REGENI, TONI-DE PALO E ABU OMAR IL MAGISTRATO RECITA A SOGGETTO, di Antonio de Martini

In un paese in cui le persone temono di essere schedate dal vaccino che “non protegge al 100%” e si lancia in fulminee convivenze e matrimoni che al 50% finiscono male, non mi meraviglio se nessuno si ricorda più di una vicenda capitata nel 1980 in Libano, la TONI-DE PALO.

Una foto con Armando Sportelli durante uno dei nostri incontri-intervista durante i quali ha rivangato le fasi delle trattative con OLP , il caso Toni De Palo e altri.

Due “giornalisti” di cui nessuno ha mai letto una riga, che scomparvero ad un tratto – non si sa come ne quando- forse durante un giro in Libano nella pianura della Bekaa.

I loro cadaveri – se esistono- non furono mai ritrovati, ma furono l’occasione per far trionfare la magistratura sulla bieca corporazione degli agenti segreti: il capo centro in Libano, il maggiore dei carabinieri Stefano Giovannone , invano invocato come salvatore da Aldo Moro durante la sua prigionia, venne giubilato e inquisito assieme al suo capo, il colonnello Armando Sportelli, all’epoca a capo degli 007 italiani nel mondo e responsabile dell’accordo OLP-Italia che ha risparmiato, per trenta e passa anni, il nostro territorio da coinvolgimenti armati.

Il teorema del magistrato inquirente fu che se non si trovavano questi due personaggi, ( mai saputo chi ne denunziò la scomparsa…) erano certamente stati rapiti dall’OLP (Adesso però i cattivi in Libano sono gli Hezbollah) e l’intelligence doveva essere al corrente di tutto.

L’inchiesta, condotta da un sostituto procuratore di Venezia a nome Mastelloni, fratello di un attore di teatro, durò la bellezza di sette anni provocando la stroncatura della Carriera di Sportelli che ebbe l’ingenuità di dimettersi al primo giorno dell’inchiesta fidando nella istituzione. Stefano Giovannone , ammalato, non si riprese più, mentre il nome del generale V. dei CC che ne voleva la testa, fu trovato nella lista della P2.

Risultò, a chiunque fosse in buona fede, che i due non si erano mai presentati in ambasciata, non avevano chiesto interviste a nessuno, non avevano comunicato a nessuno intenzioni o itinerario e – posto che abbiano circolato in Libano, nessuno li incrociò o vide mai. Tanto bastò perché il magistrato indagasse per sette anni e la vita di due integerrimi servitori dello stato fosse stroncata. Il magistrato confidò in un momento di debolezza a Sportelli che era ” affascinato da questo mondo dei servizi segreti” e continuava a fare domande anche non pertinenti.

In tutto questo bailamme non una riga fu scritta dal solerte New York Times o dall’intrepido Guardian, nemmeno quando due anni prima fu trovato il cadavere di un cittadino francese alla periferia del Cairo. E non scrissero nemmeno quando un cittadino italiano- anche se il nome di battaglia é Abu Omar- fu rapito, il 17 febbraio 2003 in quel di Milano da un commando di 22 americani e due italiani, guidato dal capo centro CIA di Milano, tale Robert Seldon LADY, condannato dalla magistratura ( Spataro e Pomarici) e poi graziato, assieme ai compari, dal presidente Mattarella che quel giorno era, evidentemente, in buona con tutti, ma non con la donna ( Sabrina De Sousa) nel frattempo licenziata dalla CIA per aver allietato la vigilia del capo. Su tutto, nessuno scoop. Si sono interessati a una sola vicenda che ora riferisco.

Ritrovamento all’alba

Per il caso Regeni, Giulio Regeni, invece, fin dal primo giorno e prima ancora che ne fosse informata la nostra ambasciata, i predetti quotidiani si dimostrarono attentissimi alle vicende del cadavere di un italiano trovato, al Cairo, all’alba, sullo stradone, non lontano dalla trafficatissima via che conduce alle Piramidi e prosegue verso Alessandria d’Egitto. In USA ci sono sei ore di fuso di differenza ma il NYT riuscì a non” bucare” la notizia.

Il cadavere, così platealmente depositato, risultò appartenere a un cittadino italiano, il ventottenne Giulio Regeni, ” ricercatore” ventottenne residente da anni all’estero. Entrambi i quotidiani anglosassoni dimostrarono di essere informati delle indagini della polizia e delle omissioni della stessa, anche se non hanno mai rivelato le fonti ( o la fonte) che li tenne un passo avanti a tutti.

Il Ministro Andrea Orlando – che non si é mai scomodato per andare ai funerali degli operai che muoiono quotidianamente sotto la sua gestione ministero del Lavoro- si presentò a Fiumicino per ricevere le spoglie del compatriota. Anche questo va segnalato come il frutto di un singolare intuito circa gli sviluppi futuri del caso.

Tutte le mamme sono da rispettarsi quando piangono un figlio e, magari, chiedono giustizia se questo risulta deceduto in situazioni drammatiche. Questa madre non ha fatto eccezione ed é un suo diritto rivolgersi alla magistratura. Invece si rivolge al Parlamento e nemmeno al deputato del suo collegio. E d’ora in poi, nulla – in questa vicenda- seguirà più la normale procedura che tutela i diritti dei cittadini italiani.

Non la ricerca dei testimoni inglesi ( la dottoressa Maia Abd el Rahman– che aveva spedito il Regeni in Egitto per fare una ricerca sui “sindacati non riconosciuti” dandogli l’indirizzo di un professore dell’Università americana rivelatosi un confidente di polizia- non i finanziatori committenti americani della ricerca della ricerca – Oxford Analytica di John Negroponte ( ex capo della intelligence community USA)- non un accertamento su elaborati precedenti del Regeni di cui non v’é traccia.

E’ anche diritto dell’on Luigi Manconi, genero di Berlinguer, occuparsi – sia pure a singhiozzo- di diritti umani. Ricordo due episodi in cui si interessò con particolare accanimento, dovuto alla facilità di accesso al mezzo televisivo grazie alla parentela.

La prima volta che ricordo, fu per deplorare l’utilizzo di una prostituta somala (immortalata in foto con una bottiglietta di Coca Cola da L’Europeo o dall’Espresso, non ricordo) da alcuni bersaglieri del nostro contingente che si trovava a svolgere operazioni di peace enforcing per l’ONU.

Non é colpa dell’insistenza dell’onorevole Luigi Manconi se con questa polemica provocò il congelamento della nostra ben avviata candidatura al Consiglio di sicurezza dell’ONU grazie ai buoni uffici dell’ambasciatore Francesco Paolo Fulci che si era conquistato i necessari voti di moltissimi paesi afroasiatici, consentendoci di surclassare la Germania in sede di votazione in assemblea. Una battuta d’arresto dalla quale non ci siamo più ripresi.

Recentemente, resosi disponibile nuovamente il seggio ONU, abbiamo dovuto dividerlo con L’Olanda ( appoggiata da USA e Germania) benché questa sia stata dichiarata ufficialmente responsabile del Massacro di Srebrenica dalla camera Penale Internazionale ( CPI). Ottomila morti cancellati da un Manconi e una mignotta.

La seconda volta che ricordo, é il caso Regeni, dove, in concorrenza col presidente della Camera dei Deputati – Roberto Fico– il Manconi fece a gara per chiedere ” verità per Regeni“, giusto. Ma chiesero anche – interferendo con la nostra politica estera esorbitando dalle rispettive funzioni – il richiamo del nostro ambasciatore al Cairo e poi addirittura la rottura delle relazioni diplomatiche con l’Egitto, nascondendosi dietro una povera madre disperata.

In Egitto – guarda caso- era appena stato trovato dall’ENI ” nelle acque profonde egiziane antistanti il Delta del Nilo” un giacimento di petrolio e di gas che fa impallidire i giacimenti antistanti le acque cipriote ( Tamar e Leviatan) trovate dal servizio geologico degli Stati Uniti. E qui comincia il vero caso Regeni che mischia interessi privati, intelligence, ricatti tra petrolieri, rivalità geopolitiche tra alleati. Su tutto questo mucchio inquinato troneggia il servilismo dei magistrati addetti alla capitale che inscenano un processo farsa senza imputati, senza testimoni e senza movente, grazie a un procuratore la cui nomina é stata annullata dal Tribunale Amministrativo Regionale ( TAR).

L’ENI TROVA IL PETROLIO E GLI USA SFRUTTANO IL MORTO

Pur emarginato dalle acque libiche e ingabbiato con la Total in quelle di Cipro, L’ENI inquinato solo a livello dirigenza ma con ingegneri ancora memori dell’eredita di Mattei, hanno elaborato una tecnologi che ha permesso loro di trovare il petrolio, come dice il comunicato ENI ” nelle acque profonde egiziane” dove gli altri non hanno trovato nulla. L’Egitto, fedele alle sue scelte tradizionali, ha avuto sempre ottimi rapporti commerciali con l’Italia, dai tempi dei Tolomei al periodo coloniale inglese con Faruk, a Nasser durante la fase della influenza russa, un posto per noi c’é sempre stato.

All’epoca Regeni, i Francesi avevano monetizzato la misteriosa morte di uno studente con la vendita di 24 aerei ” Rafale”, mentre noi avevamo piazzato due fregate classe FREMM considerate l’opera di progettazione navale migliore nella sua classe. L’ambasciata di Israele era stata invitata a chiudere ” per ragioni di sicurezza” accentrando i rapporti con l’Egitto all’ambasciata egiziana a Tel Aviv.

Gli americani si lamentavano delle incomprensioni avute durante la “primavera” e delle ” avance” sessuali subite da alcune giornaliste USA mescolatesi ai manifestanti. I tedeschi aumentavano l’organico d’ambasciata degli addetti alla cooperazione a settanta unità, mentre l’Egitto di Abd el fattah Al Sissi affidava ad altri il raddoppio del canale di Suez e alla Russatom di Mosca la ripresa del suo programma nucleare accantonato anni fa.

Una bomba fasulla esplodeva nei pressi della nostra ambasciata e i magistrati di Roma invadevano gli spai dei magistrati egiziani e la polizia pasticciava le indagini nel tentativo di dare una risposta soddisfacente. Ordinaria amministrazione.

Il disordine, condito di “rumors” alimentati dal New York Times e dal Guardian cui ha fatto eco il TG1 e Il Messaggero ha spinto il Presidente della Camera a rilasciare incaute dichiarazioni di cui l’elettorato farà giustizia e il deputato che si é fatto dare le funzioni tanto dignitosamente tenute dall’on Stefano Rodotà.

Chi ha ceduto senza vergogna alle richieste cui aveva già dato benevolo ascolto il Quirinale nel caso “LADY più 22” ( Abu Omar) é stato il sedicente procuratore della Repubblica di Roma – tale Prestipino, calabrese, – contestato nella nomina dai più meritevoli colleghi cui ha soffiato il posto, destituito dal TAR e difeso della coschetta annidata nel CSM.

In questa posizione di debolezza ha preso per buona la vicenda e accettato di lanciare un processo in cui ai quattro nomi di imputati dirigenti dell’intelligence egiziano non ha nemmeno mandato la notifica; ha sorvolato sull’assenza della “tutor” di Regeni che non ha accettato di venire a testimoniare ( fatto notato persino dal cautissimo ” Corriere della sera“) e col processo di beatificazione in corso del Regeni – un ricercatore che a ventotto anni non aveva pubblicato nulla e non era “di Cambridge”: stava in un collegio secondario dell’area – difficile capire quale fosse la motivazione dell’omicidio e delle torture pregresse. Io al solito, in una intervista su You tube che potete vedere qui ( https://youtu.be/0PACeET31Ig ) avevo detto, prima che succedesse il caso Regeni e chiaramente, che avremmo subito pressioni per farci mollare l’osso. Il povero giovane é stato il pretesto per l’attacco. Impuniti finora i fiancheggiatori di questa pugnalata all’economia italiana.

Nel caso di Abu Omar, il tribunale di Milano ha condannato i 22 agenti CIA al pagamento di un milione e mezzo di danni alla famiglia del rapito. Scommettiamo che in questo caso condanneranno il governo egiziano?

https://corrieredellacollera.com/2021/10/18/regeni-toni-de-palo-e-abu-omar-il-magistrato-recita-a-soggetto/

AH L’ITALIA …, di Pierluigi Fagan

AH L’ITALIA … Una volta, quando lavoravo nell’advertising e tra i miei clienti avevo la compagnia di bandiera, un collega copywriter (quelli che maneggiano le parole) propose una idea che iniziava con questo sospiro rimembrante, quello che fanno molti stranieri quando si accingono a parlare del nostro Paese attingendo a bei ricordi delle loro emozioni turistiche. L’idea era quella di annettere tutto il valore d’immagine del Paese alla compagnia, come del resto hanno lungamente fatto altre compagnie di bandiera, un classico.
Ma un Paese non è fatto solo di belle emozioni e percezioni, è fatto anche di problemi e contraddizioni. Così, il sospirante “ah … l’Italia” starebbe bene anche su una faccia più problematica. Alitalia ha per molti versi davvero rappresentato un riflesso in piccolo di alcuni pregi e difetti nazionali. Alla fine, hanno prevalso i difetti ed è morta, solo la compagnia di bandiera intendo, almeno al momento.
Non voglio dar l’impressione di esser une esperto profondo dell’argomento, ma visto che molti ne parlano senza saperne niente (si capisce da cosa dicono e da come lo dicono), anche il mio poco mi autorizza a dire un paio di cose anche perché in termini paradigmatici, la storia ha un suo senso più ampio.
Alitalia era, tra le altre cose, assieme forse alla RAI, l’oggetto più “sexy” posseduto dallo stato italiano. C’erano e ci sono ovviamente ottime e fondate ragioni per avere una compagnia di bandiera, le interconnessioni estere dovrebbero seguire l’interesse nazionale e non sempre questo può esser coniugato con le logiche di mercato. Puoi dover tenere una tratta apposta solo per garantirne l’uso a pochi, anche se è anti-economica. Ma è bene dire anche che sia la scelta del management, sia l’abitudine a rimpinzare la compagnia di amici e spesso amiche dei potenti o meno potenti politici, hanno sistematicamente sabotato anche la più buona volontà di tenere i conti, non dico a posto, ma insomma almeno un po’ meno fuori i parametri che poi chiamavano soldi pubblici di ripiano. Abbiamo indirettamente mantenuto generazioni e generazioni di imbecilli azzimati e signorine attraenti solo per il piacere dei decisori politici, questo va detto. Ovviamente ci riferiamo solo ad una parte, forse anche una parte limitata, ma poiché la natura di quel business non prevede comunque grandi margini, anche quel relativamente poco, era troppo e troppo a lungo.
Inoltre, cambiare management ad ogni cambio di governo, ed i governi in passato cadevano con medie fuori da ogni statistica occidentale, ha precluso il varo di ogni possibile strategia e compagnie senza strategie (come del resto i Paesi), diventano ingestibili.
Una volta entrati nel regolamento europeo, si sarebbe dovuto per forza risolvere il problema. Non dico fosse giusto, potevamo tenercela anche così costosa ed inefficiente se ad uno piace il “pubblico” a prescindere o gli piace mantenere gli amici dei parlamentari e non solo, ma una volta entrati in un diverso sistema di regolamento che vieta il ripianamento pubblico, ne dovresti prender atto. Oppure uscire da quel nuovo regolamento.
In effetti qualcuno ne prese atto. Per prima venne proposta la soluzione forse tecnicamente migliore ovvero la fusione in una holding (non ricordo bene, penso paritaria) con un altro network complementare: KLM. La soluzione KLM era ottimale sotto tutti i punti di vista. Poi però cambiò ancora il governo e poi cambiò ancora, così si giunse ad una seconda ipotesi meno ottimale visto che KLM s’era sviluppata una coerente e diversa strategia per conto suo, con Air France. Ripeto, non sono un espertone del campo ma da quel poco (non pochissimo) che so la soluzione precedente era ben migliore, ma ormai le possibilità erano ristrette.
Si tenga anche conto che dal puro punto di vista del business, in Italia non avendo multinazionali nostre, originiamo poco traffico internazionale e poca business class che sono le due variabili che portano un po’ di profitto per pagare i servizi interni non sempre profittevoli visto che ovviamente si deve garantire almeno una buona interconnessione interna per far funzionare il Paese, Paese stretto e lungo lo ricordo per i digiuni di geografia (il che dà le durate di volo quindi i costi).
Ci sono poi una altra mezza tonnellata di particolari tecnici legati a quel business a livello internazionale, un mercato molto cambiato negli ultimi anni, ma a chi interessano i particolari? Molti hanno “idee chiare e distinte” anche senza i particolari. Diremo “al volo” se la cosa non suonasse ironica.
Così tra un populismo e l’altro del tipo “Alitalia agli italiani!”, seguendo i sovranismi aeronautici che facevano finta di scordare che, ahinoi, stavamo nel sistema UE-euro, nella totale ignoranza del caso interno e della natura di quel business le cui regole non dettiamo noi, andando così avanti senza ragione alcuna, di disastro in disastro fino al disastro ultimo, previsto, conosciuto, ignorato in piena nevrosi da negazione fino all’ultimo. Così si è arrivati a ieri, al triste annuncio della povera hostess che saluta gli ultimi passeggeri imbarcati a Cagliari, settantacinque anni ed un mese dalla fondazione di una azienda molto elegante ma come certi ex-nobili decaduti, molto fuori dal mondo. Visto che ormai si ragiona così, un “valore” di marchio costruito per decenni, buttato nel cesso.
Così il sospirato “Ah l’Italia …” sta bene sotto il romantico ricordo di tutte le nostre qualità, ma altrettanto bene come sconsolata constatazione di quanto irresponsabili siamo, noi e i politici che noi stessi deleghiamo a governare l’interesse generale. Non aver voluto cambiarla per tempo, decidendo noi cosa perdere e cosa tenere, ha reso Alitalia inadatta perdendo tutto. Così il Paese che è un sistema, un sistema fatto di parti ognuna delle quali ha ottime ragioni per non cambiare, salvo poi che così non cambia il sistema, il sistema è disadattato e crepa, con noi dentro.
Il che non preclude a molti il piacere tutto social di dire la loro partendo da idee a priori che poco e nulla c’entrano con la meno divertente complessità delle cose su cui esprimiamo pareri un tanto al chilo.
Nella foto, un omaggio ad una delle più belle livree dell’aeronautica civile, giudizio riconosciuto a livello mondiale che io ricordi.

Tre paradossi di un assalto_di Giuseppe Germinario

Un mondo a rovescio! Almeno per chi ha vissuto e conosciuto il mondo di quaranta anni fa e più.

  • La sorpresa sardonica è tutta per Roberto Fiore, leader di Forza Nuova, nelle vesti di apostolo e paladino delle libertà dal Green Pass e dalla “dittatura sanitaria”.

  • L’inquietudine serpeggia nelle parole di Giorgia Meloni che adombra il lezzo sulfureo della provocazione organizzata che sia quella autonoma di un gruppo di facinorosi o quella perpetrata e programmata, come più probabile, grazie a probabili complicità e direttive.

  • Il sarcasmo aleggia quando la quasi totalità dei gruppi dirigenti, specie quelli progressisti, ostentano la loro indignazione su un atto così proditorio e “tempestivo”, ma dimentichi dell’essenziale del loro passato.

LA SORPRESA SARDONICA

Tutti i movimenti a carattere rivoluzionario ed eversivo giustificano i propri atti, anche i più brutali, sotto il vessillo della libertà. In suo nome si compiono le azioni più coraggiose, gli atti più efferati, le conquiste più ambiziose e le nuove e peggiori forme di sopraffazione. L’enfasi dell’azione diretta individuale, il carattere di per sé purificatore ed emancipatore di essa, lo spiritualismo orientato al richiamo alla tradizione e a valori immobili come programma politico sono gli ingredienti necessari a tarare un movimento e a segnare la sua deriva progressiva verso un anarchismo individualistico reso politicamente praticabile paradossalmente attraverso una visione rigidamente gerarchica e militare del proprio impegno sino ad assumere un carattere terroristico. Un vicolo cieco che prima o poi, per sopravvivere e non soccombere, porta ad essere strumento e complice, volente e nolente, delle trame di potere più oscure dei centri decisionali. È quanto è successo a Roberto Fiore, a Terza Posizione e ai NAR negli anni ‘70 e ‘80. Uscito indenne con un salvacondotto che gli ha permesso di fuggire ed arricchirsi in Gran Bretagna. Difficile che la sua salvezza non abbia richiesto il pagamento di un qualche pegno pesante qui in Italia e nel luogo di esilio. Ritorna ormai attempato in Italia, ma assieme ad altri commilitoni pronto ad innescare pesanti provocazioni come l’assalto recente alla CGIL. La contingenza suggerisce la volontà di influire sul ballottaggio elettorale; uno sguardo più lontano suggerisce qualcosa di molto più profondo legato alla gestione della pandemia e della profonda ristrutturazione degli assetti sociali e politici.

L’INQUIETUDINE CHE SERPEGGIA

Ha ragione quindi Giorgia Meloni ad alludere sia pure timidamente alla “eccessiva” facilità di movimento di personaggi ormai attempati e conosciuti per il loro particolare impegno politico e a ricondurre la responsabilità di quanto accaduto per lo meno al Ministro dell’Interno. Dovrebbe essere molto più chiara ed esplicita visto che la sua formazione politica, FdI, è la lontana erede del partito che spesso e volentieri ha offerto qualche copertura alle formazioni stragiste di quegli anni. In mancanza, un ulteriore pesante tassello sarà posto al disegno di isolamento e ghettizzazione del suo partito, funzionale alla creazione di una opposizione di comodo. Una morsa che sembra ormai accompagnarla, con tempi e modalità diverse, alla parabola discendente intrapresa da Salvini.

IL SARCASMO CHE ALEGGIA

La prontezza e la decisione con la quale tutto il campo progressista ha reagito alla pesante provocazione nasconde un lato oscuro. La generazione detentrice delle principali redini del potere politico di matrice progressista ha vissuto in prima persona o si è formata nella fase immediatamente successiva agli attentati terroristici e stragisti condannando quegli atti e denunciando le connivenze, le infiltrazioni e le strategie di centri e settori istituzionali nazionali ed esteri. “La strage di Stato” era all’incirca il motivo conduttore di quegli anni. Sarebbe stato quasi scontato almeno ipotizzare qualcosa di analogo senza nemmeno lo sforzo di dover individuare nuovi protagonisti, visto l’evidente problema di ricambio generazionale. Non lo fanno e il motivo è facilmente intuibile.

CONCLUSIONI

I pretesti, le provocazioni, le trappole sono parti integranti dell’armamentario della lotta politica, a maggior ragione nelle fasi più concitate di scontro e nei momenti di scarsa credibilità di un ceto politico. Solitamente favoriscono maggiormente le forze che più controllano le leve e i centri di potere e di influenza.

Trovano condizioni più favorevoli di esercizio quando le questioni sono mal poste e gli obbiettivi individuati dai movimenti di opposizione scarsamente definiti se non fuorvianti.

Nella fattispecie con l’introduzione delle mascherine, il green pass, le chiusure il problema posto dalla contestazione è quello della limitazione delle libertà e dell’incostituzionalità dei provvedimenti, quando il tema reale ed imposto è quello della necessità dello stato di emergenza, delle modalità di applicazione e delle dinamiche di accentramento e di efficacia dell’esercizio del potere con tutte le manipolazioni connaturate o che fungono da corollario.

Può apparire una sottigliezza insignificante; in realtà è dirimente in quanto riconosce la possibilità teorica dell’introduzione di uno stato d’emergenza e costringe ad entrare nel merito della gravità dell’epidemia, del disordine istituzionale, delle misure necessarie in funzione degli obbiettivi da raggiungere e delle manipolazioni politiche ormai sempre più evidenti di questa condizione. Dal punto di vista delle dinamiche politiche può contribuire a superare la fossilizzazione del confronto antitetico-polare tra la visione complottista del grande disegno totalitario perpetrato da una cupola onnipotente e onniveggente e quella tecnocratica-positivista fondata sul verbo a prescindere degli esperti riconosciuti istituzionalmente; una fossilizzazione del dibattito su binari inesorabilmente tracciati di fatto dai secondi.

A corollario induce a porre realisticamente un altro aspetto dalle implicazioni analoghe: quello dell’esorcizzazione e demonizzazione del problema dell’acquisizione dei dati e del controllo di questi e dei comportamenti. Nella realtà qualsiasi progresso scientifico e tecnologico mira a, parte da una crescente capacità di controllo di dati e procedure. Il problema da affrontare è quello dell’utilizzo possibile e del riconoscimento istituzionale di questi da parte dei detentori piuttosto che la limitazione dei flussi.

Sembrano questioni avulse; sono invece dirimenti per liberare la dinamica politica e soprattutto i movimenti contestatori dalla gabbia inesorabile che hanno costruito i centri decisori dominanti, più fragili nella realtà rispetto alle apparenze, ma resi forti anche grazie alla complicità delle stesse vittime.

IMPOSTE PATRIMONIALI E RENDITE PUBBLICHE, di Teodoro Klitsche de la Grange

IMPOSTE PATRIMONIALI E RENDITE PUBBLICHE

La ventilata riforma del catasto ha ridestato il dibattito sulle imposte patrimoniali, cioè quelle le quali, secondo una definizione diffusa, prescindono dalla percezione di un reddito (come, al contrario, l’IRPEF ed altre) e si applicano a chi è proprietario (o possessore) di un bene. Onde se il bene non produce alcunché, il possessore o proprietario è comunque obbligato a pagare l’imposta.

C’è chi esalta la patrimoniale perché “giusta”, in quanto colpirebbe i proprietari e lascerebbe indenni i non proprietari. Se il criterio della giustizia corrispondesse all’appartenenza proprietaria (secondo un’ingenua opinione del socialismo ottocentesco) tale concezione avrebbe un qualche fondamento. Ma dato che è evidente che non è così, essendoci redditi (e ricchezze) enormi generate con nulla o modesta relazione con la proprietà del bene (come i redditi dei manager, i corrispettivi del commercio, le retribuzioni dei vertici burocratici, ecc. ecc.) e, di converso, proprietà con redditi nulli o modestissimi); onde è la sproporzione di ricchezza, non l’appartenenza a determinarne la “giustizia”. E neppure notano che ad ottenere l’effetto redistributivo non è la patrimonialità o meno dell’imposta, ma l’essere progressiva o no.

Gli è che a sostenere tesi così inconsistenti è che se si esentano i patrimoni “piccoli”, si riduce gran parte della base imponibile e così l’utilità della patrimoniale viene ridotta: ciò quando, invece, il fine della stessa è “mettere le mani nelle tasche” degli italiani come dice Salvini, o “spennare l’oca senza farla troppo gridare” come scriveva Pareto, e cioè aumentare l’assetto predatorio, compensandolo (a beneficio delle oche) con nobili e commoventi discorsi di giustizia, eguaglianza ecc. ecc. che con l’imposta patrimoniale (secondo i di essa sponsor) avrebbero a che vedere più che con altri tipi di prelievo pubblico.

Si potrebbe rispondere a ciò con altri argomenti di natura economica: che la patrimoniale stimola a produrre reddito. Vero, ma del tutto marginale, perché ricavare reddito da un bene, direbbe la Palice è, comunque meglio che non percepirlo affatto e così via.

È interessante, invece, rilevare che la preferenza per la patrimoniale risponde non tanto a criteri economici, quanto a evidenze e regolarità politiche e politologiche.

La prima – tipica dell’Italia repubblicana – perché è la più gestibile da un’amministrazione sgangherata come quella nazionale.

Assai più se l’oggetto del prelievo sono immobili censiti e soggetti a pubblicità. Per cui l’affetto verso tale forma d’imposizione occulta la realtà di non volere e non credere che sia possibile recuperare l’evasione fiscale, generata per lo più da redditi di tutt’altra natura. Cioè non credere alle “riforme” sbandierate da tanti anni. Più che di volontà di cambiare il tutto rivela rassegnazione e compiacimento.

La seconda: scriveva Miglio che ogni sintesi politica dà luogo a rendite politiche distribuite dal vertice ai propri collaboratori e seguaci. La differenza principale delle rendite politiche da quelle di mercato è che le prime sono ottenute con la coercizione e che perciò sono garantite (e per questo assai appetite) dal monopolio della forza. Come sostiene Miglio la garanzia della rendita del seguace è a vita e per ogni situazione (almeno finché dura la sintesi politica). Scrive: “comunque andranno le cose, comunque andrà il mercato e si evolverà la situazione economica, la paga verrà ricevuta”. Mentre le rendite di mercato sono caratterizzate in negativo dall’aleatorietà (ossia dalla dipendenza dalla situazione economica) e in positivo della (tendenziale) assenza di limiti; un imprenditore può morire di fame o divenire Jeff Bezos. L’unico limite, sempre esistente, ma in misura assai differente, è quello dell’imposizione pubblica e soprattutto fiscale.

È da notare l’analogia tra imposta patrimoniale e i caratteri delle rendite politiche: il gettito non dipende dall’andamento di mercato e dai flussi di reddito. Così i quattrini per seguaci ed aiutanti devono essere trovati anche se non “prodotti” (quindi inesistenti).

Il gettito, per la stessa ragione, è garantito (come la rendita) perché la base imponibile è costante e sicura. Ancorare l’imposta al valore di beni non (o poco) deperibili come gli immobili significa, dal lato della spesa, assicurare i redditi erogati dalla classe politica. Non che lo stesso non possa farsi con altri “tipi” d’imposta (che non presentano le suddette analogie): ma è sintomatica la corrispondenza d’amorosi sensi  tra sostenitori della patrimoniale e fruitori delle rendite politiche (per lo più gli stessi).

Dov’è il limite della patrimoniale? È la realtà. Nel senso che, a meno di ritenere i contribuenti affetti da volontà di miseria, per un bene che non da reddito non può, alla lunga, pagare imposte; con la conseguenza che per farlo, il proprietario deve alienare il bene, ossia tollerare la propria spoliazione. Il regime/assetto parassitario (secondo la tripartizione di Pantaleoni) si converte così in assetto predatorio. Con i proprietari espropriati (o, nel migliore dei casi, immiseriti) per alimentare – prevalentemente – i tax-consommers.

Analogamente pensare che un sistema fiscale possa  sostenersi senza che i beni diano un corrispettivo (a meno di alienarli) è concepibile solo ove l’incidenza dell’imposta patrimoniale sia modesta, di guisa che l’adempimento dell’obbligo relativo possa essere assolto con altri redditi del contribuente.

Certo a tali obiezioni si può replicare che questi inconvenienti possono essere causati anche da altri tipi d’imposta: è vero, ma solo nella patrimoniale la corrispondenza tra modalità del prelievo e realtà della politica, delle sue regolarità e del dominio è così evidente. Onde si pensa di mistificarla od occultarla con un’overdose di derivazioni.

Teodoro Klitsche de la Grange

Le rane bollite, di Giuseppe Germinario

Quatto quatto, sornione il vero vincitore di questa tornata elettorale è stato paradossalmente chi non vi ha partecipato e ha agito per vie indirette. Pur con qualche ombra, Mario Draghi.

Non il Presidente del Consiglio bensì il funzionario, l’emissario incaricato di mettere ordine nello stallo e nelle fibrillazioni sterili di un ceto politico allo sbando, di gestire il PNRR rispettando principi e direttive comunitarie, di ridefinire i criteri europei di compatibilità delle finanze pubbliche, soprattutto di fungere da terzo in grado di ricondurre le eventuali pulsioni autonomiste europee nei tradizionali canali filoatlantisti.

Proprio le novità su quest’ultimo aspetto rischiano però di ridimensionare e circoscrivere localmente la sua missione; l’esito delle elezioni tedesche porterà probabilmente al varo di un governo ancora più filoatlantista. Se a questo dovesse aggiungersi una vittoria troppo netta di Macron, il cerchio si stringerebbe ulteriormente e l’azione dell’emissario non più indispensabile. Resta comunque la qualità del personaggio, superiore di molte spanne al livello del ceto politico che infesta lo scenario italiano; qualità, però che rischiano di essere offuscate da una eccessiva e troppo prolungata esposizione, del tutto inusuale e controproducente in tempi ordinari per uomini di potere abituati a muovere leve e tessere trame in modo riservato. Una dinamica destabilizzante, già all’opera da alcuni anni negli Stati Uniti, che potrebbe innescarsi e sfuggire al controllo anche in Italia.

La tifoseria mediatica si è invece concentrata tutta sul palcoscenico. Ha levato sugli scudi la clamorosa vittoria del PD, ha deposto nelle ceneri la débâcle della Lega; con qualche circospezione ha sottolineato il tracollo del M5S e la crescita di Fratelli d’Italia. Una sicumera che, tra le varie cose, tiene in scarsa considerazione il carattere locale delle elezioni, l’importanza della differente qualità dei candidati e soprattutto la debolezza del radicamento militante e la ridotta capacità di influenza e di richiamo alla fedeltà dei partiti nazionali.

La realtà offre quindi tinte meno nette almeno nel primo caso.

Più che una vittoria e una travolgente avanzata, l’esito elettorale del PD sembra annunciare la fine, si vedrà se definitiva o temporanea, di una tendenza verso il tracollo, interrotta più per dabbenaggine e limiti evidenti degli avversari che per merito proprio; una interruzione o una pausa per altro molto più appariscente nei grandi centri urbani e nelle città che nella provincia e nelle periferie del paese.

La Lega offre un quadro molto più complesso da decifrare. La rappresentazione mediatica del disastro appare verosimile solo rispetto alla proiezione irrealistica tracciata sulla base dell’esito delle elezioni europee del 2018; in un contesto più equilibrato si può considerare ancora più una situazione di stallo tendente verso il ribasso che di vero e proprio collasso con punte di crisi più accentuate nelle grandi realtà urbane e di confermata scarsa significanza nel Sud e parte del Centro Italia. Una condizione di crisi latente accentuata dalla fallimentare gestione leghista dell’emergenza pandemica in alcune aree della Lombardia; fattore però destinato a restare meno determinante in un contesto di elezioni politiche generali nel quale la contestuale disastrosa gestione nazionale della crisi pandemica, specie del secondo Governo Conte, spingerà ad un generale comportamento omertoso di tutte le parti politiche. Crisi resa endemica e sempre meno gestibile dal dualismo, appena tollerabile in una fase ascendente di consenso e di opposizione al governo, tra l’aspirazione conclamata a costruire un partito nazionale, dedito all’interesse nazionale e la realtà di un radicamento e di una formazione politico-culturale di una classe dirigente localistica e particolaristica, sensibile tuttalpiù in maniera opportunistica alle sirene universaliste dell’europeismo.

Un dualismo appunto irrisolvibile nell’attuale contesto politico se non con la riproposizione di un altro dualismo, ancora più precario e problematico nel tempo, con una componente conservatrice egemone preferibilmente esterna alla Lega, già proposto a suo tempo durante l’apogeo della leadership di Berlusconi, ma irrealizzabile date le caratteristiche ed i limiti evidenti di Fratelli d’Italia, il partito al momento emergente del centro-destra.

Da questo punto di vista appare evidente e ormai sancita dal responso elettorale l’incapacità del gruppo dirigente della Lega di inserirsi nei centri decisionali e nei settori, presenti soprattutto nelle grandi aree metropolitane, le quali dovranno trainare nel bene e nel male i processi di ristrutturazione economica e riconfigurazione della formazione sociale, nonché determinare la collocazione geopolitica del paese; gli rimane una capacità residua di contrattazione legata al suo radicamento particolaristico.

Non è purtroppo una caratteristica esclusiva della Lega; riguarda piuttosto l’intero arco della rappresentanza politica, compresa quella del PD.

Nella loro pochezza, ne hanno offerto una rappresentazione plastica i discorsi di commento dei due partecipanti all’accesso al ballottaggio alle comunali di Roma: Gualtieri per il PD, Michetti per il centrodestra.

Il primo tutto teso alla missione universalistica, europeista di Roma nella veste di capitale d’Europa, con qualche concessione compassionevole alla condizione materiale della città e di gran parte dei suoi cittadini; il secondo con la sua enfasi esclusiva ai problemi particolari di degrado dei quartieri con qualche riferimento demagogico ai fasti imperiali passati e con nessun riferimento al ruolo e all’immagine di una capitale di una nazione e di uno stato nazionale.

L’uno espressione di una élite universalista in realtà arroccata e del tutto dipendente da scelte esterne, l’altro proteso in una difesa confusa e demagogica di interessi popolari talmente indefiniti da essere rinchiusi in prospettive particolaristiche ed immobilistiche. Entrambi incapaci culturalmente, non solo politicamente, di coniugare il ruolo politico e geopolitico di una capitale e di una nazione con la costruzione di una formazione sociale più equa, dinamica e coesa.

Lo specchio esatto di quello che è in grado di offrire il quadro politico e dirigenziale nazionale.

Per i media nazionali, detentori sedicenti dell’orientamento della pubblica opinione, l’aspetto dirimente di questa elezione è invece la sconfitta del populismo e del sovranismo.

Il sollievo evidente quanto infantile sotteso a questo giudizio è esattamente proporzionale alla compiacenza indegna con la quale hanno gestito la vergognosa vicenda degli “affaires” Morisi e Fidanza-Lavarini; indegna molto più per la gestione giornalistica che per il merito dei fatti e delle trappole probabilmente orchestrate all’uopo.

Il giudizio sul populismo, a parere dello scrivente, ha un qualche fondamento; ma solo nel merito, non nel carattere definitivo della sua sconfitta. Se per populismo si intende l’attitudine a “servire il popolo”, a scambiare per strategia, tattica e programma politico slogan, proclami ed aspirazioni generiche di un ceto politico emergente il quale tende a nascondere i propri limiti e il più delle volte le proprie reali ambizioni e finalità dietro le pulsioni ed aspirazioni popolari da questi ovviamente e univocamente interpretati, la crescita dell’astensionismo, lo stallo legato alle improbabili e improvvise giravolte, alla volubilità rappresentano certamente l’indizio di una crisi di credibilità tanto di questi che del ceto politico elitario e progressista che intende contrapporsi e sostituirlo, ma che in realtà finisce per rimanere arroccato nelle sue enclaves.

Quella tra populismo e sovranismo è però una associazione possibile, ma non inestricabile, la cui scissione potrebbe creare teoricamente condizioni più favorevoli all’affermazione più matura di quest’ultimo.

Se per sovranismo si intende il fatto che lo stato nazionale e la formazione di una classe dirigente nazionale sono condizioni necessarie ed indispensabili ad affrontare le dinamiche multipolari e i processi di globalizzazione; se con esso si esprime di conseguenza la necessità di modificare, ampliare e potenziare le prerogative statuali in grado di consolidare l’identità e la coesione di una formazione sociale e sostenere il confronto geopolitico, il discorso, con buona pace degli universalisti e dei lirici europeisti, è tutt’altro che chiuso. Può essere tutt’al più rimosso, pratica dei quali gli universalisti, specie progressisti, sono maestri, ma con conseguenze tragiche nel tempo delle quali si cominciano a intravedere diversi aspetti nel nostro paese. È la chiave che consente di individuare i giusti strumenti per cambiare e ridefinire il sistema di relazioni e di rapporti nel continente europeo in modo tale da affrancare i paesi e le nazioni dalla condizione di asservimento , di paralisi e di incapacità cui ci ha condotti l’Unione Europea e la NATO.

La crisi pandemica, la profonda riorganizzazione delle catene produttive, l’invenzione di nuovi prodotti e l’annunciata scomparsa di alcuni tradizionali, lo spostamento del centro di confronto nel Pacifico sono tutte condizioni oggettive che potrebbero facilitare il sorgere di forze “sovraniste”, meglio definire nazionali più mature nel perseguire propositi di contestuale coesione e dinamismo sociale ed indipendenza e autonomia politica nelle decisioni.

Nella fattispecie la riorganizzazione della componentistica nella industria dell’auto e della meccanica, l’attuale conformazione dell’industria agroalimentare, le scelte energetiche e in materia di difesa, lo stesso comparto finanziario, settori alcuni dei quali forniscono le basi di una stretta ed asfissiante dipendenza economica dalla Germania in primo luogo, base della propensione culturale al particolarismo della Lega ed alla sua soggezione politica ai centri bavaresi potrebbero essere la molla per la trasformazione positiva di queste forze politiche o per la creazione, dalle loro ceneri, di una formazione politica più matura in grado di comprendere la complessità delle dinamiche, di adottare le migliori strategie e tattiche, di conquistare la testa non solo le pulsioni dei ceti più dinamici.

Non è escluso, tra l’altro, che la potenza di queste dinamiche inducano soprattutto parti della Lega a risolvere il dualismo che la costituisce e con esso scindano alla fine il partito stesso prima che arrivi a consumarsi.

Nella componente progressista, quella purtroppo meglio predisposta al “buon governo”, un processo del genere attualmente non appare neppure ipotizzabile. Nello schieramento opposto il particolare radicamento sociale è oggettivamente più favorevole a questa trasformazione; rimangono l’enorme ritardo culturale e la volubilità e volatilità estrema del suo ceto politico, retaggio del populismo d’anteguerra e del particolarismo autocelebrativo ad impedire la nascita di una espressione politica matura.

Per governare processi complessi di questa portata occorre infatti un ceto politico solido ed autorevole capace di orientare pulsioni ed interessi, piuttosto che rimanere strumento ed ostaggio di questi. Le attuali condizioni di esercizio della democrazia, assieme al dissesto istituzionale, non fanno altro che alimentare queste dinamiche sino a portarle presumibilmente a condizioni di rottura, con i suoi esponenti destinati a finire come rane bollite, grazie alla loro sostanziale inconsapevolezza della posta in palio.

La velocità sempre più repentina con la quale ascendono e tramontano i leader politici da oltre venti anni a questa parte sono il sintomo di tale condizione.

Una dinamica che rischia di trasformare l’esperimento temporaneo della gestione della scena politica da parte di un tecnocrate-decisore, quale è Draghi, in qualcosa di più duraturo. Una tempistica che rischia di logorare e compromettere ulteriormente non solo il ceto politico, ma anche la stessa classe dirigente di solito preposta a gestire le cose con modalità solitamente più riservate, ma già di per sé impedita da evidenti limiti di capacità e comprensione, anche essa circoscritta sempre più al ristretto “particulare” perfettamente compatibili e propedeutici a subordinazione ed asservimento scevri da ogni ambizione.

IL CATASTO DELLA DISCORDIA, di Teodoro Klitsche de la Grange

IL CATASTO DELLA DISCORDIA

Questa settimana sul “teatrino” della politica è andata in scena la pièce del catasto, con i soliti ruoli: il centrodestra in quello dei Gracchi, a difendere il popolo dei tartassati, il PD nell’usuale personaggio del moralgiustizialista (che produce giustizia con il portafoglio degli altri) un Arpagone in cipria e merletti; e il resto della compagnia in personaggi di contorno.

Data la reazione tutt’altro che entusiasta dell’opinione pubblica, il PD ha dovuto ridimensionare rapidamente l’iniziale consenso anche perché, a parte la solita “estrema” sinistra, si è trovato a corto di alleati.

Tuttavia è il caso di comprendere perché gli argomenti del PD (e compagni) sono usati e perché funzionano sempre meno.

La giustizia. Ch’è argomento sia di carattere offensivo, nel senso di promuovere l’avanzata sia difensivo, per proteggere la ritirata. Nel caso, fugacemente utilizzata nel primo, assai più nel secondo.

Dato infatti che i contribuenti sanno benissimo che si parte facendo appello a commoventi discorsi di giustizia, solidarietà, ecc. ecc., ma si finisce per mungere chi le tasse già le paga, i piddini si sono serviti della “giustizia” con la correzione della parità di prelievo, ossia volta a riequilibrare il prelievo tra i contribuenti e non per aumentarlo.

Tuttavia i contribuenti – a parte le reiterate esperienze dei risultati contrari alle esternazioni simili – forse si sono ricordati che la manovra fu già fatta (in tono minore) una dozzina di anni fa con le c.d. micro-zone; ma che io sappia a tutti i professionisti che se ne sono occupati (da me contattati), me compreso, non risulta che ci fosse un sono contribuente cui la “riformina” non avesse regalato un aumento d’imposta; oltretutto nello stesso periodo in cui il governo Monti con la sagacia economica che lo caratterizzava, istituiva l’IMU con enormi aumenti dell’imposizione. Il danno così risultava aggravato ad onta dell’intento giustizialista esternato: l’unica redistribuzione prodotta era quella dalle tasche dei governati a quelle dei governanti.

La credibilità. Dato ciò, perché una classe dirigente richieda (con successo) un sacrificio ai governati occorre che abbia autorità e legittimità. Churchill poteva farlo, promettendo lacrime e sangue agli inglesi, sia perché lo era, sia perché c’era da affrontare un nemico formidabile come la Germania nazista. Ma alla sinistra (o sedicente tale) italiana contemporanea, autorità e legittimità mancano del tutto. A provarlo sono due fatti: l’uno, decisivo, che non sono mai andati al governo (dal 2008 in poi) per aver vinto le elezioni, cioè per volontà del corpo elettorale (quindi popolare) ma solo per decisione di altri e/o per manovre di palazzo. L’altro, secondario ma rivelatore, che non fanno, di conseguenza, nelle loro argomentazioni, alcun riferimento ai desiderata del popolo, ma ad altro: “ce lo chiede l’Europa”, “lo ha detto Greta”, “faremo cose magnifiche” (ma le esperienze insegnano il contrario), “lo sostengono i tecnici” e così via.

Tra commoventi appelli alla solidarietà, mozioni degli affetti, futuro paradisiaco, c’è tutto l’armamentario della propaganda (neanche granché raffinata).

E qua casca l’asino; perché se il governo Draghi ha di per sé il pregio di essere il più credibile tra i governi italiani degli ultimi quindici anni, il premier non ha la vocazione a perderla, in particolare per manovre mediocri. Onde ben fa Draghi a ripetere che questo è il momento di dare quattrini ai cittadini e non di toglierli. Finché è coerente, la sua credibilità non ne risente.

Teodoro Klitsche de la Grange

L’EUROPA IN TRANSIZIONE DI FASE, di Pierluigi Fagan

L’EUROPA IN TRANSIZIONE DI FASE. Nella logica dei sistemi, le transizioni di fase sono cambiamenti strutturali dello stato, logica o ordine interno del sistema. Considerando l’Europa politica (l’UE) un sistema, vediamo di fare una fotografia aggiornata di quella che sembra proprio una transizione di fase.
La notizia, ed è una vera e propria notizia, è che Italia e Francia starebbero per firmare un trattato bilaterale, sul tipo di quello a suo tempo firmato da De Gaulle ed Adenauer agli albori della Comunità europea (1963), poi rilanciato nel famoso trattato di Aquisgrana (2019) tra Francia e Germania. Di questo hanno discusso nel recente incontro di Marsiglia Macron e Draghi, per cui pare che ora la bozza approvata a Parigi sia in ultimo esame a Roma per poi arrivare alla firma. I temi dell’accordo sono vari ma alcuni sono più rilevanti di altri.
Il tema fondamentale però, non è un contenuto dell’accordo ma l’accordo stesso. Gli accordi bilaterali Francia e Germania erano di corredo alla ragione prima sottostante la stessa idea di Comunità e poi Unione europea ovvero incatenare tra loro le due potenze continentali che hanno dato vita a una lunga sequenza di guerre lungo gli ultimi tre secoli. Erano quindi accordi diciamo “difensivi”, a difesa dal pericolo del riproporsi di una sregolata competizione diretta. Ma i singoli stati europei oggi, non vivono più una fase in cui il primo pericolo è interno, ma esterno. Russia, Cina, Medio Oriente, Africa, pandemie, nuove tecnologie, corsa allo spazio, precario sviluppo economico, migranti, difesa, demografia, ecologia, sono la sempre più problematica agenda del mondo a cui ci si deve politicamente adattare.
In più, l’atteggiamento americano verso l’Europa inaugurato da Trump, pur con stile diverso, viene conformato nei fatti da Biden. Gli USA hanno problemi loro, strategie loro, nuovi egoismi quali nascono dall’essere sottopressione e vivere una fase di contrazione di potenza. Tra cui l’ossessione cinese che invece per gli europei, tale non è affatto, anzi. Tanto per dirne una, il prossimo 24 settembre, Biden farà un vertice QUAD con Australia, India e Giappone ovvero l’asse Indo-Pacifico, il vero contesto primo delle preoccupazioni americane ovvero il contenimento della Cina. A tale proposito, spero siano fake news quelle che spifferano di una eventuale intenzione americana di aprire una propria base a Taiwan. Lo spero proprio, la reazione cinese potrebbe esser imprevedibile.
Passando dalla fase “difensiva” a quella “progettuale”, i francesi hanno dovuto prender atto che ciò che gli unisce alla Germania è davvero poco, se si esce da una logica di relazione di convenienza limitata, senz’altro meno di quello che li unisce all’Italia e più in generale ai paesi latino-mediterranei. Potenza della geo-storia, questa logica a lungo trascurata per dominio della logica puramente economicista. Da un paio di anni, la Francia capeggia per molti versi le richieste verso l’Europa del gruppo latino-mediterraneo di cui, in tutti i sensi, fa parte anche se da sempre coltiva una sua schizofrenia interna che vagheggia un asse franco-carlomagnesco.
In più, i tedeschi sono anche loro in transizione di fase. Lo sono perché lo è l’Europa ed il mondo (vedi “globalizzazione”), ma anche perché dopo sedici anni, perderà la sua capofamiglia, la signora Merkel. Tra undici giorni si vota per il nuovo Bundestag e nuovo Cancelliere. Al momento, si prevede un successo SPD ma soprattutto un crollo verticale di CDU/CSU, tanto da presentare l’ipotesi di un governo SPD-Verdi-Liberali con i democristiani fuori, una vera novità tellurica. Ma è prematuro fare congetture sull’esito del voto, però si possono fare tre considerazioni. La prima è che la Germania termina la sua lunga stabilità in accordo ad una relativa stabilità del quadro mondiale. La seconda è che l’eventuale coalizione “semaforo” è più numerica che politica. La terza è che sarà molto importante capire come e se si sposteranno gli equilibri interni alla Germania in rapporto ai problemi europei cosa che in sostanza si capirà quando verrà stabilito il ministro delle finanze, pare non prima di dicembre. I tedeschi impiegano molto tempo a fare un governo di coalizione dopo le elezioni, poi dura tutta la legislatura. Noi facciamo governi di coalizione in una settimana, poi durano qualche mese.
Due questioni, più di ogni altra, si presentano in chiave europea. La prima è la riforma del Patto di Stabilità. Qui si stanno già da tempo muovendo i pezzi sulla scacchiera con Francia-Italia e paesi latino-mediterranei da una parte e Austria, Finlandia, Paesi Bassi, Danimarca, Lettonia, Slovacchia, Svezia e Repubblica Ceca, dall’altra. In gioco, ovviamente, le questioni di bilancio, il debito comune e tutta la cascata di dettagli architettonici dell’economia e finanza dell’Unione per i prossimi anni che i latino-mediterranei vorrebbero più simili agli ultimi due che non ai precedenti intercorsi tra il 1997 e l’inizio della pandemia. Ma è forse la seconda questione la più importante. All’interno della Commissione, gli italo-francesi vorrebbero portare il principio di maggioranza semplice rompendo il paralizzante dogma dell’unanimità. Ad occhio, infatti, gli otto paesi detti “frugali” contano -tutti assieme- un terzo di popolazione dei cinque latino-mediterranei e gli interessi delle nazioni si pesano, non si contano solo come diceva il buon vecchio Cuccia a proposito delle azioni nei consigli di amministrazione. E’ ovvio che questo nuovo principio sovvertirebbe le logiche unioniste ed è quindi ovvio si aspetti di vedere cosa succede in Germania per capire i margini di manovra di tale possibile innovazione che procurerebbe qualche strappo politico di una certa rilevanza.
A latere, ci sono anche le questioni sulla nuova forza armata di pronto intervento europea con seimila effettivi tra esercito-marina-aeronautica. Piccola forza, ma di una certa rilevanza politica e geopolitica. La forza, infatti, presuppone un comando politico e questo, di nuovo, deve prodursi per maggioranza semplice stante che tale forza sarebbe in pratica fatta da francesi, italiani, spagnoli e tedeschi ed agli interessi geopolitici di questi risponderebbe. Interessi geopolitici che per Spagna, Francia ed Italia, non possono che esser mediterranei (Africa, Medio Oriente, Turchia) come geo-storia indica con precisione.
Ci sarebbe molto altro da dire ed approfondire su tutte queste ed altre questioni, ma qui siamo su un formato che ci limita. Aggiungerei solo due cose.
La prima è che dell’eventuale nuovo trattato italo-francese abbiamo anticipazioni, ma ovviamente nessun contenuto preciso. Il tono però sembra complesso e non solo formale. Si prevedono, almeno nelle intenzioni, forti intendimenti comuni certo economici, ma anche politici, culturali, geopolitici, insomma qualcosa di più che non una amicizia occasionale. Il che, lo diciamo chiaramente, ci piace assai. Chi segue questa pagina da più tempo, saprà che per quanto alle mie analisi, il futuro auspicato è quello di una vera Unione politica dei paesi latino-mediterranei, costituzionalizzata e parlamentare, quindi democratica e politica. Lo richiede l’adattamento al mondo dei prossimi trenta anni. La sovranità non è un principio astratto, si deve difendere con la potenza ed oggi, nessun singolo stato europeo ha la potenza adeguata. E quanto a “potenza” non ci sono solo questioni militari, si tratta anche di nuove tecnologie, investimenti e ricerca, politiche energetiche, questioni demografiche, peso geopolitico, peso economico-finanziario-monetario, peso culturale. Naturalmente questo prescinde da simpatie ed antipatie, anche da Macron e Draghi, non sottostima il pericolo che la Francia pensi di dominare la relazione a proprio egoistico vantaggio. Non so se mai si farà, come e quando, però dai contenuti che emergono del trattato una certa propensione a davvero unirsi ad altri per aver maggior massa che è presupposto della potenza necessaria a far qualsiasi cosa, sembra emergere. Ma siamo alla prima riga di un lungo romanzo ipotetico. Vedremo.
La seconda è che Italia e Francia sono i due soli paesi europei in cui si applica il Green Pass con una certa decisione. I due paesi hanno una quota vaccinati (completi) simile intorno al 67%, più bassa di Spagna e molto più bassa di Portogallo. I greci, invece, stanno più indietro. L’obiettivo mai esplicitato ufficialmente, ma quello che si ritiene a grana grossa tale, è arrivare il prima possibile almeno ad una copertura del 75%. Questo darebbe ragionevole garanzia (“ragionevole” per quanto lo permetta lo stato attuale delle conoscenze su questo virus che, come tutti notano, è quantomeno incerta) di un più limitata circolazione del virus, limitata cioè “gestibile” senza ricorrere di nuovo alle zone colorate, alle chiusure o limitazioni segmentate o addirittura a nuovi lockdown. E’ la capienza ospedaliera che fa da termine ultimo, fatto questo noto da due anni ma su cu i governi tacciono per pudore e cattiva coscienza e gli anti-governisti tacciono perché vanno appresso ad una loro nuvola di diversi presupposti per sostenere la loro narrazione sulla dittatura biopolitica ordita a Davos che ha come obiettivo ultimo la sola Italia perché “chi doma l’Italia doma il mondo”. Potenza degli immaginari. Problemi di gestibilità invece, attiverebbero di necessità nuove norme limitanti che limiterebbero la ripresa economica che limiterebbero lo spazio di agibilità politica per andare in Europa a richiedere di estendere in permanenza forme di debito comune e minor ossessione sulle politiche di bilancio. Quindi i due governi italiano e francese sono quelli che vanno più per le spicce, hanno fretta e non possono sbagliare, questo è per altro noto a tutte, ripeto “tutte” le fazioni politiche di governo e non in Italia che infatti stanno zitte, assecondano o giocano a fare la forza di lotta -su twitter- e di governo -nei fatti-. Fallire la ripresa economica e fallire l’utilizzo dei miliardi -per quanto condizionati- dati dall’UE, sarebbe la morte per il progetto di parziale modifica della logica UE italo-francese. E si tenga pure conto che Macron, ad aprile, va ad elezioni e sulla carta, pure non proprio per lui promettenti.
Bene, il post è ricco, lo saranno immagino anche i commenti. Tutti benvenuti eccetto quelli che invece di trattare l’argomento nel suo insieme ovvero nel suo complesso, estrapoleranno singoli fatti per esprimere qualche inutile, più o meno biliosa, convinzione personale non poggiata su analisi razionali. Del tutto da evitare, invece, polemiche sulle faccende Covid, il post non è su quello. Per vostra conoscenza non sono favorevole al Green Pass, lo sono personalmente verso i vaccini, preferirei lo sviluppo di forme di cura a casa per evitare le temute invasioni ospedaliere, trovo l’intera gestione di comunicazione del problema Covid delirante con distribuite responsabilità tra Governo, circo mediatico ed una certa parte di area critica egemonizzata da vari tipi di deliri anche psichici, ma non è di questo che il post invita a discutere.

 

Giorgia Meloni en français_a cura di Giuseppe Germinario

Non siamo soliti riprendere interviste di leader politici italiani. La stampa italiana offre sin troppo spazio e piaggeria ai nostri pressoché inutili protagonisti. L’intervista del settimanale francese “Valeurs Actuelles” https://www.valeursactuelles.com/ a Giorgia Meloni rappresenta quindi un’eccezione alla regola e una conferma che un minimo di chiarezza di termini la si può trovare su lidi stranieri. I motivi sono il fatto che Giorgia Meloni si avvia a qualificarsi come leader di un centrodestra che all’avvicinarsi delle elezioni sembra sempre più destinato a sparigliarsi in parallelo ai problemi di stallo e di decomposizione dello schieramento avverso. Una eccezione giustificata dalla maggiore coerenza delle posizioni assunte nel merito e nel tempo, facilitate dalla postura politica e dalla strutturazione storica del partito. Una coerenza che dovrà fare i conti con i punti critici della sua costruzione analitica. “L’Europa delle Nazioni” è il richiamo sul quale si appoggia la leader nel tentativo di prospettare una nuova costruzione europea; la costruzione di un asse latino-mediterraneo lo strumento per riequilibrare i rapporti di forza interni all’Europa. Manca però una riflessione sul sostanziale fallimento di quella prospettiva, del tutto ignorata e osteggiata dagli altri paesi europei. Una mancanza non casuale in quanto nell’intervista vi è un grande assente, gli Stati Uniti d’America, il vero dominus dell’Occidente. Un egemone che per perpetuare la propria posizione ha bisogno di giocare su almeno tre poli europei debilitati in competizione che di due aree più caratterizzate che potrebbero spingere la Germania a posizioni più autonome. In questa ottica le rivalità europee possono essere viste in funzione della ricorrente conquista di un rapporto privilegiato con gli USA, piuttosto che una dinamica di sganciamento da questi, specie con la probabile permanenza di Macron in Francia e della componente più atlantista della CDU-CSU in Germania. La finestra aperta dall’avvento di Trump si è ormai chiusa e la collocazione geopolitica della Meloni e di FdI non sembra dare adito a dubbi. La Meloni, in sovrappiù, è stata la maggiore artefice, in un gioco speculare con i progressisti, della riproposizione della dinamica destra-sinistra alternativa e complementare al processo di assorbimento nello schieramento liberal-progressista promosso da altre forze. Uno scotto il cui pagamento non dovrà tardare a pagare sulla sua coerenza, viste le fibrillazioni e la frenesia “statica” delle dinamiche politiche italiane. Buona lettura_Giuseppe Germinario

GIORGIA MELONI:“È ORA DI COSTRUIRE UN’ALLEANZA TRA NAZIONI DELL’EUROPA LATINA”
La figura emergente della destra
L’italiana spiega le ragioni
della sua lotta e di ciò che vuole
per il suo paese. Ci dice anche lei
come un’alleanza franco-italiana
può cambiare l’Europa.
Intervista di Antoine Colonna

Rifiutando, a differenza di Matteo Salvini, di entrare a far parte del governo di Mario Draghi, hai affermato la tua linea e ora sei in testa ai sondaggi.
Hai anche appena rifiutato la fusione con Berlusconi. I compromessi non sono il tuo forte?

Ci impegniamo per gli italiani a non appoggiare i governi di sinistra e il Movimento 5 Stelle (M5S), perché noi crediamo che la convivenza con loro possa portare solo a compromessi al ribasso, che i promotori non sono utili all’Italia, soprattutto in questa fase storica. La storia di questa legislatura ha purtroppo dato ragione: il governo Lega-M5S non ha avuto un impatto, il governo M5S-Partito Democratico è stato disastroso e accompagnò l’Italia negli abissi durante la pandemia e il governo Draghi non è comunque riuscito a fare il cambio di passo che molti si aspettavano.
Per quanto riguarda il partito unico di centrodestra, ho fondato Fratelli d’Italia (FdI) proprio perché ho capito che il partito unico di centrodestra (il Popolo della Libertà, di Berlusconi, all’epoca) non aveva funzionato e aveva gradualmente emarginato la rappresentazione delle idee di destra. Ecco perché preferisco una coalizione unita di centrodestra ma plurale al partito unico. non ho intenzione portare i nostri elettori, un’altra volta, su vecchie strade che si sono già rivelate infruttuose e mi sembra che gli italiani apprezzino la chiarezza di queste posizioni, che riempie di orgoglio.
Sei stata recentemente eletta alla guida del partito ECR (Conservatori e Riformisti europei). L’hai spesso menzionato l’idea di un’Europa confederale, proposta dal generale de Gaulle. È questa ancora la tua idea?
Assolutamente, questa è la visione alternativa che noi vogliamo portare alla Conferenza sul Futuro d’Europa, che è stato appena lanciato dall’Unione europea ma che è concepita come un semplice podio che porta ad un risultato prestabilito in direzione federalista, senza alcun spazio all’autocritica. La sua tesi è allo stesso tempo semplice e sbagliata: se l’Europa non funziona
non è perché non ha abbastanza potere; togliamo quindi la sovranità agli Stati nazionali, lascia che passi a Bruxelles e tutto andrà di bene in meglio. La gestione dell’attuale crisi sanitaria, dove il tentativo della Commissione Europea di subentrare agli stati si è rivelato un disastro, ha recentemente negato questo principio.
Crediamo nell’idea che l’Unione Europea non debba fare altro che farle bene, non dovrebbe fare tutto, ma agire solo nei settori in cui può portare un reale valore aggiunto ai suoi cittadini. Ad
esempio, per quanto riguarda il Gafam, la concorrenza sleale dei mercati extraeuropei, dumping fiscale, sicurezza delle frontiere, lotta al terrorismo e sinergie in politica estera; deve rispettare la sovranità nazionale, dove risiede la vera democrazia, e il principio di sussidiarietà, che porta il potere di scelta dei cittadini valorizzando le specificità di ogni nazione e di ogni popolo. Il famoso slogan “L’Europa delle nazioni” di cui parlava anche de Gaulle.
In questo contesto, che futuro vuoi per l’euro?

L’euro è una moneta, come tale uno strumento, mentre negli ultimi anni si è trasformato in un fine; i risparmi dei cittadini di alcuni paesi, Italia al prima posto, si sono piegati alla sua stabilità. Inoltre, è
una moneta nata male, con una forza definita più in base alle esigenze tedesche rispetto alle esigenze europee, in cui l’Italia è entrata ancor peggio con un tasso di cambio troppo alto. Quando un’area valutaria comune si crea anche tra economie diverse, è necessario fornire compensazioni tra coloro che beneficiano del moneta unica e coloro che essa svantaggia. Non è stato così e, dopo la crisi finanziaria del 2008, la Banca centrale europea ha dovuto svolgere questo compito, anche se parzialmente e indirettamente, al fine di evitare l’implosione della zona euro, ma questo ha dato origine a nuove tensioni tra i paesi cosiddetti “frugali” e paesi più indebitati come l’Italia.
La nostra economia è profondamente interconnessa e, con l’altissimo livello del nostro debito pubblico aggravato dalla pandemia, sarebbe impossibile uscirne. Quello che è certamente necessario, invece, è una riforma approfondita delle norme di accompagnamento.
Pensa, ad esempio, che dal 1 gennaio 2023, il patto di stabilità potrebbe essere ripristinato in vigore con i parametri di riduzione di debito in vigore prima della pandemia; è follia e provocazione inaccettabile.
Sarebbe come massacrare la società e uccidere aziende anche quando dovrebbero ricominciare. E questo annullerebbe tutto il lavoro, anche imperfetto, eseguito sul fondo per il recupero e resilienza.
Con l’emergenza Covid, gli italiani però, tra i più fiduciosi nella costruzione europea, sentivano di essere traditi da Bruxelles. Quali tracce quando la crisi se ne andrà?
I primi mesi hanno sicuramente lasciato un po’ di tracce, come se pensassimo in Europa che
noi italiani avevamo una responsabilità specifica nell’innescare la pandemia.
Purtroppo abbiamo avuto solo la sfortuna di fare da cavia per tutti, permettendo ad altre nazioni europee di osservare ciò che stava accadendo e di evitare i nostri errori. C’era
certamente responsabilità politica nei dettagli attribuibili al precedente governo e Fratelli d’Italia furono i primi a evidenziarli fortemente. Ma la percezione che avevamo dell’Europa era pessima: mentre chiedevamo respiratori e maschere, altri paesi dell’Unione Europea impedivano le esportazioni, i nostri autotrasportatori erano bloccati alle frontiere e, in un pomeriggio, Christine Lagarde [Presidente della Banca European Central, ndr] ha bruciato dozzine di miliardi di euro di denaro italiano con un solo comunicato stampa. Un disastro. Poi venne l’idea di un debito comune per finanziare la ripresa, un’idea giusta anche se si tratta di un tuffo tardivo, che porterà molti soldi per l’Italia ma con troppe condizioni politiche grazie alle quali pagheremo il conto. Infine, c’è stata la cattiva gestione della questione vaccini, con contratti opachi scritti sulla sabbia e la comunicazione confusa che ha creato incertezza tra i cittadini. In breve, l’Europa della pandemia ha molto da farsi perdonare.
Emmanuel Macron e Mario Draghi hanno molte vicinanze. Noi stiamo parlando di un “trattato del Quirinale” sul modello di quello dell’Eliseo che la Francia ha firmato per il riavvicinamento franco-tedesco. Cosa ne pensi?
Trovo paradossale che chi sostiene allora l’azione da campioni dell’europeismo, agisce attraverso trattati bilaterali, ammettendo di fare quello che diciamo da tempo, vale a dire che le strutture comunitarie attuali non sono in grado di rispondere alle esigenze dei cittadini europei. Detto questo, io non so se un’iniziativa simile al trattato sul modello franco-tedesco sia la più efficace, ma sono convinta che i nostri due paesi devono cercare un nuovo modo per impostare le proprie relazioni. In passato, purtroppo, ai nostri occhi le autorità francesi sull’Italia sembravano più concentrarsi sulle possibilità di acquisire i nostri beni e parti preziose del nostro sistema di produzione piuttosto che concentrarsi sullo sviluppo di una partnership strategica; cosa che ha generato il risentimento dell’opinione pubblica italiana verso il tuo paese. Anche questo è spiegato dal fatto che accanto alla determinazione con con cui la Francia ha sempre difeso il suo interesse nazionale, abbiamo assistito alla facilità con la quale i leader italiani erano pronti a svendere i nostri interessi. È quindi necessario ricreare un clima di fiducia, amicizia e cooperazione tra i nostri due popoli, perché noi
abbiamo così tante sfide comuni da superare.
Vorresti un’alleanza latina tra Francia e Italia? Credi che questo sia un movimento necessario per controbilanciare il peso della Germania?
Assolutamente. Fino ad ora, la Francia spesso ha preso la guida di un asse mediterraneo, ma solo per ragioni opportunistiche, per aumentare il tuo potere contrattuale al tavolo con la Germania, senza molto successo. È tempo di passare dalla tattica alla strategia, provando a costruire una vera alleanza tra nazioni dell’Europa latina, grazie alle somiglianze in termini di identità, storia, lingua, tradizioni, costumi, valori, vocazione; la geopolitica e le emergenze da affrontare possono dare un impulso nuovo e alternativo al progetto Europeo. Se un minimo di pressione coordinata tra Italia, Francia e Spagna sulla Germania è bastato a tenerla lontana dalle sirene di paesi del Nord e per convincerla a porre uno strumento di redistribuzione come il fondo di stimolo, immagina cosa potremmo fare se ci organizzassimo come i paesi di Visegrád o della Nuova Lega Anseatica. Ci sono molti argomenti sui quali una forte cooperazione tra i nostri paesi potrebbe portare l’Europa a un cambio di passo. Pensa a un cambiamento nei paradigmi economici che governino l’Unione Europea o al superamento di iniziative inefficaci come il Trattato di Dublino e il Patto migratorio per la gestione dei flussi migratori e, più in generale, la strategia per il Mediterraneo e l’Africa
dove l’Unione brancola nel buio ma dove la sinergia tra Italia e Francia potrebbe favorire
stabilizzazione di aree come il Sahel e Nord Africa, prevenendo, da un lato, la proliferazione del terrorismo islamista e, dall’altro il contenimento della penetrazione di potenze straniere come Turchia e Cina.
Poi c’è la questione dell’industria manifatturiera, dove entrambi ci inseriamo nella grande tradizione che è stata soffocata dalle redini dell’Unione Europea e dove potremmo, al contrario, cooperare per raggiungere l’Asia e l’America in termini, ad esempio, di tecnologia in prodotti all’avanguardia e di alta qualità generale. Inoltre Italia e Francia sono due nazioni il cui gigantesco retaggio culturale è un vettore di influenza e soft power nel mondo; un strumento in grado di garantire all’Europa un posto al sole sull’attuale scena internazionale; insomma non una semplice reazione alle tendenze egemoniche tedesche, ma l’ambizione di un vero progetto strategico che mira a costruire un nuovo modello di Europa, di identità sociale e geopolitica, che mette le persone e non i mercati al centro.
Quanto alla Francia, come vede il suo futuro politico? Cosa ispirano Emmanuel Macron, Xavier Bertrand, Marine Le Pen, Éric Zemmour, Marion Marechal a cui a volte vieni paragonata in termini di linea politica?
Seguo gli sviluppi politici francesi con grande curiosità e, da osservatore esterno, mi è sempre dispiaciuto vedere un sistema politico bloccato in cui gli elettori che non si identificano con la sinistra sono incapaci di avere una rappresentanza unificata. Certo, conosco le ragioni storiche di
questa situazione, ma spero che prima o poi saranno superate. Da quando sono stata eletta Presidente dei Conservatori Europei, mi sforzo ad operare per favorire lo sviluppo di un partito di
destra in tutto il continente che non tradisce valori e che possano trasformarli in una offerta politica matura, concreta e credibile, in modo che non siano emarginati, ma che diventino azione di governo. Noi costruiamo una famiglia politica che possa fare affidamento su forti realtà nazionali e
affermati ovunque, a cominciare dall’Italia, Spagna e Polonia, e con partnership in tutto l’Occidente. In questo panorama, ovviamente posso guardare solo con grande interesse una nazione importante come la Francia e siamo pronti a collaborare con chiunque nel tuo paese condivida questo progetto.
Hai appena pubblicato una storia scritta in prima persona: Io sonoGiorgia, che rieccheggia la tua celebre frase: “Io sono Giorgia, sono una donna, Sono una mamma, sono italiana, sono cristiana! Puoi sentire che la tua esperienza, l’assassinio del giudice Borsellino, ti ha segnato.
Come se volessi “aggiustare” la società…
È vero, le stragi mafiose del 1992 sono state la scintilla che mi ha portato all’attivismo politico. Ero molto giovane, ho visto un’Italia tradita da una classe politica corrotta eattaccata al cuore da un contropotere mafioso. Non potevo accettarlo e ho scelto di bussare alla porta dell’unica forza politica che era estraneo alla mafia e alla corruzione. Vedi, per me la politica è sempre stata prima di
tutto una lotta per il bene della mia patria, che ho sempre vissuto come la mia famiglia allargata secondo questo principio di comunità che trae origine in famiglia e si estende a cerchi concentrici
come ci ha insegnato Aristotele.
Quindi mi sono sempre sentita in dovere di agire per difenderla, per garantirle il benessere, per riparare le sue ferite. Questo è quello che si intende politico per me, prima ancora che potere, nomine e dinamiche elettorali; questo è anche il motivo per cui ho deciso di accettare di raccontare la mia storia in un libro, qualcosa che di solito non faccio di mia spontanea volontà, proprio per aggirare il filtro delle ricostruzioni giornalistiche, che si limitano ovviamente a un resoconto parziale e strumentale dei propri interessi; spiegare alle persone la vera natura della missione
che sto perseguendo. Vederlo come il più venduto è stato una sorpresa straordinaria, perché ha confermato che gli italiani volevano conoscere meglio la natura della mia passione e del mio impegno politico. È vero che attraverso queste pagine si può capire molto del mio carattere e quindi anche sul mio modo di intendere la vita e la politica, che sono entrambe guidate dallo stesso principio guida: non fare niente non sono completamente convinta.
Tra le grandi sfide che attendono l’Italia, c’è la demografia. Come? “O” Cosa?
restituire alle donne italiane “il diritto di essere”madre”?

Fin dalla sua creazione, Fratelli d’Italia ha preso l’iniziativa nel proprio programma elettorale dell’emergenza demografica e il sostegno alla famiglia come pilastro economico, sociale e valoriale della nostra Comunità. Avevamo ragione, perché, dieci anni dopo queste domande sono più che mai
attualità e non abbiamo smesso di lavorare ogni giorno per affermarlo, sia in Italia che in Europa, dove, come presidente dei conservatori europei, combatto quotidianamente contro i tentativi della sinistra di imporci politiche che vanno nella direzione opposta sostenendo che l’immigrazione compenserà il declino demografico dei popoli europei.
La verità è che viviamo in un’epoca in cui tutto ciò che ci definisce è sotto attacco. La nostra identità nazionale è sotto attacco, e ancora di più il ruolo della famiglia, diritto alla vita, libertà educativa dei genitori e nostra identità sessuale. Cercano di rompere ogni punto di riferimento dell’identità e della comunità dell’essere umano per svuotarlo di qualsiasi arma di difesa
e modellarlo a immagine e somiglianza di interessi di mercato. Ecco perché non lo facciamo,
non dobbiamo aver paura di rivendicare e riaffermare questi valori, ma soprattutto, una volta al governo, dobbiamo essere pronti a dare risposte concrete, a partire da regimi fiscali favorevoli alle famiglie, asili nido gratuiti e di sostegno per le giovani madri che scelgono di non abortire.
Il tuo prossimo grande appuntamento politico saranno le elezioni comunali di Roma, il prossimo ottobre. Prendere Roma, non è simbolicamente molto di più di prendere una città?
Roma è la nostra capitale e, negli ultimi anni, ha sofferto della cattiva gestione del movimento 5 stelle. È quindi soprattutto una città che dobbiamo salvare da un declino inaccettabile per ciò che rappresenta, per la sua storia di faro della civiltà europea e per la cultura millenaria che incarna. Lo stesso giorno si svolgeranno anche le votazioni in altre importanti città italiane, come Milano, Torino, Napoli e Bologna. È una tendenza diffusa in tutta Europa che la destra è forte nelle province ma incapace di esprimere un’offerta politica tale da convincere la maggioranza degli abitanti nelle grandi città, i cui profili economici e sociali sono sicuramente più elitari e quindi meno consapevoli delle conseguenze negative del sistema in cui viviamo. Io credo che la destra debba colmare questa lacuna dall’espressione di proposizioni e classi dirigenti leader in grado di portare il diritto di amministrare i centri maggiori, come fa Fratelli d’Italia, che – pur essendo un partito relativamente giovane – governa già due importanti regioni del centro-sud Italia (Marche e Abruzzo) e città come
Catania, Cagliari, Verona •

RIFORMA CARTABIA, PER PICCINA CHE TU SIA…, di Teodoro Klitsche de la Grange

RIFORMA CARTABIA, PER PICCINA CHE TU SIA…

Scusate se insisto; ma la discussione sulla “riforma” Cartabia ha ridestato gran parte dei luoghi comuni sulla giustizia. Uno dei quali è che, sanzionando comportamenti di amministratori e funzionari si sarebbero indotti gli stessi a non decidere; col risultato di rendere (ancora) più inefficienti le P.P.A.A. italiane. Vero è che l’attenzione si è focalizzata su un reato specifico cioè l’abuso di potere (art. 323 c.p.) la cui formulazione è così vaga da prestarsi ad interpretazioni plurime (e contrastanti).

Se è certo che detto reato si presta a strumentalizzazioni (anche) politiche, lo è altrettanto che escludere, ridurre o rendere inefficaci le sanzioni non può che incentivare a commetterlo. Funzione della sanzione è, come scriveva Carnelutti “Sancire, significa fondamentalmente, in latino, rendere inviolabile e perciò avvalorare qualche cosa; ciò che viene avvalorato, in quanto si cerca di impedirne la violazione, è il precetto, in cui l’ordine etico si risolve… in quanto la sanzione garantisce l’osservanza dell’ordine etico, converte il mos in ius perché meglio congiunge, così tiene uniti, gli uomini nella società”; ma aggiunge “non v’è alcun motivo per riservare al castigo il carattere della sanzione: serve a garantire l’osservanza dell’ordine etico il premio al pari del castigo; praticamente e, per ciò, storicamente, il premio ha però una importanza assai minore”.

Per cui a seguire il ragionamento di Carnelutti non sanzionare vuol dire non avvalorare (almeno) la norma. Resta il fatto che senza sanzione il precetto è zoppo: ma non è detto che a sanzionarlo debba essere la prescritta irrogazione di una pena dal giudice penale. In effetti, come scriveva il giurista, la sanzione può essere la più varia: al punto che può consistere in un premio per chi osserva (e fa osservare) il diritto.

Nella specie l’inconveniente della prescrizione di pena è stato aumentato dalla legge Severino, che ha previsto sanzioni “politiche” a carico di amministratori di enti pubblici, anche in caso di sentenze non definitive (compresa la sospensione e decadenza dall’ufficio) come l’impossibilità di ricoprire la carica per la quale erano stati scelti dal corpo elettorale. Per cui rende più appetibile per togliere di mezzo un amministratore scomodo, di ottenere una sentenza penale di condanna dalla quale consegue la sospensione o la decadenza dalla carica.

Circostanza la quale unitamente al fatto che si tratta di sentenze non definitive (ma politicamente efficaci) ha indotto molti a ritenerla incostituzionale. Un primo passo per evitare ciò sarebbe l’abolizione della legge Severino, fatta, come tutti hanno capito, non per amore di giustizia, ma per il fine di parte di mandare a casa Berlusconi, a dispetto del popolo italiano che s’intestardiva a volerlo come proprio governante. Che è, per l’appunto, uno dei quesiti dei referendum Lega-radicali.

Ma, oltre a ridurre l’appetibilità e le conseguenze politiche, togliendo la suddetta normativa, la sanzione può essere utilmente ricondotta alla conseguenza di una condanna civile e amministrativa.

Non nel senso, però, di togliere l’amministratore dall’incarico, ma utilizzando la vasta gamma di sanzioni previste dall’ordinamento. All’uopo rinforzandole e rendendone meno saltuaria l’applicazione. Prendiamo ad esempio la c.d. astreinte, cioè la sanzione pecuniaria a carico dell’amministrazione che non adempie una sentenza (!!!), malgrado l’obbligo relativo risalga (almeno) alla Destra storica (v. all. E, L. 2248/1865). In Italia è stata prescritta dall’art. 114 (lett. E) del c.p.a. (D.Lgs. 02/07/2010 n. 104), la quale è una delle poche disposizioni (forse l’unica) che nella seconda Repubblica, ha previsto un rimedio a favore dei creditori delle P.P.A.A., tra una miriade di precetti volti a tutelare le amministrazioni dalle pretese altrui, derogando al diritto comune.

Ebbene (ingenuamente?) il precetto è stato formulato premettendo l’eccezione “salvo che ciò sia manifestamente iniquo”: è bastato questo per allargare a dismisura il perimetro dell’iniquità (??), oibò, di chiedere alle P.P.A.A. di adempiere a sentenze e giudicati nei modi stabiliti dai giudici e dalla legge. C’è una sterminata messe di decisioni giudiziarie limitanti l’applicazione dell’astreinte perché sarebbe “manifestamente iniquo” sanzionare uno Stato “in bolletta” come la Repubblica italiana. Ovviamente tale giurisprudenza burofila ha dimenticato quanto scriveva Jhering del diritto romano “classico” che “La pena pecuniaria era il mezzo civile di pressione, onde il giudice usava, per procacciare ed assicurare l’osservanza agli ordinamenti suoi. Un convenuto, che si rifiutasse a fare ciò che il giudice gl’imponeva, non se la cavava col semplice pagamento del valore della cosa dovuta” (il corsivo è mio). Basterebbe eliminare quell’inciso per ottenere un ridimensionamento del garantismo burofilo. Ancora meglio associarlo, ex art. 28 della Costituzione, ad una sanzione pecuniaria – anche modesta – a carico del funzionario inadempiente. E di esempi così ne potrei fare diversi, a costo di annoiare il lettore, più di quanto abbia già fatto.

Piuttosto tornando a Jehring, il giurista tedesco sosteneva che il tardo diritto romano aveva debilitato il senso del diritto attraverso mitezza e umanitarismo. Da quello “robusto ed energico” repubblicano si era passati a una fiacchezza contrassegnata dal miglioramento delle “condizioni del debitore alle spalle del creditore”. Ai nostri giorni il maggior debitore è lo Stato: per cambiare andazzo, come si chiede l’Europa, basta non eccedere in mollezza, peraltro neppure generale, ma burofila. Come sosteneva Jhering “credo che si può stabilire questa massima generale; le simpatie verso i debitori sono segno di un periodo di fiacchezza. Il titolo di umanitario è esso stesso che se lo eroga”; il contrario, praticato nei regimi decadenti consiste ne “l’umanità di san Crispino, che rubava cuoio ai ricchi per farne stivali ai poveri”. E chissà che, ai giorni nostri, i pagamenti ai grandi creditori sono stati ritardati quanto quelli ai quisque de populo? Non mi risulta d’averlo letto.

Speriamo che i giudizi di Jhering possano ispirare anche la (di esso collega) Cartabia.

Teodoro Klitsche de la Grange

MACHIAVELLI SU CONTE E I 5 STELLE, di Teodoro Klitsche de la Grange

MACHIAVELLI SU CONTE E I 5 STELLE

Siamo tornati a chiedere lumi a Machiavelli sulla crisi dei 5 stelle e il contrasto Conte-Grillo e ce l’ha gentilmente concesso.

Cosa ne pensa della vicenda Conte e del Movimento 5 Stelle?

Il Conte non era un politico ma un privato onde “Coloro e quali solamente per fortuna diventano di privati principi, com poca fatica diventano, ma assai si mantengono; e non hanno alcuna difficultà fra via, perché vi volano: ma tutte le difficultà nascono quando e’ sono posti”.

Infatti una volta insediato, a comandare è stato qualcun altro: Conte al massimo pesava per metà. Perchè questi governanti si reggono “sulla volontà e fortuna di chi lo ha concesso loro, che sono dua cose volubilissime et instabili, e non sanno e non possono tenere quello grado: non sanno: perché, s’e’ non è un uomo di grande ingegno e virtù, non è ragionevole che, sendo vissuto sempre in privata fortuna, sappia comandare; non possono perché non hanno forze che gli possino essere amiche e fedele”. Con buona pace dell’ “uno vale uno” (tale quando voti, non quando governi).

Quindi la caduta del governo Conte 1…

È la conseguenza di quanto ho appena ripetuto. Conte era la “testa di legno” di Salvini e Grillo. Durava finchè lo volevano loro.

Ma c’è un sistema per consolidarsi, o almeno conservare il potere conseguito “per arme altrui”?

Conte sapeva di non avere i voti, che sono per voi quello che per me erano i soldati.

Dato che non l’aveva, doveva procurarsene di propri, perché coloro che “così di repente sono diventati principi”, per conservare il potere debbono creare, una volta insediati al potere “quelli fondamenti” cioè ai tempi vostri, voti. Ma quando stava al governo, sia con la Lega che con il PD, poco ha potuto fare.

Ora che è fuori dal governo è assai difficile.

Scrissi che è meglio preparare i “fondamenti”, ossia i mezzi e condizioni per esercitare il potere, prima; nel caso di nomina per fortuna, almeno quando il governante s’è insediato; ma quando l’ha perso non l’ho considerato, perché raro anzi rarissimo.

Quindi fuori dal governo?

Può promettere ma poco, a meno che non trovi tanti sprovveduti, dei Messer Nicia, per capirci. Con i quali si può essere “larghi a promettere ma nell’attender corti”. Invece i suoi possibili seguaci, anche se digiuni di Stato (e di politica) quanto agli affari propri, sono dei Licurghi. Capiscono subito che può mantenere poco, e quindi poco (al massimo) manterrà. Ancor più per aver ridotto il numero dei parlamentari. Come scrissi al principe nuovo occorre assicurarsi dei nemici, procurarsi amici, punire i traditori, farsi amare e temere dal popolo: il tutto presuppone di stare al potere. E Conte ora non ci sta.

Ma potrebbe avere ancora il consenso degli elettori?

Che non aveva quando fu nominato al potere. E perché? Quando se l’è guadagnato? Se lo ottiene sarà sempre poco per tornare al posto di prima. Se invece lo consegue per “arme altrui” cosa tanto rara, di tornare al comando sempre per volontà degli stessi – il problema si ripropone comunque. Guarda un po cosa successe al vostro Monti: perse il governo, conseguendo poi alle elezioni europee con la propria lista, meno dell’1%: chi lo aveva designato pochi anni prima l’ha lasciato in naftalina, a scrivere articoli. Non crediate che siano più generosi col Conte. In politica la gratitudine, anche se talvolta necessaria, è merce rara.

Teodoro Klitsche de la Grange

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