda qui e qui. I discorsi di Ursula von der Leyen sono casi di studio esemplari sul tema “ipocrisia”. Notevole, ad esempio, questo passaggio: «Il sabotaggio del Nord Stream ha dimostrato che dobbiamo assumerci maggiori responsabilità per la sicurezza della nostra infrastruttura di rete». Realmente fantastico: persino i sassi, anche quelli americani, sanno che questo sabotaggio (e disastro ambientale) è stato opera di Stati Uniti/Nato. Ai sassi che ancora non lo sanno consiglio l’inchiesta investigativa del Premio Pulitzer Seymour Hersch. Questa inchiesta è piena di dettagli che possono essere conosciuti solo da “insider”. Che alcune “gole profonde” abbiano permesso in questo momento a Hersh di produrre il suo “scoop”, la sua “bombshell”, è evidente sintomo di una lotta interna all’establishment statunitense. Mi è immediatamente ritornato in mente lo scandalo Watergate e la sua copertura da parte di Bob Woodward e Carl Bernstein per il “Washington Post” (da sempre legato alla CIA) e dallo stesso Hersh per il “New York Times”. In quel caso si è saputo che la “gola profonda” era niente meno che il vicedirettore della CIA, Mark Felt.
Per quanto sia incredibile, persiste ancora un mito condensato nella celeberrima frase «È la stampa, bellezza! E tu non puoi farci niente! Niente!» (Ed Hutcheson-Humphrey Bogart alla fine del film di Richard Brooks L’ultima minaccia, 1952): la (libertà di) stampa può mettere in ginocchio il potere. Vedremo in un’altra nota che fine ha fatto la libertà di stampa negli USA e in Occidente, ma anche all’epoca del Watergate ci voleva ben altro che un’inchiesta-bomba, come ha ammesso la stessa editrice del “Washington Post”, Katharine Graham: «A volte la gente ci accusa di “aver abbattuto un presidente”, cosa che ovviamente non abbiamo fatto e non avremmo dovuto fare. I processi che hanno causato le dimissioni [di Nixon] erano costituzionali». E persino dallo stesso Woodward: “La mitizzazione del nostro ruolo nel Watergate è arrivata al punto di assurdità, in cui i giornalisti scrivono … che io, da solo, ho abbattuto Richard Nixon. Totalmente assurdo”.
Per mettere in ginocchio il potere ci vuole una rivoluzione o un altro potere che vuole scalzarlo, eventualmente “utilizzando” ottimi giornalisti (o comprandone di spregiudicati o vili, cosa che avveniva fin dai primordi della professione come ci racconta Rossini nella sua opera lirica “La pietra di paragone”).
Il fine dell’estromissione di Nixon è ancoro dibattuto negli Stati Uniti (l’anno scorso c’è stato il cinquantenario dello scandalo). Io sono convinto che si volesse impedire il suo disimpegno dal Vietnam. Per altri non è così, ma è la stessa caoticità delle forze e dei decisori statunitensi che non permette una lettura univoca.
Tornando alla von der Leyen, nei suoi interventi si possono notare anche stupidaggini terminologico-concettuali come «la guerra brutale della Russia». La signora von der Leyen sa indicarci una guerra che non sia stata brutale? Forse quella del Vietnam col 67% di vittime civili? O quella in Iraq col 77%? Tutte le guerre sono brutali!
Si noti che il termine composto “guerra della Russia” è accompagnato da due tic, da due automatismi. Il primo è, appunto, aggiungere l’aggettivo “brutale”, il secondo è aggiungere l’aggettivo “non provocata” (unprovoked). Da linguista e scienziato cognitivista geniale qual è, Noam Chomsky ha subito commentato: «Of course, it was provoked. Otherwise, they wouldn’t refer to it all the time as an unprovoked invasion. By now, censorship in the United States has reached such a level beyond anything in my lifetime».
Per quanto riguarda invece la potenza economica dei contendenti, la Cina supera del 20% gli USA per PIL calcolato in PPP e di 8 volte gli UK (noi siamo al 12° posto). Ma nonostante il confronto sulla base del PPP sia più preciso rispetto a quello in base ai valori nominali, tuttavia è incompleto. Come la stessa RAND Corporation ammette «[Il] PIL fornisce solo un limitato quadro del potere. Dice poco sulla composizione dell’economia, come ad esempio se è guidata da settori di punta o è invece dominata da quelli vecchi e in declino». Lo stesso discorso riguarda il budget per la difesa (cfr. RAND Corporation, Measuring National Power”, 2005).
Ma se si prendono sul serio questi “caveat” notiamo un ulteriormente aggravamento della posizione statunitense dato l’altissimo grado di finanziarizzazione della sua economia che significa ridotte capacità produttive reali. Si pensi solo alla produzione statunitense legata all’industria militare comparata a quella Russa. Inoltre, la logica di produzione, guidata dai profitti privati e non dall’efficacia del risultato, spinge i produttori a sviluppare sistemi d’arma complicatissimi e costosissimi ma operabili con difficoltà nei conflitti reali contro un avversario alla pari.
[2] I dati catastrofici per le forze armate ucraine, ancor più allarmanti se confrontati con le perdite russe inferiori di un ordine di grandezza, fuoriescono ora non solo dagli ambienti del Pentagono ma anche da quelli del Mossad e non sono nascosti nemmeno dalla BBC. Per quanto riguarda l’economia, l’FMI ha dichiarato che nonostante la Russia sia la nazione più sanzionata della Storia il suo PIL è più alto di quello della Germania. In compenso il PIL dei bellicosi e revanscisti UK è in zona negativa. Inflazione, fallimenti, disoccupazione, collasso dei servizi pubblici, strette sulle pensioni, il quadro europeo è disastroso e con prospettive foschissime. Non oso nemmeno pensare a cosa succederà quando gli Stati Uniti ci obbligheranno alle sanzioni contro la Cina: dopo la perdita dell’energia a buon mercato russa andremo incontro alla perdita delle merci a buon mercato cinesi. Al di là di ogni altra conseguenza, la produzione di profitto in queste condizioni sarà impossibile a meno di far ritornare i lavoratori ai tempi di Dickens. E in un sistema capitalistico il profitto è la molla dell’economia reale.
Voglio far notare incidentalmente che un rapporto speciale dell’ONU sulla povertà negli UK già comparava la situazione del 2019 alle situazioni descritte da Dickens:
«Ad alcuni osservatori potrebbe sembrare che il Dipartimento del lavoro e delle pensioni sia stato incaricato di progettare una versione digitale e sterilizzata del laboratorio del diciannovesimo secolo, reso famigerato da Charles Dickens, piuttosto che cercare di rispondere in modo creativo e compassionevolmente ai bisogni reali di coloro che affrontano una diffusa insicurezza economica in un’epoca di profonde e rapide trasformazioni indotte dall’automazione, dai contratti a zero ore e da una disuguaglianza in rapida crescita» (UN Report of the Special Rapporteur on extreme poverty and human rights: Visit to the United Kingdom of Great Britain and Northern Ireland, pag. 5). Ed è del tutto inutile consolarci con scuse come l’uscita degli UK dalla UE: Italia, de te fabula narratur.
La situazione degli Stati Uniti non è molto più rosea, se non dal punto della forza geopolitica relativa e quindi della loro capacità di far pagare il più possibile la crisi a noi. Ma mentire è ormai una questione di vita o di morte. E si mente in modo così spudorato ed esagerato che gli esperti si grattano scettici la testa: “ ‘Too good to be true’ jobs report draws skeptics on data quirks”, titola “The Philadelphia Inquirer” il 3 febbraio scorso, un articolo che riporta le stime di Bloomberg che parlano di un aumento di oltre mezzo milione di posti di lavoro in Gennaio, cosa che porterebbe il tasso di disoccupazione addirittura ai livelli più bassi dal 1969, cioè da inizio crisi! L’Inquirer fa notare però che si tratta di un dato “aggiustato” e che la stessa Bloomberg ammette che «Su base non rettificata, le buste paga sono in realtà diminuite di 2,5 milioni il mese scorso» (“On an unadjusted basis, payrolls actually fell by 2.5 million last month).
[3] I BRICS stanno elaborando un sistema di pagamenti alternativo al Dollaro, notizia che non si trova nei media occidentali ma che potete trovare sul media outlet indiano “Business Standard”.
Comunque il “Financial Times” ci informa che le due più grandi economie dell’America Latina, Brasile e Argentina, hanno iniziato la preparazione di una moneta comune, che si dovrebbe chiamare “Sur”, per incrementare il commercio regionale e “ridurre la dipendenza dal Dollaro”.
L’Arabia Saudita sta considerando di vendere petrolio in divise diverse dal Dollaro.
La Cina sta trattando per comprare energia dai Paesi del Golfo in Yuan.
Le banche centrali di Russia e Iran alla fine dello scorso gennaio hanno firmato un accordo per connettere le banche dei due Paesi attraverso un sistema alternativo allo SWIFT.
Intanto le riserve cinesi in bond governativi statunitensi sono diminuite in un anno di 92 miliardi di dollari.
Ovviamente l’Euro non se la passerà meglio: il vice-ministro russo delle Finanze, Vladimir Kolychev ha dichiarato che entro l’anno la quota di Euro nei Fondi Nazionali Russi sarà azzerata nell’ambito di una revisione della composizione del fondo che alla fine ammetterà solo Rubli, Yuan e oro.
Per un’analisi generale recente si veda il rapporto “The Future of the Monetary System”, pubblicato niente meno che dal Credit Swiss e redatto da un team diretto da Zoltan Pozsar, un autore che consiglio di seguire.
[4] Su un versante politico-filosofico dobbiamo aggiunge Gramsci come classico (la fondamentale nozione politica di “egemonia” è sua) e Costanzo Preve come pensatore contemporaneo.
Questi autori non dicono le stesse cose, né hanno le stesse preoccupazioni. Ad esempio, se Lenin e la Luxemburg sono dei politici, Arrighi è un economista e storico, Shimshom e Bichler sono economisti, Harvey è un geografo mentre Moore si occupa di sistemi socio-ecologici. Ma se invece di dare al loro pensiero una lettura tutta interna alla dimensione delle idee, incasellando i loro ragionamenti sui rami di un albero col tronco ben piantato sottosopra con le radici nel cielo, si cercano di capire i problemi concreti, materiali, su cui si sono concentrati, e di localizzare sia i problemi che i punti di vista, (localizzare in senso storico e geografico), allora oltre ai punti di divergenza si potranno notare anche gli elementi comuni senza necessariamente rischiare di cadere nell’eclettismo. Specie se si traguarda la loro lettura coi problemi che devono essere affrontati oggi. Per parafrasare Marx, non bisogna dividere in quattro le idee, i concetti, per collocarli in una tassonomia accademica («Prima di tutto, io non parto da “concetti”, quindi neppure dal “concetto di valore”, e non devo perciò in alcun modo “dividere” questo concetto», Marx, “Glosse marginali al Manuale di economia politica di Adolph Wagner”).
[5] Riguardo lo sprofondamento in un regime da Ministero della Verità orwelliano, si pensi innanzitutto a Julian Assange. O si pensi a Seymour Hersh, il più grande giornalista investigativo statunitense, il Premio Pulitzer che svelò il massacro di My Lai e i bombardamenti segreti della Cambogia durante la guerra del Vietnam e denunciò le torture di Abu Ghraib. Autore di inchieste che comparivano in prima pagina sul “New Yorker” e sul “New York Times”, oggi è emarginato come un paria essendosi opposto alle versioni ufficiali degli attacchi chimici in Siria, del caso Skripal e del sabotaggio del Nord Stream. Si pensi ancora al giornalista britannico Graham Phillips, accusato di “crimini di guerra” per aver detto che il mercenario britannico in Ucraina Aiden Aslin era, per l’appunto, un mercenario. Gli hanno anche bloccato il conto in banca. Alla giornalista tedesca Alina Lipp oltre che congelare il conto in banca hanno sequestrato il computer e rischia la galera con l’accusa di aver “diffuso notizie false atte a turbare l’ordine pubblico” per non essersi uniformata alla copertura dei media Minculpop sulla guerra. Sorte simile per la cineasta francese Anne-Laure Bonnell, acclamata nel 2016 persino dal “New York Times” per un suo documentario sul Donbass e oggi esclusa da ogni evento cinematografico con la colpa di voler continuare a dire la verità sul Donbass. Ha anche perso il posto all’università parigina dove insegnava. Il giornalista italiano Giorgio Bianchi è entrato nella kill list dei servizi segreti ucraini che appare nel sito “Myrotvorets” (“Il pacificatore”), senza che il nostro ministero degli Esteri si sia sentito in dovere di protestare.
La cosa più inquietante è la velocità con cui siamo passati dal pluralismo all’intolleranza.
[6] «A noi non interessa un mondo senza la Russia», ha dichiarato Putin, ma questo è il sentire del 99% dei Russi e lo hanno dimostrato in 1.000 anni di storia. Che quella in Ucraina sia una guerra esistenziale, ai Russi glielo abbiamo fatto capire con abbacinante chiarezza dichiarando esplicitamente: 1. che la guerra in Ucraina è stata deliberatamente preparata per anni, tradendo ogni accordo, per indebolire la Russia; 2. che vogliamo abbattere il legittimo governo che i Russi hanno eletto; 3. che vogliamo smembrare la Russia come abbiamo fatto con la Jugoslavia; 4. che odiamo o ci è estraneo tutto ciò che è russo.
[7] George F. Kennan, “A Fateful Error”, The New York Times, 5 febbraio 1997.
[8] Riguardo questo tema posso fare solo alcune considerazioni di metodo. La classica dottrina della “verità” si basa sulla definizione aristotelica di “adaequatio rei et intellectus” dove il soggetto che parla (intellectus) è distinto dalle cose (res) di cui questo soggetto parla. In tempi moderni, questa distinzione è stata rielaborata dal logico tedesco Gottlob Frege in quella tra “Sinn”, cioè “senso”, e “Bedeutung”, cioè “riferimento”, e l’interpretazione “realistica” del concetto di “riferimento” era sottintesa anche nella semantica formale del grande logico e matematico polacco Alfred Tarski. Ma col post-strutturalismo (Jacques Derrida, Gilles Deleuze, Jacques Lacan, Michel Foucault, ecc.) il “riferimento” viene relativizzato (o “intenzionalizzato”) abbandonandone l’interpretazione “realistica”. La semiotica post-strutturalista di Umberto Eco, ad esempio, riallacciandosi alla “semiosi illimitata” di Charles Sanders Peirce, sostiene che l’enunciato “La neve è nera” è rifiutato non perché si riferisce erroneamente a uno stato di cose, ma perché altrimenti dovremmo «riorganizzare le nostre regole di comprensione”, dato che questa affermazione romperebbe una “unità culturale”» (“Trattato di semiotica generale”, Bompiani, 1975 § 2.5). L’interpretazione diventa un riferimento interno in una sorta “antinomia del mentitore” metodologica. La critica post-strutturalista, che ha lati interessanti e altri cialtroni, specialmente quando mima il rigore delle scienze esatte, ha condotto a quelle posizioni relativistiche che oggi sono sfociate nei concetti di “narrazione” e di “post-verità”.
Già nel 1994 Noam Chomsky era esterrefatto da questa deriva:
«Se finisci per dirti: “è troppo difficile occuparsi dei problemi reali” ci sono un sacco di modi per non farlo. Uno di essi consiste nel disperdersi in affari di scarsa importanza. Oppure impegnarsi in culti accademici completamente avulsi dalla realtà e che costituiscono un riparo al doversi occupare delle cose come stanno. E’ pieno di comportamenti di questo genere, anche all’interno della sinistra. … Oggi nel Terzo Mondo predomina un senso di profonda disperazione e di resa. Il modo in cui si è estrinsecato questo atteggiamento, nei circoli colti che hanno contatti con l’Europa, è stato di immergersi completamente nelle ultime follie della cultura parigina e di concentrarsi totalmente su di esse. Per esempio, se dovevo parlare di attualità, anche in istituti di ricerca che si occupassero di aspetti strategici, i partecipanti volevano che li traducessi in vaneggiamenti postmoderni. Per fare un esempio, piuttosto che sentirmi parlare dei dettagli dell’azione politica statunitense in Medio Oriente, cioè a casa loro – che è una cosa sporca e priva d’interesse – preferivano sapere in che modo la linguistica moderna fornisse un nuovo paradigma argomentativo riguardo gli affari internazionali, capaci di soppiantare il testo poststrutturalista. Questo li avrebbe davvero incantati… . Tutto ciò è deprimente.» (Keeping the Rabble in Line: Interviews With David Barsamian”. Questo passaggio è citato opportunamente da Alan Sokal e Jean Bricmon nel loro “Imposture intellettuali” (Garzanti 1999) nel loro tentativo di “mettere in guardia la sinistra da se stessa” (Nota: quasi 30 anni dopo, come stiamo vedendo, il Terzo Mondo è meno disperato e vede la possibilità di sottrarsi agli artigli dell’Occidente e alle sue “follie parigine” sempre più fuori controllo).
Non era necessario che finisse così male, ma così è stato, per questioni storiche: questo modo di concettualizzare fa comodo al Potere, perché la narrazione, la post-verità, è in mano a chi controlla i media, a chi gestisce il “soft power”. Il “politicamente corretto” fa parte di questi esiti: non è corretto dire “negro” (piano linguistico), ma ciò non evita che la stragrande maggioranza relativa di condannati a morte negli USA sia composta da “neri” (piano della realtà). Il grande sforzo ideologico di politici e mass media è convincere il pubblico a lasciar perdere lo stato dei fatti e a concentrarsi solo sul linguaggio. Le contraddizioni devono essere espunte dal linguaggio non dalla realtà. Si potrebbe pensare che quanto meno è un inizio. No! E’ già la fine, pura forma senza sostanza.
Allo stesso modo la sinistra si è progressivamente concentrata sugli aspetti più superficialmente “culturali” del conflitto, privilegiando le sottoculture e la difesa dei diritti (e dei bisogni) individuali e di gruppi specifici che non creano nessun reale fastidio, sostituendo con tutto ciò la visione materialista del mondo e la difesa dei diritti e dei bisogni sociali e alienandosi le simpatie popolari a beneficio della destra. Secondo Michael Hudson il tradimento dei propri patti costitutivi è il compito e la ragion d’essere attuale dei partiti di sinistra. Questa deriva era stata ampiamente prevista da Pier Paolo Pasolini. E’ significativo che negli eventi per il centenario della sua morte si sia glissato su questo aspetto del suo pensiero o lo si sia ridotto a fatto di costume o a polemica.
Purtroppo lo scollamento economico e culturale dalla realtà ha indotto equivoci anche in parecchi compagni che assieme ad abbagli sulla globalizzazione si sono messi a teorizzare sul “capitale immateriale”, sulla “infosfera” e sul “lavoro cognitivo” in modi che troppe volte riecheggiavano i vuoti slogan accattivanti dell’avversario.
Faccio notare che a volte persino gli studi statunitensi di geostrategia erano, anche se solo parzialmente, influenzati dall’approccio, diciamo così, “finanziarizzato-poststrutturalista” (si veda ad es. Ashley J. Tellis, Christopher Layne, “Measuring National Power in the Postindustrial Age”, Foreign affairs (Council on Foreign Relations), January 2001.
Una volta messi in circolo questi guasti culturali, agendo sulla de-concettualizzazione promossa dalla “pedagogia progressista” e sull’ideologizzazione indotta da infotainment e tecniche di marketing centrata sull’identificazione di desiderio individuale e diritto, contando sull’ignoranza imposta dalla censura e da un sistema d’informazione uniformato e normalizzato e infine garantite da un meccanismo di punizione-premiazione che obbliga al conformismo ideologico e politico, le élite dominanti hanno trascinato nel loro stato di disconnessione epistemologica e dissonanza cognitiva il corpo della società, pressoché nella sua interezza.
[9] Thomas Friedman, “The 9/11 Bubble”. The New York Times, 2 dicembre 2004.
[10] La decentralizzazione negli Usa delle industrie europee comporterà anche un’emigrazione di forza lavoro qualificata e uno avvilimento/smantellamento del ciclo istruzione-ricerca-sviluppo nel Vecchio Continente.
[11] Ovviamente occorre tener conto dei dati anagrafici. Ricordo che nel referendum del 1991 la media di chi chiese il mantenimento dell’Unione Sovietica fu di circa l’80% dei votanti. E faccio anche notare la cautela con la quale Putin ha affrontato il tema dell’aumento dell’età pensionabile (da 60 a 65 anni per gli uomini e da 55 a 60 per le donne).
[12] Lo sviluppo ineguale è indotto dal fatto che l’accumulazione si basa su differenziali di sviluppo (economici, finanziari, culturali, politici e geopolitici), sia all’interno delle singole società sia tra Paesi e blocchi di Paesi. Per il concetto di “differenziali di sviluppo” e il loro ruolo nei conflitti si può vedere i miei “La logica della crisi” in “Dopo il neoliberalismo”, a cura di C. Formenti, Meltemi 2021 e “Al cuore della Terra e ritorno”, 2013, in due volumi scaricabili gratuitamente qui e qui.
[13] L’espressione “pompare energia” è usata da Fernand Braudel nel suo “La dinamica del capitalismo”, Il Mulino, 1988, pag. 63: «Il capitalismo è, per natura, congiunturale, cioè si sviluppa in rapporto- alle pressioni esercitate dalle fluttuazioni economiche… .[P]enso che nella vita mercantile tendesse ad affermarsi solo un tipo di specializzazione: il commercio del denaro. Il suo successo però non è mai stato di lunga durata, come se l’edificio economico non fosse in grado di pompare energia fino a queste alte vette».
Il concetto di “accumulazione per espropriazione” è stato introdotto da David Harvey rielaborando idee di Rosa Luxemburg, Fernand Braudel e il noto capitolo del Capitale di Marx sulla cosiddetta “accumulazione originaria”, interpretata, come da altri esponenti della scuola del sistema-mondo, come un processo in realtà ricorrente. Si veda “The ‘new’ imperialism: accumulation by dispossession”. Socialist Register 40, 2004, pp. 63-87.
La fondamentale elaborazione gramsciana del concetto di “egemonia” si trova, come è noto, nei “Quaderni del carcere”.
[14] Senza contare che una nazione ricca come la Libia, la più sviluppata dell’Africa, è stata devastata deliberatamente dall’Occidente (compresa vergognosamente l’Italia di cui era la maggior alleata nel Mediterraneo).

https://sinistrainrete.info/geopolitica/24927-piero-pagliani-slittamento-di-paradigma.html

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Stati Uniti, spie improbabili_con Gianfranco Campa

Non ci sono più i complotti di una volta. In tempi di schieramenti netti e posizioni definite, ma con gerarchie ben precise ed una legittimazione degli apparati di potere appena scalfita da logoramento, la competizione tra i centri di potere e i colpi bassi annessi seguivano canovacci ordinari ed epiloghi chiari e relativamente rapidi. La vicenda di spionaggio ai danni del Pentagono, attribuita al poco più che ragazzo Jake Teixeira, è lo specchio della attuale situazione caotica che regna nell’amministrazione statunitense. L’individuazione di un capro espiatorio così poco credibile non riesce a nascondere la realtà di un conflitto interno agli alti gradi di quella classe dirigente, ma soprattutto dello scontro sordo e della manipolazione faziosa di tre componenti della amministrazione statunitense, alcune rappresentate da vere e proprie cariatidi. Se ai tempi di Nixon la stampa fu uno strumento più o meno volontario di un conflitto, risoltosi comunque rapidamente, nella attuale vicenda di fuga di documenti il sistema mediatico è componente diretta ed integrata dei processi di manipolazione tesi a confondere dati reali inoppugnabili e pilotare verso pulsioni belliciste il profluvio di informazioni vere e fasulle sfuggite e costruite ad arte. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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La Russia abbandona l’Occidente neoliberale per unirsi alla Maggioranza Mondiale – spiegano gli economisti Radhika Desai e Michael Hudson

La Russia abbandona l’Occidente neoliberale per unirsi alla Maggioranza Mondiale – spiegano gli economisti Radhika Desai e Michael Hudson
Gli economisti Radhika Desai e Michael Hudson discutono della transizione economica della Russia, che si allontana dall’Occidente neoliberale per integrarsi con quella che definisce la “Maggioranza mondiale” nel Sud globale.

In questo episodio del loro programma Geopolitical Economy Hour, gli economisti Radhika Desai e Michael Hudson discutono della transizione economica della Russia, che si allontana dall’Occidente neoliberale e si integra con quella che definisce la “Maggioranza Mondiale” nel Sud Globale.

Trascrizione
RADHIKA DESAI: Salve a tutti, benvenuti alla settima edizione dell’ora di economia geopolitica, un programma sull’economia politica e geopolitica del mondo di oggi in rapida evoluzione. Sono Radhika Desai.

Io sono Michael Hudson.

RADHIKA DESAI: Come alcuni di voi sapranno, sono appena tornata dalla Russia, motivo per cui stiamo facendo questa trasmissione con una settimana di ritardo.

Naturalmente è stato un periodo molto interessante. Ho partecipato a molte conferenze, ho parlato con molte persone: economisti, osservatori politici, commentatori, ecc.

Michael e io abbiamo pensato di parlare delle mie impressioni e di inserirle in una discussione più ampia su come l’ordine mondiale stia cambiando verso il multipolarismo. Sono successe molte cose.

Il Presidente Xi si è recato in Russia e il Presidente Macron in Cina, e sono tante le cose che stanno accadendo. Intrecceremo tutto questo in una discussione più ampia sulle mie impressioni dalla Russia.

Quello che Michael e io abbiamo pensato di fare è concentrarci su due punti in particolare che ci sono sembrati interessanti e che ho colto mentre ero in Russia: durante il turbinio di conferenze a cui ho partecipato, in cui hanno parlato alcuni russi molto importanti, la cosa che ho sentito davvero interessante è stata una dichiarazione decisa da parte di alcuni degli oratori più influenti, secondo cui essenzialmente la Russia si sta allontanando dall’Occidente e non tornerà mai indietro.

E la seconda idea, anch’essa molto affascinante, è che sempre più spesso i russi si considerano parte di una “maggioranza mondiale”.

Giusto, Michael? Per noi queste sono le due cose più interessanti.

MICHAEL HUDSON: Il punto importante è che una volta che ci si stacca dall’Occidente, verso cosa ci si stacca?

E mentre lei era in Russia a parlare di come volessero qualcosa di nuovo, l’intero Occidente era in subbuglio. Siamo davvero a un punto di svolta della civiltà, probabilmente il più grande punto di svolta dalla Prima Guerra Mondiale.

Per non seguire l’Occidente, è necessario creare una nuova serie di istituzioni non occidentali. Un nuovo tipo di Fondo Monetario Internazionale (FMI), cioè una sorta di strumento per finanziare il commercio e gli investimenti tra i Paesi non occidentali.

Una sorta di nuova Banca Mondiale. Finora abbiamo l’iniziativa Belt and Road per un nuovo tipo di investimenti.

E quello di cui stiamo parlando, visto che il tema del nostro discorso è sempre stato Biden che ha detto che questa spaccatura andrà avanti per vent’anni, è la spaccatura tra il capitalismo finanziario occidentale e la maggioranza globale che si muove verso il socialismo.

Esattamente. E sembra che in Russia ci sia una crescente consapevolezza di questo. Quindi, per approfondire il primo punto, ossia l’allontanamento della Russia dall’Occidente.

Ho partecipato a una conferenza alla Higher School of Economics, ed è importante sottolineare che si tratta di un’istituzione post-comunista molto prestigiosa, progettata per sviluppare e radicare il neoliberismo in Russia.

E nelle sale sacre di questa istituzione, che tra l’altro è molto bella. Era un’ex accademia militare. Ogni anno si tiene una conferenza sulla politica economica e così via.

Ed è qui che, in un [panel] sulla “Maggioranza mondiale”, come era intitolato, ho sentito Dmitri Trenin fare una dichiarazione davvero interessante.

Ora, anche Demitri Trenin è interessante e importante. Faceva parte, ancora una volta, di questo più ampio gruppo di persone filo-occidentali e filo-neoliberali. Era a capo della Carnegie Institution di Mosca e, cosa interessante, soprattutto dopo il 2014 e dopo il 2022, quando molte persone della sua stessa razza avevano lasciato la Russia, ha deciso di rimanere ed è ancora molto in prima linea tra i commentatori in Russia.

Ha detto: “Quando la guerra sarà finita, la Russia non cercherà di far parte dell’Occidente”. Quel capitolo, ha detto, è chiuso.

È davvero affascinante. Che una persona come lui abbia detto questo. E come fatto assodato.

E questo è interessante perché, se si guarda indietro, Lenin, fin dai primi giorni della Rivoluzione russa, e anche prima di rendersi conto che il destino della Russia era legato all’Oriente.

Ma poi, in particolare, dopo la Seconda guerra mondiale e Kruscev, si è assistito a un crescente avvicinamento all’Occidente e la Russia è rimasta molto orientata verso l’Occidente. E ora questo è finito.

Il presidente della sessione era un anziano professore di nome Sergei Karaganov. Era stato uno dei fondatori del Valdai Club. Anche in questo caso, il Valdai Club è una sorta di equivalente del Council on Foreign Relations negli Stati Uniti.

Il Valdai Club era stato creato anche come un modo per far incontrare gli intellettuali russi con quelli occidentali e per pensare alla Russia come parte dell’Occidente.

Ma Sergei Karaganov ha concluso la sessione ribadendo che “la Russia non tornerà mai in Occidente. Lì è finita”, ha detto. Quindi ho pensato che fosse davvero affascinante.

MICHAEL HUDSON: La cosa interessante è che mentre voi parlate del futuro della Russia con la Cina, l’Iran e il resto dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, a Washington, soprattutto durante gli incontri di questa settimana con il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, si è parlato in modo frenetico di: “Se l’Eurasia va in quella direzione, cosa succederà a quello che chiamiamo il Sud globale? Cosa succederà all’America Latina e all’Africa?

Ebbene, prima il signor Blinken degli Stati Uniti e poi il vicepresidente Harris sono andati in Africa a dire: “Vogliamo assicurarci di avere il vostro cobalto, le vostre materie prime, e che lasciate tutti gli investimenti degli Stati Uniti e della NATO al loro posto e non cedete il cobalto o il litio o altre materie prime alla Cina, alla Russia e all’Eurasia”.

Quindi, in sostanza, i Paesi dell’emisfero meridionale si trovano di fronte a una scelta. L’aspetto interessante è che questa scelta è diversa da quella che si è avuta, ad esempio, nel 1945.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti avevano ogni sorta di argomentazione economica sul perché il capitalismo avrebbe offerto prosperità a tutto il mondo, compreso l’emisfero meridionale. E la Russia sovietica a quel tempo spingeva per il comunismo.

Oggi non c’è una discussione ideologica.

Da un lato, l’Occidente non ha alcun tentativo di giustificare l’adesione al blocco degli Stati Uniti e della NATO. Dice solo: “Se non vi unite a noi, vi faremo quello che abbiamo fatto alla Libia e quello che abbiamo fatto all’Ucraina. Usare la forza pura.

Si tratta ora di capire cosa diranno la maggioranza globale e l’Eurasia. – Beh, non vi forzeremo. Non vi attaccheremo. Non faremo una rivoluzione cromatica. Ma ecco il futuro economico e il modo di organizzare il commercio internazionale e il mercato degli investimenti che vi aiuterà.

Potete immaginare se Gesù fosse arrivato e avesse cercato di fondare il cristianesimo dicendo: “Uccideremo tutti quelli che non sono d’accordo con questo”.

Non sarebbe mai decollato.

Penso che il piano neoliberista di oggi abbia le stesse possibilità di decollare. Non riuscirete a convincere il mondo a seguirvi solo minacciando di bombardarlo, ma questo è tutto ciò che l’America e la NATO hanno da offrire: astenersi dal bombardare altri Paesi se non lasciano le cose come erano prima.

RADHIKA DESAI: Esattamente. L’Occidente ha da offrire solo bastoni. Mentre la Cina si presenta con tutte le carote che si possono immaginare. Le carote più succose che si possano immaginare.

Quindi il concetto di Maggioranza Mondiale che è emerso è essenzialmente che tutto il mondo non occidentale, la Maggioranza Mondiale, può vedere queste carote e sta rispondendo a queste carote.

E l’altra cosa interessante è che queste carote non sono carote neoliberiste. Questa è un’altra cosa molto chiara.

Ma permettetemi di affrontare prima la questione della Maggioranza Mondiale, perché ancora una volta, alla stessa conferenza, si è scoperto che la sessione era intitolata “Sviluppo per la maggioranza del mondo”.

Il presidente dell’incontro, il professor Karaganav, ha raccontato che l’idea era nata alla Higher School of Economics in una sorta di sessione di brainstorming in cui si voleva dire: “Ok, la Russia non è il Terzo Mondo, la Russia non è il mondo in via di sviluppo, la Russia fa parte del mondo post-comunista, quindi come possiamo concepire un’unica entità di cui la Russia è ora parte molto attiva e di cui sarà uno dei leader?

Così, dopo un lungo brainstorming, a qualcuno è venuta in mente l’idea della Maggioranza Mondiale. Così, sempre più spesso i russi pensano a se stessi, non come parte dell’Occidente, la cui attrattiva si sta riducendo e i cui confini sono anche piuttosto piccoli se ci si pensa.

La maggior parte del PIL e delle persone nel mondo si trova al di fuori dell’Occidente. E anche questo sta diventando sempre più chiaro. L’Occidente rappresenta oggi circa il 30% del PIL mondiale, quindi questo è il resto del 70%. E non potrà che crescere.

Nel frattempo, le politiche neoliberali dell’Occidente ne stanno accelerando il declino.

Michael, parleremo di queste istituzioni tra un secondo, ma lasciami dire un’altra cosa sulla politica interna che hai toccato. Poi passeremo alle istituzioni che le maggioranze mondiali lavorano per creare.

All’inizio abbiamo partecipato anche a un’altra conferenza, quella in cui siamo arrivati, il Forum economico di San Pietroburgo.]

Il Forum economico internazionale di San Pietroburgo è un altro evento annuale. Questa volta ci ha colpito molto il fatto che abbiamo partecipato alla sessione plenaria in cui sono intervenute molte persone importanti, tra cui Sergei Glazyev, che guida il processo di integrazione eurasiatica in Russia.

È intervenuto il Presidente della Società Economica Libera della Russia. Sono intervenuti anche alcuni importanti ministri e altri.

L’aspetto notevole di questa conferenza è che, a parte uno o due neoliberisti irriducibili che hanno parlato anche nella sessione plenaria principale, la stragrande maggioranza degli oratori ha espresso un consenso anti-neoliberista.

Il neoliberismo è finito in Russia. L’opinione prevalente è che dietro a una sorta di Stato sviluppatore, che si impegnerà in un alto grado di intervento statale piuttosto efficace per garantire che la Russia non rimanga indietro dal punto di vista tecnologico. Che l’industria russa sia rivitalizzata. Che la Russia, in termini commerciali, sia in una situazione vincente.

In sostanza, c’è stato un consenso trasversale contro il neoliberismo che mi è sembrato davvero notevole.

MICHAEL HUDSON: Il problema di ciò che dice è la parola “finito”.

Una cosa è dire: “Avremo un nuovo ordine non neoliberista”. E naturalmente è quello che stanno cercando di fare Russia, Cina, Iran e gli altri Paesi, l’India.

Ma il problema è che c’è ancora un ordine mondiale neoliberale che copre gran parte della Maggioranza Mondiale.

E cosa faremo per la sopravvivenza di queste istituzioni neoliberali? Cosa faremo con l’enorme debito estero che è dovuto all’Occidente da quello che possiamo chiamare il Sud globale, perché è questo il vero debitore, non la Maggioranza mondiale.

Ed è proprio di questo che si è discusso negli Stati Uniti mentre lei era in Russia.

Come si può usare questo debito, questa eredità, come una morsa sui Paesi del Terzo Mondo?

Ci sono stati molti articoli su ciò che la Cina ha da dire al riguardo.

Gli americani e la NATO sono tutti d’accordo. Il Sud America e l’Africa possono ovviamente pagare i loro debiti se non pagano la Cina. Incolpano di tutto la Cina, che è l’ultimo arrivato tra tutti ed è il meno neoliberista.

La Cina dice: “Aspettate un attimo, non svaluteremo i nostri debiti nei confronti dell’Africa e del Sud America solo perché possano permettersi di pagare voi, gli obbligazionisti, per i vostri prestiti andati male. Un prestito andato male è un cattivo prestito e va cancellato”.

Ma non c’è alcun sistema per la bancarotta dei governi perché l’intero scopo dell’ordine mondiale finanziarizzato e del capitalismo finanziario è che non si permette mai agli altri Paesi di dichiarare bancarotta e di cancellare i loro debiti come si può fare in America, in Canada e in altri Paesi nazionali.

Si vuole mantenere il debito per sempre come un fardello irreversibile, in modo che un Paese indebitato non possa mai staccarsi dagli Stati Uniti e dalla NATO.

Quindi la domanda è: come faranno queste nuove organizzazioni, queste alternative al neoliberismo per il commercio e gli investimenti, di cui avete sentito parlare, a contrastare questa eredità?

Il Presidente Biden dice: “O siete con noi o contro di noi”.

Come faranno gli altri Paesi a scegliere a quale blocco aderire?

RADHIKA DESAI: Credo che l’intera questione del debito, in particolare del debito mondiale, sia diventata una questione davvero importante a questo punto, ed è diventata una questione importante perché proprio ora la Cina è una parte così importante della scena.

Ricordo di essere tornato indietro ai primi giorni della pandemia, quando anche il debito del Terzo Mondo aveva assunto un ruolo importante. Già a quel punto, il motivo principale per cui le questioni relative al debito non sarebbero state risolte è che l’Occidente non riusciva ad accettare il fatto di dover trattare con la Cina, e di doverlo fare in modo equo.

Perché ciò che l’Occidente vuole fare è proprio convincere la Cina a rifinanziare il debito che le è dovuto, in modo che i rimborsi del debito del Terzo Mondo vadano a prestatori privati.

E la Cina sta fondamentalmente mettendo in discussione i termini di tutto questo, perché ad esempio dice: “Perché il FMI e la Banca Mondiale dovrebbero avere la priorità? Perché il suo debito non dovrebbe essere cancellato?”.

E l’Occidente risponde: “Ma è sempre stato così”.

E la Cina dice: “Se non volete riformare il FMI e la Banca Mondiale, non accetteremo la loro priorità. Se noi dobbiamo fare un taglio, anche loro dovranno farlo”.

Semplicemente non accettano che queste istituzioni, le istituzioni di Bretton Woods, abbiano alcun tipo di priorità.

E questo fa parte dell’indebolimento, come lei diceva. Si tratta di uno dei più grandi cambiamenti dalla prima guerra mondiale. E parte di questi cambiamenti è che il mondo creato alla fine della Seconda guerra mondiale dalle potenze imperialiste, che sono ancora molto potenti, sta ora scomparendo sempre più.

MICHAEL HUDSON: Io e lei ne abbiamo parlato fin dall’inizio di Covid, nel 2020, e solo ora il Fondo Monetario Internazionale e le riunioni della Banca Mondiale stanno finalmente scoprendo questa realtà, con tre anni di ritardo.

Non hanno voluto affrontare il fatto che il capitalismo finanziario ha un problema. I debiti alla fine non possono essere pagati. I debiti si accumulano più velocemente, soprattutto nel Terzo Mondo.

E il motivo per cui noi ne abbiamo discusso e loro no è che non volevano che l’Africa e il Sud America affrontassero il problema. Volevano che il problema andasse avanti e peggiorasse sempre di più.

Ora il FMI ha pubblicato dei grafici che dicono: “Aspettate un attimo, la maggior parte dei Paesi del Terzo Mondo è ora in crisi”.

Non attribuiscono la crisi alle sanzioni contro le esportazioni russe di petrolio e di prodotti alimentari. Non la attribuiscono all’aumento del tasso di cambio del dollaro da parte della Federal Reserve. Stanno solo dando la colpa allo statalismo.

Ovviamente, l’elemento che caratterizza il nuovo ordine della maggioranza mondiale è un’economia mista in cui gli altri Paesi faranno ciò che ha fatto la Cina. Trasformeranno il denaro e la terra, cioè la casa, e l’occupazione in diritti pubblici e servizi pubblici, invece di mercificarli, privatizzarli e finanziarizzarli come è avvenuto in Occidente.

Quindi, per allontanarci dalla sfera del dollaro e della NATO, non stiamo parlando di una moneta nazionale o di un’altra.

Non si tratta di sostituire il dollaro con lo yen cinese, il rublo russo e altre valute. Si tratta di un sistema economico completamente diverso.

Questa è l’unica cosa di cui i media tradizionali non possono parlare. Sono ancora fermi allo slogan “Non c’è alternativa” di Margaret Thatcher, invece di parlare di “Quale sarà l’alternativa? Quale sarà l’alternativa?

Perché ovviamente le cose non possono durare come sono ora.

RADHIKA DESAI: Assolutamente sì. E credo che si debba parlare esattamente di quali siano queste nuove istituzioni, perché il fatto è che si stanno verificando due cose molto diverse.

Da un lato, sono in corso una serie di accordi bilaterali e multilaterali su base regionale, che si tratti dei BRICS o della Shanghai Cooperation [Organization] e così via. Questi accordi sono in corso.

D’altra parte, si parla anche di creare una sorta di sistema universale, di bancor o di International Clearing Union.

Ma il problema è che al momento, proprio perché l’Occidente sta assumendo la posizione che sta assumendo, non ha intenzione di cooperare in qualcosa di universale, e senza questo non avremo un accordo universale.

In questo senso, assisteremo necessariamente all’emergere di accordi regionali, magari piuttosto sostanziosi, ma comunque regionali.

MICHAEL HUDSON: Allora la domanda è: che tipo di rivoluzione ci sarà?

Pepe Escobar ha scritto un articolo pochi giorni fa in cui afferma che il mondo si trova in un altro 1848, cioè in una rivoluzione.

Ma la rivoluzione del 1848 fu una rivoluzione borghese. Era la forza progressiva del capitalismo industriale contro i proprietari terrieri, contro le banche e contro la classe dei rentier che era sopravvissuta al feudalesimo.

Era necessaria un’ulteriore rivoluzione, ovviamente, una rivoluzione del XX secolo, per liberare non solo il capitale dai proprietari terrieri e dalla classe bancaria, ma per liberare l’intera popolazione dalla classe del capitale in generale.

È di questo che nessuno osa parlare.

E ovviamente la Cina non sta facendo proseliti. Non viene fuori a dire: “Ecco il nostro sistema economico in contrapposizione al vostro”.

Eppure, tutta questa filosofia sarà implicita in qualsiasi tipo di ristrutturazione che verrà attuata.

E quindi la domanda è: quali saranno le linee guida alla base di tutto questo?

Fino a che punto si stanno spingendo nelle discussioni che ha sentito?

RADHIKA DESAI: È un punto molto interessante. Volevo anche dire che l’impressione che si ha quando si è in Russia è: non si ha l’impressione che questa sia una nazione in guerra.

Non c’era sciovinismo. Non si vedevano quasi mai quei cartelli con la “Z”. Forse ne ho visti in tutto due o tre, forse tutti durante i miei viaggi in Russia.

Per molti versi, il sostegno alla guerra c’è, ed è un sostegno molto tranquillo. Qualunque sia il punto di vista, tutti possono vedere che la vittoria russa è assolutamente essenziale, che una vittoria della NATO sarebbe disastrosa per la Russia e per il resto del mondo.

Tutto questo è molto chiaro. E per molti versi si tratta di una critica all’amministrazione Putin fatta da coloro che sono partigiani del suo stato di sviluppo. È che il governo Putin non ha sfruttato l’opportunità creata dalle sanzioni per muoversi in modo più deciso.

Da un lato, mobilitarsi per la guerra in modo più deciso, sia in termini di mobilitazione delle truppe che di mobilitazione economica, al fine di vincere la guerra.

E poi, nell’ambito della mobilitazione economica, l’osservazione che si fa, e che alcuni critici economici hanno fatto, è che l’amministrazione Putin è ancora un po’ troppo orientata verso il neoliberismo.

Ad esempio, i controlli sui capitali non sono così estesi come dovrebbero. La politica monetaria è molto più rigida di quanto dovrebbe essere. Lo Stato non ha cercato di intervenire in settori diversi dalla produzione di difesa per cercare di aumentare la produzione.

In tutti questi modi c’è una critica all’amministrazione Putin. La critica deriva dal fatto che non è stata abbastanza decisa.

Direi quindi che sono emerse un paio di cose.

Da un lato, le sanzioni hanno sicuramente creato le condizioni oggettive per cui la direzione politica anti-neoliberista e la direzione politica dello Stato sviluppista sono diventate una necessità.

E credo che questo sia il punto più importante da ricordare: penso che la maggior parte dei Paesi scoprirà che, se vuole creare un qualche tipo di sviluppo, dovrà adottare politiche di sviluppo anti-neoliberiste.

Quindi, in questo senso, ci sono effetti residui del neoliberismo, ma le circostanze faranno sì che il neoliberismo sia essenzialmente finito, perché qualsiasi tentativo riuscito di creare sviluppo dovrà coinvolgere il tipo di interventismo statale che è “così lontano” dal socialismo.

MICHAEL HUDSON: Mentre lei era lì, sia il Presidente Putin che il Ministro degli Esteri Lavrov hanno usato sempre la stessa parola: “multipolarità”.

Ma il multipolarismo è la sorta di mondo moderno per la [Pace di] Westfalia del 1648 che pose fine alla Guerra dei Trent’anni.

Il sistema di Westfalia prevedeva che nessuna nazione dovesse interferire con le politiche di altre nazioni.

Questa è stata la legge che ha governato sostanzialmente tutte le relazioni internazionali fino al 1945, quando gli Stati Uniti hanno detto: “Bene, possiamo interferire con ogni altra nazione, ma nessuna nazione ha alcuna autorità su di noi. E non faremo mai parte di alcuna organizzazione in cui non abbiamo potere di veto, come l’America ha nell’ONU, nel FMI e nella Banca Mondiale.

Potete vedere la prima fase di questo processo. I Paesi stanno commerciando tra loro. I recenti accordi tra Arabia Saudita, Cina, Russia, per denominare i loro scambi commerciali nelle proprie valute.

Ciò significa che i Paesi deterranno, nelle loro riserve estere, le valute degli altri.

La prima domanda è: quale sarà questo mix di valute estere?

Penso che la soluzione naturale sia che il mix di valute rifletta le proporzioni del commercio estero di un paese.

Poiché la Cina è il principale commerciante di molti paesi, ovviamente la valuta cinese giocherà un ruolo importante.

Ma, come abbiamo già detto, questo non significa che la valuta cinese sostituirà il dollaro. Nessuna valuta sostituirà il dollaro perché non ci sarà mai più un dollar standard.

Non ci sarà mai più nulla di simile a un paese che controlla altri paesi con la capacità di afferrare il loro denaro a piacimento per provocare una crisi, tagliandoli fuori dal sistema di compensazione bancaria SWIFT, per fare le cose che faceva il dollaro.

Ma molto di più della semplice detenzione della valuta dell’altro, dietro c’è l’intera sovrastruttura di come sarà strutturata l’economia.

Lei e io abbiamo già parlato in precedenza del fatto che molti Paesi hanno difficoltà, per usare un eufemismo, a pagare i loro debiti esteri, i Paesi che accettano di unirsi alla Russia, alla Cina e all’Eurasia avranno accesso a un nuovo tipo di banca internazionale.

E questa banca internazionale creerà qualcosa che, in un certo senso, è come l’oro, nel senso di essere una valuta, un veicolo, che i Paesi possono usare per pagare i debiti reciproci. Che i governi possono usare gli uni con gli altri. Non per essere speso all’interno.

Con il gold exchange standard, negli anni Trenta e Quaranta, o negli anni Cinquanta e Sessanta, nessuno pagava [internamente] in oro, ma l’oro era utilizzato dalle banche centrali.

Quindi assisteremo a qualcosa di simile alla moneta bancaria di Keynes, di cui lei e io abbiamo tanto discusso, o ai DSP del Fondo Monetario Internazionale, con la differenza che la nuova moneta bancaria internazionale non sarà creata solo per essere data ai Paesi militari per fare la guerra contro i Paesi che non piacciono agli Stati Uniti.

Esattamente. Sarebbe molto utile che si arrivasse a questo tipo di situazione, una situazione simile a quella del bancor. Perché se si pensa ai principi che Keynes ha preso in considerazione quando ha progettato l’Unione Valutaria Internazionale, il bancor e così via, quali sono stati alcuni degli elementi chiave?

Direi che il primo e più importante è che i Paesi avrebbero attuato controlli sui capitali. Per questo le banche centrali manterranno il potere di regolare i saldi con questa valuta internazionale concordata multilateralmente, che non è la valuta nazionale di nessun Paese.

I controlli sui capitali sono quindi importanti anche perché, a ben vedere, è proprio questo il motivo per il quale una sorta di “controllo dei capitali” è stato adottato.

Uno dei motivi principali per cui una politica economica sensata come quella che voi e io sosterremmo, una politica economica di sviluppo, volta a creare un’economia produttiva e un’ampia prosperità, uno degli ostacoli principali è l’eccessiva finanziarizzazione del sistema del dollaro e tutte le élite dei vari Paesi del Terzo Mondo e della Maggioranza Mondiale, compresa la Russia, che partecipano a questo sistema del dollaro.

Quindi direi che l’imposizione di controlli sui capitali sarebbe fondamentale.

Un’altra cosa davvero importante che emerge da questo sistema è che il sistema di Keynes, l’Unione Valutaria Internazionale, era stato progettato per ridurre al minimo gli squilibri, squilibri persistenti.

I Paesi non avrebbero mai avuto squilibri persistenti in termini di commercio o investimenti o altro. Non ci sarebbero state eccedenze persistenti nelle esportazioni, né deficit commerciali persistenti.

Questo è anche l’opposto di ciò che abbiamo ora. Il sistema basato sul dollaro USA si basa infatti sulla creazione sistematica di squilibri, in cui gli Stati Uniti devono registrare deficit delle partite correnti per fornire liquidità al mondo.

E naturalmente gli Stati Uniti e la Federal Reserve, per rendere il dollaro più accettabile, hanno anche sponsorizzato la massiccia finanziarizzazione del sistema del dollaro in generale.

Si tratterebbe quindi di un sistema più stabile, in cui lo sviluppo di alcune parti del mondo e il sottosviluppo di altre parti del mondo non diventerebbero parte integrante del sistema.

Perché cosa significa commercio equilibrato?

Se un Paese inizia a generare troppe eccedenze nelle esportazioni, e questo viene scoraggiato tassando i suoi guadagni a livello di Unione Internazionale di Compensazione, si crea un incentivo per il Paese che ha più successo a investire nel successo di altri Paesi, in modo che il commercio aumenti, ma in modo equilibrato.

Questo è un altro principio.

Un ultimo punto che vorrei sottolineare è che questo nuovo ordine valutario che verrà creato, e sono sicuro che quando sta già nascendo la domanda è solo: Fino a che punto può diventare un ordine universale?

Ma questo nuovo ordine valutario avrà un vantaggio molto importante: il sistema del dollaro si è sempre basato sulla svalutazione sistematica delle valute degli altri Paesi, il che significa che il resto del mondo deve farsi in quattro per esportare grandi volumi nei Paesi del Primo Mondo, il che è ovviamente una delle ragioni principali per cui l’inflazione è stata così bassa nei Paesi occidentali nel periodo neoliberista.

Quindi devono lavorare sempre più duramente per esportare grandi volumi e guadagnare cifre minime in termini di valore. La discrepanza tra il volume e il valore delle esportazioni del Terzo Mondo, o della Maggioranza Mondiale, è quindi enorme.

Se il resto del mondo, se la Maggioranza Mondiale, inizierà a ottenere un valore migliore per le proprie esportazioni e a godere di un tasso di cambio migliore, allora sarà meglio remunerato per i propri sforzi.

E credo che questo sarà molto importante per molti Paesi della Maggioranza Mondiale.

MICHAEL HUDSON: Ha centrato il punto chiave. Il sistema del dollaro ha prodotto austerità. Il risultato del sistema finanziario internazionale è l’austerità, e uno dei modi in cui l’ha bloccata è costringere gli altri Paesi a svalutare. Cercano di gettare sempre più moneta sul mercato mondiale per pagare il loro debito estero.

Ora, quando un Paese svaluta, cosa si svaluta davvero? Il prezzo delle materie prime non si svaluta. C’è un prezzo mondiale comune per tutte le materie prime. C’è un prezzo mondiale comune per il petrolio e l’energia. C’è un prezzo mondiale comune per il cibo. C’è un prezzo mondiale comune per i macchinari e i beni strumentali.

Quando si svaluta, si svaluta solo una cosa: i salari del lavoro e le rendite interne.

Quindi, quando il Fondo Monetario Internazionale parla di austerità, in realtà significa la nostra guerra di classe contro il lavoro, per assicurarci di poter aumentare i profitti del nucleo centrale degli Stati Uniti e della NATO, riducendo continuamente il costo del lavoro pagato all’estero.

E naturalmente il peccato della Cina è stato quello di non lasciare che la sua manodopera venisse svalutata, ma di usare l’industrializzazione, e persino i suoi legami finanziari con l’Occidente, per costruire e aumentare gli standard di vita, non per abbassarli.

Quindi, se vi rendete conto che il punto centrale del sistema finanziario è: come si fa a creare un sistema finanziario che non si traduca in un indebitamento e in una degradazione del lavoro?

Allora non è il caso di usare le banche centrali. Le banche centrali sono create dalle banche commerciali, contro il resto della società. Sono le banche centrali che hanno contribuito a distruggere il capitalismo industriale in Occidente.

In realtà è sufficiente il Tesoro, che è ciò che c’era prima delle banche centrali e che la Cina utilizza.

La sua Bank of China è in realtà un’estensione del Tesoro. Non è una banca centrale in stile americano o europeo, il cui compito è quello di sostenere i prezzi degli immobili e rendere le abitazioni più costose, in modo che la manodopera nazionale debba indebitarsi per acquistare abitazioni sempre più indebitate, e non per far salire i prezzi delle azioni e delle obbligazioni dell’1%.

Il Tesoro rappresenterebbe la popolazione nel suo complesso.

Una volta questa si chiamava democrazia. Ma il Presidente Biden la chiama autocrazia. Quindi “autocrazia” è sostenere il lavoro. Quella che lui chiama “democrazia” è la guerra finanziaria contro il lavoro, tanto per chiarire il vocabolario orwelliano.

Assolutamente. Michael, sai meglio di me che l’origine stessa della parola “tiranno” deriva dal fatto che le crisi del debito a Roma portavano regolarmente all’elezione di governanti che governavano nell’interesse della maggioranza del popolo, i debitori, e contro gli interessi del piccolo numero di creditori, motivo per cui i creditori finirono per chiamarli tiranni.

In realtà, apparentemente la parola tiranno non ha un significato negativo, ma è arrivata a significare qualcosa di negativo perché fondamentalmente viviamo in un mondo in cui il nostro vocabolario ci dice che tutto ciò che è contro gli interessi di una piccola minoranza è in qualche modo contro gli interessi di tutti. Ma ovviamente non è così.

Michael, quello che dici mi fa pensare a diverse cose. Solo una piccola precisazione: hai assolutamente ragione sul fatto che le banche centrali, come quelle degli Stati Uniti e della maggior parte dei Paesi europei, sono totalmente agenti dei grandi capitalisti finanziari. Sono completamente d’accordo ed è così che si sono comportate.

In un certo senso, l’idea di una banca centrale è proprio quella di fare da cuscinetto tra l’economia interna e quella esterna, in modo da agire come una sorta di ammortizzatore, affinché in caso di shock esterni la stragrande maggioranza della popolazione non li subisca.

E questo dovrebbe essere il caso. Ovviamente questo viene sovvertito, ma per questo le banche centrali sono importanti.

Come lei ha detto, dovrebbero diventare bracci di un sistema finanziario più ampio, volto a creare una crescita produttiva, una crescita stabile e, naturalmente, nel nostro tempo, una crescita ecologicamente sostenibile. Quindi solo una piccola precisazione sulle banche centrali.

Ma poi tre punti veloci.

Numero uno: lei ha sottolineato come il sistema del dollaro abbia introdotto l’austerità nel nostro sistema e, naturalmente, anche il progetto di Keynes dell’International Clearing Union e del bancor era interessante da questo punto di vista, perché la sua spinta era opposta.

Naturalmente, il controllo dei capitali era la chiave di volta del sistema. È necessario avere dei controlli sui capitali e lo scopo era quello di garantire che tutti i governi, se lo desiderano, cioè se sono inclini a farlo, possano gestire le loro economie per la piena occupazione con la quantità di intervento statale necessaria e con il ruolo del governo e dell’economia più importante possibile. E questo potrebbe essere fatto grazie ai controlli sui capitali.

E questo mi porta anche al secondo punto. È stato molto di moda, nella nostra era neoliberista, parlare del cosiddetto trilemma della politica, ovvero che ci sono tre obiettivi che il neoliberismo considera desiderabili, ovvero avere un tasso di cambio stabile, una politica monetaria autonoma e liberi flussi di capitale.

Si dice che sia possibile raggiungere solo due di questi obiettivi in qualsiasi momento. Ma il punto è che in realtà non si tratta affatto di un trilemma. Si tratta di un’ovvietà assoluta.

Se si dispone di controlli sui capitali, si può avere una politica monetaria autonoma e un tasso di cambio stabile. Non c’è bisogno di preoccuparsi.

È solo aggiungendo a questo mix il libero flusso di capitali come fine auspicabile che si crea questo trilemma artificiale. È un trilemma completamente artificiale.

E la mia ultima osservazione. Se le valute fossero davvero valutate in modo realistico, invece di questa strana sopravvalutazione del dollaro di cui abbiamo sofferto tutti per così tanto tempo, allora in realtà ci sarebbe ancora meno bisogno, anche tra i ricchi di qualsiasi Paese, di non sentire una pressione così forte a detenere i loro soldi in dollari come fanno oggi, perché lo desiderano solo perché le loro valute sono così soggette ai capricci del sistema del dollaro.

Se la Fed decide di alzare i tassi d’interesse, tutto il denaro che fino a quel momento affluiva in queste economie non occidentali esce subito, creando crisi valutarie, crisi del debito, crisi commerciali e tutto questo genere di cose.

Anche le valute del resto del mondo, dei Paesi della Maggioranza Mondiale, sarebbero più stabili e questo diminuirebbe l’attrattiva dei dollari anche per le élite di queste società.

MICHAEL HUDSON: Credo che lei abbia ragione riguardo ai controlli sui capitali.

Quando ho iniziato a lavorare nella finanza internazionale negli anni ’60, c’erano i tassi di cambio duali. Il FMI pubblicava ogni mese il tasso di cambio per il normale commercio di beni e servizi e un tasso di cambio diverso per le transazioni di capitale, per il debito e gli investimenti.

Quindi c’erano due tassi di cambio. E questo perché c’erano i controlli sui capitali.

Gli Stati Uniti, tramite il FMI, hanno eliminato i controlli sui capitali in modo che gli altri Paesi non potessero proteggersi. Solo gli Stati Uniti potevano proteggersi. Questo è il doppio standard.

Inoltre, come abbiamo discusso in precedenza, Keynes voleva risolvere la questione con una soluzione molto interessante che gli Stati Uniti hanno combattuto in ogni modo per non accettare.

Keynes disse: “Come si fa a creare un sistema finanziario internazionale che non sia dominato dalla valuta più forte, da una valuta che travolge le altre? In altre parole, come evitare il disastro e la depressione mondiale che gli Stati Uniti hanno provocato?”.

Ha detto: “Se un Paese continua a gestire un surplus della bilancia dei pagamenti e ha enormi crediti nei confronti di altri Paesi, e altri Paesi accumulano un deficit, non possiamo permettere che vengano messi all’angolo o ci ritroveremo nella posizione della Germania e della Francia negli anni Venti”.

Il Paese che ha la valuta principale ce l’ha perché si rifiuta di importare da altri Paesi. Si rifiuta di contribuire alla creazione di un ordine mondiale internazionale ed equo, e quindi le pretese della valuta dominante saranno svalutate.

Naturalmente gli Stati Uniti sapevano che Keynes stava parlando del dollaro che sarebbe cresciuto.

Ma immaginate oggi se la Cina potesse dire: “Abbiamo riflettuto sulle discussioni che si sono svolte alla fine della Seconda Guerra Mondiale per dare forma al sistema finanziario mondiale e, sì, so che gli Stati Uniti e la NATO dicono: “La Cina dominerà l’intera area e finirà per essere un’altra America”.

Ebbene, la Cina può dire: “Siamo d’accordo con il principio di Keynes. Se davvero abbiamo così tanti surplus di esportazioni e così tanti crediti nei confronti del resto del Paese che non possono essere pagati, ovviamente li svaluteremo per mantenere la stabilità.

Immaginate se gli Stati Uniti lo avessero fatto nel 1945 e avessero accettato le proposte di Keynes. Immaginate come sarebbe stato lo sviluppo del mondo negli ultimi 75 anni.

Questa, a mio avviso, sarebbe una grande manovra da parte della Cina.

RADHIKA DESAI: Assolutamente sì. Ricordiamo che alla conferenza di Bretton Woods del 1944, Keynes si era presentato con queste proposte per il bancor, per l’International Clearing Union, e furono respinte dagli Stati Uniti perché questi ultimi volevano imporre il dollaro al resto del mondo.

In Cina, invece, si è riscontrato un notevole interesse per le proposte di Keynes relative al bancor e così via, per un paio di motivi diversi.

Una cosa che ricordo molto bene è che stavo proprio scrivendo un articolo su Keynes, sul bancor e così via, all’epoca della crisi finanziaria del 2008.

L’ho scritto nell’autunno del 2008, è stato pubblicato all’inizio del 2009 e, poco prima che andasse in stampa, il governatore della Banca Popolare Cinese ha pubblicato un breve documento in cui ricordava che Keynes aveva proposto il bancor e che bisognava tornare a quei principi, e così via.

E fortunatamente sono riuscito a inserire un riferimento a questo articolo poco prima che andasse in stampa, il che è stato davvero una fortuna.

Quindi i cinesi sono molto interessati. E questo è un aspetto.

Penso che si debba capire che i cinesi conoscono il prezzo che le economie occidentali, quella americana in particolare, hanno pagato per aver reso il dollaro la moneta del mondo, ovvero l’indebolimento della propria capacità produttiva, la finanziarizzazione del sistema finanziario in modo tale da orientarlo verso attività predatorie e speculative piuttosto che verso il finanziamento di investimenti produttivi.

Quindi, in tutti questi modi, in realtà tutti gli americani hanno pagato un prezzo enorme per aver reso il dollaro la moneta del mondo, che è un bene solo per la crema dell’élite americana e non per nessun altro.

La seconda cosa che volevo dire è che l’idea che la moneta nazionale di qualsiasi Paese possa essere facilmente, stabilmente, in modo affidabile, in senso buono, la moneta del mondo si è naturalizzata nel nostro tempo, ma è un’idea completamente falsa.

La carriera di Keynes è molto interessante da questo punto di vista. Ho scritto anche di questo.

Quando Keynes iniziò la sua carriera, appena uscito dall’università, andò a lavorare per l’India Office e lì imparò come funzionava il sistema finanziario britannico, che, come abbiamo già detto, dipendeva dall’India britannica.

Il suo primo libro, pubblicato nel 1913, si intitolava “Indian Currency and Finance” (Valuta e finanza indiana) ed è considerato il primo libro in assoluto. Se volete capire come funzionava il gold standard, leggete “Indian Currency and Finance”.

E ovviamente, perché un libro come “Indian Currency and Finance” dovrebbe essere il primo libro sul gold standard? Perché l’India britannica era fondamentale per il suo funzionamento.

Comunque, se leggete questo libro, è pieno di elogi per il meraviglioso funzionamento del sistema. Keynes era completamente acritico.

E poi, nel corso della sua vita, la carriera di Keynes ha attraversato la prima guerra mondiale, la crisi dei trent’anni. La prima guerra mondiale l’ha iniziata e la seconda guerra mondiale l’ha più o meno conclusa. Morì nel 1946.

In questo periodo, Keynes fu testimone della più forte caduta della posizione internazionale e dell’economia di qualsiasi paese che avesse mai visto. La Gran Bretagna passò dall’essere a capo dell’impero su cui non tramontava mai il sole, all’essere essenzialmente sul punto di perdere quell’impero e di trasformarsi in un’economia debole, in declino industriale e di medie dimensioni.

Così Keynes progettò il bancor. Keynes, nel corso della sua vita, divenne un critico del gold standard, del suo carattere deflazionistico, dei costi che imponeva agli altri Paesi. Ha assorbito tutto questo.

E naturalmente, verso la fine della sua vita, propose un sostituto per quello che era lo standard di cambio oro-sterlina, che era completamente opposto. Che non avrebbe imposto l’austerità. Che non avrebbe creato la finanziarizzazione. Che avrebbe permesso ai Paesi di gestire le loro economie per lo sviluppo, la prosperità e la piena occupazione.

MICHAEL HUDSON: Si può dire che oggi l’Eurasia sta riprendendo il filo della storia mondiale dove il mondo si era fermato nel 1913 e nel 1914.

La Prima guerra mondiale ha cambiato l’intera direzione del mondo. Ha fermato l’evoluzione del capitalismo industriale verso il socialismo, con la rivoluzione russa e la grande lotta contro l’Unione Sovietica. E ha sostituito il capitalismo industriale con il capitalismo finanziario.

E oggi, più di un secolo dopo, finalmente l’Eurasia sta prendendo l’iniziativa di rifiutare questa retrogressione nel capitalismo finanziario neofeudale e di riprendere il cammino del mondo dal capitalismo industriale al socialismo, che sembrava essere l’onda del futuro per tutti coloro che scrivevano fino a quando la Prima Guerra Mondiale fu uno shock tale da traumatizzare la storia.

La stiamo superando solo ora, con l’Europa e l’America che lottano contro di essa.

Non vogliono che il mondo continui come nel 1914. Per questo hanno inviato tutte le truppe in Russia per cercare di rovesciare la rivoluzione. Stanno facendo tutto il possibile per impedirla e il compito del resto del mondo è quello di combattere per la civiltà contro le forze della reazione.

RADHIKA DESAI: È molto interessante. E direi, Michael, che anche l’Europa probabilmente uscirà da questo folle percorso filoamericano che ha intrapreso dall’inizio dell’anno scorso, da quando sono iniziate le operazioni militari in Ucraina.

Voglio dire, la posizione dell’Europa è decisamente suicida, e credo che sempre più voci stiano emergendo per consigliare di non farlo. Non è una sorpresa che Macron, durante la sua visita in Cina, abbia detto – parole sue, non nostre – che l’Europa dovrebbe smettere di essere un vassallo degli Stati Uniti.

Penso che sia molto possibile, anche se certamente la mentalità sanguinaria e le politiche folli dei leader europei non ci danno molte speranze, ma comunque dichiarazioni come quella di Macron indicano che l’Europa non si trova in una posizione molto comoda e che dovrà, se non altro per la propria sopravvivenza economica, rompere questi folli legami con la politica statunitense.

Questa è una cosa. Ma dirò un paio di altre cose, visto che probabilmente dovremmo concludere presto.

Una cosa è che sono completamente d’accordo con lei. Ho anche scritto qualcosa al riguardo, ad esempio in questo articolo su Keyes e il bancor.

L’ultima sezione, che esamina il ruolo degli Stati Uniti in tutto questo, per esempio nel respingere le proposte di Keynes e nel cercare di esercitare il proprio dominio sul resto del mondo, cosa che ho sostenuto non ha mai avuto successo. L’ho sostenuto nel mio “Economia geopolitica”.

Ad ogni modo, il punto è che la sezione era intitolata “La strana vita ultraterrena dell’imperialismo”, nel senso che gli Stati Uniti, nel loro desiderio di ricreare il tipo di dominio di cui aveva goduto la Gran Bretagna nel XIX secolo, nel XX secolo, avrebbero dovuto godere dello stesso tipo di dominio.

Questo tentativo riuscì, ovviamente, a influenzare la storia del mondo, ma non ebbe successo.

Ma ora anche la storia di quel tentativo è giunta al termine. Non si può più realisticamente nemmeno tentare di creare questo tipo di dominio.

Ciò significa che la corrente antimperialista, iniziata con lo scoppio della Prima guerra mondiale e nella crisi trentennale dal 1914 al 1945, sta riprendendo in modo più consistente dopo essere stata un po’ frenata dai tentativi americani.

Ma bisogna capire che anche se gli Stati Uniti volevano esercitare il loro potere sul mondo, nel secondo dopoguerra non ci sono mai riusciti del tutto per il semplice motivo che esisteva il mondo comunista.

Il mondo comunista si estendeva da Praga a Pyongyang. Era enorme. Gli Stati Uniti non erano i padroni di questo mondo. La sua esistenza poneva seri limiti a ciò che gli Stati Uniti potevano fare.

In questo senso, solo dopo la fine dell’Unione Sovietica si è assistito a questo tentativo arrogante da parte degli Stati Uniti di cercare finalmente di esercitare il proprio dominio sul mondo, ma come sappiamo è finito molto male.

Non c’è più l’unipolarismo. C’è invece il multipolarismo, a cui gli Stati Uniti hanno reagito molto male e da allora sono stati impegnati in guerre senza sosta.

MICHAEL HUDSON: Lei ha ragione a sottolineare la dichiarazione di Macron secondo cui l’Europa si trova nel mezzo. È una sorta di Donald Trump francese. Dice tutto ciò che pensa possa essere popolare, e poi si gira e dice l’esatto contrario a un’altra parte.

Ma l’Europa si è trovata nel mezzo dopo la Prima Guerra Mondiale. Ha accettato di pagare i debiti internazionali e questo l’ha costretta a imporre alla Germania le riparazioni che hanno distrutto tutto il suo sviluppo.

Era così rigida nel mantenere il vecchio sistema finanziario in cui un debito deve essere pagato, che non poteva rompere.

Ma ora l’Europa è di nuovo nel mezzo, con la guerra dell’America contro la Russia che si combatte in Ucraina.

Penso che quando Macron ha fatto la sua dichiarazione, che forse l’Europa dovrebbe andare per la sua strada, stia cercando di togliere il potere di voto all’ala destra della Francia.

L’ironia è che in quasi tutti i Paesi europei è la destra, l’ala nazionalista, a staccarsi dagli Stati Uniti, lasciando la sinistra indietro.

Quindi l’ironia è che la sinistra non sta giocando un ruolo nel creare un’alternativa al neoliberismo. La sinistra ha abbracciato il neoliberismo fin dai tempi di Tony Blair e Bill Clinton.

Quindi è davvero singolare che stiamo assistendo allo sviluppo della civiltà, di un nuovo percorso di civiltà, senza alcun riferimento alle discussioni passate.

Penso che sarebbe bello discutere di economia classica, dell’economia politica di Adam Smith, John Stewart Mill e Marx sul valore e sul prezzo. Credo che nel XIX secolo avessero capito cose importanti.

È come se ci fosse una sorta di classe tecnocratica che sta cercando di rianalizzare il mondo senza alcun riferimento alla storia, e credo che questo sia ciò che io e lei stiamo cercando di fare nelle nostre lezioni.

Stiamo cercando di fornire una base storica per dire: “Tutto questo è già successo in passato. Cosa possiamo imparare dall’esperienza su cosa fare e cosa evitare?

RADHIKA DESAI: Assolutamente sì. E Michael, forse dovremmo chiudere la discussione, ma sono assolutamente d’accordo con te.

E in effetti questa è gran parte dell’argomentazione del mio libro “Capitalismo, Coronavirus e Guerra”. Cerca di spiegare perché la sinistra ha sostanzialmente fallito nel comprendere l’imperialismo e questo fallimento oggi spiega il fatto che sia diventata uniformemente una cheerleader delle disastrose politiche dell’Occidente contro la Russia e contro la Cina.

Mentre ciò che trovo davvero interessante, in particolare nelle recenti dichiarazioni di politica estera, le principali dichiarazioni che sono state rilasciate dalla Cina e dalla Russia, è che hanno messo l’imperialismo, e la comprensione dell’imperialismo, al centro della loro comprensione.

Ogni volta che le ho lette mi sono detto: “È sorprendente. Questo è ciò che abbiamo sostenuto per tanto tempo. E ora i leader di questi grandi Paesi, i governi di questi grandi Paesi, sono essenzialmente dietro a questo, il che è davvero molto importante.

Penso che se l’Occidente finalmente si sveglia e si rende conto di ciò che deve fare, penso che questo possa essere solo una cosa molto positiva per noi, perché altrimenti ci troveremo in una sorta di spirale di disfunzioni politiche per molto tempo.

MICHAEL HUDSON: L’Occidente potrebbe svegliarsi, ma la leadership politica occidentale non si sveglierà.

L’America ha avuto la sua rivoluzione cromatica da parte di Wall Street, e si può dire che anche l’Europa ha avuto la sua rivoluzione cromatica.

RADHIKA DESAI: Mi piace. È un ottimo modo per descrivere ciò che sta accadendo in Europa in questo momento. L’Europa è stata oggetto di una rivoluzione cromatica da parte degli Stati Uniti.

Siamo arrivati a quasi un’ora. È stata una grande discussione, Michael.

La prossima volta decideremo di cosa parlare esattamente, ma abbiamo un paio di argomenti in sospeso.

Uno di questi è naturalmente quello di esaminare più dettagliatamente l’economia politica e geopolitica del conflitto in Ucraina, i suoi effetti sulle varie parti del mondo, tra cui Russia e Ucraina, Stati Uniti ed Europa.

E naturalmente dobbiamo ancora completare il nostro programma finale di dedollarizzazione.

Se avete altri suggerimenti per gli argomenti da trattare, fatecelo sapere. Grazie per l’attenzione e arrivederci tra un paio di settimane.

https://geopoliticaleconomy.com/2023/04/14/russia-neoliberal-west-world-majority/

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Macerie e retorica, di Lee Slusher

Traduciamo e pubblichiamo questa eccellente analisi della situazione militare in Ucraina, che comprende una previsione, più che condivisibile, di quali giustificazioni verranno date dalle dirigenze occidentali quando sarà inequivocabilmente chiara “la verità effettuale della cosa”. Roberto Buffagni

 

https://deepdivewithleeslusher.substack.com/p/rubble-and-rhetoric

Macerie e retorica

Tanti morti per niente

di Lee Slusher[1]

8 febbraio 2023

La guerra in Ucraina potrebbe prendere due direzioni. La prima l’ho descritta nel mio ultimo articolo, “Armageddon all’ora del dilettante”[2]. In questo caso, l’Occidente continuerebbe l’escalation fino al conflitto diretto con la Russia, che potrebbe sfociare in una guerra nucleare, nel qual caso tutte le scommesse sarebbero annullate. La seconda opzione è che la Russia vinca in modo abbastanza deciso da stabilire le condizioni per il completamento della guerra, sia attraverso una vittoria militare schiacciante sia forzando un accordo che soddisfi le richieste fondamentali di Mosca. Perché non ci sono altre opzioni? Considerate quanto segue, che ho scritto in una spiegazione dettagliata delle origini della guerra, solo pochi giorni dopo l’invasione russa del febbraio 2022[3]:

Per essere chiari, la Russia ha i mezzi per conquistare tutta l’Ucraina, anche usando solo forze convenzionali. La Russia potrebbe scatenare il suo esercito di un tempo e impiegare massicciamente un’artiglieria, seguita da masse di fanteria di massa e da masse di forze corazzate (carri armati). Un approccio di questo tipo aumenterebbe esponenzialmente le vittime militari e civili e distruggerebbe la maggior parte, se non tutte, le infrastrutture dell’Ucraina.

Tutto ciò rimane vero oggi, anche se quando ho scritto il brano, l’Occidente non si era ancora impegnato completamente in una guerra per procura con la Russia. All’epoca, i leader occidentali si aspettavano ancora che Kiev cadesse nel giro di pochi giorni e il governo statunitense aveva da poco offerto al Presidente Zelensky l’assistenza necessaria per lasciare il Paese. La situazione iniziò a cambiare, prima gradualmente e poi improvvisamente. Un abbondante flusso di armi occidentali e di informazioni mirate divenne il sostegno vitale su cui poggiava l’intero sforzo bellico ucraino. Gli aiuti militari occidentali hanno creato il miraggio di un’imminente vittoria ucraina, ma, come tutte le illusioni, anche questa è stata fugace. Oggi rimane visibile solo attraverso il caleidoscopio della propaganda e la nebbia febbrile del fanatismo. La verità ora è quella che è sempre stata: In una guerra tra Russia e Ucraina, la Russia vince facilmente. In una guerra per procura tra Russia e Occidente in Ucraina, la Russia vince alla fine, ma con molta più morte e distruzione, soprattutto per l’Ucraina.

La Russia ha sicuramente commesso degli errori militari. Il principale di questi è stato il presupposto che l’Occidente non avrebbe alimentato una guerra per procura, soprattutto in una misura così ampia. È sulla base di questo presupposto errato che la forza d’invasione russa era inadeguata, sia per dimensioni che per tenacia. Ma ora la Russia si è riorientata e la sua mobilitazione in corso è formidabile. Nel frattempo, l’Occidente sta lottando per mantenere le forniture di materiale necessarie all’Ucraina per sostenere una guerra ad alta intensità. Per farlo ancora a lungo sarebbe necessaria una mobilitazione industriale su larga scala nei Paesi occidentali, in particolare negli Stati Uniti. Tuttavia, la popolarità della guerra sta svanendo, soprattutto perché l’attenzione si concentra più strettamente sulle preoccupazioni economiche e su altre questioni interne.

 

C’è poi la questione delle cifre spaventose delle vittime dell’Ucraina. La guerra industriale produce perdite su scala industriale. Nessuno dispone di cifre precise per entrambe le parti, ma una stima prudente e di basso livello è che l’Ucraina, in meno di un anno, abbia subito più di 150.000 morti in azione e un numero di feriti molte volte superiore. Questo per un Paese che, secondo i dati, aveva una popolazione di meno di quarantaquattro milioni di abitanti [4] il giorno dell’invasione e che da allora ha visto più di sette milioni di persone fuggire come rifugiati[5]. Le forze armate ucraine del 2014-2022, addestrate ed equipaggiate dalla NATO, non esistono più e lo stesso vale per la forza sostitutiva che Kyiv ha assemblato e schierato in fretta e furia l’anno scorso. Le manovre ad armi combinate sono difficili anche per eserciti esperti, e l’Ucraina non ha più un esercito di questo tipo.

Molti commentatori di spicco concludono stupidamente che, poiché le più recenti e migliori intuizioni sulla guerra ad alta intensità si trovano attualmente in Ucraina, gli ucraini sono in grado di raccogliere e mettere in pratica queste lezioni. Questo è falso, almeno in un senso diffuso e sostenibile. Il ritmo e l’intensità della guerra impediscono all’Ucraina di sviluppare una simile memoria istituzionale o capacità di apprendimento. Lo sforzo bellico ucraino è un paziente che si avvale di una terapia intensiva. Peggio ancora, questo paziente ora si affida a frequenti e importanti trapianti di organi e trasfusioni di sangue per sopravvivere. Nessuna quantità di addestramento in altre parti d’Europa o negli Stati Uniti può risolvere il problema dell’Ucraina, che ha troppo poco personale per vincere o anche solo sostenere questa battaglia. Nessun addestramento può sostituire la morte di massa di ufficiali esperti e soldati professionisti. Le bande di giornalisti che ora si aggirano per le strade delle città e dei paesi dell’Ucraina non possono colmare questo divario. La potenziale introduzione di sistemi d’arma finora inutilizzati, compresi i carri armati occidentali, non modificherà l’esito finale della guerra in modo significativo o anche solo percettibile. Nel frattempo, la Russia sta costruendo metodicamente una forza di centinaia di migliaia di uomini all’interno e intorno all’Ucraina e continua a degradare il personale militare e le capacità critiche dell’Ucraina, in particolare l’artiglieria e la difesa aerea.

 

L’orologio di Kiev sta per fermarsi, probabilmente più presto che tardi.

 

Come siamo arrivati a questo punto?

 

Ancora oggi, molti occidentali, sia leader che semplici cittadini, credono a una serie di falsità sulla situazione attuale della Russia. Credono che l’esercito russo sia incompetente e sull’orlo del fallimento. Credono che l’economia russa sia paralizzata dalle sanzioni e, allo stesso modo, sull’orlo del fallimento. Credono che la Russia sia diventata un paria internazionale, anziché solo occidentale. Ritengono che Putin sia malato di mente, forse addirittura malato terminale, e che sia sempre sotto la costante minaccia di essere assassinato o rimosso con la forza dal suo incarico. Alcuni insistono addirittura affinché il mondo si prepari all’imminente collasso e smembramento della Russia moderna, alla quale – chiedono – non dovrà mai essere permesso di risorgere dalle proprie ceneri.

 

La maggior parte dell’Occidente non ha mai capito veramente la Russia. A ciò ha contribuito, in misura non trascurabile, l’insistenza incrollabile dei russi stessi sul fatto che nessun altro potrebbe mai capire cosa significhi essere russi, come se si trattasse di un piano mistico dell’esistenza. Per quasi venticinque anni ho dovuto contestare questa convinzione – sia in inglese che in russo – con molti dei miei amici e conoscenti russi. Nel mio articolo “On Appeasement: The Fallacy of Modern Munich Moment[6], ho descritto in dettaglio come l’Occidente abbia trascorso ben quindici anni ignorando o comunque attenuando gli avvertimenti e le reazioni sempre più aggressive di Mosca alla continua espansione dell’Occidente lungo la periferia della Russia. Nel frattempo, gli affari sono andati avanti come al solito, anche per i produttori di armi europei, alcuni dei quali hanno continuato a esportare armi in Russia almeno fino al 2020. Alla fine del 2021, Angela Merkel, desiderosa di portare a termine il Nord Stream 2, ha promesso al mondo che la Russia non avrebbe osato sfruttare il suo nuovo gasdotto verso la Germania per emarginare l’Ucraina, attraverso la quale per lungo tempo è transitato gran parte del gasdotto destinato all’Europa. La Merkel lo disse mentre le forze russe si stavano ammassando al confine con l’Ucraina. Nel luglio del 2022, mesi dopo l’invasione, il capo dell’ente normativo tedesco per l’energia ha dichiarato: “Siamo in una situazione in cui il gas è ora parte della politica estera russa e forse della sua strategia di guerra”. Ora fa parte della politica estera? Forse parte della strategia di guerra?

 

Per non essere da meno, gli Stati Uniti sono impazziti sulla scia delle elezioni presidenziali del 2016. Non si è trattato di un evento organico o spontaneo. Dal dossier Steele alle bufale dei bot online, l’ufficialità americana si è affidata a uno spauracchio russo fabbricato per condurre una campagna di propaganda sul pubblico durata anni. Si trattava di Rocky e Bullwinkle[7], di orsi ballerini e, naturalmente, di vodka – quei russi pazzi! Non c’è mai stata una comprensione comune, tanto meno un’accettazione, del fatto che la Russia – nonostante i suoi difetti – si è guadagnata da tempo la sua posizione tra le grandi nazioni del mondo. La Russia ha contribuito come ogni altro Paese al progresso delle arti, delle scienze e della tecnologia. La Russia ha prodotto atleti di livello mondiale (nonostante i recenti scandali sul doping) e controlla un esercito formidabile e un arsenale nucleare vasto e capace. I proclami banali secondo cui la Russia è una stazione di servizio mascherata da Paese dovrebbero meritare a funzionari e opinionisti un posto permanente al tavolo dei bambini della politica.

È in questa miscela di ignoranza, autoinganno e manipolazione che è nata la percezione occidentale della guerra in corso. Negli ultimi decenni ho osservato come l’establishment della difesa statunitense abbia cercato di influenzare il pubblico straniero. Questi sforzi sono stati quasi uniformemente infruttuosi, spesso in modo ridicolo. Nuovi giornali e stazioni radiofoniche, impegno online, volantini, sensibilizzazione delle comunità: queste cose semplicemente non funzionano molto bene. Sembra che la gente di tutto il mondo sia un buon arbitro del “test dell’odore”. Il vero potenziale di sfruttamento è a livello nazionale, come abbiamo visto con il Russiagate.

 

I media occidentali non solo ripetono ubbidienti le parole dei funzionari di sicurezza degli Stati Uniti e di altri Paesi della NATO, ma pubblicano abitualmente articoli basati su informazioni provenienti esclusivamente dai servizi di sicurezza ucraini. I giornalisti lo fanno nonostante sappiano, ad esempio, che Kiev gestisce una sofisticata macchina di propaganda. Non ci sono media avversari, non c’è un quarto potere. La stampa è ora in gran parte impegnata a promuovere gli obiettivi dell’establishment: l’Ucraina è solo una fissazione del momento. Il monolite politico-culturale composto da governo, grandi aziende, media di informazione e intrattenimento, tecnologia e università ha creato e imposto una rappresentazione della guerra degna di un cartone animato. Questo Leviatano ha emarginato e screditato i tentativi di indagine, discussione e dibattito sostanziali.

 

La triste e semplice verità è che l’Ucraina non avrebbe potuto vincere mai.

 

Perché questo è importante?

Molte persone, ucraine e russe, sono morte per niente.

 

La continuazione del sostegno militare all’Ucraina è stata condizionata, in parte, dalla percezione pubblica in Occidente che l’Ucraina potesse vincere – che i miliardi di aiuti avrebbero fatto qualcosa di diverso dal perpetuare un massacro fino alla scomparsa definitiva di Kiev. Sì, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno già condotto guerre impopolari in passato. Per esempio, il cittadino medio occidentale ha perso rapidamente interesse per le guerre in Afghanistan e in Iraq e, ancora oggi, rimane in gran parte ignaro dell’orrendo numero di vittime non occidentali di queste guerre, ma le guerre si sono trascinate comunque. Tuttavia, il concetto di mission creep aveva allora un significato molto diverso. Sprofondare sempre di più in un pantano nazionale in una terra lontana è ben diverso dal lanciare i dadi della Terza Guerra Mondiale. La narrazione dell’Ucraina doveva essere positiva, a prescindere dai fatti, altrimenti la spinta per una guerra per procura sarebbe morta prima di cominciare.

 

C’è un’altra ragione per cui questo è importante. Le bugie e le offuscazioni che circondano la guerra in Ucraina hanno mascherato pericolose realtà sulle capacità militari, sia della NATO che della Russia. Un recente rapporto[8] ha concluso che l’esercito britannico potrebbe resistere un solo pomeriggio sul campo di battaglia contro la Russia prima di rimanere senza munizioni. Qualcuno potrebbe essere tentato di ignorare il rapporto, perché proviene da un think tank dell’esercito britannico. Sarebbe sciocco. Decenni di tagli al bilancio hanno ridotto l’esercito britannico a una sola divisione di prima linea, con un fatale difetto di sostenibilità.

 

La storia è la stessa o peggiore per la maggior parte delle forze armate europee della NATO. Questo è stato un disegno intenzionale. Le nazioni europee hanno incassato il “dividendo della pace” prodotto dalla fine della Guerra Fredda, e il denaro che era stato utilizzato per finanziare grandi eserciti permanenti è stato destinato ai servizi sociali. Gli eserciti non si concentrarono più sulle manovre ad armi combinate. Il loro obiettivo non era più “andare a contatto con il nemico e distruggerlo”, almeno non su larga scala. Quindi, questa capacità si è atrofizzata. La maggior parte delle forze armate europee, invece, si è concentrata sulla fornitura di capacità specialistiche, spesso di concerto con i Paesi vicini, in modo che complessivamente queste forze armate potessero sostenere operazioni “fuori area” (cioè, fuori dall’Europa). Questo approccio potrebbe essere sufficiente per sostenere operazioni di peacekeeping o guerre a bassa intensità nei Paesi in via di sviluppo, ma “la potenza fa il diritto” negli impegni ad alta intensità. Gli Stati Uniti affrontano sfide che si sono preparati da sé. Ecco alcune dure verità:

  • Sebbene la NATO disponga di un numero consistente di truppe nell’insieme totale, la maggior parte di esse sono riservisti, non forze in servizio attivo. Questo tipo di personale richiederebbe una mobilitazione massiccia, che comprende l’addestramento di aggiornamento, l’equipaggiamento, lo scaglionamento, il trasporto e così via. Al momento, la NATO non si addestra attivamente né si prepara in altro modo per un’impresa di tale portata gigantesca: un piano su uno scaffale non è un sostituto.
  • Le forze della NATO non si addestrano per schierarsi direttamente in combattimento in Europa, almeno non in dimensioni e modalità adeguate. I sistemi d’arma della Russia che hanno portata oltre l’orizzonte (ad esempio, i missili) coprono efficacemente gran parte dell’Europa. Pertanto, la NATO non potrebbe contare su aree di sosta avanzate in caso di conflitto diretto con la Russia. In guerra i gruppi e gli individui non si mettono istantaneamente “all’altezza della situazione”, ma restano al loro livello di addestramento più efficace. Tuttavia, le forze NATO in Europa non hanno un addestramento tale da poter essere schierate in combattimento direttamente dalle loro guarnigioni.
  • Anche prima che l’Occidente svuotasse le sue scorte di armi per sostenere la guerra in Ucraina, non aveva materiale sufficiente per impegnarsi in una guerra prolungata e ad alta intensità. Da allora, in nessun Paese della NATO si è verificata una mobilitazione industriale interna. Ciò mette in discussione la possibilità che tale mobilitazione possa avvenire abbastanza rapidamente da evitare la sconfitta in caso di guerra improvvisa con la Russia.
  • Inoltre, naturalmente, c’è il problema di portare il materiale dove è necessario. La Russia ha iniziato solo di recente a degradare le infrastrutture civili dell’Ucraina e non ha attaccato alcuna infrastruttura nei Paesi della NATO. La situazione cambierebbe rapidamente. Anche in assenza di un attacco russo, l’Europa non ha la capacità di trasporto ferroviario e di veicoli cargo per sostenere un’operazione di questo tipo. La maggior parte dei ponti europei non può nemmeno sostenere il peso di alcuni carri armati principali, come gli Abrams.
  • Gli Stati Uniti sono sempre stati destinati ad essere il peso massimo della NATO. Gli altri membri non avrebbero mai dovuto sottrarsi alle loro responsabilità, come hanno fatto a lungo, ma il loro scopo principale era quello di “tenere la linea” fino a quando l’America non avesse potuto mobilitare la sua enorme forza militare. Ma di quella forza ne è rimasta ben poca, sia in termini numerici che di capacità. La maggior parte del personale statunitense attualmente in servizio si è arruolato dopo l’abbandono dei conflitti ad alta intensità. In effetti, molti di coloro che si sono arruolati in risposta agli attacchi dell’11 settembre hanno completato la carriera e sono andati in pensione. L’attuale versione delle forze armate statunitensi sa come condurre una guerra a bassa intensità utilizzando sistemi ad alta tecnologia in un ambiente in gran parte incontrastato. Le truppe statunitensi sono arrivate a fare affidamento su un facile accesso al supporto aereo, oltre che al rifornimento e al trasporto aereo: tutto ciò si basa proprio sulla superiorità aerea che sarebbe messa in pericolo dalle difese aeree della Russia. Le forze statunitensi si troverebbero soggette ad attacchi aerei sostenuti per la prima volta da generazioni. Una realtà simile si applica alla dipendenza degli Stati Uniti dalla navigazione e dal puntamento GPS, che subirebbe non solo disturbi e spoofing[9], ma anche le armi anti-satellite della Russia.

Ci sono altre carenze critiche, ma queste sono sufficienti a illustrare gli scarsi livelli di preparazione, addestramento, logistica e così via della NATO. Il sontuoso quartier generale in vetro della NATO a Bruxelles smentisce queste realtà. Se è vero che la Russia ha le sue carenze, dovremmo ricordare il vecchio adagio militare sulla necessità di “arrivare per primi con il massimo numero”. In Europa, attualmente, la Russia ha fatto questo. Ha centinaia di migliaia di uomini sul campo, supportati da linee di rifornimento ben consolidate, e la sua industria della difesa si è già mobilitata. In patria, la popolazione è in gran parte favorevole a questo atteggiamento bellico, nonostante la propaganda contraria.

 

Alcuni potrebbero far notare le capacità avanzate che la NATO potrebbe scatenare contro la Russia. Esse esistono, certo, ma la Russia ha le sue, non limitate ai missili ipersonici. Consideriamo la guerra elettronica. Non solo le capacità della Russia sono probabilmente più avanzate, ma il Paese dispone di una serie stratificata di sistemi – tattici, operativi e strategici – lungo tutta la sua periferia occidentale. Questi sistemi “arrivano” in Ucraina e nei Paesi della NATO. Ciò evidenzia una differenza fondamentale tra l’esercito americano e quello russo. L’esercito statunitense è una forza di spedizione per concezione: è destinato a combattere altrove. L’esercito russo è progettato per difendere la Russia. Affinché la struttura delle FFAA degli Stati Uniti sia efficace in un conflitto prolungato, è necessario un massiccio accumulo di forze, che richiede mesi. Questo è evidente in ogni parte della macchina da guerra statunitense, dall’architettura amministrativa dettata dalla legge Goldwater-Nichols[10] alle attrezzature che gli Stati Uniti acquistano. Tutto è progettato per essere utilizzato in un’operazione all’estero che può essere liberamente sostenuta da un supporto logistico internazionale. Ma la Russia contesterebbe proprio le rotte marittime e aeree su cui si basa questo supporto. Nel frattempo, la Russia non solo può combattere nel suo cortile, ma è anche pronta a sparare da casa sua. Con questo non voglio dire che la Russia vincerebbe necessariamente un conflitto prolungato con la NATO: non ho la sfera di cristallo. Si tratta di una verifica della realtà delle circostanze attuali, una verifica necessaria e terribile.

 

Si consideri, inoltre, che l’Europa vede già massicce proteste contro le sanzioni alla Russia, le armi per l’Ucraina e persino l’adesione alla NATO. Quanta voglia c’è di guerra con la Russia, in particolare per persone abituate alla pace e alla prosperità che, fino a poco tempo fa, non avevano mai immaginato che la guerra potesse arrivare alle loro porte? Se la Russia dovesse ottenere qualche rapida vittoria o se la NATO dovesse subire anche solo una frazione delle perdite del livello del Donbass, cosa accadrebbe? La guerra finirebbe o, forse, la NATO si dissolverebbe in una coalizione di volenterosi? A quel punto, la geometria del campo di battaglia dell’Europa cambierebbe in modi non ancora immaginati, poiché porti, campi d’aviazione e rotte terrestri critici potrebbero essere chiusi alle forze della NATO. L’incrollabile ossessione e dedizione dei leader occidentali al progetto atlantista ha prodotto una pericolosa mancanza di immaginazione.

 

Alcuni lettori potrebbero ancora essere sconcertati dalle mie argomentazioni. Se la Russia è così capace, perché non ha ancora preso l’Ucraina? Alcuni insistono sul fatto che se la Russia avesse un “easy button”, un bottone che basta premerlo per vincere in questa guerra, lo avrebbe già usato. L’implicazione, ovviamente, è che le forze armate russe sono in qualche modo carenti e non dovrebbero preoccuparci troppo. Queste persone non colgono il punto, anzi due.

 

In primo luogo, le capacità avanzate della Russia, come i missili ipersonici e la guerra elettronica, sono state una risposta alla superiorità degli Stati Uniti nelle categorie della guerra totale e delle capacità di attacco globale, in particolare come si è visto nella prima guerra del Golfo. All’epoca, gli Stati Uniti disponevano ancora di un’imponente forza armata permanente, straordinariamente capace di condurre guerre ad alta intensità. Il modo in cui questa forza ha smembrato l’esercito iracheno, allora uno dei più grandi al mondo, ha terrorizzato i leader non solo di Mosca ma anche di Pechino. La Russia sapeva di non poter affrontare questo colosso senza ricorrere alle armi nucleari e, pertanto, doveva cercare vantaggi in altri settori. Così, la Russia ha fatto buon uso dell’enorme talento STEM della sua popolazione per produrre sistemi d’arma avanzati. Anche in questo caso, si tratta di sistemi destinati a essere utilizzati contro gli Stati Uniti in un conflitto esistenziale. Sebbene alcuni di questi sistemi siano stati utilizzati in Ucraina, molti altri non lo sono stati, altrimenti gli Stati Uniti e altri avrebbero avuto l’opportunità di sviluppare contromisure. La Russia ha combattuto una campagna molto limitata.

In secondo luogo, se un nemico rifiuta di arrendersi, le sue forze devono essere distrutte – e questo è un processo molto doloroso. Noi in Occidente abbiamo ampiamente dimenticato questa lezione, ma la Russia no. Anzi, eccelle in questo compito, proprio come il suo predecessore, l’Armata Rossa. Ecco perché, nei primi giorni di guerra, ho notato che “la Russia poteva scatenare il suo esercito di un tempo e impiegare la massa dell’artiglieria, seguita dalla massa della fanteria di massa e dalla massa delle forze corazzate”. C’è voluto un po’ di tempo perché la Russia si mobilitasse adeguatamente, ma le sue decantate forze di artiglieria sono ora impegnate, sostenute da un numero sempre crescente di fanteria e corazzati. Chi fa riferimento alla mancanza di un “easy button” da parte della Russia non coglie i limiti delle capacità sofisticate e delle vittorie rapide in una guerra ad alta intensità. Questo tipo di conflitto, nella sua essenza, richiede la capacità di assemblare grandi formazioni e di muoverle “al suono dei cannoni” in manovre coordinate e ad armi combinate. Le forze armate russe lo sanno fare molto bene, non sono dilettanti.

 

L’imminente svolta

 

I leader occidentali hanno spostato il palo della porta per tutta la durata della guerra. Nei primi giorni, l’amministrazione Biden ha offerto a Zelensky un “passaggio” fuori dal Paese, in seguito alle notizie secondo cui squadre di sicari ceceni si aggiravano per Kiev alla sua ricerca. Nel giro di pochi mesi, abbiamo sentito proclami quasi fiduciosi sul fatto che l’Ucraina potesse essere in grado di vincere. Dopo altri mesi, non solo l’Ucraina stava vincendo, ci è stato detto, ma generali in pensione e altri hanno iniziato a parlare di riportare Donetsk, Luhansk e persino la Crimea sotto il dominio di Kiev.

 

Supponendo che la guerra non degeneri in un conflitto diretto tra la NATO e la Russia, i leader occidentali saranno costretti a cambiare rotta quando il rullo compressore russo renderà chiaro a tutti quale sia stato l’esito finale per tutto il tempo. Questo involontario disimpegno dell’Occidente dall’Ucraina provocherà un gioco di addebito delle colpe. Il processo sembrerà controverso e, forse, per alcuni individui lo sarà. Ma, per lo più, si tratterà di teatrino politico. L’apparenza di introspezione e responsabilità è un passo necessario in questo atto di autoassoluzione di massa. È probabile che sentiremo alcune variazioni di quanto segue:

  • Da un lato dello spettro delle scuse stanno gli irriducibili, che continueranno a sostenere che la NATO sarebbe dovuta intervenire direttamente, al diavolo le conseguenze. Queste persone rappresentano gran parte del gruppo di elettori che attualmente respinge tutte le preoccupazioni sul potenziale di escalation nucleare.
  • Poi ci sono quelli che sosterranno che la NATO non ha fatto nulla di male, perché “dovevamo fare qualcosa”. Continueranno a sostenere che la democrazia e l’ordine internazionale liberale sono la stessa cosa. Non faranno alcun riferimento al colpo di Stato del 2014 o alle profonde e antiche divisioni all’interno dell’Ucraina, che invalidano le affermazioni secondo cui la guerra è stata combattuta per l’autodeterminazione. Non diranno nulla degli immensi costi umani del “fare qualcosa”.
  • Poi arrivano gli strateghi geopolitici molto più sanguigni per i quali ne è valsa la pena per “indebolire la Russia”. Queste persone attualmente presentano delle argomentazioni intelligenti per far sembrare che la guerra sia un affare finanziario per gli Stati Uniti. Lo fanno senza menzionare le spaventose perdite o il modo in cui i loro appelli allo smembramento della Russia hanno contribuito a rafforzare la determinazione del governo e del popolo russo, accelerando probabilmente la realizzazione dell’obiettivo russo di un mondo multipolare. Allo stesso modo, ignoreranno la ritrovata forza, dimensione ed esperienza di combattimento dell’esercito russo. Questo gruppo avrà una corsa molto più limitata, poiché gli eventi in corso minano le sue affermazioni principali.
  • I più tecnici del gruppo saranno i tattici che hanno seguito le varie battaglie della guerra nei minimi dettagli. Questo è il gruppo dei “se solo”. Se solo la NATO avesse fornito prima questo o quel sistema d’arma, tutto sarebbe andato diversamente.
  • Infine, ci sono i sedicenti visionari che chiederanno di “reimmaginare” la NATO e l’UE. È stato un errore, diranno, aver insistito sulla necessità di rispettare tutti gli standard per essere ammessi. Invece, le nazioni dovrebbero essere accolte in base alla necessità di una difesa collettiva, con l’obiettivo finale di soddisfare altri requisiti necessari in tempo utile. Molti di questi chiedono attualmente che a ciò che resta dell’Ucraina venga concessa l’adesione alla NATO alla fine della guerra, come se questa non fosse stata una delle principali violazioni delle linee rosse di Mosca fin dall’inizio. Questa continua intransigenza della NATO indica a Mosca che l’operazione militare non deve cessare troppo presto.

Washington DC, come le capitali dei suoi Stati vassalli europei, non esita ad allontanarsi da politiche disastrose. Per esempio, chi discute ancora di ciò che è accaduto a Kabul meno di due anni fa? Tuttavia, l’Ucraina è diversa per l’Occidente, non solo perché fa parte dell’Europa, ma anche perché il sostegno alla guerra si è rapidamente trasformato in uno spettacolo pubblico di delirio massimalista senza precedenti. I leader occidentali hanno assecondato una visione immaginaria del mondo in cui si consideravano troppo sofisticati per giocare con regole diverse da quelle da loro stabilite. Le loro richieste normative e moralistiche superavano tutti gli imperativi e le considerazioni pratiche. Risultato, solo una delle due parti ha capito di essere in una lotta a coltello.

 

La realtà si sta ora facendo strada man mano che i vertici del governo statunitense acquisiscono una visione molto più completa della portata della distruzione in Ucraina. Questo è particolarmente vero per quanto riguarda il numero reale di vittime, che non può essere tenuto nascosto ancora a lungo. Questi funzionari comprendono la necessità politica di distanziare le proprie politiche sconsiderate dall’imminente collasso dell’Ucraina. Altrimenti, sarà fin troppo evidente che l’Ucraina ha perso una generazione di giovani – e anche la sua sovranità – per un’idiozia delle élite straniere che non dovranno sostenere alcun costo personale per aver orchestrato la calamità.

 

 

 

 

 

 

 

[1] “25 anni di intelligence/rischio geopolitico. Poliglotta. Esperienza in diverse zone di combattimento, NATO, Ucraina, Taiwan. Pratico, non teorico.”

[2] https://deepdivewithleeslusher.substack.com/p/amateur-hour-armageddon

[3] https://deepdivewithleeslusher.substack.com/p/analysis-the-russia-ukraine-conflict

[4] https://www.macrotrends.net/countries/UKR/ukraine/population

[5] https://www.statista.com/statistics/1312584/ukrainian-refugees-by-country/

[6] https://deepdivewithleeslusher.substack.com/p/on-appeasement

[7] https://it.wikipedia.org/wiki/Rocky_e_Bullwinkle [N.d.C.]

[8] https://nationalinterest.org/blog/the-buzz/russia-could-defeat-the-british-army-afternoon-19580

[9] https://www.britannica.com/technology/spoofing [N.d.C.]

[10] https://www.encyclopedia.com/history/encyclopedias-almanacs-transcripts-and-maps/goldwater-nichols-act [N.d.C.]

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