DEMOCRAZIE LIBERALI, “ILLIBERALI” E IN VIA DI IMPLOSIONE, di Teodoro Klitsche de la Grange

DEMOCRAZIE LIBERALI, “ILLIBERALI” E IN VIA DI IMPLOSIONE

È un classico del pensiero politico liberale il discorso di Benjamin Constant su “La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni” dove il pensatore svizzero distingueva i due generi di libertà “le cui differenze sono passate sino ad ora inosservate, o per lo meno non sono state rimarcate a sufficienza. La prima libertà è quella il cui esercizio era così sentito presso i popoli antichi; l’altra è quella il cui godimento viene considerato particolarmente prezioso all’interno delle nazioni moderne”. La prima “libertà” “consisteva nell’esercizio, in maniera collettiva ma diretta, di molteplici funzioni della sovranità presa nella sua interezza, funzioni quali la deliberazione sulla pubblica piazza della guerra e della pace” ed aveva il grave difetto che gli antichi “ammettevano come compatibile con questa libertà collettiva l’assoggettamento completo dell’individuo all’autorità dell’insieme” di guisa che “In tal modo, presso gli antichi, l’individuo, praticamente sovrano negli affari pubblici, è schiavo all’interno dei rapporti privati”. Mentre “Tra i moderni, al contrario, l’individuo, indipendente nella vita privata, anche negli Stati più democratici non è sovrano che in apparenza” e nel mondo moderno “la libertà è il diritto di essere sottoposti soltanto alla legge, il diritto di non essere arrestati, detenuti, condannati a morte, maltrattati in alcuna maniera, per effetto della volontà arbitraria di uno o più individui”, di esprimere il proprio pensiero, scegliere la propria occupazione, disporre dei propri beni, di andare dove si vuole, di culto religioso (e così via). Ed è anche il diritto “di influire sull’amministrazione del governo, sia nominando per intero o in parte certi funzionari, sia attraverso rappresentanze, petizioni, domande”.

Tale distinzione ha influito sul pensiero politico e giuridico moderno, tra gli altri su quello di I. Berlin e Carl Schmitt.

È interessante riprendere tale concezione in ispecie quando si riaccende il dibattito sullo “Stato di diritto” made UE e la concezione di Orban sulla “democrazia illiberale”; che tanto scandalizza la stampa mainstream. È vero che senza un certo rispetto di principi di libertà, lo stesso formarsi della volontà pubblica negli organi di governo viene ad essere falsata, se non in tutto, almeno in parte. Ma è anche vero che se poi questa una volta espressa ha un chiaro senso, ma viene corretta in senso contrario, come capitato in Italia nell’ultimo decennio (se non prima), è la democrazia ad essere mistificata. Prendersela con Orban perché controllerebbe buona parte della stampa e della televisione ungherese, avrebbe la mano pesante con gli immigrati e così via, può avere qualche ragione; resta il fatto che, con le elezioni della passata primavera, Orban ha ottenuto per la quarta volta la maggioranza. In quest’ultima, assoluta.

Scrivo questo perché Constant, pur avendo evidenziato la distinzione tra le due “libertà” e come potessero, in certi casi, contrapporsi (in particolare durante la Rivoluzione e la dittatura giacobina) non ebbe un concetto negativo della Rivoluzione, definendola provvida “malgrado i suoi eccessi perché guardo ai risultati”, ancor più trovava il punto di mediazione tra le due libertà nel governo rappresentativo.

Proprio per permettere ai cittadini di dedicarsi alle attività private, occorreva che avessero il diritto di delegare quelle pubbliche. Cioè il sistema rappresentativo. Il quale “altro non è che un’organizzazione per mezzo della quale una nazione scarica su alcuni individui ciò che non può e non vuole fare da se”. Ma il pericolo che incombe, secondo Constant “è che, assorbiti dal piacere della nostra indipendenza privata e dall’inseguimento dei nostri interessi particolari, noi rinunciamo troppo facilmente al nostro diritto di partecipare al potere politico”. Per cui occorreva che fosse garantito dalle istituzioni il diritto dei “cittadini a concorrere con le loro decisioni e i loro suffragi all’esercizio del potere; esse devono garantire loro un diritto di controllo e di sorveglianza con la manifestazione delle loro opinioni”.

Qual è la conclusione che si può ricavare da queste considerazioni del pensatore svizzero nell’attuale situazione italiana? Se è vero quanto dicono i sondaggi che, malgrado la crisi degli ultimi due anni, gli astensionisti domenica prossima saranno circa il 40% degli elettori, significa che la democrazia italiana non è né liberale né illiberale: semplicemente è in via di estinzione. Votare sarà pure un diritto, ma inutile: tanto poi le decisioni vengono prese altrove. È questo a costituire la maggiore preoccupazione per la tenuta del “sistema rappresentativo” (come, mutatis mutandis di ogni regime politico) assai più del “tasso di Stato di diritto”. Perché anche gli Stati di diritto possono finire per inedia, come il comunismo è cessato per implosione.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

VOTARE DA GRANDI, di Teodoro Klitsche de la Grange

VOTARE DA GRANDI

Tutti dicono di aver indovinato l’esito delle elezioni politiche: ed in effetti è altamente probabile che saranno vinte (taluno sostiene stravinte) dal centrodestra. Di per sé nulla di strano: dopo il decennio (abbondante) passato, avrebbe sorpreso il contrario.

Interessa notare come, in particolare nella comunicazione dei messaggi il duo Meloni-Salvini (un po’ distanziato Berlusconi) abbiano per così dire innovato i parametri, non solo i contenuti.

Spieghiamo un po’: tutti i partiti si differenziano per “contenuti”; chi vuole più libertà, chi più uguaglianza; chi più Europa, chi meno; chi più assistenza, chi meno spesa.

Tuttavia nel messaggio dei due leaders del centrodestra (la Meloni è ancor più esplicita) cambia, in ispecie rispetto al centrosinistra il parametro delle scelte proposte e, più in generale, dell’azione futura di governo: per i primi è l’interesse degli italiani, per gli altri (cosa consueta) la bontà delle scelte. Intendendo come “bontà” la corrispondenza a norme etiche e, in certa misura, anche giuridiche.

L’interesse nazionale e la “bontà” appartengono entrambi all’idea di Stato – e più in generale – di sintesi politica. Come non c’è Stato che non abbia l’idea Sdirettiva e la finalità di proteggere la comunità, così ha anche quello di realizzare certi valori etici e anche giuridici.

Da sempre, ma ancor più negli ultimi trent’anni, ha prevalso decisamente il richiamo a messaggi di elevato contenuto morale, a cui corrispondeva (e ad hoc) l’evidenziazione della deteriore caratura morale dell’avversario politico. La demonizzazione di Berlusconi (ma non solo) è stata emblematica. Come aver ha contribuito molto alla detronizzazione del Cavaliere ed alla intronizzazione di governi che degli interessi degli italiani se ne sono poco curati. Come è provato dai risultati.

Invece nella comunicazione del centro-destra l’accento non è tanto sull’appetibilità del programma (ovvio), quanto sul conseguimento di risultati positivi per l’interesse nazionale. Di per se questo è un ribaltamento, ma anche un segnale (se, come probabile, condiviso dalla maggioranza degli elettori) di maturazione politica; mentre l’inverso è sintomo d’ingenuità e, dato il contesto, di decadenza politica e culturale.

Il primo valuta in base a fatti e risultati: da Machiavelli (il XV capitolo del Principe) il realismo ha contrapposto alle “immaginazioni” la realtà dell’analisi dei fatti valutati razionalmente e in base ai risultati ottenuti. Mentre per il non-realista il problema è come conformare la realtà alla propria immaginazione. Hegel scriveva che tale metodo fa la testa gonfia di vento (cioè, diremmo oggi, di aria fritta).

E che non si tratti solo di vento, cioè di dabbenaggine ma di astuzia è dubbio costante: come scrive Machiavelli, prendendo ad esempio Alessandro IV, che il Principe non deve mantenere le promesse “quando tale observazione gli torni contro e che sono spente le coazioni che le fecero permettere” anche perché non mancano mai le giustificazioni per farlo: lo vuole l’Europa, c’è uno spread in arrivo, dobbiamo aiutare l’Ucraina, ecc. ecc. E dati i precedenti in tal senso, aspettatevi che i piddini lo ripetano.

La conseguenza di ciò è che nel pensiero politico realista chi si conforma all’ “immaginario” è un ingenuo; come Pier Soderini che nell’epigramma di Machiavelli  Minosse manda al “limbo con gli altri bambini”.

O Messer Nicia che collaborando, tutto contento, alla propria cornificazione “Quanto felice sia esser vede, chi è sciocco ed ogni cosa crede”. E Max Weber che considerava chi lo fa un bambino.

Per cui cambiare il parametro o almeno dar più valore ai fatti che alle aspirazioni, ai risultati più che alle intenzioni, significa maturare politicamente da bambino ad adulto. E se tale criterio si consoliderà, farà bene anche al centrosinistra stimolato a conseguire risultati e non a elaborare fantasie.

Perché in politica chi non fa l’interesse della comunità non è che fa del bene. Realizza un altro interesse: quello degli altri.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

La cultura filosofico-politica della sinistra e la necessità di voltare pagina, di Vincenzo Costa

La cultura filosofico-politica della sinistra e la necessità di voltare pagina
Inimichiamoci gli ultimi amici
Oramai è necessario, secondo me, andare alla radice. Non per fare polemica per la polemica, ma perché il disastro storico (politico e intellettuale) è così enorme da non permettere che, per amore di pace e per evitare il conflitto (teorico e politico), si taccia.
Io credo che sia la cultura politica di cui si nutre la sinistra nella sua totalità (o nella sua pluralità per usare il linguaggio amato a sinistra, uno dei cliché che bisogna sempre usare nelle discussioni sconclusionate a sinistra) ad impedire ormai che si possa fare politica da sinistra e che possa esserci una visione politica che nasca da sinistra.
La cultura politica di cui si nutre è vecchia, post sessantottina. Cose che 50 anni fa forse avevano un senso, che forse esprimevano esigenze di liberazione, ma ora continuano ad essere ripetute a macchinetta, incuranti del fatto che l’esperienza della vita, il mondo, i rapporti sociali, il tessuto sociale e le motivazioni ideologiche hanno subito trasformazioni gigantesche e sono irriducibili a quella concettialita’.
La cultura politica della sinistra è diventata una lente deformante. Non si ha proprio più il senso della realtà. Lo fa perdere. È solo una nicchia di significato fatta di stereotipi, di espressioni da usare per essere riconosciuti nei vari gruppetti, che sono ormai solo sette.
Questa cultura raccoglie tutto il cascame peggiore degli ultimi 50 anni (dalla butler a Zizek, da Foucault a deleuze, dalla società totalmente amministrata alla società della sorveglianza, alla società dello spettacolo). E lo so che dire questo urta, in maniera diversa, ognuno dei miei amici.
Per carità, si tratta di prospettive che raccoglievano scampoli di realtà, ma erano e sono esasperazioni. Potevano essere interpretazioni, spesso azzardate, spesso espressione di sensibilità soggettiva. Invece sono diventati miti, la MITOLOGiA degli intellettuali, entro cui questa strana forma di vita prospera. E per essere un intellettuale devi usare quella terminologia. È una sorta di segno distintivo.
Questa cultura politica, questo cascami all’origine erano tentativi di pensare qualcosa che emergeva e che per esempio il marxismo non captava. Ma col tempo si sono ridotti a chiacchiera. rimasticati sino alla nausea sono diventati la cultura dalla sinistra: unisce TUTTA la sinistra, da quella liberale a quella antagonista a quella complottista e sovranista.
È una rete concettuale rigida, moralistica, che esclude, che traccia i confini tra “i desti e i dormienti”, per chi ricorda ancora un po’ di filosofia antica. Ovviamente il popolo è la massa dei dormienti, dei cerebrolesi, degli amministrati.
Le conseguenze di questa impostazione sono illimitate. Bisognerà sviluppare e decostruire tutta questa articolazione teorica, spezzarne la rigidità. il diamat in confronto era flessibile e articolato, una concezione aperta. La domanda “allora così proponi?” la capisco, ma retorica. Questo è un post non un libro!!!
Si tratta di una cultura fatta di Miti, i miti della sinistra intellettuale. Miti buoni per farci una tesi di laurea, per spararla grossa, per far colpo o fare il ribelle e la rivoluzione in salotto. Ma inutili o dannosi per fare politica, per capire la realtà, per scoprire in essa il possibile, per coglierne il dinamismo. Miti che estraneano dalla vita reale, dalla quotidianità.
Una cultura politica che invece di dare voce al reale vuole imporre la sua, e si arrabbia perché la realtà va da un’altra parte, una cultura che si sente incompresa, troppo alta troppp vera per i dormienti.
Di qui un divorzio tra cultura politica e intellettuali di sinistra e il resto del paese.
Ecco, credo di essermi inimicato tutti. Ma così è chiaro come la penso e faccio sempre a meno di compagni e amici.
Una sola cosa per chiudere: il solito guardiano della legge, ne appare sempre uno ad ogni post, dirà: ecco, allora stai aprendo la strada alla destra, dillo che sei di destra.
Al guardiano della legge rispondo; sto solo cercando di trovare una strada per uscire dal vicolo cieco e dalla morte storica in cui voi e la vostra cultura avete portato il paese.
Perché se siamo dove siamo è perché quella cultura ci ha portati qui. È essa ad essere distruttiva, non chi la critica
Concordo, la parte più vera ed utile dello scritto è quella nella quale Costa ci invita a riconoscere, duramente, che il medesimo è all’opera nella totalità dell’ecomondo connesso con la cultura della sinistra. E quindi, attenzione, anche con chi di sinistra magari non si è mai sentito, ma l’ha assorbita dalle moltissime strade e vicoletti che ha attraversato – i film, la musica, i romanzi, la pubblicità. Soprattutto musica e pubblicità, le cose che meno si vedono come costrutti ideologici e che sono, al contrario, i più forti.
Ovvero che quella nicchia di significati, come dice Costa, è presente ed inaggirata nella sinistra liberale, in quella ‘antagonista’, in quella ‘sovranista’ (anche se si sente di destra, o ‘oltre la destra e la sinistra’) nella radice stessa del ‘complottismo’ (antico fenomeno, praticamente senza tempo, contemporaneamente sentiero di montagna per i dispersi e labirinto del minotauro, ma senza sassolini).
La presenza nei circoli, ancora più elitari, gergali, infarciti di miti che ‘devono’ essere veri, altrimenti si è fuori, si è ‘dormiente’, che abbiamo (ho) frequentato per anni è ciò che mi ha allontanato. O meglio, il motivo (non l’unico, ma quello rilevante) per cui ho lasciato la carovana andare e mi sono seduto sul ciglio del sentiero, su una pietra.
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Bene, Vincenzo Costa accusa il sessantotto, con ottime ragioni, e nomina autori che hanno grandi colpe (soprattutto i contemporanei), perché hanno esasperato alcuni concetti per stare nel loro tempo, autori che voleva finalmente seppellire Marx e il “moderno”, per liberare l’energia del tempo (di anni nei quali, io ricordo perché avevo venti anni quando quello spirito è calato a terra e si è fatto mondo, una sorta di sottile euforia per la tecnica, mista a paura e senso di soffocamento per il ‘vecchio’ che la ingabbiava, pervadeva tutto). La loro filosofia raccoglieva uno ‘scampolo’ e lo faceva tutto, ma era certo una esasperazione. Passati quaranta anni, o cinquanta, è il mito intorno a cui ci si raccoglie, il totem di danza.
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Ma, io temo, è il totem sia della destra, sia della sinistra, sia dei clan ‘oltre la destra e la sinistra’. Almeno ne è la parte essenziale, poi qualche animale scolpito è diverso, qualche colore è diverso, ma la struttura è quella. Temo si debba andare molto in fondo, molto sotto. E’ qualcosa che condivide tutto l’occidente collettivo (come ci chiamano i cinesi).

Frenate gli entusiasmi e i trionfalismi, c’è poco da festeggiare_Di Claudio Martinotti Doria

Scrivo queste brevi note dopo aver letto accurate analisi compiute da esperti indipendenti sull’offensiva ucraina nell’oblast di Kharkiv.

Come sempre quanto scrivo è a scopo divulgativo, i dati indicati non hanno valenza tecnica, sono ponderati in base a quanto letto finora di attendibile, non certo tramite i media mainstream che fanno solo propaganda e tantomeno da fonti ucraine che sono totalmente inattendibili. Anche quelle russe vanno prese con grano salis, anche se occorre riconoscere che generalmente sono improntate a discrezione e riservatezza nel riportare i dati inerenti i colpi inferti al nemico, non vantandosene o gonfiandone l’entità come fanno abitualmente le fonti ucraine, che esagerano in maniera persino patetica e puerile, fino ad inventarsi successi bellici inesistenti.

 

Ci sarebbe da scrivere per ore, ma voglio essere estremamente sintetico, quindi riporto solo l’essenziale.

 

In seguito a quest’offensiva le forze armate ucraine hanno riconquistato circa 2000 kmq di territorio occupato dai russi nell’oblast di Kharkiv (nell’impeto dell’entusiasmo la cifra è già salita in alcune fonti ucraine a 5000 kmq, sapete come vanno queste cose, quando si sniffa troppo per l’entusiasmo!) e si rileva che la Russia ha perso molte attrezzature militari che ha dovuto abbandonare durante la ritirata.

Preciso che si è trattata di ritirata non di disfatta, le parole hanno un peso e devono soprattutto averlo e mantenerlo durante una guerra. Le perdite russe sono state modeste, i comandi militari preferiscono ritirarsi e perdere territori e armamenti piuttosto che vite umane preziose di soldati, a differenza del regime di Kiev che non esita a mandare a morte i propri soldati ANCHE SOLO PER ESIGENZE POLITICHE DI PROPAGANDA, infatti durante l’offensiva le perdite ucraine sono state molto elevate.

A tal proposito è bene precisare che in un paio di settimane di combattimenti, tra la fine di agosto e la prima decade di settembre, durante la fallito offensiva nell’oblast di Cherson, poi trasformata ad arte in “diversivo” dalla propaganda occidentale di cui avremo modo di parlarne in altri articoli, e quella successiva e vittoriosa a Kharkiv l’Ucraina ha perso tra gli 8000 e i 10mila mila soldati, intendo proprio morti, e come minimo il doppio sono rimasti feriti più a meno gravemente (generalmente i feriti dopo una cruenta battaglia sono dal doppio al triplo rispetto ai morti).

Nei sei mesi precedenti i regime di Kiev ne aveva già persi, tra morti feriti e prigionieri, circa 250mila (secondo fonti del Pentagono), su un esercito che stime realistiche compiute da esperti militari valutavano in 600mila (le cifre che sentite di due milioni sono pura propaganda), quindi siamo alla metà circa. 

Qualsiasi paese civile e responsabile con un 50% di perdite si sarebbe già arreso, ma non l’Ucraina, per diversi motivi, il principale è che vive ormai esclusivamente di economia di guerra, finanziata dall’Occidente, USA e UK e UE in primis.

L’Ucraina non è solo sostenuta dalla NATO ma la NATO PARTECIPA IN PRIMA PERSONA ALLA GUERRA, con migliaia di uomini in divisa ucraina e decine di migliaia di attrezzature belliche fornite in continuazione, armi sempre più letali e in gradi colpire a distanza, in genere queste ultime vengono usate contro obiettivi civili e non militari, per terrorizzare e punire, come ritorsione contro la popolazione filorussa, considerata collaborazionista e nemica dai nazisti di Kiev. Ecco perché la popolazione delle aree riconquistate fuggono insieme coi militari russi, per evitare di fare una brutta fine,

Questa è la verità dei fatti, gli ucraini si limitano a fornire carne da cannone. anche se parecchie centinaia di soldati NATO muoiono anch’essi tra le fila dei combattenti, ma in proporzione di 1 a 100 rispetto agli ucraini. Sono gli ucraini che si stanno facendo massacrare, anche quando gridano vittoria, l’hanno pagata a caro prezzo.

Le guerre si devono valutare soprattutto dal punto di vista delle forze in campo e della disponibilità di armi e munizioni e da questo punto di vista la guerra di logoramento che entrambi gli schieramenti volevano attuare, volge indubbiamente a favore della Russia, anche dopo il successo dell’offensiva ucraina a Kharkiv.

La NATO non mollerà mai e proseguirà ad libitum (fino all’ultimo ucraino, non era solo uno slogan), ma come arsenali da mettere in campo è agli sgoccioli, l’UE non supererà l’inverno dovendo gestire molto probabilmente vere e proprie sommosse popolari, perché il malcontento esploderà sia per il freddo che per le bollette esorbitanti da pagare oltre al resto dell’inflazione che colpisce anche generi di prima necessità. I governi europei non reggeranno a lungo, 

Inoltre, com’era prevedibile, la Russia sarà meno moderata nel colpire, non combatterà più in stile cavalleresco con particolare riguardo ai civili, i bombardamenti saranno più intensi e feroci, gli ucraini si devono preparare a un inverno al freddo e senza corrente elettrica, senza mezzi di sussistenza, nella miseria più assoluta, e l’Occidente non potrà aiutarli perché sarà messa male per conto suo. Pare che i russi abbiano già colpito, nelle ore appena precedenti la stesura di questo scritto, diverse centrali elettriche e infrastrutture ucraine e continueranno a farlo fino a ridurre il paese in una totale dipendenza dagli aiuti esterni, peggiorando in tal modo la situazione (già tragica) per tutti paesi complici di Kiev.

Le guerre non si vincono solo con la propaganda o con qualche incursione di successo per rioccupare momentaneamente delle porzioni di territorio per quanto vaste. Queste sono vittorie effimere che servono solo alla propaganda e per motivare gli stolti a combattere e continuare a offrirsi come carne da cannone. Quando i russi inizieranno a fare sul serio, la propaganda potrà solo tacere per lo sgomento o urlare contro i cattivi russi che infieriscono sui poveri ucraini nazisti, parassiti e corrotti che hanno portato la loro nazione alla distruzione totale. Come fecero Hitler e i nazisti con la Germania nella metà degli anni ‘40. 

Nel frattempo un’intera armata russa ha oltrepassato il confine ed è penetrata nel Donbass posizionandosi attorno ai territori riconquistati dagli ucraini. Altri 10mila guerrieri ceceni, guerrieri e non soldati, perché i ceceni è da secoli che sanno combattere come sanno respirare, stanno confluendo nel Donbass. Nel frattempo in Russia sono stati reclutati altri 135mila soldati per rinforzare le forze armate. E non è stata ancora avviata la mobilitazione generale, perché significherebbe passare dallo stato di OPERAZIONE MILITARE SPECIALE allo STATO DI GUERRA TOTALE.

Se non fosse chiaro questo concetto, se questo temuto passaggio avvenisse, significherebbe la completa distruzione dell’UCRAINA e uno scontro diretto con la NATO. Quindi gli sprovveduti che fanno tifo da calcio, tifando per gli ucraini democratici ed eroici, come descritti dai media occidentali, farebbero bene a rinsavire, perché non si sta giocando a Risiko,

i russi fanno sul serio, e se si superano troppe linee rosse poi anche i lobotomizzati e decerebrati che tifano da casa davanti agli schermi televisivi, dovranno fare i conti con le conseguenze vere, reali, di una guerra. E non mi riferisco solo alla chiusura dei rubinetti del gas, al freddo durante l’inverno, ai prezzi alle stelle per l’inflazione, alle bollette stratosferiche per luce e gas, ecc., ma al rischio di sentire vibrare le mura di casa e frantumare i vetri delle finestre per tutti coloro che vivono nei pressi di obiettivi militari e strategici in tutta Europa. Se la cosa vi diverte, proseguite pure col vostro tifo demenziale.

Io sono anziano e dispongo di una formazione storico psicologica e vi assicuro che la situazione è drammatica, soprattutto dopo il trionfalismo ingiustificato montato ad arte dalla propaganda occidentale per questa unica offensiva riuscita in sei mesi di conflitto. Si monteranno la testa e proseguiranno convinti di aver messo in gravi difficoltà la Russia, di essere a un passo dalla vittoria. Del resto coi politicanti che governano l’Europa l’UK e gli USA in questo periodo, dobbiamo aspettarci di tutto, essendo di una supponente e spaventosa ignoranza sfociante in atteggiamenti guerrafondai, tipici di coloro che la guerra l’hanno sempre fatta fare ad altri o non la conoscono minimamente.

Riprendendo la metafora calcistica delle tifoserie, che pare essere appropriata per essere compresa dagli italiani, temo che tra non molto, continuando così, non vi saranno neppure più squadre di calcio per le quali tifare, non ci saranno più gli stadi, non ci sarà la corrente elettrica per far funzionare il televisore per vedere le partite (intendo quelle vecchie registrate), e il rischio è anche che non ci saranno più neppure molti tifosi. Ho reso il quadro della situazione? Dopo di ché se vorrete ancora divertirvi, cercate di fumare roba buona e potente per farvi evadere dalla realtà, perché quest’ultima sarà plumbea oltre ogni più pessimistica immaginazione.

 

 

Cav. Dottor Claudio Martinotti Doria, Via Roma 126, 15039 Ozzano Monferrato (AL), Unione delle Cinque Terre del Monferrato,  Italy,

Email: claudio@gc-colibri.com  – Blog: www.cavalieredimonferrato.it – http://www.casalenews.it/patri-259-montisferrati-storie-aleramiche-e-dintorni

Independent researcher, historiographer, critical analyst, blogger on the web since 1996

VINCOLO ESTERNO E STRABISMO ECONOMICISTA, di Teodoro Klitsche de la Grange

VINCOLO ESTERNO E STRABISMO ECONOMICISTA

  1. Da almeno un trentennio si parla di vincolo esterno, della necessità del medesimo al fine di assicurare comportamenti economicamente virtuosi della classe dirigente, soprattutto di quella politica. Le c.d. “cessioni di sovranità” a istituzioni sovranazionali, soprattutto quelle europee sono state gli strumenti per favorirli.
  2. In effetti a giudicare il tutto dei risultati, quelli seguenti al c.d. “vincolo esterno” (e cioè soprattutto Maastricht e il “seguito”) sono stati tra i peggiori della storia d’Europa e soprattutto italiana. A fronte di una crescita economica nazionale che nei primi trent’anni del dopoguerra fu tra le migliori del pianeta, ridimensionata dopo la crisi petrolifera degli anni ’70, ma comunque rimasta tra le “mediane” della comunità europea, proprio a partire dagli anni ’90, si è ridotta prima, per poi passare da tracolli (nelle crisi del 2008 e del 2020) del PIL ad incrementi millimetrici, spesso spacciati dalla stampa di regime come grandi successi. Ad attribuire l’intera “responsabilità” da questi risultati al vincolo esterno, si può dire soltanto che è stato un pessimo affare. Né si può replicare, che senza il “vincolo esterno” sarebbe andata peggio: come sarebbe andata nessuno lo sa, perché non è accaduto: e quindi paragonare risultati ad ipotesi immaginarie è un altro dei modi per non applicare l’aureo consiglio di Machiavelli nel XV capitolo del “Principe”.

Piuttosto è interessante notare perché il “vincolo esterno” non potesse funzionare – se non in modo limitato e quindi secondario – e pertanto sia stato – in larga parte – un’illusione.

Occorre in primo luogo intendere come è stato definito il “vincolo esterno”, e cioè il condizionamento virtuoso che avrebbe dovuto ridimensionare le pratiche viziose della classe politica nazionale. La quale era considerata poco incline alle politiche (sostanzialmente) liberali, prevalenti nei paesi occidentali e sostanzialmente vincolanti per l’Italia sia a causa della sudditanza agli U.S.A. (compresi gli accordi di Bretton Woods) sia dell’adesione al processo di costruzione europea. Tali condizioni hanno indubbiamente costituito, in misura probabilmente maggioritaria, la ragione dello straordinario sviluppo del dopoguerra. Del pari è noto che i partiti ciellenisti,  tranne PLI o PRI, non avevano una cultura politica prevalentemente liberista. E gran parte del padronato italiano era avvezzo al protezionismo più che alla concorrenza[1].

Negli auspici dei sostenitori il vincolo (o meglio i vincoli) esterno futuro avrebbe dovuto ripetere (o non sfigurare) col “miracolo” passato. Esito non conseguito.

  1. In effetti il ragionamento a fondamento dell’effetto positivo del vincolo esterno si basava su un insieme di circostanze irripetibili (o difficilmente ripetibili); e sulla sottovalutazione e financo l’omissione della considerazione di presupposti e regolarità influenti sul comportamento collettivo ed individuale.

In primo luogo che l’uomo non è solo homo oeconomicus, ma anche zoon politikon: le essenze (à la Freund) “politico” ed “economico” fanno parte della natura e dell’esistenza umana. Ragionare in base ad una escludendo (o sottovalutando) l’altra è il miglior percorso per valutazioni parziali e perciò errate. Ad esempio: alla ricostruzione europea ha contribuito – secondo quasi tutti gli economisti – il piano Marshall. Con questo – a parte gli altri Stati europei – gli U.S.A. vincitori aiutavano due ex-nemici come Germania ed Italia a ricostruire il proprio tessuto economico. Di per se è un comportamento raro: al nemico sconfitto si chiedono tributi, indennizzi, “riparazioni”: lo si sfrutta, lo si impoverisce, non lo si aiuta a crescere. Lo stesso può dirsi degli accordi sul debito tedesco (da Londra nel 1953 ai successivi): l’America condizionò i due ex nemici servendosi più della carota che del bastone (che a Versailles si era dimostrato addirittura controproducente) rafforzato sia dalla competizione con l’URSS che dal possesso di un potere militare irresistibile (quello nucleare- e non solo) che rendeva impossibile ogni forma di revanscismo.

Dall’altro c’era un calcolo economico: aiutando l’Europa disastrata, si aiutava l’economia americana, nei fatti ripresasi completamente dalla crisi del ’29 solo con la guerra mondiale, e che rischiava di ridurre (o invertire) la crescita. Era quindi l’interesse USA a consigliare l’atteggiamento positivo e “morbido”, sia per  ragioni politiche che economiche. E cioè era la costante politica del perseguimento degli interessi dello Stato a far sì che era il vincolo esterno, con i caratteri premianti per chi lo subiva, a determinare l’effetto positivo (perché soddisfacente sia per l’interesse del vincolante che del vincolato). Era la scelta preferibile per governanti capaci e lungimiranti. Ma che succede se il vincolo è “amministrato” da governanti meno capaci, meno lungimiranti (e spesso) più inclini a interessi di “corto respiro”?

Il vincolo è un rapporto che permette a qualcuno di imporre (o condizionare) la decisione dell’altro, ma nulla dice sulla capacità e volontà del vincolante e del vincolato.

Indubbiamente auspicare il vincolo significa, in concreto, che non si giudica preferibile un governo nazionale la cui classe politica è ritenuta inadatta o comunque peggiore. Ma non è detto che la situazione perduri nel tempo e cambiando le circostanze.

Peraltro il vincolo esterno spesso non è riconducibile alla volontà di Stati e governi stranieri, ma a quelli di soggetti neppure pubblici o ad entità come i “mercati”. Gli uni e gli altri aventi in comune di non avere una responsabilità pubblica, in sostanza politica, ed essere di fatto incontrollabili (o troppo – e indirettamente  – controllabili). Quindi crea potestates indirectae (poteri indiretti) il cui connotato decisivo è di esercitare potere senza (chiara ed apparente) responsabilità; e, a differenza di quanto capita nell’occidente liberaldemocratico, di non rispondere al popolo, ossia di non essere democratici.

Gli anatemi antipopulisti delle elites sono in effetti nient’altro che la negazione del potere del popolo di decidere sul proprio destino.

  1. Dal carattere economicista del vincolo esterno deriva anche la difficoltà a comprendere i comportamenti politici, quando questi – come spesso succede – sono determinati da ragioni non economiche (e non soltanto economiche). Ne abbiamo un esempio attuale nella guerra russo-ucraina che, presentata come assurda perché non se ne comprendono le cause economiche (del tutto secondarie), onde Putin doveva per forza essere un visionario o tarato, un matto, mentre non ha fatto altro che ripetere quanto praticato a partire da Pietro il Grande, da gran parte dei governanti russi: creare sbocchi sui mari caldi, il Mar Nero soprattutto. Onde farlo è un “interesse dello Stato”, come sosteneva Meinecke. Rispondente a considerazioni strategiche (in primo luogo) quindi politiche, ma anche culturali e religiose. Per cui non è detto che il vincolante, nell’ “amministrare” il vincolo esterno, non si faccia prendere la mano da considerazioni non solo economiche. Anzi c’è da aspettarsi che lo faccia.
  2. Il vincolo esterno, così come concepito (da tecnocrati, come Carli) ha un carattere essenzialmente tecnico-economico: è buono ciò che è economicamente valido (come il Piano Marshall). Ma non è detto che lo sia sempre. In realtà, come cennato prima, ciò che rese “buono” il piano suddetto era (la felice) la coincidenza/complementarietà degli interessi.

Ma se questi non lo sono il vincolo diventa solo uno strumento per fare prevalere la volontà (e gli interessi) del vincolante sul vincolato.

Peraltro nell’interpretazione “rigorosa” (ma più che altro ragionieristica) che ha avuto negli ultimi vent’anni di politica economica europea, il vincolo si è qualificato più che tecnico-economico, contabile. Non importa tanto che l’economia cresca, ma che i conti siano in ordine.

  1. Quanto poi alla “beatificazione” del vincolo esterno, con il riferimento a quello applicato nel secondo dopoguerra, appare poco credibile che si ripeta quanto allora capitato. Ma soprattutto non si può fare di un’eccezione una regolarità, e neppure indicarla come probabile. Anzi, come sopra scritto, il comportamento dei vincitori dopo la II guerra mondiale è di per se un’eccezione. E le eccezioni, anche se ripetute, non fanno la regola, e neppure rendono probabile l’esito voluto, ma solo possibile.

Quel che invece può accadere ed è in linea con le regolarità e le probabilità della politica è che il vincolante trovi la collaborazione del governo vincolato, vuoi per timore , vuoi per l’interesse dei governanti subordinati.

Governi influenzati, protettorati, colonie, civitates foederatae, governi quisling fanno parte della storia, dato lo squilibrio di potenza tra le sintesi politiche (il Principato di Monaco non ha la potenza della Francia). La Storia e il diritto hanno conosciuto tutto un insieme di rapporti tra sintesi politiche non paritarie, sia che quella disparità trovasse formalizzazione giuridica (come nei protettorati o nelle città legate a Roma con foedera iniqua) o che lo fosse soltanto di fatto.

Ovviamente la forma politica del vincolante, ma soprattutto il vincolato possono aggravare il vincolo esterno; ossia la possibilità che la volontà del vincolante prevalga su quella del vincolato. Un governo debole e instabile, come può capitare (anche) nelle forme politiche moderne, alle Repubbliche parlamentari e/o a larga frammentazione pluralistica può facilitare l’imposizione del vincolo esterno, sfruttando la lotta tra frazioni della classe politica (partiti in primis). Cosa ancora più evidente nelle forme politiche pre-moderne, come il Sacro Romano Impero e il Regno di Polonia. Rousseau scriveva che il liberum veto era causa dell’anarchia e quindi della debolezza polacca, onde per lo più i re di Polonia eletti (nel ‘700) erano “proposti” dalle potenze straniere.

  1. Il vincolo esterno consiste – a concludere – nella speranza che, laddove si ritenga che la classe politica sia inadatta (e spesso lo è), il sistema possa guadagnare da un’influenza straniera.

A patto di sperare anche che questa sia a) animata da buone intenzioni; b) disinteressata; c) e non affetta da manie di dominio. Cioè non agisca politicamente: tutt’e tre le condizioni citate sono in contrasto con altrettante regolarità e presupposti politici: quello della problematicità della natura umana (Machiavelli); dell’interesse degli Stati (Meinecke); della competizione per il dominio (Tucidide).Perché alle buone probabilità di funzionare come auspicato servirebbe un mondo governato da anime, se non proprio belle, almeno corrette e lungimiranti.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Ciò non toglie che seppe utilizzare lo stimolo concorrenziale del MEC, compresa l’abolizione progressiva delle “tariffe“ doganali.

CRISI: IMPOVERIRE I CITTADINI IN NOME DI COSA? LA POLITICA DIA DELLE RISPOSTE, di Marco Giuliani

CRISI: IMPOVERIRE I CITTADINI IN NOME DI COSA? LA POLITICA DIA DELLE RISPOSTE

A rischio centomila imprese e giù i riscaldamenti per tutti. Il disagio sociale provocato dal coinvolgimento dell’Europa nella guerra e dall’aumento del caro-vita, se non seriamente motivato, non è più giustificabile

Le istituzioni politiche non ci hanno comunicato ancora in nome di quale obiettivo la UE stia trascinando la comunità e i suoi cittadini verso una condizione allarmante, sia dal punto di vista logistico che sociale. Sorgono, spontanee, alcune domande, che crediamo siano le stesse che milioni di persone rivolgerebbero ai rispettivi governi. Il motivo delle costrizioni è quello di punire Putin all’eccesso, facendone una questione morale? Oppure è quello di obbedire a nonno Biden, Borrell e Stoltemberg, che continuano a fomentare il riarmo acuendo il muro contro muro con Mosca e arricchendo le multinazionali che producono bombe? O, ancora, dare luogo a un neobipolarismo economico e politico con l’est del pianeta che sembrava superato ed è, come la Nato, vecchio di quasi ottant’anni? Non è chiaro. E mentre in Italia imperversano le elezioni, i contribuenti soffrono e la politica continentale si sta via via spaccando. Qual è il punto? Tentiamo, come è nostra prassi, di dare spiegazioni suffragate da fatti e da dati analitici raccolti in modo concreto.

Come prima riflessione, non si può non fare riferimento ai redditi medio-bassi e ai pensionati. Ergo: che tipo di interesse o giovamento può riscontrare un anziano che riceve seicento o settecento euro di pensione dal momento in cui la coppia Draghi-Di Maio, su input estrinseci, continua a ripetere, come un disco scassato, che è giusto inviare miliardi di armi agli ucraini perché è l’Occidente che lo chiede? Se la sua bolletta elettrica quadruplica, è più lecito pensare che la prenda bene poiché è un sacrificio chiesto da Washington e da Bruxelles oppure è più razionale presumere che rimanga scioccato dagli aumenti fregandosene del fatto che il signor Zelensky batta cassa un giorno sì e l’altro pure per soldi e missili? L’operaio con busta paga di 1300-1400 euro mensili, rispetto al vertiginoso aumento del caro-vita, si sente più tranquillo o più incavolato se gli si dice che il suo sacrificio si compie per indebolire Putin e per procrastinare la guerra a data da destinarsi? Propendiamo per la seconda ipotesi, e chiunque sostenga il contrario è in malafede o è da legare. Nel frattempo, all’insegna del regit et tuetur in nome della Nato, per l’anno 2022 l’Italia ha stanziato in armi qualcosa come 26 miliardi di euro (+ 5, 4 % rispetto al 2021).

Andiamo avanti. Migliaia di imprese, dopo aver sopportato due anni e mezzo di pandemia, rischiano di chiudere a causa del triplice, quadruplice e anche quintuplice aumento dei carburanti e dell’energia; qui da noi, Palazzo Chigi si giustifica sostenendo che “è priorità essenziale sostenere Kiev con sanzioni a Mosca, con l’acquisto di bombe e con la spedizione di denaro sonante al governo ucraino”. Non può più bastare, non è credibile, così come non è più ammissibile tollerare questa bassa tutela verso il fabbisogno nazionale. Non sono questi gli interessi dell’Italia, così come quelli di Germania o Spagna. Il lato peggiore dell’intera vicenda è tuttavia la penuria di volontà – da parte della comunità europea, lo ripetiamo – di ricercare una soluzione della crisi, promuovere proposte di compromessi che inevitabilmente porterebbero le parti a concedere qualcosa in modo reciproco. Chi rappresenta oggi le istituzioni, sta mascherando la corsa al riarmo con iniziative sconsiderate che tende invece a definire prioritarie ed essenziali. Allora ci pensa l’informazione, ovviamente quella indipendente, a tentare di fare luce su politiche opacissime e spesso sponsorizzate dai media mainstream senza uno straccio di autocritica o contraddittorio. Mentire all’opinione pubblica circa la convenienza di acquistare materie prime dall’Angola, dall’Algeria, dal Congo e dal Qatar (che non rappresentano certo delle democrazie illuminate), magari tacciandole come “misure urgenti”, significa tradire la fiducia dei cittadini perché il prezzo dei carburanti russi è tra i più bassi su scala mondiale. Ricorrere alle centrali a carbone (in piena era di transizione ecologica), come un secolo fa, senza riportare in modo doveroso e onesto che le stesse rappresentano una delle maggiori fonti d’inquinamento dell’intero sistema energetico, significa essere ipocriti con gli elettori a cui fu garantito un maggiore uso delle rinnovabili ai fini della salvaguardia della salute del pianeta.

La sensazione è, ma ci aggiorneremo al 26 settembre, che in Italia le elezioni cambieranno ben poco. È un sospetto che ha la sua variabile indipendente nella fila dei partiti che si è creata, come dietro a uno sportello postale, per fare a gara tra chi sarà il più gradito alla Casa Bianca e a Bruxelles. Qualunque schieramento vinca le elezioni, dovrà, per forza di cose, dichiarare la sua fedeltà a un euroatlantismo che ha fatto dello scontro frontale e della corsa al riarmo i suoi cavalli di battaglia. Ma c’è una contraddizione: poiché gli interessi geopolitici non combaciano, o si è europeisti o si è atlantisti. Lo dice la storia.

 MG

 

 

 

BIBLIOGRAFIA & SITOGRAFIA

 

Osservatorio Milex sul bilancio previsionale dello Stato per l’anno 2022, dati raccolti il 10 gennaio 2022, fonte Ministero della Difesa italiano –

Science of the Total Enviroment, rivista di scienze, 1° dicembre 2019, numero 694 –

www.ipsoa.it, pagina del 19 marzo 2022 consultata il 07/09/2022 –

www.ilsole24ore.com, pagina del 22 agosto 2022 consultata il 7 settembre 2022 –

www.micromega.net, pagina dell’8 settembre 2022 consultata l’8 settembre 2022 –

 

 

 

 

 

LO STATO DELLE COSE DELLA GEOPOLITICA, di Massimo Morigi _ 11a di 11 parti

AVVERTENZA

La seguente è la undicesima di undici parti di un saggio di Massimo Morigi. Nella prima parte è pubblicata in calce l’introduzione e nel file allegato il testo di Morigi; nella sua undicesima parte è disponibile la prosecuzione a partire da pagina 130. L’introduzione è identica per ognuna delle undici parti e verrà ripetuta solo nelle prime righe a partire dalla seconda parte.

PRESENTAZIONE DI QUARANTA, TRENTA, VENT’ANNI DOPO A LE
RELAZIONI FRA L’ITALIA E IL PORTOGALLO DURANTE IL PERIODO
FASCISTA: NASCITA ESTETICO-EMOTIVA DEL PARADIGMA
OLISTICO-DIALETTICO-ESPRESSIVO-STRATEGICO-CONFLITTUALE DEL
REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO ORIGINANDO DALL’ ETEROTOPIA
POETICA, CULTURALE E POLITICA DEL PORTOGALLO*

*Le relazioni fra l’Italia e il Portogallo durante il periodo fascista ora presentate sono
pubblicate dall’ “Italia e il Mondo” in undici puntate. La puntata che ora viene
pubblicata è la prima e segue immediatamente questa presentazione, e questa prima
puntata (come tutte le altre che seguiranno) è preceduta dall’introduzione alla stessa di
Giuseppe Germinario. Pubblicando l’introduzione originale delle Relazioni fra l’Italia
e il Portogallo durante il periodo fascista come prima puntata e che, come da indice,
non è numerata, la numerazione delle puntate alla fine di questa presentazione non
segue la numerazione ordinale originale in indice delle parti del saggio, che è stata
quindi mantenuta immutata, quando questa presente.

UNDICESIMA PUNTATA STATO DELLE COSE

QUATTRO REGOLE PER VOTARE, di Teodoro Klitsche de la Grange

QUATTRO REGOLE PER VOTARE

Imperversano campagna e programmi elettorali. In particolare a sinistra, oltre alla consueta demonizzazione del nemico, titolo che attualmente compete alla Meloni, e alla ripetizione ossessiva del solito armamentario propagandistico, vi si leggono tanti buoni propositi, che comunque non mancano negli altri. Tutti i programmi essendo ricolmi di buone intenzioni diventano perciò altamente condivisibili. Che è poi la loro funzione: acchiappare voti il 25 settembre. Per meglio valutarli (e votare) ricordiamo all’uopo qualche regola realistica.

Prima di tutto, giudicare sulla base di quanto partiti e candidati hanno fatto (in passato) e non a quanto dicono di voler realizzare in futuro. Fare è spesso ostico e complicato, promettere facile. Già lo sapeva Dante il quale mette in bocca a Guido da Montefeltro come si fa: “lunga promessa con l’attender corto ti farà trionfar ne l’alto seggio”, Seggio cui i candidati aspirano (che non è quello papale, ma comunque appetito ed appetibile).

Ad esempio ad urne aperte (o quasi) i partiti, soprattutto di centro-sinistra (e sindacati) hanno scoperto… l’acqua calda. E cioè che da circa trent’anni le retribuzioni italiane calano, di guisa da aver perso diversi punti percentuali. C’è da chiedersi perché l’abbiano scoperto solo in apertura (o in prossimità) di campagna elettorale, dopo circa trent’anni di stasi retributiva: chiunque, anche un diversamente intelligente, se ne sarebbe accorto prima. Oltretutto se ciò non sia per caso in relazione col nostro PIL da un trentennio stazionario (e altro). Ma soprattutto cosa abbiano fatto in questo periodo i governanti  – avendo il centro sinistra governato o fiduciato esecutivi amici per circa vent’anni – per invertire la tendenza. A poco serve “rimediare” ora, se non a far passerella per le elezioni, dopo un’inerzia durata un trentennio (o poco meno).

A dipingere rosei futuri, a rivelare di avere le chiavi del paradiso è capace qualsiasi Dulcamara, magari supportato da tecnici, la cui “tecnicità” è convalidata dal superamento di dubbi concorsi. Giudicare dalle opere è la conseguenza del consiglio di Machiavelli di agire e progettare in base ai fatti e non all’immaginazione; ai risultati e non alle intenzioni. Consiglio fondante non solo della scienza politica moderna, ma ancor più della prudenza politica pratica.

Secondariamente e quale diretta conseguenza: che credibilità ha chi consiglia o propone bene, dopo aver operato male? Poco o nulla, così da incidere sul quantum minimo di autorità che la classe dirigente (uomo, ceto, partito) necessariamente deve avere sui governati.

Dopo trent’anni (o quasi) di stasi italiana, con la crescita del PIL peggiore sia nell’ambito UE che dell’area euro (e salvo altro) pensare che partiti e coalizioni i quali hanno diretto l’Italia – peraltro spesso senza aver ottenuto la maggioranza alle elezioni, anzi malgrado le sconfitte elettorali – abbiano la credibilità e l’autorità minima per governare è un atto di fede. Ancor di più è confidare che gli italiani siano tutti diversamente intelligenti. A proposito occorre ricordare che se il pregio dell’autorità è ottenere l’obbedienza dei sudditii anche per misure e necessità estreme (ricordate il “lacrime e sangue” di Churchill?)  l’inverso comporta che a un governo privo o carente di autorità (e credibilità) finiscono per essere rifiutati dai governati anche provvedimenti condivisibili presi in situazioni meno drammatiche (v. Covid).

In terzo luogo occorre ricordare che la politica è attività che ha più a che fare con l’utilità che con la bontà. I popoli (come gli individui) sono più propensi a essere governati da chi assicura il benessere generale che da coloro che propongono obiettivi eticamente condivisi. Chi governa non è un sant’uomo (e può non esserlo). In fondo la definizione più moderna di bene comune è di Bentham: il più alto grado di felicità per il maggior numero possibile di persone. Ma ci sono programmi di partiti più orientati a soddisfare (direttamente ed esplicitamente, ma per lo più indirettamente) delle minoranze – talvolta di scarsa rilevanza numerica, in nome di bontà, solidarietà, ecc. ecc. – che perseguire l’utilità di tutti. La cattivissima Meloni che indica come proprio obiettivo di perseguire l’interesse generale degli italiani, non fa – mutatis mutandis – che affermare l’inverso. Ciò è poi il compito che la dottrina politica moderna (realistica soprattutto) assegna ai “buoni” governanti.

Non vi lamentate quindi se dopo le elezioni scoprite che il governo ha ridotto il PIL ma, in ossequio alle promesse fatte, ha favorito l’eutanasia e i matrimoni omosessuali, il reddito di cittadinanza ai migranti da poco sbarcati, ecc. ecc. Tutte promesse fatte e che, se consentite nelle urne, andavano soddisfatte. Gli è che la politica è, come riteneva Croce, pertinente alla categoria (distinto) dell’utile, più che al “bene”. Così che la concreta esistenza viene prima dell’essere morale: “prima vivere e poi filosofare, prima essere e poi essere morale”.

Il quarto consiglio (dei più che occorrerebbero) è non far caso alle demonizzazioni dell’avversario; ancor più laddove gli anatemi hanno ad oggetto vizi e mancanze private e non pubbliche. In generale è “naturale” che l’avversario politico sia dipinto male, con improperi, sfondoni, calunnie, esorcismi, ecc. ecc. Aristofane ne dà un esilarante rappresentazione (venticinque secoli fa) nello scontro oratorio tra conciapelli e salsicciaio nei “Cavalieri”. E la sostanza è ancora la stessa. Quando oggetto di tanto fervore accusatorio sono le tendenze sessuali o comunque private dell’avversario, come per lo più è, allora diventa poco o punto rilevante. Perché il fatto che il nemico sia un omosessuale o un donnaiolo riguarda fatti suoi privati e non pubblici. Rassicuratevi quindi: se si fa ricorso a tali argomenti vuol dire che non ne trovano altri; è un motivo per votare il “nemico” e non per non farlo. Cesare era sia donnaiolo (v. Cleopatra) che omosessuale (il Re di Bitinia): ciò non toglie che da millenni il suo nome designa, in tante lingue, la massima autorità. Segno che nessuno ha mai dato peso ai suoi “vizi” privati.

Teodoro Klitsche de la Grange

NEL MONDO DEI CECHI BEATO CHI HA UN OCCHIO, di Pierluigi Fagan

NEL MONDO DEI CECHI BEATO CHI HA UN OCCHIO. Giunge notizia della prima manifestazione europea contro l’atteggiamento di un governo, ergo dell’Unione europea, verso il conflitto ucraino. A Praga erano 70.000 secondo la polizia, stante che in Repubblica Ceca sono 10 milioni, un sesto di noi. I temi erano il costo dell’energia, l’inazione del Governo verso l’inflazione e l’imminente disastro economico, neutralità nel conflitto e contratti sul gas diretti con la Russia.
L’informazione attribuisce la piazza all’estrema destra e comunisti, forze non parlamentari (cioè neanche l’opposizione parlamentare che pure c’è), in Cechia il governo è di centro-destra. La Repubblica Ceca ha la presidenza di turno dell’’UE. Da notare che una parte di questi contenuti si stanno manifestando già, ma gli stessi manifestanti davano segno di disagio soprattutto per l’aspettato autunno-inverno. Sono rare le manifestazioni preventive e se a Praga vanno in piazza ai primi di settembre, chissà cosa faranno la fine di dicembre o gennaio, li butteranno giù dalle finestre?
Analisti e commentatori, temono in prospettiva reazioni forti anche in UK e Francia. Domani in UK, dovrebbe esser eletta Liz Truss come nuovo primo ministro nelle primarie interne al partito conservatore. La Truss è una ex liberale ed è ultraliberista, quindi pensa di affrontare la situazione, che in Britannia è non poco critica dal punto di vista economico-sociale, con taglio delle tasse e corollario tipico di quella ideologia. Va però detto che: a) i conservatori in generale oggi risulterebbero perdenti in una eventuale elezione secondo i sondaggi: b) la posizione di Truss non è solidamente maggioritaria nel partito. La sua eventuale elezione risulterebbe dalla convergenza di casualità, dall’inciampo di Boris Johnson al fatto che l’avversario di Truss convince anche meno di lei per varie ragioni (tra l’altro è di origine indiana) oltre all’indubbia abilità adattativa anche in termini di metalinguaggi della Truss. A dire che la “nuova Thatcher” non ha dietro il momento storico della vera Thatcher.
Macron, dopo aver annunciato la fine dell’”era dell’abbondanza”, pare abbia fatto lunghe riunioni con il Consiglio di Sicurezza anche per prevedere le misure di emergenza per le questioni energetiche incluso, forse, l’utilizzo delle scorte strategiche nell’eventualità più grave. Macron non ha maggioranza parlamentare e sappiamo quanto i transalpini siano indocili nei momenti di crisi acuta.
Dell’Italia sappiamo e sappiamo in anticipo che difficile sarà per la Meloni tenere unita una coalizione che quanto a Lega, ma anche Forza Italia, non sopporteranno in silenzio la tortura economica (in particolare della loro base elettorale) del fatidico “combinato disposto” che si abbatterà sulla nostra struttura economico-sociale. Poi si potrebbe parlare di Germania ed Olanda ma il post aveva un altro intento.
Il post voleva invitare a riflettere su un fatto. Era noto a tutti che: a) gli “europei” intesi qui come totale indifferenziato delle popolazioni, si sarebbero trovati nella famose “condizioni storiche che non avete mai provato” come aveva minacciato Putin nel suo discorso della sera prima del 24 febbraio; b) le condizioni storiche sarebbero state un collasso di inflazione (dovuto anche a dinamiche pre-guerra ma che la guerra e la nostra reazione politico-economica certo non migliorava), più severi problemi energetici, più altri problemi indotti da volatilità di molte materie prime proprie di russi e di ucraini, in un più generale “momento” geoeconomico complicato e turbolento. Ovvero impatto diretto su attività produttive (dall’industria al semplice commercio) e vita di tutti i giorni (riscaldamento ed energia elettrica). Cosa ha fatto pensare ai decisori politici e geopolitici che tutto ciò si sarebbe potuto gestire come hanno deciso e stanno decidendo di gestirlo?
Solo per amor di storia del pensiero, Alexis de Tocqueville, pensava che le “rivoluzioni” potessero scoppiare non quando le cose andavano male, ma quando cominciavano ad andare drasticamente peggio in poco tempo. Non importava il livello delle condizioni originarie, era il brusco scalino il problema.
I “decisori” davvero si sono convinti che sarebbe bastato un bombardamento ideologico in favore della resistenza all’aggressione russa, la difesa dei nostri “valori”, la solidarietà con il prima ignoto e se noto neanche così ben considerato “popolo ucraino”, per motivare la sopportazione della crisi indotta? Mi rivolgo anche a coloro che leggendo questo post, sono in effetti convinti che tutto ciò non solo sia “giusto” ma possa davvero funzionare. Li invito a non concentrarsi sul fatto che sia giusto o meno pensando qui si sostenga che non è giusto, non è questo il problema. Il problema che volevo porre era: davvero qualcuno pensava e pensa che tutto ciò potesse funzionare? Ovvero sopportare sulla propria pelle i costi di questa guerra stante che proveniamo da sette decenni senza concetto diretto di guerra, questa guerra è sì vicina ma in fondo anche lontana, non sempre sono chiari i suoi contorni al di là delle semplificazioni somministrate a forza in questi sei mesi, tra lunga crisi del secondo decennio del secondo millennio, Covid shock, congiuntura globale assai impegnativa e stati d’anima perturbati per varie ragioni, alte e basse, la “gente” è sfiduciata, stanca, smarrita e spesso in condizioni concrete problematiche e senso delle prospettive future anche peggio?
Qui si aprono due possibilità. Sì, c’era qualcuno che era ed è davvero convinto che tutto ciò potesse e possa funzionare, resisteremo, la società non si strapperà tragicamente ed alla lunga vinceremo la sfida. “Alla lunga” poi è concetto forse poco chiaro. Roubini, ad esempio, parla di un prossimo “decennio perduto” in Europa come di cosa certa ed incontrovertibile dati i numeri ed il buonsenso e non mi è chiaro su cosa si possa fondare una previsione contraria. Quindi per tornare alla teoria della tenuta sociale di Tocqueville, non solo un vistoso gradino da scendere in breve tempo, ma una scala di vistosi gradini a scendere per un tempo lungo. Come diagnosticare questa fiducia? Ignoranza? Lontananza dalla vita reale della gente normale, condizione ignota alle varie élite di governo, decisionali e della informazione? Cecità dell’interesse personale che ignora ciò che ha determinato il proprio fortunato status sociale? Mancanza di minima conoscenza della Storia?
No, in fondo non ci credeva davvero nessuno e tuttavia non si è potuto fare diversamente. Cosa s’intende allora per “non si poteva fare diversamente”? Non eravamo in grado o non c’era proprio una alternativa possibilità anche solo teorica? Mi rifiuto di pensare alla mancanza di alternative per quanto difficili da perseguire, la politica è l’arta del possibile, non è deterministica e francamente non vedo nulla di solidamente inevitabile in questa vicenda. Né per il come la nostra insipienza geopolitica ha permesso che per otto lunghi anni la faccenda ucraina degenerasse progressivamente, né nel come una volta accaduto lo scandaloso fatto del 24 febbraio l’abbiamo gestita e l’abbiamo comunicata. Rimane allora il “non eravamo in grado”. Perché? Incapacità? Ricatti a livello dei grandi giochi geopolitici? Siamo arrivati al nodo in cui si condensano decenni di nostri errori strategici in ambito politico, unionista, economico, di stile di vita, culturale, di incoscienza storica del grave momento cui andavamo incontro al di là del precipizio poi presentatoci da Putin?
E su tutto ciò, che riflessione possiamo fare? Se fossimo tedeschi della Repubblica di Weimar, se fossimo nel prima che porta ad Hitler, ci consolerebbe sapere che le nostre élite stanno fallendo l’adattamento storico portandoci a correre rischi di gravità assoluta i cui prezzi toccheranno le nostre vite in modi insopportabili? E quali le nostre responsabilità a parte quelle delle élite che poi sono lì perché così abbiamo acconsentito fosse.
Insomma, il post invitava a fare una riflessione sul presente che ha in vista un futuro. In tempi ciechi e di pazzi che guidano ciechi, beato chi ha un occhio. L’occhio serve e vedere, vedere viene dal greco antico οἶδα, dal latino video, dal sanscrito veda, dall’avestico vaēdha e tutti significavano “il sapere”, la conoscenza, la saggezza”. Tutte cose selezionate dal nostro lungo processo evolutivo per farci essere ciò che siamo. Vedere bene è vivere meglio e più a lungo. Abbiamo bisogno di una rivoluzione ottica?

Roberto Buffagni

Bella analisi che condivido. Mia opinione sul perché di questa cazzata epocale dei governanti europei (per gli americani il discorso è diverso). Secondo il mio avviso, all’origine sta una cosa semplice, situata anzitutto dentro le teste dei dirigenti europei. Ossia, la cristallizzazione pluridecennale di una lunga serie di presupposti: superiorità assoluta degli americani, economicismo terminale, fiducia assoluta nei numeretti della Bocconi e nelle gabole amministrative della UE, politically correct con il corollario del giudizio moralistico applicato ai fatti politici, più incompetenza e ignoranza pittoresche di tutto ciò che è guerra, arte militare, etc. (v. ” ci pensano gli americani”). Questo compost di presupposti circoscrive il perimetro dell’ufficialità, e chi si trova nell’ufficialità e vuole restarci sperimenta una forte resistenza anzitutto interiore a uscirne, perché uscendone rischia reputazione e status. Quindi ignora o svaluta o attacca tutte le idee, atteggiamenti, proposte che non vengano dall’ufficialità, anche se non originano da marginali o estremisti. Un indizio che in questa opinione c’è almeno un po’ di verità è la reazione IMMEDIATA all’invasione russa dell’Ucraina, questi hanno IMMEDIATAMENTE votato sanzioni suicide senza discuterne neanche cinque minuti. Non credo neanche a pressioni terrificanti degli americani, è chiaro che dire di no o anche ni avrebbe avuto gravi costi politici, ma non credo proprio che gli americani abbiano fatto arrivare pizzini tipo “Ti stermino la famiglia”. Non ce n’era alcun bisogno: è questo il dramma, anzi la tragicommedia.

Pierluigi Fagan

Roberto Buffagni Sì concordo. Un fallimento adattivo storico è sempre un fallimento combinato di uomini e mentalità che li guidano, nonché distanza e mancanza di contrasto e controllo tra popolo ed élite. Anche se, qualcosina dietro le quinte non la escludo. A quei livelli è incenerire la carriera politica più che lo sterminio famigliare la leva. Ci ricordiamo dell’affaire del cellulare della Merkel ed abbiamo saputo che il presidente americano ha rapporti riservati anche su i comportamenti sessuali degli altri presidenti. Se ci aggiungi cose tipo Panama papers ovvero la correttezza fiscale o qualsiasi altra inezia che però tocca la “credibilità, onestà, mancanza di conflitti di interessi, tracce scabrose del passato (vedi Corbyn impiccato per il suo presunto anti-semitisimo)” sappiano bene che tali cose esistono. Certo però non possono spiegare tutto.

La via della crescita americana, di Jeff Ferry

La via della crescita americana, parte I

Negli anni ’20, un sondaggio dell’opinione pubblica chiedeva agli americani chi fossero i più grandi uomini che fossero mai vissuti. I risultati furono, nell’ordine: Gesù Cristo, Napoleone Bonaparte, Henry Ford.

l XX secolo è stato il secolo americano. Nel corso di ciò, gli Stati Uniti sono diventati la nazione più ricca del mondo con il lavoratore medio più ricco del mondo. Ma è una questione aperta se gli Stati Uniti possano continuare il loro fantastico successo economico nel 21° secolo. La crescita della produttività è stata anemica dal 2000, la disuguaglianza è cresciuta e la polarizzazione ha reso il sistema politico più disfunzionale che mai a memoria d’uomo.

La performance economica è alla base di molti cambiamenti sociali e politici. Una migliore comprensione di ciò che ha guidato i superlativi tassi di crescita economica americana del 19° e 20° secolo può aiutarci ad apprezzare come recuperare quel record di crescita perso. Questi saggi si concentrano sui due driver di crescita più importanti nella storia degli Stati Uniti: l’attenzione al mercato interno e la scelta dei settori di crescita giusti.

Agli albori della Repubblica, il governo federale perseguì un approccio di libero scambio al commercio internazionale, influenzato da The Wealth of Nations di Adam Smith e dai fisiocratici francesi. Il “Report on Manufactures” di Alexander Hamilton del 1791 esortava il governo federale a sponsorizzare nuove imprese industriali per la produzione di ferro, ottone, polvere da sparo e tessuti. Nelle parole di Hamilton: “L’impresa umana dovrebbe essere lasciata sostanzialmente libera… ma i politici pratici sanno che può essere stimolata in modo vantaggioso da aiuti e incoraggiamenti prudenti da parte del governo”.

Ci sono volute le azioni della Gran Bretagna per trasformare il governo federale in protezionismo. Durante le guerre napoleoniche, Gran Bretagna e Francia molestarono entrambe le navi americane, ma le azioni britanniche furono più oltraggiose e più offensive per il senso di indipendenza della giovane Repubblica. Fino ad allora, il presidente Thomas Jefferson, il principale intellettuale e francofilo della nazione, si era opposto con veemenza alla produzione e aveva favorito il libero scambio. Ma nel 1807 chiese al Congresso di emanare un embargo sul commercio con Gran Bretagna e Francia. I successivi atti del Congresso e la guerra del 1812 soppressero la stragrande maggioranza del commercio internazionale degli Stati Uniti.

Il risultato è stato un boom immediato della produzione statunitense. Secondo l’economista Frank Taussig, nel 1803 c’erano solo quattro fabbriche di cotone negli Stati Uniti, che operavano forse 2.000 fusi. Nel 1815 c’erano centinaia di fabbriche che operavano 500.000 mandrini. Lo stesso valeva per altre importanti industrie iniziali. “Stabilimenti per la produzione di articoli in cotone, tessuti di lana, ferro, vetro, ceramica e altri articoli sono nati con una crescita di funghi”, ha scritto Taussig.

Nel 1815 finirono le guerre napoleoniche e le merci in tempo di pace inondarono i mercati americani ed europei, causando depressione ovunque. Il presidente James Madison ha risposto con la tariffa del 1816, che ha dato una spinta alle industrie chiave tra cui cotone, lana e ferro. Ancora una volta, gli inglesi hanno contribuito a cementare la preferenza degli americani per la protezione, insieme al disprezzo per la madrepatria. Il membro del parlamento britannico Lord Brougham ha fornito un argomento sorprendentemente chiaro affinché l’America utilizzi il supporto protettivo per le industrie nascenti quando ha detto al Parlamento: “È valsa la pena subire una perdita alla prima esportazione per, per l’eccesso, soffocare nella culla quelle manifatture emergenti negli Stati Uniti che la guerra aveva costretto a esistere contrariamente allo stato naturale delle cose. Lord Brougham stava sostenendo il deliberato dumping britannico per distruggere le giovani industrie americane. Due secoli dopo, la Cina avrebbe implementato tattiche simili per cercare di distruggere le vecchie industrie americane.

Dal 1816 al 1930, gli Stati Uniti hanno continuato a utilizzare le tariffe, con aliquote comprese tra il 20% e il 100% per proteggere le industrie manifatturiere domestiche dalle importazioni. La combinazione di un grande mercato interno vincolato e di una cultura imprenditoriale ha reso gli Stati Uniti l’eccezionale storia di successo economico mondiale. Nel ferro e nell’acciaio, ogni grande innovazione tecnica tra il 1750 e il 1850 si è verificata in Gran Bretagna. Eppure l’industria siderurgica statunitense crebbe rapidamente, specialmente dopo la guerra civile, quando il Congresso emanò dazi sulla ghisa e poi tariffe del 28 per cento sui binari d’acciaio nel 1870, e presto superò l’industria britannica in termini di scala e sofisticatezza tecnica.

La ferrovia e le sue industrie collegate – acciaio, vagoni ferroviari, miniere di carbone e ferro e altre – alimentarono la prima rivoluzione industriale americana, sollevando milioni di americani dalla povertà. Andrew Carnegie, un immigrato scozzese, fondò la Carnegie Steel Company nel 1872. Nei due decenni successivi, Carnegie costruì l’azienda siderurgica più grande, di maggior successo e redditizia del mondo. Nella sua autobiografia, Carnegie ha collegato l’ascesa dell’industria siderurgica statunitense direttamente alle decisioni di imporre tariffe protettive:

La guerra civile aveva portato a una ferma determinazione da parte del popolo americano di costruire una nazione al suo interno, indipendente dall’Europa in tutte le cose essenziali per la sua sicurezza… La protezione ha svolto un ruolo importante nello sviluppo della produzione negli Stati Uniti … Il capitale non ha più esitato a intraprendere la produzione, fiducioso com’era che la nazione l’avrebbe protetta per tutto il tempo necessario.

4H: alta crescita, alto profitto, alta produttività, alto salario

in dall’epoca coloniale, l’America era stata un paese di terra abbondante, manodopera relativamente scarsa e salari alti rispetto all’Europa. In tutti questi settori la storia era la stessa: la rapida crescita industriale e l’alto profitto creavano una domanda di lavoratori. L’unico modo in cui gli imprenditori potevano soddisfare quella domanda era aumentare i salari. Di conseguenza, le industrie in crescita hanno guidato il movimento al rialzo dei redditi per il lavoratore americano medio. Quando i lavoratori sono stati portati nelle aree siderurgiche, ad esempio, la carenza in altre regioni e industrie ha fatto aumentare i salari.

Forse il miglior esempio di ciò fu la decisione di George Pullman nel 1868 di assumere afroamericani come facchini di vagoni letto. Pullman aveva scarso interesse per le questioni razziali o politiche. Era semplicemente spinto dall’enorme opportunità di costruire vagoni letto e venderli alle ferrovie. Aveva bisogno di uomini come facchini e gli schiavi liberati erano una forza lavoro pronta. Mezzo secolo dopo, il ruolo del portiere di vagone letto venne visto dagli afroamericani come la strada principale verso la classe media.

Dagli anni ’70 dell’Ottocento, i sindacati si organizzarono rapidamente in queste industrie in crescita. Una volta che i lavoratori avevano un buon salario da proteggere, hanno sviluppato la determinazione a proteggerli attraverso la sindacalizzazione. Imprenditori spietati come Carnegie e Pullman hanno lavorato con i sindacati, ma non hanno esitato a ridurre i salari quando i prezzi e i profitti sono diminuiti, portando a scioperi sanguinosi. Tra i membri dei sindacati e in particolare i loro leader, la narrativa popolare era che questi capi erano oppressori del lavoro crudeli e avidi. Ma sapevano anche che queste industrie restavano la migliore opportunità per i lavoratori americani. L’elevata crescita in settori come l’acciaio ha portato a profitti elevati, che hanno consentito investimenti, che a loro volta hanno consentito un’elevata produttività, che ha portato a salari elevati.

Queste sono le quattro H del successo industriale: ogni nazione che vuole portare prosperità alla sua popolazione attiva ha bisogno di industrie ad alta crescita, ad alto profitto, ad alta produttività e ad alto salario. In testimonianza alla US International Trade Commission a luglio, ho mostrato come le nuove acciaierie costruite nel cuore degli americani dal 2018 fornissero da due a tre volte la paga delle attività tradizionali situate in quella zona. L’anno scorso, le principali aziende siderurgiche americane hanno pagato un reddito medio annuo alla loro intera forza lavoro di $ 117.200, quattro volte quello che il più grande datore di lavoro privato americano, Walmart, paga i dipendenti e il doppio di quello che guadagna il lavoratore americano medio. Nei due produttori di acciaio tecnologicamente più avanzati, Nucor e Steel Dynamics, la partecipazione agli utili e i bonus costituiscono una parte importante di quella retribuzione.

Con la seconda rivoluzione industriale americana, quella dell’automobile e dell’elettrificazione domestica, la trasformazione della vita dell’americano medio ha superato persino la rivoluzione dei binari e dell’acciaio del 19° secolo. Lo sviluppo da parte di Henry Ford del Modello T e del sistema di produzione di massa utilizzato per produrlo è stato lo sviluppo singolo più importante nella creazione di una società della classe media nella storia americana, e forse mondiale. Tra il 1910 e il 1923, Ford ridusse il prezzo del Modello T da $ 950 a $ 269. A quest’ultimo prezzo, acquistarne uno costava circa la metà del reddito annuo di un lavoratore e i piani di credito ampiamente disponibili lo rendevano ancora più conveniente. “Nel 1930 c’erano quasi tanti veicoli a motore quante famiglie negli Stati Uniti e un sorprendente 78% delle automobili del mondo era immatricolato negli Stati Uniti”, scrive l’economista Robert Gordon. In data odierna,

Il 5 gennaio 1914, lottando per trovare lavoratori per soddisfare la domanda per le sue Model T, Henry Ford annunciò che stava raddoppiando il salario di tutti i lavoratori delle fabbriche Ford, da $ 2,50 al giorno a $ 5 al giorno. L’America era sbalordita. Per giorni dopo, la stazione ferroviaria di Detroit fu nel caos, con uomini che arrivavano da tutto il paese in cerca di indicazioni per il quartier generale della Ford. Articoli di giornale sulle politiche occupazionali Ford hanno inoltre rivelato che l’azienda ha impiegato un team di dieci medici e 100 infermieri per mantenere i dipendenti in salute, nonché personale legale per aiutare i lavoratori a comprare case e personale linguistico per aiutare i dipendenti immigrati a imparare l’inglese. Henry Ford divenne la prima grande casa automobilistica ad assumere afroamericani in lavori di routine in fabbrica invece di lavori umili, quando nel 1914 portò un ex muratore, William Perry, negli stabilimenti Ford.

Perry aveva lavorato con Ford nel 1888, abbattendo alberi nella fattoria di Ford. Nel 1914, Perry sviluppò un problema cardiaco e non riuscì più a posare mattoni. Ha chiesto aiuto a Ford. Ford gli diede un lavoro e diede al caposquadra di Perry un semplice ordine: “Fai in modo che si senta a suo agio”. Perry ha lavorato per Ford fino alla sua morte all’età di 87 anni nel 1940. Quando morì, Ford andò a casa della sua vedova per rendergli omaggio. Ecco l’uomo più ricco d’America, una celebrità internazionale, che si recava in un quartiere afroamericano di Detroit nel 1940 per rendere omaggio a un’anziana vedova nera. Nel 1926 c’erano 10.000 afroamericani impiegati presso la Ford Motor Company.

La Muckraker Ida Tarbell è venuta al quartier generale della Ford a Dearborn per scrivere una denuncia sull’opprimente sistema Ford. Ha finito per elogiarlo: “Non mi interessa come lo chiami: filantropia, paternalismo, autocrazia, i risultati che si ottengono valgono tutto ciò che puoi opporgli”. Negli anni ’20, un sondaggio dell’opinione pubblica chiedeva agli americani chi fossero i più grandi uomini che fossero mai vissuti. I risultati furono, nell’ordine: Gesù Cristo, Napoleone Bonaparte, Henry Ford.

La terza rivoluzione industriale americana, che inizia con IBM e si estende attraverso Digital Equipment Corporation, Intel, Microsoft, Apple, Google, VMware e Amazon, è ancora con noi. Come le precedenti rivoluzioni, coinvolge imprenditori visionari, tassi di crescita straordinari in ciascuna azienda e salari elevati e bonus pagati a centinaia di migliaia di dipendenti.

È importante notare che, come regola generale, gli imprenditori visionari non sono brave persone. Una crescita economica profonda e persistente per una vasta popolazione non deriva dalla compassione, ma dalla necessità. Si potrebbero usare le parole avidità o egomania per descrivere le motivazioni di molti di questi eccezionali imprenditori. Eppure, attraverso la loro sfacciata fiducia in se stessi e gli sforzi incessanti e ossessivi per capovolgere l’ordine esistente, questi uomini hanno contribuito enormemente al successo economico dell’America.

La via della crescita americana, parte II

Per ripristinare l’economia statunitense, l’America deve coltivare il proprio giardino.

venti politici negli Stati Uniti iniziarono a cambiare all’inizio del XX secolo. La concentrazione industriale, guidata da JP Morgan e John Rockefeller, ha creato società giganti come Standard Oil e US Steel, suscitando l’ostilità pubblica nei confronti dei “trust”, come venivano allora chiamati.

Sotto Woodrow Wilson, il Partito Democratico, con le sue radici nel sud agrario, iniziò a muovere l’America verso il libero scambio. La svolta avvenne nel 1934, quando il Segretario di Stato Cordell Hull riuscì a convincere il Congresso ad approvare il Reciprocal Tariff Act, consentendo al Dipartimento di Stato di iniziare a negoziare riduzioni tariffarie con molti paesi.

Dal 1945 al 1973, l’economia statunitense è cresciuta fortemente nonostante le basse tariffe del nuovo sistema di libero scambio. L’economista Robert Gordon attribuisce la crescita dei salari reali alla continua crescita dell’industria automobilistica e delle industrie associate alle reti domestiche, inclusi gli elettrodomestici da cucina, le reti elettriche e del gas e le telecomunicazioni. Gordon sottolinea, tuttavia, che il periodo di maggiore crescita dei salari reali è stato il 1920-1940 quando, nonostante la Grande Depressione, l’industria automobilistica e la produzione di massa hanno rivoluzionato l’industria americana.

Alla fine degli anni ’70, tuttavia, divenne chiaro che queste industrie in crescita avevano fatto il loro corso e che erano necessari nuovi motori di crescita. La comunità imprenditoriale ha risposto con due nuove tendenze complementari: finanziarizzazione e globalizzazione. La finanziarizzazione significava una nuova enfasi sui rendimenti finanziari a breve termine delle imprese. La globalizzazione significava che ogni grande impresa poteva cercare di arbitrare le differenze di prezzo e costi internazionali producendo in nazioni a basso salario e vendendo, per quanto possibile, in nazioni ad alto salario.

La globalizzazione ha acquisito uno slancio più aggressivo negli anni ’90, con l’arrivo di Bill Clinton alla Casa Bianca, l’accordo NAFTA con Messico e Canada, la creazione dell’Organizzazione mondiale del commercio e l’ingresso della Cina nel 2001 nel sistema commerciale globale. Quest’ultimo periodo è stato battezzato “iperglobalizzazione” dall’economista Dani Rodrik e altri. La globalizzazione e l’iperglobalizzazione hanno creato un cuneo tra gli interessi del management e del lavoro diverso da qualsiasi altro fosse venuto prima. Mentre il secolo dal 1890 al 1990 è stato caratterizzato da molte battaglie aggressive, a volte violente, tra sindacato e management, entrambe le parti sapevano che i loro interessi dipendevano dal rendimento del loro settore poiché profitti elevati avevano consentito alle aziende di pagare salari elevati.

Sotto l’iperglobalizzazione, le cose sono cambiate radicalmente. Con i lavoratori americani che guadagnano $ 25 l’ora e i lavoratori messicani $ 3 l’ora, la direzione aziendale statunitense è stata ora in grado di ridurre i costi spostando la produzione in Messico e in altre nazioni a basso salario. Basta studiare i piani aziendali pubblicamente disponibili di General Motors e Ford per vedere che lo spostamento della produzione fuori dagli Stati Uniti è oggi e sarà per il prossimo decennio una parte fondamentale dei loro piani. In settori come quello automobilistico, dove gli Stati Uniti devono competere a livello globale, i salari americani devono diminuire nel tempo, fino a raggiungere i livelli delle nazioni a basso salario.

Ma la sfida è ancora più grande. La Cina non ha solo un vasto bacino di manodopera a basso salario a cui attingere. Ha anche politiche per sostenere le industrie cinesi con ingenti sussidi, del valore di miliardi di dollari, in modo che possa persino vendere prodotti sottocosto. La Cina ha anche il desiderio di dominare un numero crescente di mercati globali. Domina già la produzione di acciaio, alluminio e apparecchiature per l’energia solare. Il suo piano “Made in China 2025” identifica dieci settori industriali in cui la Cina sta cercando l’autosufficienza e probabilmente anche la superiorità globale.

Gli economisti hanno svolto un ruolo chiave nel portare avanti la causa dell’iperglobalizzazione attraverso argomentazioni accademiche a favore del commercio incontrollato. La cosiddetta “Legge del vantaggio comparato” fornisce una pretesa giustificazione teorica per ogni nazione specializzata in ciò in cui è meglio. Eppure, un secolo prima che la Cina iniziasse a utilizzare ingenti sussidi per rilevare le industrie chiave, comprese le industrie 4H (“Alta crescita, alto profitto, alta produttività, alto salario”), e cacciare l’America da quelle attività, Andrew Carnegie ha spiegato in parole povere come il dumping lavori. Scrivendo prima della prima guerra mondiale, Carnegie si vantava di spedire acciaio dai suoi stabilimenti della Pennsylvania ai cantieri navali di Belfast per essere utilizzato per costruire la flotta della Royal Navy britannica:

Nelle condizioni attuali l’America può produrre acciaio a buon mercato come qualsiasi altra terra, nonostante la sua manodopera a prezzo più alto… Un grande vantaggio che l’America avrà nel competere sui mercati del mondo è che i suoi produttori avranno il miglior mercato interno. Da questo possono dipendere per un ritorno sul capitale, e il prodotto in eccedenza può essere esportato con vantaggio, anche quando i prezzi ricevuti per esso non superano i costi effettivi… La nazione che ha il miglior mercato interno, soprattutto se i prodotti sono standardizzati , come lo sono i nostri, presto potrà vendere più del produttore estero. La frase che ho usato in Gran Bretagna a questo proposito era: The Law of the Surplus.

Oggi, la Cina ha il miglior (vale a dire, il più grande) mercato interno di acciaio, automobili, computer, reti di telecomunicazioni, aeroplani, droni, navi e una miriade di altri settori. Si noti che non è necessario nemmeno richiedere sussidi affinché la Cina acquisisca il controllo dei mercati esteri in tutti questi settori. Richiede solo che la Cina realizzi un buon profitto nel suo mercato interno e quindi applichi la “Legge del surplus” di Carnegie.

Una lezione sul declino economico britannico

Per uno spostamento verso l’alto a lungo termine della crescita economica nazionale, è essenziale trovare un meccanismo per la crescita a lungo termine della produttività del lavoro, poiché il lavoro rappresenta circa il 70 per cento della produzione economica nelle economie moderne. L’aumento delle importazioni non aumenta la produttività della manodopera statunitense. In realtà, tendono a ridurlo, spingendo i lavoratori fuori dalle industrie ad alta produttività. La soluzione preferita dal premio Nobel Robert Lucas era di perseguire industrie basate sul capitale umano, che aumentano la produttività estendendo il capitale umano (cioè conoscenza e competenza) man mano che crescono.

La mia soluzione è più pratica e storica: le industrie in crescita possono essere identificate e dovrebbero essere perseguite da qualsiasi nazione che desideri aumentare il proprio tasso di crescita.

In un approfondito saggio del 2007, l’economista norvegese Espen Moe ha attribuito la crescita economica di successo tra le principali nazioni a due forze: in primo luogo, la “distruzione creativa” schumpeteriana quando sono sorte nuove industrie ad alta produttività e ad alta crescita basate sulla tecnologia che hanno sostituito le industrie più vecchie; in secondo luogo, la tesi del teorico dei giochi Mancur Olson secondo cui gli interessi acquisiti sorgono in ogni società e cercano di bloccare o impedire l’ingresso di nuove industrie dirompenti nell’economia. “La missione principale dello stato diventa un atto di equilibrio: impedire agli interessi acquisiti di bloccare il cambiamento strutturale”, ha scritto Moe.

In questo contesto, è utile guardare al declino della Gran Bretagna come potenza economica, poiché è stata il predecessore della supremazia economica americana. Secondo lo storico economico britannico Sidney Pollard, i leader britannici hanno riconosciuto già nel 1851 che il loro paese stava affrontando un declino economico. “‘La superiorità degli Stati Uniti sull’Inghilterra’, aveva dichiarato l’ Economist già nell’anno del grande trionfo britannico, il 1851, ‘è in definitiva certa come la prossima eclissi.'”

Secondo Pollard, l’industria manifatturiera britannica non è mai riuscita a prendere un potere significativo nell’élite politica britannica. Invece, quei centri di potere, tra cui il Parlamento, la funzione pubblica e il Partito conservatore, furono fortemente influenzati dall’industria finanziaria, dall’élite intellettuale incentrata su Oxford e Cambridge e, in misura minore, dall’aristocrazia terriera. Anche l’industria tessile britannica era un interesse acquisito che si opponeva al sostegno di una forte industria chimica britannica perché preferiva importare coloranti a buon mercato dall’industria chimica tedesca leader a livello mondiale. Nel frattempo, la Germania e gli Stati Uniti hanno superato la Gran Bretagna attraverso nuove industrie e innovazione, supportate dalle tariffe. Secondo Pollard:

Con un’attenta tariffa “scientifica”, almeno Germania e USA hanno saputo concentrare meglio le risorse in aree strategiche per un rapido sviluppo in momenti cruciali per l’evoluzione di nuovi prodotti e nuove tecniche. Potevano anche ottenere una maggiore stabilità delle vendite, da cui derivava un potente incentivo a investire, mentre l’economia di libero scambio della Gran Bretagna era lasciata a sopportare più della sua giusta quota di fluttuazioni.

Il risultato fu che la Gran Bretagna cadde sempre più nella morsa della sua industria finanziaria, che guadagnava milioni di sterline finanziando il commercio internazionale e gli investimenti esteri. Sia JP Morgan che Andrew Carnegie hanno iniziato nel mondo degli affari su larga scala vendendo obbligazioni ferroviarie statunitensi a investitori britannici. Pollard vede il declino della Gran Bretagna come il seguito di una precedente serie di declini simili:

La tendenza della prima economia industriale a spostarsi, al culmine del suo potere, verso il commercio e infine la finanza e gli investimenti esteri è stata osservata anche nei secoli precedenti, in particolare tra le città italiane e successivamente nel caso dei Paesi Bassi. Gli olandesi… hanno anche sofferto per le tariffe aumentate contro le loro esportazioni da altri paesi e per le accuse che i salari dei loro operai erano troppo alti e che i loro imprenditori erano diventati troppo letargici.

Ci sono molti spiacevoli parallelismi tra la Gran Bretagna del 1900 e gli Stati Uniti del 2022: l’industria finanziaria ha troppa influenza sul governo; il governo ha poca comprensione di come funziona l’economia; le divisioni tra lavoro e management oscurano le vere sfide che la nazione deve affrontare; l’industria manifatturiera, che può fornire buoni posti di lavoro a milioni di persone senza diplomi universitari, riceve scarso rispetto; la scienza e l’ingegneria, sebbene spesso elogiate in pubblico negli Stati Uniti, attirano un interesse troppo scarso nelle università.

Gli interessi costituiti della comunità finanziaria e delle grandi università che hanno bloccato l’industria manifatturiera britannica hanno il loro parallelo in America oggi nella combinazione delle industrie bancarie, private equity, tecnologiche e farmaceutiche, che traggono tutte profitto dai mercati americani aperti che distruggono milioni di posti di lavoro nel cuore del paese, ma rendono il 20% più ricco, l’1% più ricco e lo 0,1% più ricco ancora più ricco.

Inoltre, la Gran Bretagna nel 1900 affrontò negli Stati Uniti un rivale determinato a pranzare. Eppure molti eminenti britannici erano ciechi di fronte a quella realtà. Persino il primo ministro Winston Churchill sembrava cieco di fronte al disprezzo e persino al disprezzo di molti membri del gabinetto Roosevelt per la Gran Bretagna e il suo impero, e la brama della comunità imprenditoriale americana di conquistare i mercati coloniali britannici. Questa è stata una motivazione importante per le politiche di libero scambio di Hull. Oggi, molti politici e uomini d’affari americani sembrano ciechi alla determinazione della Cina di dominare le industrie leader del mondo e portare l’America in una posizione di inferiorità.

Ma nonostante tutto ciò, ci sono ampie opportunità per l’America di invertire il suo declino. Riconoscendo che due secoli di crescita americana sono stati dovuti alla forza del mercato interno, il governo degli Stati Uniti può e deve agire per indirizzare il potere d’acquisto degli americani verso i beni americani. Ci sono 200 milioni di americani che vogliono lavorare e circa il 62% di loro non ha una laurea quadriennale. Le migliori industrie 4H possono essere identificate e danno lavoro a una grande minoranza di quei 200 milioni. Includeranno la tecnologia, i macchinari e le industrie automobilistiche e le industrie di supporto come i metalli primari. Potrebbero essere attuate politiche per garantire che queste industrie crescano ancora una volta soddisfacendo le esigenze del mercato interno. Altre industrie possono essere libere di importare quanto vogliono, anche se il commercio equilibrato dovrebbe essere un requisito autoimposto.

In patria, gli Stati Uniti devono perseguire le industrie in crescita favorite e il capitale umano necessario per avere successo. È inutile sovvenzionare la costruzione di fabbriche di semiconduttori negli Stati Uniti senza un programma per incentivare migliaia di giovani americani a studiare ingegneria e scienze dei materiali. A livello internazionale, gli Stati Uniti dovrebbero condurre una campagna per spiegare ad altre grandi potenze che la strada migliore per massimizzare la crescita globale è che ogni nazione persegua la propria crescita nazionale nel modo più aggressivo possibile.

Questa è essenzialmente una formula per annullare l’iperglobalizzazione e sostenere una comprensione amichevole che il commercio seguirà naturalmente la crescita nazionale. Tuttavia, è la crescita nazionale, unita a una distribuzione del reddito più equa, che deve essere sostenuta e raggiunta per prima. Come diceva Voltaire: “Dobbiamo curare il nostro giardino”.

Questo articolo fa parte della serie American System curata da David A. Cowan e supportata dal Common Good Economics Grant Program. I contenuti di questa pubblicazione sono di esclusiva responsabilità degli autori.

Jeff Ferry è il capo economista della Coalition for a Prosperous America (CPA). Il suo documento del 2019, “Disaccoppiamento dalla Cina: un’analisi economica dell’impatto sull’economia statunitense di una tariffa permanente sulle importazioni cinesi”, ha vinto il Mennis Award come Most Outstanding Paper of the Year dalla National Association of Business Economists. Ha conseguito la laurea in economia presso Harvard e la London School of Economics. Vive ad Alexandria, in Virginia, con sua moglie e un pastore australiano, Bindi

https://www.theamericanconservative.com/the-american-way-of-growth-part-i/

https://www.theamericanconservative.com/the-american-way-of-growth-part-ii/

 

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