Come il conflitto ucraino ha cambiato la Russia, di ROBERTO IANNUZZI

Come il conflitto ucraino ha cambiato la Russia

Il paese sta vivendo una fase contrassegnata da una battaglia esistenziale con l’Occidente, e da una ridefinizione dei suoi obiettivi strategici e della sua identità politica e sociale.

Putin in occasione della parata militare sulla Piazza Rossa, 9 maggio 2016 (kremlin.ruCC BY 4.0)

Più di due anni di conflitto in Ucraina non solo hanno rivoluzionato la politica estera russa, ma anche trasformato la società del paese forse irreversibilmente, al punto che la Russia ha oggi un’identità nuova e profondamente diversa rispetto ad alcuni anni fa.

Il ruolo internazionale del paese, la sua posizione nel mondo, gli obiettivi e la visione della sua classe dirigente – tutto è profondamente mutato.

Per la prima volta dal crollo del muro la Russia è realmente in guerra, non per risolvere qualche crisi ai margini della sua enorme massa territoriale, ma per combattere un conflitto esistenziale su un fronte lungo più di 1.000 chilometri, non molto lontano da Mosca, contro l’intero Occidente.

Gli Stati Uniti, infiltrandosi per anni in Ucraina, hanno trasformato quello che molti russi consideravano un paese fratello in un pericoloso nemico dal punto di vista di Mosca.

La breve parentesi della “pace fredda”

La crescente pressione e ostilità occidentale è riuscita a trasformare, nell’arco di poco più di due decenni, la leadership inizialmente forse più occidentalizzata ed europeista della Russia moderna – incluso lo stesso presidente Vladimir Putin – in una dirigenza fermamente determinata a contrastare le politiche americane ed europee nel continente.

Come ha affermato il politologo britannico Richard Sakwa, le radici della crisi fra Russia e Occidente vanno ricercate nei 25 anni di “pace fredda” seguiti alla fine della Guerra Fredda chiusasi nel 1989.

Durante questo periodo, non un solo problema della sicurezza europea è stato affrontato e risolto. Gli europei non sono riusciti a creare un’architettura di pace inclusiva in grado di integrare l’intero continente, preferendo la soluzione atlantista dell’espansione a oltranza della NATO.

Nelle parole di Sakwa,

“l’Occidente percepì la fine della Guerra Fredda nel 1989 come una vittoria, mentre nell’URSS di Gorbaciov si parlava di un ritorno ai valori umani universali e si contava su rapporti paritari con l’Occidente, riconoscendo l’economia di mercato e i diritti umani. Nel 1989 Gorbaciov era fiducioso che “lo spirito dell’aprile 1945” – quando i soldati sovietici e americani si abbracciarono sull’Elba – fosse tornato. Ma in Occidente avevano dimenticato da tempo questo spirito e si comportarono con l’URSS, e poi con la Russia, non come partner, ma come vincitori”.

Con il rovesciamento del presidente ucraino Viktor Yanukovych, al culmine della rivolta di Maidan sostenuta dagli USA nel 2014, la parentesi della “pace fredda” si chiudeva tragicamente per dar luogo ad una nuova, ed ancor più pericolosa, Guerra Fredda fra Russia e Occidente.

Mosca guarda al mondo non occidentale

E’ da quell’anno che in Russia si è cominciato a parlare di una “svolta verso Oriente”, verso l’Asia e il Pacifico. Ma molti di quei discorsi erano rimasti sulla carta. Gli ultimi due anni di guerra hanno invece prodotto una trasformazione epocale.

La massiccia mobilitazione occidentale a sostegno del governo di Kiev, il sabotaggio anglo-americano dei negoziati russo-ucraini nella primavera 2022, gli attacchi in profondità in territorio russo logisticamente supportati dalle intelligence occidentali, hanno provocato un radicale cambio di atteggiamento da parte russa, in particolare nei confronti degli ex partner europei.

Il nuovo “concetto di politica estera” formulato nel 2023 definiva per la prima volta la Russia non soltanto come uno Stato, ma come una “civiltà” distinta e come una potenza eurasiatica, estesa dall’Europa al Pacifico.

Le priorità della diplomazia russa mutarono di conseguenza, ponendo in primo piano i paesi del vicinato “post-sovietico”, seguiti da Cina e India, dall’Asia e dal Medio Oriente, dall’Africa e dall’America Latina. Europa e USA giungevano ultimi.

Come ha scritto Dmitri Trenin (politologo russo che, sebbene firma storica dell’americano Carnegie Moscow Center, dopo il febbraio 2022 ha deciso di tagliare i ponti con l’Occidente abbracciando in pieno la propria rinnovata identità russa),

“In appena due anni, l’Unione Europea, che fino a poco tempo prima rappresentava il 48% del commercio estero [russo], è scesa al 20%, mentre la quota dell’Asia è salita dal 26 al 71%. Anche l’uso del dollaro statunitense da parte della Russia è crollato, con un numero sempre maggiore di transazioni condotte nello yuan cinese e in altre valute non occidentali come la rupia indiana e il dirham degli Emirati Arabi Uniti […]”.

Mosca, sottolinea Trenin, ha anche abbandonato i suoi tentativi di adattarsi all’ordine mondiale a guida USA, che aveva entusiasticamente cercato di abbracciare all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, per poi rimanere disillusa e passare all’altrettanto difficile sforzo di trovare una scomoda convivenza con esso all’inizio del nuovo millennio.

La Russia forgiata dal conflitto ucraino considera l’attuale ordine mondiale come irreparabilmente compromesso e cerca, in maniera ben più esplicita della Cina, di costituire un ordine alternativo.

Dal punto di vista russo, non solo non ci si può più fidare dei paesi occidentali, ma gli organismi internazionali da essi controllati hanno perso ogni legittimità. Mosca ha dunque ristabilito la supremazia della legislazione nazionale sui trattati internazionali che aveva stipulato con l’Occidente.

In base a questa visione, i partner della Russia possono dunque essere trovati solo al di fuori del fronte occidentale, fra coloro che non prendono parte al sistema di sanzioni imposto da Washington e Bruxelles.

Mosca ha perciò profuso grande impegno nella presidenza di turno dei BRICS, assunta all’inizio del 2024, e lavora a stretto contatto con paesi asiatici, africani, mediorientali, latinoamericani, per creare meccanismi internazionali indipendenti dal dominio occidentale nel campo commerciale, finanziario, tecnologico, sanitario e dell’informazione.

Ritorno ai valori tradizionali

Anche sul fronte interno, il conflitto ucraino ha avuto un impatto enorme, sebbene la guerra sia concretamente avvertita solo nelle regioni di confine. Il patriottismo, a lungo vituperato e deriso dopo il crollo dell’Unione Sovietica, sta riemergendo con forza.

Valori tradizionali come quello della famiglia, ma anche quelli di sovranità, ordine e gerarchia all’interno di una società la cui armonia e salute è garantita dallo Stato, stanno anch’essi ritrovando vigore.

Sebbene il desiderio di arricchimento non sia scomparso in alcuni ambienti, esso è per certi versi temperato dalla sfida fatale che accomuna l’intera Russia, scrive ancora Trenin.

La cultura popolare sta progressivamente abbandonando l’abitudine di imitare ciò che è di moda in Occidente. Le tradizioni della letteratura, della poesia, dei film e della musica russa hanno invece trovato nuovo impulso.

Le icone culturali che dopo il febbraio 2022 avevano deciso di emigrare in Europa occidentale, in Israele o altrove, sono state rapidamente dimenticate. I giornalisti e gli attivisti russi che criticavano il paese dall’estero stanno perdendo contatto con la loro audience in patria, progressivamente accusati di servire gli interessi dei nemici della Russia.

L’Occidente non è visto come un avversario nel suo complesso. La cultura occidentale, nelle sue manifestazioni tradizionali (dunque a esclusione della cultura woke e dei valori LGBTQ), è tuttora apprezzata. Ma la politica e l’informazione occidentale sono viste in gran parte come nemiche.

L’oligarchia economica russa ha subito un’ulteriore scrematura. I magnati liberali che non hanno voluto rinunciare alle loro ricchezze in Occidente hanno finito per lasciare il paese. Gli altri hanno deciso di costruire il proprio futuro e le proprie fortune all’interno della Russia.

Naturalmente – commenta Trenin – vi sono persone rimaste insoddisfatte di scelte politiche che le hanno private di determinate opportunità. Soprattutto se fra gli interessi di queste persone vi era la ricchezza individuale. Gli esponenti di questo gruppo che non sono andati all’estero se ne stanno in silenzio, sperando in privato che, in qualche modo, i “bei vecchi tempi” ritornino. “È probabile che rimarranno delusi”, conclude Trenin.

Le “correzioni” del sistema

Le élite russe, che fin dagli anni ’90 avevano stretto forti legami con l’Occidente, hanno dovuto compiere scelte difficili. Coloro che hanno deciso di rimanere, hanno adottato un comportamento maggiormente in armonia con il patriottismo e la ritrovata identità nazionale della Russia.

Le diverse fazioni e i vari centri di potere che si confrontano nel panorama politico continuano a competere senza esclusione di colpi, ed a perseguire i propri interessi, purché essi non confliggano con il supremo interesse nazionale.

Gli eccessi vengono “autocorretti” dal sistema. E’ stato così per il caso Prigozhin. Più recentemente qualcosa di analogo è avvenuto al suo avversario, il ministro della difesa Sergei Shoigu, “promosso” da Putin a segretario del Consiglio di sicurezza della Russia, un organo importante ma dal valore eminentemente consultivo, ben lontano dal potere incarnato dal ministero della difesa grazie alle enormi somme di denaro da esso gestite.

Il trasferimento di Shoigu è avvenuto in coincidenza con l’arresto di due figure a lui molto vicine nel ministero, il viceministro Timur Ivanov e il generale Yuri Kuznetsov (capo del dipartimento del personale del ministero) per questioni di corruzione. A tali arresti hanno fatto seguito quelli del generale Ivan Popov e, ultimamente, del generale Vadim Shamarin.

Garante e arbitro di questo sistema e delle sue correzioni interne è Vladimir Putin il quale, lungi dall’essere un autocrate o dittatore assoluto, funge da punto di equilibrio tra le spinte provenienti dai diversi gruppi politici, ideologici, finanziari, etnici e clanici che compongono il panorama politico russo.

Sebbene la quota maggiore di controllo, e di potere, sia riservata a lui, Putin di volta in volta la gestisce in compartecipazione con esponenti e porzioni dei gruppi sopra citati.

Le correzioni apportate da Putin al sistema non sono mai troppo aspre o repentine, al fine di non provocare squilibri improvvisi o panico all’interno del gruppo dirigente o dell’esercito. E’ stato così nel caso di Shoigu, avvenne qualcosa di analogo nel caso Prigozhin, che fu semplicemente emarginato e solo successivamente eliminato, probabilmente non dal presidente russo ma da altre componenti del sistema.

Miti fondativi e legittimazione del potere

La travolgente vittoria ottenuta da Putin alle elezioni presidenziali dello scorso marzo, che gli ha assicurato un nuovo mandato di sei anni, può essere considerata come un voto di fiducia nei suoi confronti, in qualità di arbitro e traghettatore della Russia in questa transizione epocale che vede il paese impegnato in una battaglia esistenziale con l’Occidente, e in un ri-orientamento dei suoi obiettivi strategici verso l’Asia e il mondo non occidentale.

Lo sfoggio di potere che ha accompagnato l’inaugurazione della nuova presidenza Putin, l’8 maggio scorso, non aveva un fondamento “neo-zarista”, come qualcuno in Occidente ha banalmente rimarcato, e dunque non celebrava la figura di Putin in quanto “monarca” della Russia, ma piuttosto l’idea stessa della nuova Russia, una sorta di orchestra sinfonica della quale Putin è solamente il direttore, e che ha tra i suoi miti fondativi essenziali la vittoria nella seconda guerra mondiale, la “grande guerra patriottica”, celebrata nell’imponente parata del giorno successivo.

Sforzo bellico e gestione dell’economia

Nel quadro della transizione epocale che la Russia sta vivendo, si inserisce anche l’attenta gestione dello sforzo bellico in quella che è vista come una lunga guerra di logoramento.

Particolare attenzione è rivolta all’apporto che tale sforzo può dare all’economia del paese, e ai necessari correttivi per evitare l’ingenerarsi di squilibri e favorire una rapida riconversione economica al termine del conflitto.

In tale ottica va considerato l’arrivo di Andrei Belousov, un economista di grande esperienza, non un militare, alla guida del ministero della difesa. Obiettivo primario è l’ottimizzazione della spesa militare coniugata con la continua innovazione, tale da consentire alle forze armate russe di rimanere all’avanguardia a livello mondiale, allo stesso tempo non trascurando lo sviluppo dell’economia civile e gli investimenti a sfondo sociale.

Attraverso quello che di fatto è un meccanismo di redistribuzione della ricchezza, l’aumento della produzione bellica sta ricompensando le regioni più povere del paese, dove sono situate le industrie della difesa che hanno ottenuto i maggiori finanziamenti.

Da queste stesse regioni provengono i volontari e le reclute della mobilitazione parziale annunciata nel settembre 2022. Offrendo salari molto superiori alla media nazionale, il ministero della difesa è stato in grado di arruolare più di 30.000 volontari al mese.

Grazie a questa campagna di reclutamento, si stima che l’esercito russo sia attualmente più grande del 15% rispetto all’inizio della guerra.

Mosca e Pechino, un destino comune

Nel quadro della sfida epocale che la Russia sta affrontando, ugualmente importante e simbolica è stata la visita compiuta da Putin a Pechino.

In questa fase così difficile, la Cina ha offerto a Mosca un’insostituibile profondità strategica ed economica. Nel 2023, gli scambi russi con Pechino hanno raggiunto la cifra record di 240,1 miliardi di dollari, con un aumento di oltre il 60% rispetto ai livelli prebellici. La Cina ha assorbito il 30% delle esportazioni russe e fornito quasi il 40% delle sue importazioni.

Prima della guerra, gli scambi russi con l’Unione Europea erano il doppio rispetto a quelli con la Cina; ora sono meno della metà. Lo yuan cinese è attualmente la valuta principale utilizzata nei commerci tra i due paesi, e quella più scambiata alla Borsa di Mosca.

Da Pechino, Putin e il suo omologo Xi Jinping hanno parlato apertamente di un nuovo ordine mondiale fondato sul principio della multipolarità e su una democratizzazione del sistema internazionale, lontano da ogni forma di neocolonialismo e di egemonia.

I due hanno anche parlato della necessità di un’architettura di sicurezza nello spazio eurasiatico, fondata sul principio di sicurezza indivisibile, condannando le ambizioni egemoniche americane. Il solco è ormai tracciato, la sfida è aperta.

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Dragoš Vučković: CINQUE PROCESSI GLOBALI CHE SEGNERANNO QUEST’ANNO

Scritto da: Dragoš Vučković, esperto economico del Centro per gli studi geostrategici

Il sospetto e il timore con cui siamo entrati quest’anno sono pienamente giustificati. Per molti aspetti sarà uno dei punti di svolta nella storia del mondo, perché deciderà e segnerà sicuramente l’ulteriore sviluppo e il destino dei processi chiave del mondo in un periodo di tempo più lungo. Questa recensione cercherà solo di indicarli e di scalfire la superficie, perché sono così complessi e complessi che ognuno individualmente richiede un’analisi approfondita e a lungo termine. Certamente, quest’anno sarà anche l’anno elettorale più grande della storia del mondo, in cui più della metà dell’umanità, cioè ben 4,2 miliardi di persone, avranno diritto di voto, il che non farà altro che accelerare ulteriormente la transizione mondiale esistente, che si tratta di un’importante riconfigurazione geopolitica.

D’altra parte, l’economia globale, secondo la Banca Mondiale, entrerà quest’anno in recessione, con la probabilità sempre crescente che i cambiamenti epocali annunciati portino a un conflitto mondiale globale, che in Occidente è già diventato la politica ufficiale dello Stato. . Per questo motivo ho classificato questi processi chiave, che sicuramente quest’anno determineranno in modo significativo l’ulteriore sviluppo, in cinque processi chiave, partendo dall’idea di base che dobbiamo finalmente chiamarli con i loro veri nomi, perché prima o poi porteranno alla creazione di una nuova economia reale globale.
– Ulteriore peggioramento delle disuguaglianze nel mondo, dove quasi cinque miliardi di persone sono state ulteriormente impoverite, come preludio ad una certa nuova crisi economica globale che colpirà prima l’Occidente, dove queste disuguaglianze sono più pronunciate, e poi il resto del mondo
– Ulteriore aumento esponenziale del debito mondiale, che supera di parecchie volte il PIL mondiale (prodotto sociale lordo), principalmente a causa dell’incapacità delle economie occidentali di far fronte alla recessione, per cui il debito diventa insostenibile e quindi il suo rimborso è impossibile
. – L’inizio del una profonda riconfigurazione delle élite mondiali al potere, prima occidentali e poi non occidentali, come diretta conseguenza di questi processi
– Continuazione drammatica della frammentazione e della divisione nell’economia mondiale tra i cosiddetti dell’Occidente collettivo e del mondo non occidentale o della Minoranza mondiale e della Maggioranza mondiale, e con esso l’ulteriore accelerazione del processo di de-dollarizzazione nell’economia mondiale
– Accelerazione del processo di scomparsa del concetto economico neoliberista occidentale di sviluppo, con il parallelo ulteriore sviluppo di alternative già esistenti, nonché l’emergere di concetti economici completamente nuovi, soprattutto nel mondo non occidentale

Il Forum economico di Davos di quest’anno, profondamente accecato dalla politica, apparentemente non è riuscito a creare una “formula” per il “ripristino della fiducia”, che era il suo argomento principale, e a cercare almeno di indicare e dare un nome a questi processi menzionati. Quindi, la lettera aperta dei super-ricchi, in cui chiedono un aumento delle tasse per combattere le disuguaglianze sociali, sembrava piuttosto assurda. In assenza di una risposta valida a questi processi mondiali chiave, le élite dominanti occidentali cercheranno di attuare la loro agenda attraverso l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che probabilmente, alla sua 77a Assemblea nel maggio di quest’anno, cercherà di privare gli Stati membri della loro sovranità, garantendosi poteri senza precedenti per limitare le libertà mediche e civili nei paesi di tutto il mondo. Tutto questo per “lottare contro una nuova pandemia”, l’ormai famoso “Virus X”, molte volte più pericoloso e mortale del corona. Se anche questa “missione” dell’OMS fallisce, avremo la certezza di un conflitto militare mondiale, come strumento sanguinoso e doloroso, ma “efficace”, che, secondo un sistema accelerato, “risolverà” tutti questi processi accumulati e problemi, ma con tutte le conseguenze devastanti che comporta.
È certo che questi cinque processi sono più visibili nei paesi dell’Occidente collettivo, soprattutto in America, tradizionale campione della disuguaglianza nel mondo, con un debito di oltre 34 miliardi di dollari e un deficit di bilancio significativamente più ampio rispetto allo scorso anno. anno. Gli Stati Uniti raggiungono il loro tipo di crescita soprattutto grazie ad una politica fiscale estremamente espansiva, dove per ogni dollaro di crescita ci sono addirittura due dollari e mezzo di nuovo debito, con un’inflazione ancora troppo alta. Ecco perché la previsione del FMI di una crescita economica statunitense di quasi il 2,7% per quest’anno sembra del tutto irrealistica. Anche se fino a poco tempo fa gli Stati Uniti hanno interrotto ulteriori aiuti all’Ucraina, non è un segreto di Pulcinella che questi aiuti, insieme all’UE, sono in realtà molto più grandi del Piano Marshall americano dopo la Seconda Guerra Mondiale. È più che chiaro che nessuna economia, nemmeno la più forte, potrà resistere a tutto ciò nel lungo termine. Il processo elettorale, che si sta riscaldando negli Stati Uniti e che sarà cruciale nel mondo, contribuirà notevolmente al confronto diretto degli Stati Uniti con questi cinque processi mondiali e quasi sicuramente porterà quest’anno al cambiamento delle élite al potere. . I legami fondamentali del potere americano: potenza militare avanzata, ruolo centrale nel sistema finanziario globale, una forte posizione nella tecnologia e una piattaforma per ideologia e valori, per quanto ancora presenti, si stanno nel frattempo indebolendo sempre di più. Gli USA continuano inoltre a praticamente “mungere” l’Europa, costringendo i membri della NATO ad acquistare le sue armi per centinaia di miliardi di euro, seminando incautamente paura e psicosi bellica, dal conflitto “imminente” con la Russia. I paesi dell’UE sono quindi costretti ad aumentare le tasse, ridurre le prestazioni sociali e cancellare i sussidi agli agricoltori, e quasi l’intera UE è inondata da disordini sociali e proteste. La Germania, in quanto motore dell’UE, ha raggiunto una situazione in cui non è più in grado di generare la propria crescita economica e la sua economia è semplicemente paralizzata, con un declino permanente della produzione industriale e una perdita di competitività. In quanto tale, presto entrerà a far parte del club delle principali economie in recessione, guidate da Inghilterra e Giappone. Lo stesso FMI prevede quest’anno una crescita minore, pari a circa lo 0,8%, per i paesi dell’Eurozona. Nonostante l’evidente ritorno dell’inflazione al livello precedente del 2,5% e l’annuncio di una riduzione dei tassi di interesse, nulla più indica uno sconvolgimento economico all’inizio di quest’anno, quindi è probabile che forti scosse inizieranno dalla Germania, che porterà alla sostituzione delle élite al potere e all’inizio della dolorosa riconfigurazione politica ed economica dell’intera UE. Tutte queste sono le ragioni per cui sono profondamente convinto che le risposte ai cinque processi chiave menzionati inizieranno ad essere risolte per la prima volta nell’Occidente collettivo, che per decenni ha ignorato la necessità storica di cambiamenti strutturali generali. Tutto ciò influenzerà molto rapidamente il resto del mondo, a causa della grande rete economica reciproca. Va sottolineato in particolare che per alcuni di questi processi menzionati quest’anno sarà fatale, mentre per la maggior parte di essi significherà una nuova significativa accelerazione, il tutto con l’enorme minaccia dello scoppio di una nuova grande crisi economica globale. È la corsa all’oro dei mercati azionari mondiali,con i prezzi record dell’oro, non suggerisce qualcosa del genere?

Questi cinque processi chiave si riflettono fortemente anche nel mondo non occidentale, cioè nella maggior parte del mondo, dove Russia, Cina e India svolgono un ruolo di primo piano. Sono particolarmente visibili in Russia, che, nonostante il fatto che, dopo uno storico allontanamento dai mercati occidentali, sta combattendo con successo le sanzioni da quel lato, riuscendo a garantire una crescita invidiabile del 3,5% lo scorso anno, e combattendo con successo la povertà (al di sotto 10%) e disoccupazione (meno del 3%), ma continua a subire ingenti perdite in termini reali. Ciò è visibile nel calo del surplus delle partite correnti, nell’inflazione ancora elevata (circa il 12%) e nel rublo piuttosto instabile. La Russia attualmente ha probabilmente l’esercito più forte del mondo, secondo fonti americane, ed è la più grande economia d’Europa, in termini di parità di potere d’acquisto, con un’economia in un’economia di guerra mobilitata, ma sta pagando un pesante tributo dalla guerra in Ucraina, e le sanzioni occidentali storicamente elevate, che ne stanno esaurendo le capacità e le risorse. Inoltre, gli stessi analisti russi mettono in dubbio la sostenibilità stessa dei cambiamenti estremamente profondi nella politica estera russa. Anche la Cina, che secondo i dati della Banca Mondiale è la più grande economia mondiale in termini di parità di potere d’acquisto e di gran lunga l’industria più grande del mondo, sente questi processi sulle sue spalle. Ha ridotto drasticamente la sua crescita economica, anche se è ancora molto superiore a quella dell’Occidente. La Cina sta pagando pesantemente la sua corsa per la sovranità sulle risorse mondiali, mentre allo stesso tempo è costretta ad aumentare drasticamente il proprio budget militare, a causa della stretta militare generale nel mondo, che sta già arrivando alle coste di Taiwan. Soprattutto i processi di separazione economica mondiale hanno un effetto grave su di essa, perché minacciano di mettere in pericolo il posizionamento cruciale della sua produzione industriale sui mercati dell’Occidente collettivo, che può facilmente diventare il suo “tallone d’Achille”. Lo stesso FMI, tuttavia, fornisce proiezioni di crescita economica piuttosto ottimistiche per quest’anno, per la Russia al 3,2%, la Cina al 4,6% e l’India al 6,8%, il che non sorprende per l’India, l’economia con la crescita più rapida del mondo, che negli ultimi anni ha registrato un una crescita superiore all’8% del Pil. Il mondo non occidentale ha un grande vantaggio rispetto al mondo occidentale, nella risoluzione di questi processi chiave, dato dai forti processi integrativi esistenti, dove recentemente BRICS+, o BRICS 10, ha guadagnato un ruolo particolarmente importante, con il 35% del PIL globale, Il 45% delle riserve petrolifere, la metà del cibo mondiale e un vantaggio competitivo incondizionato nell’energia nucleare. Mentre l’Occidente collettivo è chiaramente sulla difensiva, senza, ancora, risposte serie e significative a questi processi chiave, il mondo occidentale sta già lottando con essi e trovando soluzioni. Ciò è particolarmente visibile nel processo di de-dollarizzazione, nella lotta alla povertà, all’indebitamento e nell’affermazione di nuovi modelli economici. Ciò darà loro un grande vantaggio quando questi processi inizieranno a risolversi dall’altra parte, e c’è tutta la possibilità che non dovremo aspettare a lungo per questo. La riconfigurazione delle élite dirigenti, in primis Russia e Cina, sarà inevitabilmente all’ordine del giorno, una volta iniziata la vera risoluzione di questi processi.ma difficilmente ci si può aspettare che si sposti al di fuori delle “correnti principali” di queste società.

Tutti questi cinque processi mondiali si riflettono già ampiamente, e lo saranno solo in futuro, sulla nostra economia minore, con l’adozione del concetto economico neoliberista occidentale, cosiddetto ibrido. Tipo balcanico. Il suo prodotto diretto è molto visibile qui, come nelle altre “stabilocrazie balcaniche”, e si riflette in una crescita economica troppo modesta, un’inflazione record in rapporto all’ambiente, un eccessivo indebitamento dello Stato e della popolazione, un’enorme deficit commerciale, come uno degli indicatori fondamentali del fallimento economico, ed enormi problemi nel lavoro delle grandi aziende statali, agricoltura rovinata, come uno dei pilastri dello sviluppo, enorme corruzione a tutti i livelli e molti altri indicatori. Oltre a tutto ciò, siamo uno dei paesi europei con il punteggio più basso in termini di disuguaglianza e siamo riusciti a quasi raddoppiare il livello di povertà dal 2020. fino ad oggi. Non importa quanto duramente l’élite al potere cerchi di fingere stabilità politica e macroeconomica, quest’anno la Serbia sta sicuramente entrando in un periodo di grande instabilità. Ciò che probabilmente si scatenerà quest’anno sarà l’inizio di un cambiamento delle élite al potere, insieme a una dura recessione alla quale ci stiamo avvicinando, lentamente ma inesorabilmente. Ciò ci costringerà inevitabilmente a compiere almeno i primi passi per cambiare il modello economico esistente, perché la proiezione stessa della nostra crescita economica da parte del FMI per quest’anno di circa il 3,5% non sembra affatto incoraggiante e realistica. Tanto più che nello stesso Occidente si esprimono sempre più desideri e volontà di modificare l’atrofizzato concetto neoliberista e di sostituirlo gradualmente con uno nuovo, molto più umano, più morale e responsabile, che forse scuoterà i presupposti di base delle società occidentali. . I processi sopra menzionati stanno già dando origine a un nuovo ordine mondiale multipolare e noi stessi saremo semplicemente costretti ad adattarci a questa nuova realtà. Questa nuova realtà porta inevitabilmente a una riconfigurazione delle élite mondiali, dove le cosiddette “élite situazionali” di andare nel passato, perché stanno definitivamente perdendo la fiducia della gente. Così è la nostra élite, in fondo alla scala decisionale mondiale, completamente privata della propria visione del futuro e ignorante degli altri. della gente, come qualcuno ha ben detto.

Le soluzioni a questi cinque processi, che subiranno una violenta accelerazione quest’anno, forniranno in tempi relativamente brevi una risposta al grande dilemma: abbiamo raggiunto i limiti della crescita economica, abbiamo superato tutti i limiti planetari che definiscono un pianeta adatto alla vita? Siamo finalmente maturati verso i normali valori umani in relazione al postumano e all’antiumano? L’imminente vittoria del multipolarismo nel mondo significherà effettivamente il ritorno dell’Occidente collettivo ai suoi valori tradizionali, alla sua cultura e, infine, alle sue radici cristiane? Inoltre, la risoluzione di questi processi chiave darà probabilmente una risposta alla domanda: riuscirà il mondo a far fronte all’intelligenza artificiale ad alto rischio, che, soprattutto in Occidente, sta guadagnando lo status di divinità? Ovvero, porterà alla tutela tempestiva dei diritti fondamentali, della democrazia e della sostenibilità ambientale? E alla fine, la risoluzione di questi processi chiave porterà a un accordo significativo e realistico tra le principali “élite situazionali” del mondo o ci sarà un conflitto armato di proporzioni inimmaginabili?

27 aprile 2024

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Wang Wen| L’Europa riflette: dopo aver perso la Russia, non può perdere nuovamente la Cina

Il linguaggio diplomatico, parte di quello politico, è finalizzato al conseguimento di obbiettivi. La rappresentazione della realtà e l’immagine che si vuol offrire degli interlocutori quasi sempre non corrisponde alla realtà considerata delle relazioni. Giuseppe Germinario

Cui Hongjian: l’autonomia strategica dell’Europa sta toccando il fondo, e la cooperazione con la Cina può identificare meglio la sua direzione

2024-05-08 10:31:54Dimensione dei caratteri: A- A A+Fonte: OsservatoreLeggi 177905
Ultimo aggiornamento: 2024-05-08 10:49:20

[文/观察者网 王慧、房佶宜】11 ore, attraverso le montagne e il mare, la diplomazia del capo di Stato cinese inizia un nuovo viaggio. La destinazione è l’Europa.

Dal 5 al 10 maggio, il Presidente Xi Jinping ha effettuato una visita di Stato in Francia, Serbia e Ungheria. È stato il suo primo viaggio nel 2024 e la sua seconda visita in Europa dopo cinque anni, scelta anche per il primo viaggio del presidente Xi cinque anni fa (2019).

“Ora che le relazioni Cina-UE sono in una fase in cui devono essere energizzate e orientate, la decisione del presidente Xi di fare dell’Europa la meta della sua prima visita di quest’anno riflette l’importanza che egli attribuisce alle relazioni Cina-UE e la sua profonda comprensione della legge di sviluppo delle relazioni Cina-UE”. Cui Hongjian, direttore del Centro per gli studi sull’Unione europea e lo sviluppo regionale dell’Università degli studi esteri di Pechino, ha dichiarato all’Observer.

Il “tour europeo” del leader cinese ha attirato molta attenzione, e anche la scelta della prima tappa in Francia ha un significato profondo.

“Il rapporto tra Cina e Francia è sempre stato in prima linea nelle relazioni Cina-Europa e Cina e Francia, in quanto due grandi Paesi, hanno la responsabilità di mantenere congiuntamente il normale e sano sviluppo delle relazioni Cina-Europa”. Secondo Cui Hongjian, la visita del presidente Xi in Francia è stata molto fruttuosa: le due parti non solo hanno rafforzato ulteriormente il loro consenso strategico, ma hanno anche ampliato la cooperazione economica e commerciale, ottenendo molti risultati negli scambi umanistici, nella cultura e nel turismo, che forniranno una base più positiva e attiva per le prossime visite in Serbia e Ungheria, entrambe previste.

Perché Macron ha sottolineato che “il rafforzamento della cooperazione con la Cina è una questione che riguarda il futuro dell’Europa”?

Incontro tripartito tra i leader di Cina, Francia ed Europa, cerimonia di benvenuto, colloqui tra i capi di Stato di Cina e Francia, incontro congiunto con i giornalisti, cerimonia di chiusura del 6° incontro del Consiglio imprenditoriale Cina-Francia, banchetto di benvenuto, visita ai Pirenei ……

Da Parigi a Tabou, il Presidente Xi ha svolto un programma ricco e fitto in Francia.

Durante un incontro tra i leader tripartiti di Cina, Francia ed Europa, Macron ha affermato che il mondo sta attualmente affrontando grandi sfide, la situazione internazionale è a un punto di svolta critico e la Francia e l’UE hanno bisogno più che mai di rafforzare la cooperazione con la Cina, che è una questione di futuro per l’Europa.

“In realtà, per i Paesi europei, compresa la Francia, c’è sempre stata la necessità di rafforzare la cooperazione con la Cina, solo che il presidente Macron ritiene che l’attuale necessità sia più urgente”. Cui Hongjian ha analizzato che la dichiarazione di Macron si basa su tre elementi:

La mattina del 6 maggio, ora locale, il presidente Xi Jinping è stato invitato a tenere un incontro tripartito tra i leader cinesi, francesi ed europei con il presidente francese Emmanuel Macron e la presidente della Commissione europea Von der Leyen. Fonte della foto: Agenzia di stampa Xinhua

In primo luogo, l’Europa si trova ora nel mezzo dei conflitti russo-ucraino e palestinese-israeliano e la sua ansia per il deterioramento dell’ambiente di sicurezza è in aumento. La Cina è un grande Paese responsabile e i Paesi europei hanno bisogno della Cina più che mai per mantenere la stabilità strategica globale, cessare il fuoco in tempi brevi e risolvere i conflitti regionali.

In secondo luogo, i Paesi europei, compresa la Francia, stanno affrontando una serie di sfide economiche, soprattutto alla luce dell’attuale incertezza sull’esito delle elezioni americane, e l’Europa deve prepararsi ad affrontare un ambiente economico più difficile in futuro. La cooperazione economica e commerciale tra Cina, Francia e Cina-Europa non solo ha le basi, ma ha anche il potenziale e lo spazio per farlo. Quindi, per lo sviluppo sostenibile dell’economia europea, il mercato, i capitali, la tecnologia e la cooperazione con la Cina sono più che mai necessari.

In terzo luogo, ha a che fare con le proprie considerazioni sulla stabilità politica. Le elezioni del Parlamento europeo di quest’anno e le elezioni politiche negli Stati Uniti potrebbero entrambe portare scosse e ripercussioni politiche in Europa. In questo contesto, la scelta di un partner più affidabile è particolarmente importante per i Paesi europei come la Francia. Rafforzare la cooperazione con la Cina può aiutare l’Europa ad affrontare meglio le sfide populiste, di estrema destra e di altro tipo provenienti dai suoi confini. Una solida relazione con la Cina è diventata una condizione esterna molto importante per la politica mainstream in Europa per rafforzarsi e portare avanti le riforme europee il prima possibile.

Per quanto riguarda le elezioni del Parlamento europeo, la politica mainstream in Europa è più preoccupata che, una volta rafforzato il potere dei partiti con elementi populisti o di estrema destra, possa esacerbare ulteriormente la natura di destra e conservatrice della politica europea.

“La politica populista o i partiti di estrema destra pongono maggiormente l’accento sulla priorità dei propri interessi nazionali, il che non solo continuerà a erodere e minare le fondamenta politiche dell’integrazione europea dall’interno, ma influirà anche sulle relazioni estere dell’Europa o sull’ambiente internazionale a causa della sua natura xenofoba”, ha affermato Cui Hongjian, aggiungendo che per le elezioni statunitensi, la principale preoccupazione dell’Europa è che se la fazione anti-establishment all’interno del Partito Repubblicano dovesse salire al potere, potrebbe riportare l’Europa ai dolorosi ricordi del 2016. potrebbe riportare l’Europa ai dolorosi ricordi del 2016.

“Nella visione dell’ala anti-establishment all’interno del Partito Repubblicano, l’ala di Trump, tutto è incentrato sul mettere gli interessi dell’America al primo posto, e le cosiddette alleanze con l’Europa devono essere rivalutate nel contesto della garanzia degli interessi dell’America stessa. In questo modo, organizzazioni come la NATO e l’UE, che incarnano i legami politici, militari ed economici tra Europa e Stati Uniti, saranno sotto attacco”.

In questo contesto, Cui Hongjian ritiene che l’Europa abbia bisogno di una visione più ampia del mondo e che non possa limitarsi ad assumere la cosiddetta alleanza con gli Stati Uniti come punto di partenza per tutta la politica estera e le relazioni esterne. “L’Europa ha bisogno di raggiungere una vera autonomia strategica, e questa autonomia dovrebbe iniziare con l’avere una personalità politica veramente indipendente”.

Il Presidente Xi Jinping a colloquio con il Presidente Macron all’Eliseo. Credito fotografico: Agenzia di stampa Xinhua

“L’autonomia strategica europea sta toccando il fondo “.

Negli ultimi anni si sono levate voci che chiedono una “autonomia strategica” europea e molti Paesi europei hanno risposto favorevolmente, anche se non mancano dichiarazioni contraddittorie.

Il presidente francese Emmanuel Macron è stato uno dei principali sostenitori di queste richieste, e nel 2019 ha notoriamente avvertito che la NATO era “cerebralmente morta” e che l’Europa avrebbe dovuto sforzarsi di ottenere una maggiore autonomia strategica.

La Cina ha sempre sostenuto l’adesione dell’Europa all’autonomia strategica e lo sviluppo delle relazioni e della cooperazione con la Cina in modo realmente indipendente. Tuttavia, nell’attuale complessa situazione internazionale, come può l’Europa essere “strategicamente autonoma”? Può sviluppare in futuro le sue relazioni con la Cina indipendentemente dagli Stati Uniti?

Cui Hongjian ha affermato che, nel contesto del conflitto russo-ucraino e di quello palestinese-israeliano, la spinta a breve termine dell’Europa a rafforzare la propria autonomia strategica e a ridurre la propria dipendenza dagli Stati Uniti in una serie di settori specifici sta regredendo, soprattutto in materia di sicurezza ed energia. Tuttavia, l’Europa è anche consapevole che si tratta di una tendenza più pericolosa, che il prossimo conflitto geopolitico potrebbe intensificarsi e che la dipendenza dell’Europa dagli Stati Uniti rischia di rendere l’Europa, per molti aspetti, un vassallo degli Stati Uniti.

“Pertanto, compreso il presidente Macron, alcuni politici europei sostengono con forza la pressione sul potere, la stimolazione inversa dello sviluppo dell’autonomia strategica, sia dal punto di vista concettuale che politico, l’Europa sembra ora essere uno stato di bottoming out”. Cui Hongjian ha affermato che l’Europa era una volta la forza centrale sulla scena mondiale, e la maggior parte dei Paesi europei ha anche una forte autostima nazionale. Nel contesto dello sviluppo futuro del mondo multipolare, il costante adeguamento della politica verso gli Stati Uniti, il debugging e la distanza tra gli Stati Uniti e l’Europa sono la tendenza generale.

Ritiene che i tre Paesi visitati dal Presidente Xi questa volta abbiano mostrato diversi gradi di indipendenza e autonomia all’interno dell’Europa, dimostrando l’intenzione di rafforzare le relazioni con i Paesi non occidentali.

“Penso che in futuro questi Paesi diventeranno la forza principale per promuovere e mantenere l’autonomia strategica dell’Europa. In questo contesto, da un lato, l’Europa stessa sta accumulando l’energia per realizzare una vera autonomia strategica e, dall’altro, attraverso la cooperazione con la Cina, li aiuterà a individuare ulteriormente la direzione della realizzazione dell’autonomia strategica e a trovare la strada giusta per realizzarla.”

Il Presidente Xi Jinping e il Presidente Macron incontrano i giornalisti. Fonte della foto: Agenzia di stampa Xinhua

“La Cina sta trasmettendo al mondo esterno il messaggio di una continua ottimizzazione delle politiche “.

Il 6 maggio, Macron ha chiarito che la parte europea non è d’accordo con il “disaccoppiamento” e accoglie le imprese cinesi per investire e cooperare in Europa. Allo stesso tempo, però, vediamo che l’Unione europea ha recentemente promosso attivamente i veicoli a nuova energia, le turbine eoliche e l’indagine compensativa della Cina.

Cui Hongjian ha sottolineato che alcune delle contraddizioni emerse nella politica europea verso la Cina negli ultimi due anni sono causate principalmente dal cosiddetto “triplo posizionamento” verso la Cina proposto nel 2019.

Il cosiddetto “triplo posizionamento” si riferisce al posizionamento simultaneo dell’Unione Europea nei confronti della Cina come “partner, concorrente e rivale istituzionale”. Si tratta di una combinazione autocontraddittoria, che ha causato molti problemi nelle relazioni Cina-UE.

“Ad esempio, nel campo dell’economia e del commercio, l’Europa non può essere separata dalla Cina, per cui il presidente Macron ha sottolineato di non impegnarsi nel ‘disaccoppiamento e nella rottura della catena’, ma allo stesso tempo vogliono costruire la loro politica verso la Cina sulla base di una serie di principi protezionistici, per cui la Cina e l’Europa si trovano ora nel campo dell’economia e del commercio a formare una sorta di rapporto paradossale sia di cooperazione che di competizione. “

Cui Hongjian ha affermato che questo fenomeno ha un certo grado di ragionevolezza, perché dopo anni di sviluppo, la forza della Cina e dell’Europa nell’economia, nella scienza e nella tecnologia e in altri campi sta cambiando, e in alcuni settori specifici lo sviluppo scientifico e tecnologico della Cina esercita una pressione competitiva sull’Europa.

“Ma per l’Europa, la questione principale ora non è incolpare la Cina per il tipo di concorrenza che sta portando avanti nei suoi confronti, ma trovare il modo di migliorarsi, di discutere con la Cina e di lavorare insieme per trasformare la concorrenza in cooperazione. Questa visita del Presidente Xi e la prossima serie di scambi e dialoghi tra Cina ed Europa stanno aiutando entrambe le parti a muoversi in questa direzione”.

Il 7 maggio, ora locale, su invito speciale del presidente Macron, il presidente Xi Jinping ha preso un aereo speciale per visitare il dipartimento degli Hautes-Pyrénées, nel sud-ovest della Francia. Fonte: Agenzia di stampa Xinhua

Durante la sua visita in Francia, il Presidente Xi Jinping ha fatto particolare riferimento al cosiddetto “problema della sovraccapacità cinese”.

Ha sottolineato che l’industria cinese delle nuove energie ha affinato le proprie competenze in una competizione aperta e ha rappresentato una capacità produttiva avanzata, che non solo ha arricchito l’offerta globale e allentato la pressione inflazionistica mondiale, ma ha anche dato un grande contributo alla risposta globale al cambiamento climatico e alla trasformazione verde. Sia dal punto di vista del vantaggio comparativo che della domanda del mercato globale, non esiste un “problema di sovraccapacità della Cina”.

L’essenza della cooperazione Cina-UE è quella di integrare i reciproci punti di forza e di ottenere vantaggi reciproci e risultati vantaggiosi per entrambe le parti. Le due parti hanno ampi interessi comuni e un enorme spazio per la cooperazione nella trasformazione verde e digitale, quindi entrambe le parti dovrebbero gestire adeguatamente le frizioni economiche e commerciali attraverso il dialogo e la consultazione e prendersi cura delle ragionevoli preoccupazioni di entrambe le parti.

Secondo Cui Hongjian, la cosiddetta “sovraccapacità” è un’invenzione dei politici statunitensi, che poi continuano a promuovere un concetto in Europa che, in larga misura, è un modo per trasferire le loro contraddizioni interne al mondo esterno, con una forte motivazione politica.

Prendendo come esempio i veicoli a nuova energia, secondo i calcoli dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, la domanda globale di veicoli a nuova energia nel 2030 raggiungerà i 45 milioni, ovvero 4,5 volte quella del 2022; e la domanda globale di nuovi impianti fotovoltaici raggiungerà gli 820 gigawatt (GW), ovvero circa quattro volte quella del 2022. L’attuale capacità produttiva è ben lungi dall’essere in grado di soddisfare la domanda del mercato, in particolare l’enorme domanda potenziale di nuovi prodotti energetici in molti Paesi in via di sviluppo.

“Pertanto, alcuni Paesi europei e americani stanno giocando a rubare i concetti attribuendo la colpa del declino della loro competitività in settori specifici alla cosiddetta ‘sovraccapacità’ cinese, e ciò che è necessario ora è lavorare insieme per trovare una soluzione al problema”. Cui Hongjian ha ricordato che oggi esistono chiari esempi di integrazione reciproca tra Cina, Francia e Germania nell’industria verde, che formano una capacità mista tra Cina ed Europa.

In un incontro congiunto con i giornalisti dopo i loro colloqui, il Presidente Xi e il Presidente Macron hanno dichiarato che la Cina ha raggiunto la piena liberalizzazione dell’accesso al settore manifatturiero e accelererà l’apertura del mercato delle telecomunicazioni, del settore medico e di altri settori di servizi. Incoraggiamo l’espansione degli investimenti nei due sensi e ci impegniamo a fornire un ambiente commerciale favorevole alle imprese dell’altro Paese.

“Penso che questa apertura generale aumenterà ulteriormente la fiducia delle imprese europee. Come si può vedere dalla crescita degli investimenti francesi in Cina negli ultimi due anni, le aziende francesi hanno colto con attenzione i segnali della continua apertura della Cina e hanno aumentato i loro investimenti nel mercato cinese in modo molto tempestivo”. Ha dichiarato Cui Hongjian.

Le statistiche del Ministero del Commercio cinese mostrano che gli investimenti diretti della Francia in Cina hanno raggiunto 1,34 miliardi di dollari nel 2023, con un aumento del 77% rispetto al 2022. Nel periodo gennaio-febbraio di quest’anno, gli investimenti diretti della Francia in Cina sono cresciuti del 585,8% rispetto all’anno precedente.

“La Cina sta trasmettendo il messaggio che le sue politiche vengono costantemente ottimizzate, tra cui l’espansione dell’apertura e l’adesione al multilateralismo. Usando l’Europa come palcoscenico, la Cina sta mostrando al mondo che siamo pronti ad affrontare i cambiamenti”. Ha aggiunto Cui Hongjian.

 

Wang Wen| L’Europa riflette: dopo aver perso la Russia, non può perdere nuovamente la Cina

[Articolo/colonnista dell’Observer Wang Wen]

Cinque giorni prima della visita del presidente Xi Jinping in Francia, ho approfittato dell’ora di pranzo per fare jogging lungo la Torre Eiffel, l’Arco di Trionfo, Place de la Concorde, il Louvre, Notre Dame, il “percorso del triangolo d’oro”, e lungo la strada ho visto il viavai dei cinesi che hanno approfittato delle vacanze del Primo Maggio per viaggiare, e l’intera Parigi ha gradualmente ripristinato la situazione pre-epidemica, “i cinesi sono ovunque”. L’intera Parigi è gradualmente tornata alla situazione pre-epidemica “ovunque è cinese”, anche i venditori di libri della riva sinistra della Senna mi hanno accolto amichevolmente, dopo giorni di pioggia, il sole rende il “blu di Parigi” più bello.

Questa atmosfera rilassata è stata presente anche durante gli otto scambi umanistici, i forum e i dialoghi dei think tank a Parigi. Rispetto alle due visite in Francia degli ultimi sei mesi, un’atmosfera simile di relax, scambio paritario e ascolto reciproco è piuttosto rara.

“Prima o poi il mainstream francese capirà le vostre buone intenzioni “.

Nel settembre 2023 ho visitato per la prima volta dopo l’epidemia alcuni think tank francesi e istituzioni affini. A quel tempo, c’erano ancora pochi turisti cinesi per le strade di Parigi e gli studiosi cinesi a Parigi erano ancora più rari. Non li vedevo da quattro anni, il che faceva sembrare i loro scambi reciproci arrugginiti e tesi, insieme al conflitto russo-ucraino, che ha portato all’inflazione nei Paesi europei, i francesi si scervellavano e mi portavano le loro rimostranze, lamentando la parzialità della Cina a favore della Russia e criticando i diritti umani della Cina, lo Xinjiang, il Tibet, e a volte anche un bicchiere d’acqua non era disponibile alla reception, e alcuni studiosi francesi, dopo aver ascoltato la mia risposta pacata, mi hanno contro-accusato di non essere umile.

A dicembre si è recato nuovamente in Francia per partecipare al quinto dialogo di alto livello Cina-Francia Track II e la situazione è migliorata. In questo periodo, le due parti della guerra di parole, l’una offensiva e l’altra difensiva, per partecipare al dialogo di più di 20 delegati francesi per la parte cinese per parlare del miglioramento del contesto imprenditoriale della Cina, lo sviluppo a basse emissioni di carbonio, e promuovere la pace e promuovere i negoziati, non ha più reagito con veemenza, ma ha iniziato a calmarsi per ascoltare la parte cinese della situazione e l’analisi sincera delle proposte, molti diranno anche che il raccolto è molto grande.

Questa volta è stato molto diverso. La scena più interessante è stata quando, in occasione del secondo Forum sino-francese sulla governance globale, ho fatto alcune osservazioni schiette che normalmente sarebbero state considerate “politicamente scorrette” in Francia:

“Sono l’unico studioso in questa sala che è stato sul campo di battaglia russo-ucraino, e dopo più di 70 giorni di sei studi sul campo in 21 città russe, devo dire ai miei amici francesi la verità, che l’Europa e gli Stati Uniti non dovrebbero fantasticare di poter sconfiggere la Russia dando all’Ucraina alcune armi militari”.

“La cosa fondamentale ora è una tregua. La Cina ha già fatto molto per questo e, oltre ai suoi buoni uffici ufficiali, ci sono molti imprenditori cinesi che commerciano nell’Ucraina orientale, provvedendo al consumo quotidiano di beni da parte degli ucraini. Inoltre, la Cina non sta dando armi alla Russia come gli Stati Uniti stanno dando armi all’Ucraina. Circa il 70% dei droni del mondo sono prodotti in Cina, ma i controlli cinesi sulle esportazioni di droni russi sono molto severi”.

“Quello che la Cina sta facendo con la Russia è solo un normale commercio. Se stesse davvero dando alla Russia un sostegno in termini di armi, forse il campo di battaglia non sarebbe come è ora. Da questo punto di vista, solo la Cina sta davvero convincendo alla pace e promuovendo i colloqui”.

A questo punto, alcuni partecipanti francesi tra il pubblico hanno annuito spesso. Dopo che mi sono seduto, un ospite dei media francesi accanto a me mi ha sussurrato tranquillamente: “Hai ragione, prima o poi il gruppo mainstream francese capirà le tue buone intenzioni”. L’ospite francese mi ha poi aiutato a fare l’analisi dei cambiamenti psicologici nella società francese negli ultimi sei mesi, facendo eco al sentimento comune di oltre 30 studiosi ed esperti francesi contattati in Francia per cinque giorni: Europa in riflessione.

La strategia statunitense di “tirare l’Europa per frenare la Cina” non avrà successo

A venticinque mesi dalla crisi ucraina, l’Europa sta chiaramente esaurendo la pazienza. Sebbene la “correttezza politica” e i “gesti aristocratici” abbiano permesso al mainstream della società nei principali Paesi dell’UE, come Francia e Germania, di mantenere una posizione di sostegno illimitato all’Ucraina, sempre più riflessioni da parte di think tank e media si fanno sentire di tanto in tanto nei media pubblici e negli scambi privati.

Alcuni media europei criticano gli Stati Uniti per l’ingerenza negli affari europei e per le conseguenze nefaste delle cinque espansioni della NATO verso est; altri riflettono sull’inefficacia delle sanzioni contro la Russia e sull’impossibilità di sconfiggerla in fin dei conti; molti riflettono sul fatto che la crisi ha portato all’aumento dei prezzi dell’energia e a una grave crisi inflazionistica in Europa, che ha aggravato il peso sul sostentamento delle persone. Una ricerca dell’agenzia di ricerca francese Ipsos Group mostra che il 70% degli intervistati francesi non mangia più frutta e verdura fresca, perché “troppo costosa”. Un sondaggio condotto dal quotidiano Le Figaro ha mostrato che alcuni consumatori francesi non acquistano più abbigliamento di marca di lusso, optando invece per i marchi dei supermercati a basso prezzo.

Le importazioni di gas dell’Europa dipendono fortemente dalla Russia prima del conflitto Russia-Ucraina nel 2022

Economia! Economia! Economia! L’Europa è più che mai desiderosa di ripresa economica, ed è proprio questo il motivo per cui sempre più turisti cinesi tornano a Parigi, Berlino, Roma, rendendo il settore culturale e turistico europeo entusiasta per gli importanti motivi. I membri dell’Unione Europea nel 2024 non supereranno l’1,5% di crescita economica, e sempre più europei si rendono conto che il ritorno alla crescita economica e al benessere dei cittadini è oggi la priorità assoluta dell’Europa.

Nella prima settimana di maggio ho partecipato a più di una dozzina di eventi in Francia, Germania e Belgio. Mi ha fatto piacere constatare che quasi nessun europeo ha parlato di “disaccoppiamento dalla Cina” e che il termine alternativo “de-risking” è stato raramente menzionato. Francia e Germania hanno spesso menzionato la “sovraccapacità” della Cina.

Alla Cina non piace questo termine, che non corrisponde alla realtà dei fatti e non favorisce la futura cooperazione tra Cina ed Europa. Tuttavia, a mio avviso, la sostituzione di “overcapacity” con i termini “decoupling” e “de-risking” rivela l’ansia e il compromesso degli europei. La rapida ascesa della Cina nel settore dei veicoli a nuova energia e dell’industria fotovoltaica ha fatto vergognare gli europei, che si sono sempre considerati a basse emissioni di carbonio.

L’Europa deve ammettere che la Cina sta diventando un leader globale nella lotta al cambiamento climatico. L’energia pulita cinese (rinnovabile e nucleare) supera già il 40% del totale mondiale, la produzione e le vendite di veicoli a nuova energia superano il 60% del totale mondiale, i pannelli solari cinesi superano l’80% del totale mondiale e la Cina ha costruito il più grande sistema di finanziamento verde del mondo.

Nonostante l’assalto ideologico e geopolitico al commercio e agli investimenti sino-europei, nelle conversazioni con i miei amici europei non sento parlare di critiche senza fondo alla Cina, ma di una domanda illimitata nei suoi confronti.

L’Europa spera che un maggior numero di turisti cinesi venga in Europa, che la Cina partecipi alla mediazione della crisi ucraina e che collabori con la Cina per promuovere lo sviluppo a basse emissioni di carbonio e la lotta al cambiamento climatico, nonché la cooperazione con terzi in Africa, la rapida attuazione dell’accordo di investimento Cina-UE, la cooperazione nei veicoli a nuova energia e nel fotovoltaico, e così via.

Nonostante il fatto che di tanto in tanto i politici europei agitino apertamente i pugni contro la Cina in modo eclatante, in cuor loro sanno benissimo che l’Europa non può fare a meno del contributo della cooperazione economica con la Cina.

Sempre più europei si rendono conto che, dopo aver perso la Russia, non possono permettersi di perdere la Cina.

Queste riflessioni stanno contribuendo all’accelerazione dello “spostamento a destra” in Europa, con i partiti populisti di estrema destra che guadagneranno terreno nelle elezioni del Parlamento europeo del 2024. Nei Paesi Bassi, in Svezia e in Italia sono già al potere o vi partecipano figure o partiti che sono sempre stati visti come rappresentanti del populismo di estrema destra. In Francia, Germania, Finlandia, Portogallo e Danimarca, il sostegno ai partiti populisti di estrema destra ha continuato a crescere.

La stragrande maggioranza dei cinesi non capisce cosa significhi per l’Europa virare a destra o a sinistra ed è ancora più riluttante a intervenire nelle elezioni politiche europee. Tuttavia, vale la pena riconoscere il desiderio della destra europea di tornare al proprio sviluppo e promuovere la crescita economica.

Ciò che è ancora più preoccupante per la maggior parte degli europei è che se Trump tornasse alla Casa Bianca nel 2024, sarebbe uno shock enorme. Ma d’altra parte, ciò significherebbe anche che l’Europa continuerebbe il suo percorso verso l’autonomia strategica, annunciando inoltre il fallimento dei tentativi dell’amministrazione Biden di unire l’Europa per contenere la Cina.

Alla sede dell’OCSE a Parigi e alla Adenauer Stiftung in Germania, ho posto la domanda: credete davvero nella cosiddetta “teoria del picco economico cinese” e che l’economia cinese non supererà quella degli Stati Uniti in futuro? Gli investimenti europei vogliono davvero lasciare la Cina? Le risposte sono state tutte negative.

Ciò rafforza la mia convinzione che scambi interpersonali sempre più frequenti consentiranno agli europei, compresa la Francia, di allontanarsi da una mentalità americana nei confronti della Cina e di tornare sulla giusta strada del pragmatismo. Per questo sono cautamente ottimista sul futuro delle relazioni sino-europee.

L’Europa è diversa dagli Stati Uniti.

Anche se ci sono ancora molte opinioni secondo cui l’UE sotto la von der Leyen è un vassallo degli Stati Uniti, nella ricerca sul campo sia i francesi che i tedeschi sono molto sensibili a questo punto e insistono molto sulla loro autonomia strategica.

Oggettivamente, sebbene l’Europa e gli Stati Uniti appartengano alla stessa cerchia di civiltà occidentale, l’Europa e gli Stati Uniti sono effettivamente attori internazionali diversi, anche se esistono ancora molte differenze di comportamento internazionale all’interno dell’Unione Europea, e le differenze tra Europa e Stati Uniti sono ancora notevoli.

In particolare, se tra Cina e Stati Uniti esistono conflitti strutturali di competizione strategica e molte differenze difficili da colmare, tra Cina ed Europa non ci sono molti conflitti strategici sostanziali e ancor più differenze che possono essere ricucite. Ad esempio, sia la Cina che l’Europa hanno una lunga tradizione di civiltà, entrambe prediligono lo sviluppo verde, entrambe si sforzano di promuovere la pace e la stabilità regionale ed entrambe perseguono un ordine internazionale giusto, equo e razionale. In sostanza, all’Europa manca la forza trainante sufficiente per costruire una relazione strategica competitiva globale con la Cina.

Nei media cinesi, “Europa e Stati Uniti” sono spesso indicati collettivamente come “l’Occidente”. Se “Occidente” è solo un riferimento a un oggetto di critica e a una forza esterna, il termine è certamente valido; ma se è visto come un riferimento a una politica, la nozione di “Occidente” è di fatto vuota. A rigore, non esiste una “politica occidentale nei confronti della Cina”. Tuttavia, se non si distingue tra Europa e Stati Uniti, è facile invertire le due cose in un’unica “politica occidentale verso la Cina”.

In quest’ottica, la ricerca e la risposta della Cina all’Europa dovrebbero porre maggiore enfasi sul cambiamento e orientare la propria politica verso l’Europa in funzione di un cambiamento immediato.

Ad esempio, durante questa ricerca sul campo, ho scoperto che le aspettative francesi sull’esito della guerra in Ucraina sono generalmente passate da “la Russia deve perdere” a “l’Ucraina non può perdere”.

In passato, molti francesi pensavano che la Russia sarebbe stata sconfitta con il pieno sostegno della NATO e decine di migliaia di sanzioni, ma con grande sorpresa la Russia non solo ha resistito a più di 10 cicli di sanzioni, ma si è anche difesa da diversi cicli di controffensive ucraine dal settembre 2022 in poi. Al momento, con gli Stati Uniti e la NATO che rendono un servizio a parole e il conflitto israelo-palestinese dopo l’ottobre 2023 che sposta l’attenzione sul sostegno degli Stati Uniti, le difese e le controffensive ucraine sono in una fase di stallo. Nonostante la dichiarazione del Presidente francese Macron di inviare truppe di terra in guerra, i francesi ritengono in generale che ci siano poche speranze di sconfiggere la Russia sul campo di battaglia e che l’obiettivo attuale sia “l’Ucraina non può perdere”.

Ma questo obiettivo non può essere portato in superficie e la Francia continua a mantenere gesti di pieno sostegno all’Ucraina, che servono solo a garantire che l’Ucraina non possa perdere troppo. Da questo livello, ciò che la Cina può fare per persuadere e promuovere lo spazio negoziale diventa più grande.

Ad esempio, le lamentele, le critiche e persino l’odio della Francia nei confronti dell’ambiente economico interno, dello sviluppo dei diritti umani e del cosiddetto “sostegno alla Russia” si stanno gradualmente trasformando in richieste di promozione della cooperazione di terzi e in aspettative di un contributo positivo della Cina.

In totale contrasto con le due precedenti occasioni in cui la Francia ha criticato la politica epidemica della Cina, si è lamentata del disinvestimento di alcune aziende francesi dalla Cina e ha odiato il sostegno della Cina alla Russia, in molti dei colloqui di questa volta ho spesso sentito francesi chiedere agli accademici cinesi il loro punto di vista sulla cooperazione con le terze parti, sugli effetti di ricaduta della ripresa economica cinese nel 2024, sul prossimo passo della politica verde e a basse emissioni di carbonio della Cina e sull’impatto globale dello sviluppo cinese di veicoli a nuova energia. L’impatto dello sviluppo dei veicoli a nuova energia in Cina. A questo proposito, c’è anche molto spazio per il coordinamento e la cooperazione tra Cina e Paesi europei.

Nel complesso, a maggio ho ascoltato molte più opinioni sulla fila europea di quanto mi aspettassi. Molti dei nuovi spostamenti richiederanno tempi più lunghi e più fini per essere digeriti. Il primo viaggio del presidente cinese Xi Jinping in Europa nel 2024 deve avere considerazioni strategiche a lungo termine. Per i cinesi, la comprensione dettagliata dei micro-cambiamenti in Europa è una finestra importante per comprendere in modo oggettivo, completo e profondo i progressi dei nuovi cambiamenti nel mondo.

Questo articolo è un articolo esclusivo di Observer.com, il contenuto dell’articolo è puramente il punto di vista personale dell’autore, non rappresenta il punto di vista della piattaforma, senza autorizzazione, non può essere riprodotto, o sarà ritenuto legalmente responsabile. Prestare attenzione alla micro lettera dell’Observer guanchacn, leggere articoli interessanti ogni giorno.

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IL NEMICO E L’ANTIFASCISMO, di Teodoro Klitsche de la Grange

IL NEMICO E L’ANTIFASCISMO

Il richiamo alla liturgia antifascista che trova la usuale e puntuale recrudescenza tra il 25 aprile e il 1° maggio presenta un pericolo che quasi nessuno ha sottolineato, e di cui forse, molti tra gli stessi officianti non hanno consapevolezza. Non è mettere le effigi dei nuovi governanti a testa in giù, non è il richiamo ai valori dell’antifascismo e della Costituzione, peraltro condivisi in gran parte anche dagli a-fascisti e perfino dai (pochi) fascisti DOC in circolazione. No, il pericolo è un altro, immanente e presente in ogni situazione politica.

Scriveva Machiavelli che in politica chi va dietro all’immaginazione e non alla realtà, va in cerca di guai e non della “propria preservazione”. La frase del Segretario fiorentino è l’espressione sintetica e concisa del realismo politico. Può essere declinata in tanti modi, tutti accomunati dalla priorità di considerare, per l’esistenza e l’azione politica, in primo luogo, i fatti, assai più che le parole che gli attori politici enunciano o si scambiano.

Ma tra le declinazioni più importanti, anzi quella decisiva è di individuare il nemico reale. Perché il nemico è essenziale perché l’attività sia politica e capire chi sia, costituisce interesse primario per l’esistenza della comunità. Scrive Carl Schmitt nel “Concetto di politico” che “Pensiero politico ed istinto politico si misurano perciò, sul piano teoretico come su quello pratico, in base alla capacità di distinguere amico e nemico. I punti più alti della grande politica sono anche i momenti in cui il nemico viene visto, con concreta chiarezza, come nemico. Ma il discorso vale anche in senso inverso: dovunque nella storia politica, di politica estera come di politica interna, l’incapacità o la non volontà di compiere questa distinzione appare come sintomo della fine politica”.

E in effetti ciò che manca all’antifascismo come all’anticomunismo, è un nemico reale. Ossia qualcuno che attenti o possa attentare all’esistenza ed all’azione della comunità politica. Ma possono fascisti e comunisti (residui) farlo? Il fascismo storico è finito per debellatio quasi ottant’anni orsono, il comunismo da oltre trenta, per implosione.

Né il Reich né l’Unione sovietica esistono, e non esistendo, non possono arrecare danni. Non sono nemici reali. Certo possono essere nemici ideali, ma senza Panzerdivisionen e bombe atomiche non possono nuocere.

Tuttavia, proprio per quella insopprimibilità del nemico e del conflitto, il nemico anche se non fascista né comunista, esiste e non deve per farlo chiedere il permesso delle anime belle. Ma sicuramente ha l’interesse di non farsi riconoscere come tale, che è il primo espediente  “della volpe” per occultarsi, e così diminuire o eliminare le difese delle prede designate.

All’uopo è assai utile sfruttare  i vecchi sentimenti d’ostilità verso i nemici d’Antan, ormai immaginari.

Così l’antifascismo e l’anticomunismo facilitano il compito di chi, attualmente e concretamente squilibria a proprio favore e a danno della nazione il rapporto di potenza. E così, del pari, il modo d’esistenza comunitario che è la Costituzione reale di un popolo. Verso il quale, avrebbe scritto Machiavelli vanno costruiti degli argini. Inutili per i nemici dei libri di storia.

Teodoro Klitsche de la Grange

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L’Occidente ha semplicemente fatto spallucce mentre i rivoltosi tentavano di assaltare il Parlamento georgiano in un J6 Redux, di ANDREW KORYBKO

L’Occidente ha semplicemente fatto spallucce mentre i rivoltosi tentavano di assaltare il Parlamento georgiano in un J6 Redux

L’agenda geopolitica più ampia in gioco è quella di sostituire il governo georgiano con fantocci occidentali per facilitare la logistica militare della NATO verso la vicina Armenia, priva di sbocchi sul mare, che il blocco prevede di trasformare nel suo nuovo bastione regionale per dividere e governare il Caucaso meridionale.

I servizi di sicurezza georgiani hannosventato un tentativo di assalto al parlamento da parte dei rivoltosi mercoledì, in risposta all’imminente legge sugli agenti stranieri del Paese, modellata su quella statunitense, ma che i media occidentali hanno definito di “ispirazione russa”. Questo J6 redux è stato accolto con un’alzata di spalle da Stati Uniti e Unione Europea, in un tacito segno di sostegno alle manifestazioni sempre più violente dei manifestanti. Ecco alcune informazioni di base su questa Rivoluzione Colorata per aggiornare tutti su questo tema:

* 8 marzo 2023: “LaGeorgia è bersaglio di un cambio di regime per il suo rifiuto di aprire un ‘secondo fronte’ contro la Russia“.

* 9 marzo 2023: “Ilritiro da parte della Georgia della legge sugli agenti stranieri ispirata dagli Stati Uniti non porrà fine alle pressioni occidentali“.

* 11 March 2023: “Russia Called The US Out For Double Standards Towards Georgia-Moldova & Bosnia-Serbia

* 3 July 2023: “Georgia’s Ruling Party Chairman Discredited The ‘False Flag Coup’ Conspiracy Theory

* 4 October 2023: “Armenia’s Impending Defection From The CSTO Places Georgia Back In The US’ Crosshairs

In sostanza, il tentativo di cambio di regime dell’Occidente contro il governo georgiano è guidato dall’odio del primo verso l’approccio equilibrato del secondo nei confronti della guerra per procura tra NATO e Russia in Ucraina. Il rifiuto di Tbilisi di imporre sanzioni contro Mosca, che schiaccerebbero la sua stessa economia, viene interpretato come una presunta prova che la sua leadership prende ordini dal Cremlino. Idem per la legge sugli agenti stranieri di ispirazione americana, che ha il solo scopo di informare la popolazione su chi finanzia quali prodotti informativi.

L’agenda geopolitica più ampia in gioco è quella di sostituire il governo georgiano con fantocci occidentali per facilitare la logistica militare della NATO verso la vicina Armenia, priva di sbocchi sul mare, che il blocco prevede di trasformare nel suo nuovo bastione regionale per dividere e governare il Caucaso meridionale. L‘incapacità di rovesciare il partito georgiano al potere ha indotto il leader armeno ad avere paura e ad avviare finalmente la delimitazione del confine del suo Paese con l’Azerbaigian, che, se completata con successo, ostacolerà i piani della NATO.

Ecco il motivo per cui l’Occidente ha rilanciato la sua Rivoluzione Colorata contro la Georgia in questo preciso momento, non solo perché la sua legge sugli agenti stranieri dovrebbe entrare in vigore entro questo mese, ma anche per segnalare all’Armenia che dovrebbe congelare le trattative sui confini, dato che gli aiuti della NATO potrebbero essere in arrivo. Questo tempestivo pretesto legale viene quindi sfruttato a fini geopolitici, anche se non è chiaro se riuscirà a far cadere il governo georgiano e/o a influenzare i negoziati in corso tra Armenia e Azerbaigian.

Gli ultimi disordini a Tbilisi sono stati preceduti dalla presentazione da parte del Congresso della “Legge di revisione delle sanzioni all’Azerbaigian“, un ulteriore segnale all’Armenia di resistere fino all’arrivo degli aiuti della NATO. In poche parole, quello che sta avvenendo è il riorientamento geostrategico della regione lontano dall’egemonia occidentale, accelerato dall’avvio da parte dell’Armenia dei colloqui di confine con l’Azerbaigian, a lungo rimandati. Se la NATO non riuscirà a “strappare” l’Armenia alla CSTO, la sua intera politica regionale crollerà.

Gli evidenti due pesi e due misure mostrati per quanto riguarda le false affermazioni dell’Azerbaigian sulla “pulizia etnica” degli armeni dalle regioni occidentali precedentemente occupate e la scrollata di spalle di fronte all’ultimo J6 redux della Georgia sono la prova delle ulteriori motivazioni geopolitiche dell’Occidente nella regione. L’obiettivo è quello di “estromettere” l’Armenia dalla CSTO parallelamente al rovesciamento del governo georgiano, anche se gli ultimi sviluppi suggeriscono che questo obiettivo sarà molto più difficile da raggiungere di quanto l’Occidente si aspettasse.

Non c’è modo che la Russia possa fare una differenza positiva con la Cina, anche se lo volesse, né che rischi la Terza Guerra Mondiale per un’isola dall’altra parte dell’Eurasia, tanto meno dopo che la Cina ha rifiutato di aiutarla a battere la NATO in Ucraina.

Direttore della National Intelligence Avril Haines ha dichiarato al Congresso la scorsa settimana che “vediamo Cina e Russia, per la prima volta, esercitarsi insieme in relazione a Taiwan e riconoscere che questo è un luogo in cui la Cina vuole assolutamente che la Russia lavori con loro, e non vediamo alcun motivo per cui non dovrebbero farlo”.” Questa è una bugia bella e buona per diverse ragioni che verranno toccate in questo pezzo, prima fra tutte il fatto che la Russia farebbe fatica ad assistere la Cina in qualsiasi operazione di riunificazione forzata con quell’isola anche se lo volesse.

proxy guerra in Ucraina, che è di interesse integrale per la sicurezza nazionale, quindi è improbabile che rischi per Taiwan.

In secondo luogo, anche nella fantasia politica che la Russia decida di rischiare la Terza Guerra Mondiale per un’isola a metà del supercontinente che una nazione vicina rivendica come propria, semplicemente non ha le capacità convenzionali in quel teatro per fare una differenza positiva dalla parte della Cina. A meno che non decida di lanciare un primo attacco nucleare, cosa che è contraria alla sua dottrina poiché nessuno dei criteri sarebbe soddisfatto, il numero di forze che potrebbe impegnare in quella campagna impallidirebbe rispetto a quello di tutti gli altri.

La Cina ha già la più grande marina militare del mondo per stessa ammissione degli Stati Uniti, mentre gli Stati Uniti stessi hanno un numero considerevole di forze aeree, terrestri e marittime in Giappone, Corea del Sud e, sempre più spesso, nella vicina Philippines. La sua crescente militarizzazione della “prima catena di isole” rappresenta la stringendo un cappio di contenimento intorno alla Cina che non sarà spezzato da alcune navi, aerei e sottomarini russi come è stato spiegato in precedenza. È inimmaginabile che la Russia rischi la morte quasi certa dei suoi equipaggi solo per dare un segnale di sostegno alla Cina.

E infine, sarebbe una decisione estremamente sbilenca farlo in ogni caso dopo che la Cina non ha fatto nulla di significativo per aiutare la Russia a raggiungere i suoi obiettivi militari nell’operazione speciale. Il mese scorso è stato spiegato che “Il presunto aiuto militare cinese & Intelligence Aid to Russia Isn’t What Bloomberg Does It Out To Be“, e sia il sito vietato ai russi Insider e il sito Washington Post in precedenza ha affermato che Taiwan è in realtà la principale fonte di macchine utensili della Russia al giorno d’oggi, non la Cina.

Inoltre, si può sostenere che i grandi interessi strategici della Russia riposano cinicamente nel fronte sino-statunitense del Nuova guerra fredda che continua ad accendersi, ma che rimane al di sotto della soglia di una guerra calda, che contribuirebbe ad allontanare gradualmente l’attenzione dell’America dall’Europa e a riportarla verso l’Asia-Pacifico. Allo stesso modo, la Cina si riposa cinicamente sul fatto che il fronte russo della NATO continui ad accendersi ma rimanga al di sotto della soglia di una guerra calda, spiegando così perché Pechino non aiuterà in modo significativo Mosca a vincere.

giustificare una maggiore spesa per la Marina americana.

Tutto il clamore mediatico sulle ragioni per cui ciò è accaduto (es: “influenza russa”) e le conseguenze previste (es: “un’impennata del terrorismo”) distrae dal fatto che ciò era del tutto evitabile e si è verificato solo perché gli Stati Uniti hanno inesplicitamente mancato di rispetto al Niger. nonostante abbia perso la sua influenza su di esso la scorsa estate.

Reuters ha citato un anonimo funzionario statunitense per riferire giovedì che le truppe russe hanno sede nella stessa struttura militare nigerina di quelle americane, cosa che il segretario alla Difesa Austin ha successivamente confermato. Altri organi di informazione hanno riferito la stessa cosa citando le proprie fonti, e non è chiaro se la stessa persona abbia parlato anche con loro. In ogni caso, ciò che è più interessante nel loro rapporto è il resto di ciò che hanno detto che è stato rivelato loro riguardo al contesto più ampio all’interno del quale si sta verificando quest’ultimo sviluppo.

Secondo loro, “la mossa del Niger di chiedere il ritiro delle truppe statunitensi è arrivata dopo un incontro a Niamey a metà marzo, quando alti funzionari statunitensi hanno espresso preoccupazioni tra cui il previsto arrivo delle forze russe e rapporti secondo cui l’Iran cercava materie prime nel paese, compreso l’uranio. Sebbene il messaggio degli Stati Uniti ai funzionari nigerini non fosse un ultimatum, ha detto il funzionario, è stato chiarito che le forze statunitensi non potevano trovarsi in una base con le forze russe. “Non l’hanno presa bene”, ha detto il funzionario.”

In altre parole, la delegazione militare americana ha detto con arroganza ai suoi ospiti che non vogliono le truppe russe nelle immediate vicinanze delle loro, cosa che li ha spinti a chiederne successivamente il ritiro. Il Niger voleva ridurre i costi e il tempo necessari per ricevere i consiglieri russi , ecco perché ha cercato di sistemarli in un hangar separato nella stessa struttura delle truppe statunitensi fuori dalla capitale invece di costruire una nuova base. Questa mossa pragmatica rientrava nei diritti sovrani del Niger in quanto Stato riconosciuto dalle Nazioni Unite.

L’America, tuttavia, la pensava diversamente, anche se aveva già perso la sua influenza negoziale con quel paese dopo il colpo di stato militare patriottico della scorsa estate. Inoltre, gli Stati Uniti avevano iniziato a spostare alcune delle loro truppe dalla base fuori dalla capitale a quella da 100 milioni di dollari che avevano precedentemente costruito nel profondo del deserto del Sahara, e in teoria avrebbero potuto semplicemente trasferirsi lì per intero. Invece i suoi rappresentanti hanno chiesto che i russi non venissero ospitati in quelle vicinanze, il che è stato un errore.

Nessuno Stato che si rispetti, per non parlare di uno il cui nuovo governo è salito al potere attraverso un colpo di stato militare patriottico con il preciso scopo di riequilibrare le relazioni precedentemente sbilanciate con l’Occidente, si adeguerebbe a questa audace richiesta. Il Niger voleva mantenere la sua presenza militare americana, molto probabilmente per evitare di essere preso di mira da un ibrido franco- americano La campagna di guerra cacciò entrambe le truppe dal paese, ma fu costretto a chiedere il loro ritiro per “salvare la faccia” dopo che ciò accadde.

Tutto il clamore mediatico sulle ragioni per cui ciò è accaduto (es: “influenza russa”) e le conseguenze previste (es: “un’impennata del terrorismo”) distrae dal fatto che ciò era del tutto evitabile e si è verificato solo perché gli Stati Uniti hanno inesplicitamente mancato di rispetto al Niger. pur avendo perso la sua influenza. Se i suoi rappresentanti si fossero comportati rispettosamente, alle truppe del loro paese probabilmente non sarebbe mai stato chiesto di andarsene, ma hanno ampiamente oltrepassato i loro confini e hanno reso questo risultato inevitabile.

Reuters non si rendeva conto dell’enormità di ciò che la sua fonte anonima aveva detto loro, altrimenti la decisione editoriale avrebbe potuto essere presa per cancellare quella parte dal loro rapporto. È imbarazzante che gli Stati Uniti non abbiano imparato nulla sul Sud del mondo negli ultimi due anni, da quando quell’insieme di paesi è diventato un obiettivo prioritario per l’Occidente. Le precedenti aspettative di un ritrovato pragmatismo furono screditate in un istante da questa candida ammissione e la percezione dei suoi politici di conseguenza peggiorò.

La denigrazione dell’India da parte di Biden come “xenofoba” sulla base di pretesti economici di fatto falsi ha rappresentato un nuovo minimo anche per lui e mostra fino a che punto arriveranno ora gli Stati Uniti nella loro nuova crociata contro la reputazione internazionale di quel paese.

Biden ha alzato le sopracciglia all’inizio di questa settimana quando ha criticato i partner americani, Giappone e India, definendoli “xenofobi” per non aver importato milioni di immigrati come i 7,2 milioni di clandestini che ha importato finora negli ultimi tre anni. Nelle sue parole : “Perché la Cina è in così grave stallo economico? Perché il Giappone è in difficoltà? Perché la Russia? Perché l’India? Perché sono xenofobi. Non vogliono gli immigrati”. Non esiste alcuna base economica fattuale per ciò che ha appena scandalosamente affermato.

Il tasso di crescita recentemente ridotto della Cina è attribuibile al suo passaggio sistemico da un’economia in via di sviluppo a un’economia sviluppata, i problemi del Giappone sono dovuti ai suoi problemi valutari , mentre le difficoltà incipienti della Russia – nonostante la sua notevole resilienza dal 2022 – sono legate alle sanzioni contro le industrie strategiche. L’immigrazione non c’entra niente con tutto questo. Inoltre, è palesemente falso raggruppare l’India tra questi tre, dal momento che la sua economia sta crescendo a passi da gigante, come dimostrano indiscutibilmente queste cinque notizie:

* 3 settembre 2022: “ L’India supera il Regno Unito diventando la quinta economia più grande del mondo ”

* 24 agosto 2023: “ L’India registrerà il tasso di crescita più alto tra le prime 5 economie globali nel prossimo futuro: il segretario alle Finanze TV Somanathan ”

* 5 dicembre 2023: “ L’India diventerà la terza economia mondiale – S&P ”

* 1 marzo 2024: “ L’India è “facilmente” l’economia in più rapida crescita, afferma il direttore esecutivo del FMI, poiché la crescita del PIL supera le stime ”

* 24 aprile 2024: “ La popolazione giovane dell’India genererà il 30% della ricchezza globale – capo della borsa ”

L’India è anche il paese più popoloso del mondo e non presenta carenza di manodopera, ecco perché non c’è bisogno di importare immigrati. In effetti, il BJP al potere ha fatto della repressione degli immigrati clandestini una parte importante della sua agenda interna, anche se per questo è stato bollato come “xenofobo” dai liberal-globalisti occidentali così come dai loro compagni di viaggio nel mondo accademico e nei media indiani. Come dimostrato dalle notizie sopra riportate, questa politica non ha avuto assolutamente alcun impatto negativo sulla crescita economica.

Con questo in mente, l’affermazione di Biden si rivela di fatto falsa e guidata da secondi fini, in particolare per screditare il primo ministro Narendra Modi mentre le relazioni bilaterali continuano a peggiorare. In breve, il rifiuto dell’India di subordinarsi agli Stati Uniti come partner minore del paese sta guidando questa tendenza, che ha preso la forma di una feroce campagna di guerra dell’informazione che si è intensificata dalla fine di novembre. Le seguenti analisi metteranno al corrente i lettori ignari se sono interessati a saperne di più:

* 23 novembre 2023: “ La luna di miele dell’India con l’Occidente potrebbe finalmente finire ”

* 28 marzo 2024: “ L’India non permetterà alla Germania, agli Stati Uniti o a nessun altro di immischiarsi nei suoi affari interni ”

* 8 aprile 2024: “ Gli esperti americani non ammetteranno che il loro Paese è responsabile dei fragili legami indo-americani ”

* 29 aprile 2024: “ Gli evangelici americani stanno tessendo la recinzione al confine tra India e Myanmar in quanto anticristiano ”

* 2 maggio 2024: ” L’articolo WaPo sull’assassinio degli indiani è un colpo di fortuna da parte delle agenzie di intelligence americane ”

Accomunare l’economia indiana a quella cinese, giapponese e russa non era solo falso nei fatti, ma voleva anche essere offensivo. L’India è in una feroce competizione multidimensionale con la Cina e quindi si offende per essere paragonata al suo vicino in qualsiasi modo, per non parlare di quello negativo. Per quanto riguarda il Giappone, l’India è contraria all’insinuazione che la sua traiettoria di crescita sia sul punto di arrestarsi come è successo a quella nazione insulare, mentre il paragone russo allude minacciosamente all’imminente status di paria in Occidente.

La retorica ostile di Biden contro l’India ha rappresentato un nuovo minimo anche per lui e mostra fino a che punto arriveranno gli Stati Uniti nella loro nuova crociata contro la reputazione internazionale di quel paese. La rapida ascesa dell’India come polo di influenza indipendente nell’ordine mondiale in evoluzione accelera il declino dell’egemonia americana, spiegando così perché gli Stati Uniti sono così ossessionati dal punirlo per aver rifiutato di diventare un vassallo. Dopo quest’ultimo sviluppo, non si può dire quali altre bugie gli Stati Uniti potrebbero presto diffondere sull’India.

Ciò rappresenta l’ultima fase delle tendenze centrifughe storiche all’interno di quella che la Polonia considera la sua “sfera di influenza etno-culturale”. Proprio come gli Slesiani emersero come un’identità separata dalle loro radici polacche condivise durante la dinastia Piast, così anche gli ucraini emersero come un’identità separata dalle loro radici russe condivise durante il periodo della Rus’ di Kiev.

Il Sejm ha appena approvato un disegno di legge che riconoscerà la Slesia come seconda lingua regionale della Polonia dopo il Kashubiano se il presidente Andrzej Duda lo approverà. Alcuni, tuttavia, insistono sul fatto che la Slesia sia solo un dialetto polacco formatosi dalla storia della regione al crocevia tra Polonia, Repubblica Ceca e Germania. Qualunque sia l’opinione su questo argomento, questa mossa dovrebbe stimolare una profonda riflessione da parte dei polacchi poiché il dibattito sulla lingua e l’identità della Slesia è simile al dibattito sulla lingua e l’identità ucraina.

Per spiegare, molti in Russia considerano gli ucraini un popolo fraterno a causa delle loro origini etno-linguistiche condivise dall’antica Rus’ di Kiev, gran parte della quale fu poi rilevata dalla Lituania e successivamente polonizzata una volta che il sistema politico medievale si unì al suo vicino occidentale. . Di conseguenza, la lingua e la cultura di questi discendenti della Rus’ di Kiev furono influenzate nel corso dei secoli durante i quali furono separati dai loro parenti orientali, determinando così alla fine la formazione dell’identità ucraina.

Allo stesso modo, mentre la maggior parte dei polacchi considera gli slesiani parte del proprio gruppo etnico, alcuni slesiani ritengono di appartenere a un gruppo etnico-linguistico distinto per ragioni storiche, anche se sono disinteressati al separatismo. Le influenze ceche e soprattutto tedesche hanno portato alla trasformazione della loro identità nel corso dei secoli al punto che ora vogliono ostentare la loro unicità proprio come fanno gli ucraini. Se i polacchi non hanno problemi con il fatto che gli ucraini facciano questo, allora non dovrebbero preoccuparsi che gli slesiani facciano lo stesso.

A differenza degli ucraini, però, gli slesiani non hanno precedenti di terrorismo contro lo Stato polacco. Anche la formazione della loro identità non ha raggiunto il livello in cui si agitano per ottenere uno stato. È improbabile che lo facciano nell’immediato futuro, dal momento che le condizioni geopolitiche a questo punto del loro sviluppo sono molto diverse da quelle degli ucraini nelle tre occasioni del secolo scorso in cui hanno cercato di raggiungere tale obiettivo (1917, 1941, 1991), ma alcuni temono che concedere loro lo status regionale linguistico potrebbe collocarli su quella strada.

Tuttavia, ciò che è innegabile è che l’identità della Slesia è un’identità composita simile nello spirito all’identità ucraina, tranne per il fatto che la prima è stata formata dall’interazione storica tra polacchi e russi mentre la seconda è stata formata dall’interazione tra polacchi, cechi e tedeschi. Entrambi sono organici ma sono stati sfruttati anche da altri per perseguire i propri obiettivi geopolitici, il primo dalla Polonia contro la Russia e il secondo dalla Germania contro la Polonia. Ciò però non scredita ciascuna delle loro esistenze.

Il motivo per cui i polacchi dovrebbero riflettere profondamente sull’approvazione della legge del Sejm che riconosce la Slesia come seconda lingua regionale del loro paese è perché questa rappresenta l’ultima fase delle tendenze centrifughe storiche all’interno di quella che la Polonia considera la sua “sfera di influenza etno-culturale”. Proprio come gli Slesiani emersero come un’identità separata dalle loro radici polacche condivise durante la dinastia Piast, così anche gli ucraini emersero come un’identità separata dalle loro radici russe condivise durante il periodo della Rus’ di Kiev.

Come accennato in precedenza, gli Slesiani non desiderano uno stato separato e sono orgogliosi di essere parte integrante della società polacca, quindi non c’è alcuna possibilità che la Polonia si “balcanizzi” secondo le linee dialettali in tempi brevi. Anche così, è comprensibile che alcuni polacchi patriottici si sentano sconvolti da questo simbolico disfacimento dell’identità del loro popolo attraverso il riconoscimento della Slesia come seconda lingua regionale della Polonia. Quelli con tali punti di vista ora potrebbero essere in grado di simpatizzare un po’ di più con la versione russa della storia ucraina

Divinizzare Israele e tutti gli ebrei criminalizzando potenzialmente qualsiasi critica nei loro confronti, non importa quanto legittima, come ad esempio le politiche del primo nei confronti dei palestinesi, e chiedersi se l’appartenenza sproporzionata del secondo all’amministrazione Biden influenzi le sue politiche, è antiamericano.

L’approvazione da parte della Camera dell’“ Antisemitism Awareness Act ” è uno sviluppo sorprendentemente antidemocratico. Il disegno di legge impone che il governo federale utilizzi la definizione di antisemitismo della “ International Holocaust Remembrance Alliance ”, che Matt Walsh del Daily Wire ha giustamente notato potrebbe potenzialmente criminalizzare le critiche rivolte a Israele. Il suo capo Ben Shapiro è uno dei più importanti sionisti americani, quindi sta letteralmente rischiando il suo sostentamento condannando questo audace attacco contro il Primo Emendamento.

Non c’è niente di “antisemita” nel descrivere il trattamento riservato da Israele ai palestinesi come razzista, né nel richiamare l’attenzione su come la formazione di quello Stato abbia portato alla pulizia etnica di molti arabi musulmani. Allo stesso modo, accusarlo di sfruttare l’Olocausto per vantaggi socio-politici non è antisemita. Lo stesso vale nel sottolineare il numero sproporzionato di ebrei nell’amministrazione Biden e nel chiedersi se ciò influenzi la politica della sua squadra nei confronti della regione.

Gli ebrei non sono gli unici bersagli del bigottismo nel mondo, e il loro genocidio durante la seconda guerra mondiale non li colloca in cima a una gerarchia immaginaria di vittimismo con tutti gli speciali privilegi che ciò comporta nella società. Lo Stato di Israele, fondato in loro nome come santuario per loro, non è al di sopra delle legittime critiche. Divinizzare esso e la sua gente è una scelta personale che non dovrebbe mai diventare un obbligo legale in America. Il fatto stesso che ciò potrebbe benissimo, tuttavia, alimentare inavvertitamente l’antisemitismo.

Dopotutto, criminalizzare potenzialmente le critiche a Israele e negare agli ebrei i privilegi speciali che alcuni di loro credono che la società debba loro concedere per sempre a seguito dell’Olocausto presta falso credito alle teorie del complotto secondo cui essi controllano il governo degli Stati Uniti. La suddetta speculazione viene però facilmente screditata osservando che Israele stesso non ha sanzionato la Russia né armato l’Ucraina, tra gli altri esempi come l’ appoggio di Biden all’appello di Schumer per un cambio di regime contro Bibi, eppure molti ci credono ancora.

Sarà molto difficile per i veri attivisti anti-fanatici discutere contro questa teoria del complotto se l’“Antisemitism Awareness Act” entrerà in legge. Coloro che la sfidano potrebbero anche diventare martiri della libertà di parola se vengono puniti, compresi i veri antisemiti che esprimono indiscutibili discorsi di odio contro gli ebrei, portando così ad alleanze empie tra i gruppi disparati contrari a questa legislazione. Quella coalizione potrebbe anche organizzare proteste a livello nazionale che potrebbero sfociare in rivolte sulla falsariga di quelle dell’estate 2020.

Inoltre, gli avversari stranieri dell’America potrebbero indicare l’“Antisemitism Awareness Act” come prova dei doppi standard del Paese nei confronti della libertà di parola, cosa che danneggerebbe i suoi interessi nazionali oggettivi ancor più di quanto abbiano già fatto i doppi standard esistenti verso una serie di altre questioni. Il pretesto per trasformare questo disegno di legge in legge è il campus proteste per la Palestina, ma il problema che molti hanno con loro è la loro tattica aggressiva, non il fatto di sfruttare la propria libertà di parola per gridare vari slogan.

Non importa quanto alcuni possano essere arrabbiati per ciò che dicono quegli studenti, non devono lasciare che le loro emozioni vengano manipolate per sostenere l’audace attacco del Congresso contro il Primo Emendamento. Divinizzare Israele e tutti gli ebrei criminalizzando potenzialmente qualsiasi critica nei loro confronti, non importa quanto legittima, come ad esempio le politiche del primo nei confronti dei palestinesi, e chiedersi se l’appartenenza sproporzionata del secondo all’amministrazione Biden influenzi le sue politiche, è antiamericano.

La Russia ha già sofferto gli effetti del fuorviante attivismo filo-palestinese orchestrato dall’estero alla fine di ottobre e dell’incitamento all’odio incoraggiato dagli stranieri all’interno della sua società dopo l’attacco al Crocus, quindi non li userà contro altri per timore che il Cremlino rischi di screditarsi in patria. davanti.

NBC News ha citato due fonti anonime che hanno familiarità con l’intelligence americana per riferire in esclusiva che la Russia sta presumibilmente approfittando delle proteste nei campus per la Palestina “con l’obiettivo di aggravare le tensioni politiche negli Stati Uniti e offuscare l’immagine globale di Washington”. Solo la seconda parte è vera per metà, e questo solo perché le piattaforme mediatiche internazionali russe finanziate con fondi pubblici stanno sensibilizzando il mondo sui doppi standard americani nei confronti del diritto internazionale, dell’incitamento all’odio e delle rivolte.

Prima di procedere, è importante che il lettore sia informato della politica russa nei confronti di questi tre temi interconnessi: l’ ultima guerra tra Israele e Hamas , l’incitamento all’odio e le rivolte. Nell’ordine in cui sono state citate, la Russia si mantiene in equilibrio tra le parti in conflitto con l’obiettivo di mediare una risoluzione, vieta severamente qualsiasi incitamento all’odio etnico-nazionale o religioso e ha tolleranza zero per le proteste non autorizzate, soprattutto su larga scala e violente. quelli. Ecco alcuni briefing di base:

* “ Il Presidente Putin su Israele: citazioni dal sito web del Cremlino (2000-2018) ”

* “ Le rivolte a sostegno della Palestina screditano la causa dell’indipendenza del suo popolo ”

* “ Chiarire il paragone di Lavrov tra l’ultima guerra tra Israele e Hamas e l’operazione speciale della Russia ”

* “ Putin e il Patriarca hanno ricordato ai russi che l’incitamento all’odio etnico-religioso è inaccettabile ”

* “ La richiesta della Russia di sanzioni da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite contro Israele è una mossa di soft power basata su principi ”

In breve, il presidente Putin è un orgoglioso filosemita da sempre che sostiene con zelo Israele, ma capisce che gli interessi nazionali oggettivi del suo paese stanno nel bilanciamento tra questo e la Palestina. A tal fine, il Cremlino ha condannato sia il famigerato attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre, sia la successiva punizione collettiva dei palestinesi da parte di Israele. Si suggerisce inoltre ufficialmente di esplorare sanzioni contro Israele per aver violato la risoluzione 2728 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite rifiutandosi di attuare un cessate il fuoco.

Il pezzo che chiarisce il confronto di Lavrov elenca quasi due dozzine di pezzi di ottobre-dicembre che elaborano maggiormente la politica russa a questo riguardo. Per quanto riguarda il fronte interno, i servizi di sicurezza hanno disperso una folla filo-palestinese che si era ribellata in un aeroporto del Daghestan a fine ottobre dopo essere stata indotta da fake news a credere che gli ebrei israeliani stessero per arrivare lì. Dopo l’ attacco al Crocus , il presidente Putin e il Patriarca hanno anche tacitamente ricordato a tutti il ​​severo divieto dell’articolo 282 sull’incitamento all’odio.

Qualunque cosa i lettori possano pensare sui meriti della politica estera e interna della Russia, è un suo diritto sovrano promulgarla in conformità con il modo in cui i politici credono che gli oggettivi interessi nazionali del loro paese possano essere meglio portati avanti. I gestori della percezione americana, però, li hanno costantemente sfruttati per screditare il sincero interesse della Russia nel mediare la pace e per etichettarla come una dittatura. La base giuridica internazionale della prima politica e la sicurezza nazionale della seconda vengono sempre ignorate.

Allo stesso tempo, tuttavia, gli Stati Uniti violano palesemente il diritto internazionale dando a Israele un assegno in bianco per punire collettivamente i palestinesi e ignorando la già citata risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che chiede di attuare un cessate il fuoco con Hamas. Ha anche disperso alcune proteste universitarie per la Palestina con il pretesto, accurato o meno, che stanno lanciando discorsi di odio contro gli ebrei e si stanno trasformando in rivolte. La Russia ha naturalmente interesse ad attirare la massima attenzione su questi doppi standard.

Per quanto riguarda l’accusa di avere “l’obiettivo di aggravare le tensioni politiche negli Stati Uniti”, NBC News ha affermato che “le fonti hanno rifiutato di condividere esempi di bot generati dalla Russia sui social media per evitare di rivelare i metodi statunitensi di raccolta di informazioni”, il che è sospetto e non può essere preso sul serio. Sembra quindi che non esistano prove e che questo sia solo un modo per prendere due piccioni con una fava: allarmizzare l’ingerenza russa e creare il pretesto per una repressione più ampia se la decisione verrà presa.

A questo proposito, “ I democratici si stanno distruggendo sostenendo le proteste nei campus universitari per la Palestina ” per le ragioni spiegate nella precedente analisi con collegamento ipertestuale, che si riducono a controversie tra fazioni all’interno della coalizione liberale-globalista al potere e a considerazioni elettorali controproducenti. La politica schizofrenica di disperdere alcune proteste, non disperderne altre, e di rifiutare di perseguire coloro che occupano proprietà pubbliche con le stesse accuse dei manifestanti del J6 sono prova di doppi standard.

Un sondaggio condotto all’inizio di questa settimana ha mostrato che un enorme 80% degli americani sostiene Israele piuttosto che Hamas, quindi i democratici potrebbero ritenere che sia ora di porre fine alle proteste. L’ex presidente Pelosi aveva già seminato la voce per averlo fatto alla fine del mese scorso, nel caso in cui la decisione fosse stata presa, sostenendo che le proteste hanno “una sfumatura russa”, cosa che ha spinto la portavoce del ministero degli Esteri russo Zakharova a descrivere ciò come “un affronto agli americani”. e un attacco alla democrazia”.

L’ultimo rapporto di NBC News si basa sulle accuse di Pelosi conferendogli il credito della comunità dell’intelligence statunitense, anche se senza uno straccio di prova condiviso con il pubblico, il che potrebbe spostare l’ago nella direzione di convincere i democratici nel loro insieme ad accendersi. queste proteste. Alcuni lo hanno già fatto per paura che i ricchi donatori ebrei del loro partito e dei suoi centri di indottrinamento ideologico (“università”) ritirino i loro finanziamenti se non lo fanno, ma non è ancora avvenuta alcuna repressione su larga scala.

Anche così, l’ultimo segnale inviato è che i democratici potrebbero eventualmente rivoltarsi contro i membri filo-palestinesi della loro base – che sono numericamente piccoli ma esercitano un’influenza smisurata grazie al loro attivismo e potrebbero essere la chiave per vincere negli stati indecisi del Midwest – sostenendo che sono stati ingannati dalla Russia. In relazione a ciò, potrebbero anche aggiungere una dimensione anti-cinese accusando TikTok, di proprietà cinese, di collusione con il Cremlino “con l’obiettivo di aggravare le tensioni politiche negli Stati Uniti”.

Ciò potrebbe prendere un terzo uccello con la stessa fava, dopo che l’ultimo pacchetto di aiuti all’Ucraina conteneva una misura che chiedeva agli Stati Uniti di vietare TikTok a meno che ByteDance non vendesse la propria partecipazione nei prossimi 12 mesi. Questa legge ha suscitato immense polemiche a causa delle preoccupazioni sulla libertà di parola e sull’impatto sui numerosi imprenditori americani che fanno affidamento su quella piattaforma per guadagnarsi da vivere. Tuttavia, architettando una cospirazione sino-russa sulle proteste universitarie per la Palestina e TikTok, questo divieto imminente potrebbe sembrare più appetibile.

Qualunque cosa accada, è importante che la gente ricordi che l’unico interesse della Russia è smascherare l’ipocrisia degli Stati Uniti, non manipolare i manifestanti universitari affinché funzionino come delegati del cambiamento di regime. La Russia ha già sofferto gli effetti del fuorviante attivismo filo-palestinese orchestrato dall’estero alla fine di ottobre e dell’incitamento all’odio incoraggiato dagli stranieri all’interno della sua società dopo l’attacco al Crocus, quindi non li userà contro altri per timore che il Cremlino rischi di screditarsi in patria. davanti.

Legare le mani del Presidente in termini di come allentare l’escalation di questo conflitto predetermina che continuerà ad accendersi anche se le linee del fronte si congelano informalmente per un periodo di tempo significativo, mantenendo così la spada di Damocle dell’Armageddon sospesa sopra la testa di tutti per il prossimo almeno un decennio.

I “Repubblicani solo di nome” (RINO) e i Democratici si sono uniti come “unipartito” per far approvare l’ ultimo pacchetto di aiuti degli Stati Uniti all’Ucraina alla fine di aprile, cosa che ha spinto Zelenskyj a rivelare che i loro paesi stanno negoziando un accordo decennale patto di sicurezza. Durante il fine settimana ha poi spiegato che includerà “il sostegno armato, la produzione finanziaria, politica e congiunta di armi”. Un accordo del genere richiederà quasi certamente l’approvazione del Congresso, quindi il ritorno dell’unipartito.

L’imprenditore miliardario David Sacks ha reagito su X scrivendo che “I 61 miliardi di dollari erano solo l’inizio. I prossimi due presidenti degli Stati Uniti non riusciranno a spegnerlo”, al che Elon Musk ha risposto con “È pazzesco. La guerra eterna.” All’inizio di gennaio è stato osservato che ” le ‘garanzie di sicurezza’ sperate dall’Ucraina non sono tutte quelle che si aspettavano ” dopo che il primo patto di questo tipo era stato raggiunto con il Regno Unito, ma non includeva lo schieramento di truppe promesso come aveva fatto Kiev. in precedenza ha cercato di conquistare.

Anche i successivi accordi bilaterali con altri paesi della NATO non includevano quelle promesse, ma ciò che è così preoccupante riguardo al patto simile in fase di negoziazione con gli Stati Uniti è che potrebbe assumere la forma di un disegno di legge sul modello del “ Taiwan Relations Act ” del 1979 e da quel momento in poi entreranno in legge. Quanto sopra è deliberatamente ambiguo riguardo all’impegno di mutua difesa degli Stati Uniti nei confronti di quell’isola cinese canaglia, ma impone alla stessa la continua vendita di armi e spinge il presidente ad agire in caso di attacco.

Nel caso in cui i negoziati in corso culminassero in qualcosa di simile per l’Ucraina, la previsione di Sacks si dimostrerebbe corretta con tutto ciò che comporta per bloccare questo fronte della Nuova Guerra Fredda . Se Trump tornasse in carica, il che non può essere dato per scontato data la persecuzione da parte dell’amministrazione Biden nei suoi confronti e i timori di brogli elettorali, le sue mani saranno legate e non potrebbe allentare la tensione anche se lo volesse. Qualsiasi mossa in questa direzione potrebbe portare ad un’altra tornata di procedimenti di impeachment contro di lui.

I RINO e i Democratici potrebbero quindi abbandonare ancora una volta la facciata della loro falsa competizione per imporre legalmente dieci anni interi di “sostegno armato, finanziario, politico e produzione congiunta di armi” con l’Ucraina. Come ciliegina sulla torta, potrebbero anche codificare un linguaggio altrettanto ambiguo, simile a quello di Taiwan, sull’impegno di difesa reciproca degli Stati Uniti nei confronti di quel paese. L’unico modo per evitare che ciò venga utilizzato come arma contro Trump è che i repubblicani del MAGA vincano quanti più seggi possibile a novembre.

Se i RINO e i Democratici non hanno i numeri, allora non potranno costringerlo a lasciare l’incarico ma solo simbolicamente metterlo sotto accusa come hanno già fatto due volte se rinnega questo accordo. Le riforme del governo federale da lui previste, se dovessero avere successo, potrebbero ridurre il numero di sabotatori interni che cercherebbero di sovvertire la sua politica diplomatica per promuovere gli interessi degli Stati Uniti. A dire il vero, ci sono molte incertezze per Trump in questo scenario, ma è comunque meglio che se l’unipartito rimanesse al potere totale.

Ciò che dovrebbe essere più importante per ogni americano patriottico è che il Presidente, chiunque egli sia in un dato momento, conservi il diritto di formulare la politica estera in linea con la Costituzione . È importante mantenere controlli ed equilibri, ma ciò che l’unipartito potrebbe tentare di fare tramite il Congresso è scavalcare i prossimi due presidenti bloccando la loro politica estera proprio come hanno fatto con Taiwan. Quel precedente era già abbastanza controverso dal punto di vista giuridico, ma era comunque approvato durante la pace con la Cina.

Ciò che sembra essere in cantiere con l’Ucraina, invece, viene negoziato nell’ambito dell’accordo NATO-Russia guerra per procura condotta in quella ex repubblica sovietica, che rischia la terza guerra mondiale per un errore di calcolo. Legare le mani del Presidente in termini di come allentare l’escalation di questo conflitto predetermina che continuerà ad accendersi anche se le linee del fronte si congelano informalmente per un periodo di tempo significativo, mantenendo così la spada di Damocle dell’Armageddon sospesa sopra la testa di tutti per il prossimo almeno un decennio.

I liberali-globalisti al potere negli Stati Uniti stanno cercando di trovare un equilibrio tra l’attuazione di un cambio di regime contro Bibi, il compiacimento retorico dell’ala attivista della loro base, e il mantenimento dell’alleanza del loro paese con Israele. Il risultato finale del perseguimento di questi obiettivi contraddittori è che hanno naturalmente ampliato le divisioni tra fazioni preesistenti all’interno della coalizione democratica.

L’ occupazione martedì mattina della Hamilton Hall della Columbia University da parte di manifestanti filo-palestinesi, che fu il luogo di una famosa occupazione durante le proteste nazionali contro la guerra e per i diritti civili del 1968, ha immediatamente spinto a paragonare questi due movimenti tra molti. La realtà è però completamente diversa, poiché i manifestanti di oggi sono parzialmente finanziati da Soros, come dimostrato dall’indagine del New York Post . Al contrario, quelli dell’era della guerra del Vietnam erano organici, non astroturfizzati.

Non si può negare l’indignazione che molti studenti provano mentre Israele punisce collettivamente i palestinesi e viola impunemente il diritto internazionale rifiutandosi di attuare la richiesta della risoluzione 2728 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per un cessate il fuoco senza che gli Stati Uniti minaccino in maniera falsamente sanzioni. Anche se è vero che Biden ha appoggiato l’appello di Schumer per un cambio di regime in Israele, all’epoca è stato spiegato qui che ciò era in realtà dovuto alla disputa ideologica della sua amministrazione con Bibi e al suo doppio gioco con Hamas.

Allo stesso modo, la politica di aiuti a Gaza di Biden è solo uno spettacolo elettorale progettato per ingannare i membri filo-palestinesi della base democratica e indurli a non disertare a favore di terzi in segno di protesta o a rifiutarsi di votare, il che è dimostrato dal fatto che nessuna conseguenza significativa ha seguito la summenzionata decisione di Israele. Azioni. I liberali-globalisti al potere negli Stati Uniti stanno cercando di trovare un equilibrio tra l’attuazione di un cambio di regime contro Bibi, il compiacimento retorico dell’ala attivista della loro base, e il mantenimento dell’alleanza del loro paese con Israele.

Il risultato finale del perseguimento di questi obiettivi contraddittori è che ha naturalmente ampliato le divisioni tra fazioni preesistenti all’interno della coalizione democratica, che sono state identificate dall’attivista nazionalista-conservatore Christopher Rufo, che ha consigliato alla sua fazione come sfruttarle magistralmente per ottenere il massimo guadagno. Suggerisce che la destra rimanga il più possibile fuori da questa rissa per lasciare che la sinistra si divida in modo che la maggioranza degli americani moderati possa vedere ciò che rappresentano veramente i democratici.

La coalizione liberale-globalista al potere è arrivata al potere sulla scia della Guerra Ibrida di Terrore contro l’America dell’estate 2020 , che è stata una vera e propria Rivoluzione Colorata in preparazione da decenni e orchestrata da questa fazione dell’élite statunitense su falsi “antirazzisti” pretesti. Lo scopo era quello di manipolare gli elettori contro Trump e di preparare il terreno per un’insurrezione terroristica a tutto campo a livello nazionale che potrebbe essere trasformata in una “rivolta democratica pacifica” se la sospetta frode di quell’anno non fosse riuscita a deporlo.

In definitiva, “ Trump è stato inghiottito dalla palude perché non aveva la forza di prosciugarla ”, creando così l’ inferno distopico in cui gli americani sono stati costretti a languire negli ultimi quattro anni. La rilevanza di quegli eventi per il presente è che questa stessa fazione liberal-globalista della burocrazia permanente degli Stati Uniti (“stato profondo”) è di nuovo all’opera, ma questa volta sta usando la Palestina come pretesto per portare avanti la propria agenda.

Come ha giustamente osservato Rufo, tuttavia, “la maggior parte degli americani non capisce il conflitto israelo-palestinese o il suo rapporto con gli Stati Uniti”. Inoltre, “la maggior parte sostiene Israele piuttosto che Hamas”, quindi è stato in realtà un errore di calcolo epico da parte dei liberali-globalisti fare di Palestina/Hamas il pretesto per giustificare la minacciata Rivoluzione Colorata di quest’anno se Biden non dovesse vincere la rielezione (sia tramite con il gancio o con la forza). C’è molto di sbagliato in questo piano, ma quelli che seguono sono solo alcuni degli errori più evidenti.

Basandosi su ciò che ha scritto Rufo, la maggior parte dell’elettorato non si preoccupa degli affari esteri, tranne forse quello NATO-russo guerra per procura in Ucraina, ma solo perché potrebbe portare alla Terza Guerra Mondiale per un errore di calcolo ed è già costata loro oltre 100 miliardi di dollari in fondi dei contribuenti. Coloro che si preoccupano abbastanza della Palestina da votare per terzi in segno di protesta o da saltare le elezioni stanno dalla parte dei democratici e, sebbene relativamente bassi in numero, sono molto espliciti e quindi hanno un’influenza fuori misura.

Ancora più importante, i loro voti sono cruciali per aiutare i democratici a conquistare gli stati oscillanti del Midwest, rendendoli così essenziali per la strategia 2024 del partito. Fin qui tutto bene, ma l’élite liberal-globalista ha trascurato il fatto che una parte sostanziale di loro sono musulmani che sostengono la Palestina come questione di principio religioso. I loro voti non possono essere comprati con trucchi elettorali a buon mercato come la politica di aiuti a Gaza di Biden o la critica a Bibi mesi dopo che, secondo quanto riferito, Israele ha ucciso quasi il 2% della popolazione di Gaza prima della guerra.

Allo stesso modo, il coinvolgimento della fazione LGBT+ dei democratici nelle proteste universitarie parzialmente finanziate da Soros disgusta letteralmente questi stessi musulmani, che credono che stia infangando questa causa con la dissolutezza. Hanno già unito le forze con la destra in Michigan per protestare contro la sessualizzazione dei bambini nelle scuole, quindi dovrebbe essere dato per scontato che i loro stomaci si agitano dopo che una drag queen ha fatto cantare ai bambini “Palestina libera” in altre parti del paese alla fine del mese scorso. Queste trovate democratiche stanno perdendo la loro base musulmana.

Un altro degli errori dell’élite liberale-globalista è stato quello di non aver segnalato ai loro delegati universitari, parzialmente finanziati da Soros, che le proteste avrebbero dovuto riguardare solo la Palestina, non Hamas. La maggior parte degli americani è d’accordo con la definizione da parte del governo di quel gruppo come terrorista, soprattutto dopo che il suo famigerato attacco furtivo del 7 ottobre ha comportato il rapimento e l’uccisione di un gran numero di civili. Di conseguenza, vengono scoraggiati dalle manifestazioni di sostegno ad Hamas, per non parlare dello slogan “dal fiume al mare”.

Molti lo interpretano come un fischietto per giustificare, sulla base della giustizia storica, la subordinazione legale di tutti i discendenti dei colonizzatori come cittadini di seconda classe, cosa che potrebbe fare di tutti i caucasici-americani il bersaglio di una tale politica. Lo slogan “dal fiume al mare” potrebbe facilmente trasformarsi in uno “da costa a costa” una volta che questa incipiente Rivoluzione Colorata finirà per infondere nuova vita ai fanti del BLM dei liberal-globalisti durante il secondo mandato di Biden al fine di imporre una più rigorosa “ svegliato” la dittatura.

Non importa che i neri, gli asiatici e tutti gli altri gruppi, esclusi gli ispanici parzialmente discendenti dei nativi, stiano ancora colonizzando terre precedentemente controllate dai nativi, indipendentemente dal loro posto nella gerarchia socioeconomica degli Stati Uniti, a partire dallo slogan “dal fiume al mare”. prende di mira gli ebrei di discendenza europea. Pochi di coloro che lo cantano si preoccupano degli ebrei arabi o etiopi in Israele che stanno occupando anche terre precedentemente controllate dai palestinesi, poiché questo slogan si è trasformato in un mezzo per segnalare solidarietà con la “Teoria della Razza Critica” (CRT).

Guardando oltre il gergo, questo concetto afferma semplicemente che la propria identità etnico-nazionale alla nascita li rende colpevoli delle azioni dei loro antenati contro membri di altri gruppi, per le quali devono espiare accettando per sempre lo status di seconda classe come forma di giustizia storica. Questo standard però non viene applicato allo stesso modo poiché ai suoi aderenti non interessa ciò che i gruppi europei o non europei hanno fatto ai propri, ma solo ciò che gli europei hanno fatto ai non europei.

Si presume che le opinioni politiche di una persona di discendenza europea siano predeterminate dalla sua identità, così come la sua colpa e il relativo bisogno di espiarla accettando uno status di seconda classe, che in linea di principio non è diverso da ciò che Hitler credeva rispetto agli slavi, agli ebrei e altri cosiddetti “subumani”. Il bigottismo anti-caucasico della CRT non è un segreto, ma è stato solo quando i suoi aderenti hanno iniziato a prendere di mira gli ebrei israeliani – considerati un “gruppo protetto/privilegiato” a causa dell’Olocausto – che un numero maggiore di americani se ne è accorto.

Gli ebrei israeliani non avrebbero mai dovuto essere elevati al vertice di un’immaginaria gerarchia di vittimismo poiché tutti coloro che hanno sofferto a causa del genocidio nazista sono uguali , ma il punto è che la sfida dei manifestanti filo-palestinesi nei confronti di questa narrativa “politicamente corretta” ha inviato un messaggio shock attraverso il sistema di valori sociali degli Stati Uniti. Ha avuto l’effetto involontario di smascherare la CRT come una copertura pseudo-accademica per l’incitamento all’odio, cosa che ha spaventato molti democratici moderati e soprattutto quei ricchi ebrei che fanno donazioni a queste scuole.

Qui sta il terzo errore epico commesso dai liberal-globalisti al potere negli Stati Uniti, da quando l’effetto finale di candidarsi con la copertura Palestina/Hamas per la Rivoluzione Colorata di quest’anno è che si è trattato di un momento di “mascheramento” per molti democratici. sostenitori. I musulmani si rendono conto di essere oggettivati ​​e associati a ideologie anti-islamiche come quella LGBT+, i democratici caucasici sentono che saranno presi di mira da politiche di “razzismo al contrario” e gli ebrei si rendono conto che stanno finanziando la loro stessa distruzione. .

Non è stato ancora raggiunto il punto critico in cui questi membri della coalizione democratica rompono con il partito per lasciare solo la maggior parte dei neri, alcuni ispanici e pochi caucasici che odiano se stessi tra le sue fila, ma quel momento potrebbe presto arrivare se i sempre più riottosi Continuano le proteste universitarie per la Palestina. In tal caso, i piani di rielezione di Biden sarebbero destinati a fallire poiché il livello di frode richiesto per aiutarlo a vincere sarebbe troppo elevato, ma i liberali-globalisti potrebbero poi provare a bruciare il paese per vendetta.

Visto che non esiste alcuna base legittima per cui Sikorski sia arrabbiato con Duda, l’unica spiegazione credibile è che sia tutta una questione di politica interna in vista delle elezioni presidenziali del prossimo anno.

Il ministro degli Esteri polacco Sikorski ha rimproverato il presidente Duda per aver rivelato pubblicamente a un giornalista di aver discusso del paese che ospita armi nucleari statunitensi durante il suo ultimo viaggio lì. Secondo questo alto diplomatico, “al signor Presidente è già stato detto, ai massimi livelli… di non parlarne, che non c’è alcuna possibilità per questo adesso. Non so perché lo disse”. Sikorski ha anche affermato che nemmeno il Consiglio dei ministri, il massimo organo politico della Polonia, ha autorizzato Duda a discutere pubblicamente la questione.

Nelle sue parole, “Queste sono questioni molto complicate di cui discutiamo nelle riunioni di pianificazione nucleare della NATO” e “non dovrebbero aver luogo in pubblico”. Il problema, però, è che Duda stava semplicemente rispondendo all’indagine pertinente di un giornalista basata sulle ripetute del suo partito si offre di ospitare queste armi. Non è successo all’improvviso e non sono state rivelate nuove informazioni. L’unico motivo per cui ha fatto notizia è stato l’argomento in questione e il contesto di crescenti tensioni NATO-Russia.

Rifiutarsi di commentare avrebbe potuto suscitare ancora più speculazioni, così come avrebbe potuto avere la menzogna apertamente sul fatto che non se ne fosse parlato, ecco perché Duda ha semplicemente detto la verità. Sikorski lo ha rimproverato non perché alcuni media internazionali, com’era prevedibile, abbiano sfruttato le sue parole per fare clickbait, ma per ragioni di politica interna. Dopotutto, il massimo diplomatico polacco rappresenta il nuovo governo di coalizione che ha sostituito il partito di Duda dopo le elezioni dell’autunno scorso, e punta ad assumere la presidenza anche durante il voto del prossimo anno.

Diversi giorni dopo la tranquilla rivelazione di Duda, Sikorski tenne un lungo discorso al Sejm sugli obiettivi di politica estera della Polonia, una parte significativa del quale cercò esplicitamente di screditare i suoi predecessori. Un modo in cui questo è stato tentato è stato dipingerli come paranoici che hanno compiuto unilateralmente mosse sconsiderate che alla fine hanno messo in pericolo gli interessi nazionali del loro paese. Sebbene Duda non sia paranoico, il falso scandalo che circonda la sua intervista lo definisce un avventato, il che è in linea con questa narrazione.

Gli osservatori dovrebbero ricordare che lo stesso Sikorski ha tacitamente confermato che Duda è stato effettivamente incaricato di discutere dell’hosting di armi nucleari statunitensi durante il suo ultimo viaggio lì, con l’unico problema che ha ammesso pubblicamente che questo era all’ordine del giorno, ma è già stato spiegato il motivo per cui ciò non è avvenuto. t controverso. Visto che non esiste alcuna base legittima per cui Sikorski sia arrabbiato con Duda, l’unica spiegazione credibile è che sia tutta una questione di politica interna in vista delle elezioni presidenziali del prossimo anno.

La cosa più interessante, però, è che Sikorski si sta concentrando solo sulla presunta rivelazione di segreti di stato da parte di Duda sui colloqui polacco-americani, ma sta ignorando due delle sue rivelazioni molto più scandalose. Nella stessa intervista in cui ha confermato di aver parlato del suddetto argomento durante il suo viaggio a Washington, Duda ha anche ammesso che un grande progetto infrastrutturale fuori Varsavia ha un duplice scopo militare. I lettori potranno saperne di più qui , dove scopriranno che è al centro di un’accesa disputa partigiana.

Una settimana prima, Duda aveva rivelato come le società straniere possiedano la maggior parte dell’agricoltura industriale ucraina , allo scopo di difendere la precedente decisione del governo di fermare l’importazione di grano ucraino a buon mercato e di bassa qualità che aveva inondato il mercato interno per gli agricoltori locali. danno. È servito anche a fare pressione sul nuovo governo di coalizione affinché non svendesse gli interessi nazionali del paese su questo tema con la scusa di raggiungere un “compromesso” con l’Ucraina.

Queste due rivelazioni sono molto più scandalose della sua conferma di aver discusso ancora una volta della Polonia che ospita armi nucleari statunitensi durante il suo ultimo viaggio lì, eppure Sikorski ha vistosamente ignorato entrambe a favore della creazione di un falso scandalo sull’ultimo esempio citato. Questo perché non ha veramente in mente gli interessi nazionali, ma solo quelli politici interni, e teme di attirare più attenzione su queste altre due questioni altrimenti avrebbe potuto sollevarle nel rimprovero a Duda.

La perdita di manodopera ucraina da parte della Polonia sarà un guadagno per la Germania, il che rappresenta un altro modo in cui la prima è diventata indispensabile per alimentare la traiettoria di superpotenza della seconda.

I piani impliciti del ministro della Difesa polacco Wladyslaw Kosiniak-Kamysz di deportare uomini ucraini aventi diritto alla leva potrebbero essere la goccia che fa traboccare il vaso la Polonia e spingerla verso la recessione. Le statistiche preliminari del governo di febbraio hanno mostrato che la crescita del PIL nell’ultimo anno è stata solo dello 0,2% rispetto al livello del 5,3% del 2022 . La disoccupazione era però solo al 5,3% a marzo e il 33% dei 525 datori di lavoro intervistati da una rispettabile società di collocamento a ottobre ha dichiarato di voler assumere nel primo trimestre del 2024.

Il suddetto rapporto ipertestuale sul misero tasso di crescita del PIL dello scorso anno lo attribuiva all’inflazione, che potrebbe diventare più gestibile a seconda delle politiche del nuovo governo di coalizione, mentre le altre statistiche suggeriscono un urgente bisogno di più manodopera sul mercato. Il fondo assicurativo statale ha informato l’estate scorsa che la Polonia avrebbe bisogno di due milioni di lavoratori stranieri nel prossimo decennio, o 200.000 all’anno fino ad allora, per mantenere l’attuale rapporto tra lavoratori e pensionati dopo che il tasso di natalità è crollato dell’11% lo scorso anno.

Si dà il caso che, dal febbraio 2022, la Polonia abbia concesso lo status di protezione temporanea di rifugiato a 950.000 ucraini , di cui secondo la Banca nazionale polacca circa un quinto sono uomini . Ciò equivale a quasi 200.000 lavoratori stranieri di cui la Polonia ha bisogno ogni anno, che ora potrebbero fuggire in Germania per evitare di essere deportati con la forza in prima linea. Lo scorso dicembre il ministro della Giustizia del paese vicino aveva dichiarato che non avrebbe adottato una politica del genere contro i renitenti alla leva.

La scorsa settimana il Senato di Berlino ha anche dichiarato a Deutsche Welle che gli ucraini possono soggiornare nella capitale senza un passaporto valido, sebbene l’organo di informazione abbia anche osservato che “Tutte le questioni relative al soggiorno degli stranieri in Germania appartengono alla competenza delle autorità regionali”, quindi il la politica potrebbe differire altrove. Tuttavia, il punto è che gli uomini ucraini aventi diritto alla leva in Polonia sanno che non andranno incontro alla loro rovina se si trasferissero semplicemente in Germania, che corteggia manodopera straniera da tutto il mondo.

Forse è stato dopo aver realizzato il colpo autoinflitto che il ministro della Difesa ha rischiato di infliggere alla già fragile economia polacca, che il ministro dell’Interno Marcin Kierwinski ha dichiarato poco dopo ai media nazionali che il suo Paese non deporterà quegli ucraini con documenti scaduti. Comunque sia, molti uomini ucraini potrebbero non voler rischiare la vita in mezzo a questi segnali contrastanti, e anche quelle donne non sposate che si sono trasferite in Polonia potrebbero trasferirsi per avere maggiori possibilità di trovare un marito ucraino un giorno.

Gli ucraini possono imparare il polacco molto più facilmente di qualsiasi altro migrante, a parte i bielorussi, i quali non hanno una presenza così ampia sul mercato del lavoro, motivo per cui lo Stato preferisce ospitarli per soddisfare le proprie esigenze di manodopera piuttosto che importare migranti culturalmente diversi. A dire il vero, stanno reclutando anche lavoratori dal Sud del mondo, ma questa politica rischia di replicare i problemi socio-politici che l’Europa occidentale ha già sperimentato negli ultimi decenni.

Spaventando gli ucraini con il suo piano implicito di deportare gli uomini idonei alla leva, la Polonia rischia anche inavvertitamente di esacerbare la tendenza al peggioramento della percezione reciproca tra i loro popoli, di cui i lettori possono saperne di più leggendo la revisione di questi sondaggi dalla Polonia a marzo e dall’Ucraina ad aprile. . Di conseguenza, potrebbe diventare meno probabile che mai che gli ucraini – siano essi rifugiati, renitenti alla leva o migranti economici – prendano in considerazione l’idea di trasferirsi in Polonia, mentre molti preferiscono invece la Germania per una buona ragione.

La perdita di manodopera ucraina della Polonia sarà un guadagno per la Germania, il che rappresenta un altro modo in cui la prima è diventata indispensabile per alimentare la traiettoria di superpotenza della seconda, descritta qui a metà marzo. Dato che l’economia polacca rischia la stagnazione e un potenziale declino nel caso in cui una recessione seguisse presto la fuga di quasi 200.00 uomini ucraini aventi diritto alla leva, per non parlare della paura di altri ucraini di trasferirsi lì e di conseguenza dei divari incolmabili nel mercato del lavoro, la Germania si trova a cavarsela comparativamente meglio.

La crescente carenza di manodopera in Polonia ostacolerà la crescita delle sue aziende, creando così più possibilità per quelle tedesche in quel mercato di quanto non abbiano già fatto. Se la Polonia smettesse di crescere, ciò metterebbe fine anche al tentativo di ripristino della sua leadership regionale iniziato sotto il governo precedente, che porterebbe ad un’ondata ancora maggiore dell’influenza tedesca nell’Europa centrale e orientale. Se senza controllo, la Germania potrebbe diventare una superpotenza nel giro di una generazione o meno, e tutto senza sparare un colpo.

L’imminente fine del mandato di Zelenskyj, il 21 maggio, costituisce lo scenario rispetto al quale analizzare questo sviluppo.

Ci sono state molte speculazioni sul perché la Russia abbia appena inserito Zelenskyj, il nuovo capo del Consiglio di sicurezza e difesa nazionale Litvinenko, l’ex presidente Poroshenko e due ex funzionari finanziari nella lista dei ricercati del suo ministero dell’Interno, tra gli altri che erano già presenti su di essa. L’Occidente generalmente la considera una mossa simbolica, mentre alcuni nella comunità Alt-Media sono convinti che la Russia abbia intenzione di consegnarli segretamente o forse addirittura assassinarli.

L’imminente fine del mandato di Zelenskyj, il 21 maggio, costituisce lo scenario rispetto al quale analizzare questo sviluppo. L’ex primo ministro israeliano Bennett ha affermato all’inizio del 2023 che il presidente Putin gli aveva promesso l’anno prima di non danneggiare la sua controparte ucraina, ma alcuni credono che questa “garanzia di sicurezza” durerà solo finché il mandato di Zelenskyj rimarrà legittimo. Secondo loro, rimanere al potere dopo il 21 maggio con pretesti giuridicamente dubbi potrebbe portare il leader russo a riconsiderare la sua posizione.

L’osservazione del ministro degli Esteri Lavrov a fine marzo secondo cui “Forse non avremo bisogno di riconoscere nulla” dopo quel giorno è stata interpretata da alcuni come un’indicazione che egli potrebbe già essere rovesciato o ucciso prima che ciò accada. L’arresto da parte della Polonia, il mese scorso, di un uomo accusato di aver passato alla Russia dettagli sulla sicurezza dell’aeroporto di Rzeszow con l’obiettivo di aiutarla ad assassinare Zelenskyj durante la sua prossima visita ha dato credito a questa teoria tra alcuni, nonostante si tratti probabilmente di un caso di intrappolamento ucraino .

L’ex presidente russo e attuale vicepresidente del Consiglio di sicurezza Medvedev, tuttavia, ha reagito alla suddetta notizia chiedendosi se “potrebbe essere la prima prova che in Occidente hanno deciso di liquidarlo”. In sostanza, mentre il presidente Putin potrebbe mantenere la sua promessa di non danneggiare Zelenskyj anche se dovesse restare al potere dopo il 21 maggio, Medvedev ha lasciato intendere che l’Occidente potrebbe effettivamente ucciderlo ma poi eventualmente tentare di incastrare la Russia.

Un altro fattore da tenere a mente quando si valutano le motivazioni della Russia per inserire Zelenskyj e gli altri funzionari, sia attualmente in servizio che ex, nella lista dei ricercati in questo preciso momento è lo scenario peggiore da cui aveva messo in guardia il Comitato di intelligence ucraino alla fine di febbraio. . Si aspettano che la Russia possa ottenere una svolta militare alla fine di questo mese o il prossimo, che potrebbe coincidere con il collasso politico del governo ucraino, presumibilmente sostenuto dalla Russia e guidato dalla protesta.

La tempistica potrebbe anche coincidere con i “colloqui di pace” svizzeri del mese prossimo a metà giugno , trasformandoli così da una trovata pianificata per rafforzare il morale in un incontro in preda al panico dei leader occidentali sui termini della resa negoziata dell’Ucraina alla Russia. Anche se il governo ucraino non crollasse, qualsiasi svolta militare russa potrebbe comunque portare ad un rinnovato interesse per la ripresa dei colloqui con la Russia, ma Mosca non sarebbe in grado di farlo con nessuna delle figure sulla sua lista dei ricercati a causa del diritto interno. .

Qui sta il probabile scopo di inserirli lì, dal momento che la Russia è un pignolo per i cavilli legali a causa del background di avvocato del presidente Putin, indipendentemente da ciò che afferma l’Occidente. Proprio come la Rada ha approvato alla fine del 2022 un provvedimento che vietava a Zelenskyj di negoziare con lui, così anche il ministero degli Interni russo (quasi certamente con la tacita approvazione del presidente Putin) ha praticamente fatto lo stesso vietando ai rappresentanti del proprio paese di negoziare con il leader ucraino e altri.

Se le dinamiche strategico-militari continueranno a tendere a favore della Russia fino al punto in cui l’Occidente autorizzerà finalmente l’Ucraina a riprendere disperatamente i negoziati volti a congelare il conflitto capitolando ad alcune delle condizioni del suo avversario, allora ciò potrebbe essere fatto solo attraverso cifre che non siano sulla sua lista dei ricercati. Se Zelenskyj fosse ancora al potere a quel punto, minerebbe la sua autoproclamata autorità legale dovendo nominare qualcun altro, cosa che sarebbe riluttante a fare in ogni caso per ragioni di ego.

Inoltre, non si può dare per scontato che i membri delle fazioni occidentali più aggressivi non lo uccideranno in un assassinio sotto falsa bandiera attribuito alla Russia al fine di raccogliere più sostegno dietro l’Ucraina in quel momento terribile del conflitto e per sventare qualsiasi tentativo da parte dei loro rivali di fazione di porvi fine con i colloqui. Ciò che è più importante per la Russia non è consegnare Zelenskyj alla giustizia in alcun modo, ma garantire i suoi interessi di sicurezza nazionale nel conflitto in corso, anche se senza degnarsi di negoziare con un burattino illegittimo.

L’inclusione di Poroshenko nella lista dei ricercati ha probabilmente lo scopo di segnalare che non sarà ingannato da un cambio di rotta occidentale nel caso in cui cercassero di sostituire Zelenskyj con lui come parte di un cambio di regime guidato dalla protesta e sostenuto dall'”opposizione controllata” mirato a disinnescare la rabbia pubblica e contrastare una vera rivoluzione. Dopotutto, è stato lui il responsabile della mancata attuazione degli Accordi di Minsk da lui stesso sottoscritti, per cui con lui nuovamente alla guida dello Stato non è possibile alcuna vera soluzione diplomatica all’ultimo conflitto.

Con questo in mente, la Russia potrebbe fare pressione sull’Occidente affinché introduca “sangue fresco” nell’élite ucraina o elevi figure in gran parte sconosciute senza lo stesso livello di sangue sulle mani se intendono organizzare un cambio di regime contro Zelenskyj, che ha sfidato le loro richieste di non prendere di mira le infrastrutture energetiche. Come è stato scritto in precedenza, l’assassinio sotto falsa bandiera di Zelenskyj potrebbe sabotare questo processo di quasi-cambio di regime volto a creare il pretesto “salva-faccia” per la pace, quindi i suoi benefattori dovrebbero essere in allerta.

La sua inclusione nella lista dei ricercati della Russia, quindi, non è intesa a creare il pretesto legale per la sua consegna segreta o assassinio da parte del Cremlino, ma a crearne uno per almeno uno sconvolgimento simbolico dell’élite ucraina per facilitare i colloqui di pace, anche se potrebbe essere sfruttato per indebolirlo, come spiegato. La vera minaccia alla vita di Zelenskyj viene dalle fazioni anti-russe più aggressive dell’Occidente, che non sono disposte a ucciderlo se pensano che ciò sia necessario per provocare un intervento convenzionale della NATO .

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I “quattordici punti” russi del 2009 per la sicurezza europea: Perché la proposta è stata respinta?_di Vladislav B. Sotirović

I “quattordici punti” russi del 2009 per la sicurezza europea:
Perché la proposta è stata respinta?

Nel 2009, il Presidente russo Medvedev (Presidente dal 7 maggio 2008 al 7 maggio 2012) ha chiesto una nuova politica di sicurezza europea, nota come “Quattordici punti”, come un nuovo trattato di sicurezza da accettare per mantenere la sicurezza europea come la capacità degli Stati e delle società di mantenere la loro identità indipendente e la loro integrità funzionale (questa bozza russa di trattato di sicurezza europea è stata originariamente pubblicata sul sito web del Presidente il 29 novembre 2009). La proposta di trattato è stata trasmessa ai leader degli Stati euro-atlantici e ai capi esecutivi delle organizzazioni internazionali competenti come la NATO, l’UE, l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO), la Comunità degli Stati Indipendenti (CSI) e l’Organizzazione per la Cooperazione alla Sicurezza in Europa (OSCE). In questa proposta, la Russia ha sottolineato di essere aperta a qualsiasi proposta democratica riguardante la sicurezza continentale e di contare su una risposta positiva da parte dei partner russi (occidentali).

Tuttavia, non sorprende che l’appello di D. Medvedev per un nuovo quadro di sicurezza europeo (basato sul rispetto reciproco e sulla parità di diritti) sia stato interpretato, soprattutto negli Stati Uniti, alla maniera della Guerra Fredda 1.0, ovvero come un complotto per allontanare l’Europa dal suo partner strategico (gli Stati Uniti). Tuttavia, questo programma, sotto forma di proposta, è stata l’iniziativa più significativa in materia di IR da parte della Russia dopo la destituzione dell’URSS nel 1991. Dal punto di vista attuale, questa proposta avrebbe potuto salvare l’integrità territoriale ucraina, ma è stata respinta principalmente a causa dell’atteggiamento russofobico di Washington.

In effetti, Mosca dal 1991, e in particolare dal 2000, considera la NATO come un residuo della Guerra Fredda 1.0 e l’UE non più come un mercato economico-finanziario comune con molte pratiche di gestione delle crisi. Tuttavia, i “Quattordici punti” di Medvedev del 2009 sono stati annunciati il 29 novembre 2009, quando la Russia ha pubblicato una bozza di Trattato di sicurezza europea. Il programma di Medvedev assomiglia a quello redatto dal presidente statunitense Woodrow Wilson (pubblicato l’8 gennaio 1918), che aveva emancipato gli obiettivi di pace nei suoi ben noti “Quattordici punti”. Questi due programmi hanno due cose in comune: 1) entrambi i documenti sostengono il multilateralismo nell’area della sicurezza e la devozione al diritto internazionale; 2) sono molto idealistici in termini di strumenti necessari per la loro attuazione.

La proposta russa del 2009 si basa sulle norme esistenti del diritto internazionale della sicurezza secondo la Carta delle Nazioni Unite, la Dichiarazione sui principi del diritto internazionale (1970) e l’Atto finale di Helsinki della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa (1975), seguito dalla Dichiarazione di Manila sulla risoluzione pacifica delle controversie internazionali (1982) e dalla Carta per la sicurezza europea (1999).

La proposta russa del 2009 sulla sicurezza europea (dieci anni dopo il bombardamento della Jugoslavia da parte della NATO) può essere riassunta nei seguenti sei punti:

1) Le Parti devono cooperare sulla base dei principi di sicurezza indivisibile, equa e senza attenuanti;
2) Una Parte del Trattato non deve intraprendere, partecipare o sostenere azioni o attività significativamente dannose per la sicurezza di qualsiasi altra Parte o Parti del Trattato;
3) Una Parte del Trattato che sia membro di alleanze, coalizioni o organizzazioni militari si adopererà per garantire che tali alleanze, coalizioni o organizzazioni osservino i principi della Carta delle Nazioni Unite, della Dichiarazione dei principi del diritto internazionale, dell’Atto finale di Helsinki, della Carta per la sicurezza europea e di alcuni documenti adottati dall’OSCE;
4) Una Parte del Trattato non consentirà l’uso del proprio territorio e non utilizzerà il territorio di un’altra Parte per preparare o eseguire un attacco armato contro un’altra o più Parti del Trattato o qualsiasi altra azione che influisca significativamente sulla sicurezza di un’altra o più Parti del Trattato;
5) Viene stabilito un chiaro meccanismo per affrontare le questioni relative alla sostanza del presente trattato e per risolvere le differenze o le controversie che potrebbero sorgere tra le parti in relazione alla sua interpretazione o applicazione;
6) il trattato sarà aperto alla firma di tutti gli Stati dello spazio euro-atlantico ed euroasiatico, seguiti da diverse organizzazioni internazionali: l’UE, l’OSCE, la CSTO, la NATO e la CSI.
La Russia, infatti, ha inteso il trattato come una riaffermazione dei principi che guidano le relazioni di sicurezza tra gli Stati, ma soprattutto il rispetto dell’indipendenza, dell’integrità territoriale, della sovranità all’interno dei confini degli Stati nazionali e la politica di non usare la forza o la minaccia di usarla in IR. In realtà, la questione della sicurezza in Europa è diventata un’agenda strategica per la Russia a partire dal 2000. Durante tutta la sua storia post-sovietica, la Russia si è sentita molto a disagio perché messa ai margini del processo di creazione di un nuovo ordine di sicurezza in Europa (gestito dagli Stati Uniti e dalla NATO) basato sull’allargamento della NATO verso i confini della Russia.

Va ricordato che all’epoca Mosca propose a Washington e Bruxelles tre condizioni che, se accettate dalla NATO, avrebbero potuto rendere l’allargamento accettabile per la Russia:

1) Il divieto di stazionare armi nucleari sul territorio dei nuovi membri della NATO;
2) 2) L’obbligo di un processo decisionale congiunto tra la NATO e la Russia su qualsiasi questione di sicurezza europea, in particolare quando è coinvolto l’uso della forza militare.
3) la codifica di queste e altre restrizioni alla NATO e ai diritti della Russia in un trattato giuridicamente vincolante.
Tuttavia, nessuna di queste condizioni proposte per la cooperazione tra NATO e Russia in materia di sicurezza in Europa è stata accettata.

Dopo questo fallimento, una nuova dottrina militare della Federazione Russa del 2010 ha accettato la realtà che l’architettura di sicurezza internazionale esistente, compreso il suo meccanismo legale, non fornisce una sicurezza uguale per tutti gli Stati (un fenomeno della cosiddetta “sicurezza asimmetrica”). La stessa dottrina ha sottolineato chiaramente che le ambizioni della NATO di diventare un attore globale supremo e di espandere la sua presenza militare verso i confini della Russia sono diventate una minaccia militare esterna focale per la Russia. Sicuramente, a partire dal 2010, è apparso chiaro a Mosca che la NATO non ha accettato la proposta russa di creare un quadro di sicurezza comune europeo funzionante in base al principio di relazioni “simmetriche” che includano alcuni doveri e diritti uguali per entrambe le parti.

Tuttavia, il momento in cui Mosca ha proposto una nuova iniziativa di sicurezza era molto appropriato per la questione del declino del potere sia soft che hard del Collettivo Occidentale (USA/UE/NATO) a seguito della seconda guerra contro l’Iraq e del crollo economico globale. Dopo i disastri dell’Iraq, di Guantanamo e di Abu Ghraib, Washington e i suoi alleati occidentali hanno perso ogni credibilità morale e l’autorità per rivendicare una leadership globale. Inoltre, il sostegno occidentale all’aggressione georgiana e al regime corrotto di Mikheil Saakashvili ha rivelato ancora una volta il disprezzo atlantista per la democrazia e la giustizia reali. Contemporaneamente, la crisi economica e finanziaria globale ha sancito la fine della finzione neoliberista della globalizzazione, confermando allo stesso tempo l’incapacità occidentale di regolare la finanza globale. Di conseguenza, la IR unipolare attorno all’Occidente collettivo ha cessato di plasmare e dirigere sia la geopolitica che la geoeconomia globali.

La proposta russa (in realtà del Presidente Dmitry Medvedev) di un nuovo accordo di sicurezza con la NATO ha rappresentato un serio banco di prova dell’onestà dell’Occidente collettivo nei confronti della Russia. Semplicemente, la proposta chiedeva un nuovo trattato che implementasse le dichiarazioni già accettate dalla fine della Guerra Fredda 1.0, secondo cui l’Occidente e la Russia sono amici, la sicurezza è indivisibile e la sicurezza di nessuno può essere rafforzata a spese di altri. In sostanza, il nuovo trattato di sicurezza dovrebbe essere fondato su un sistema multilaterale, piuttosto che su un sistema basato sull’egemonia o sul bipolarismo. Alla base della proposta c’era il rifiuto di un ruolo egemonico per gli Stati Uniti. Tuttavia, la domanda cruciale era: Gli Stati Uniti vogliono partecipare agli sforzi multilaterali per affrontare le sfide della sicurezza europea e globale? Tuttavia, ben presto è diventato chiaro che l’agenda russa per un nuovo concetto di sicurezza europea è stata vista dai politici occidentali come un tentativo di minare la NATO e la sua politica espansionistica verso est. In altre parole, la proposta del Presidente D. Medvedev per il nuovo disegno di sicurezza in Europa è stata intesa dagli occidentali come una perfida intenzione di cambiare i termini del dibattito sul futuro del sistema di sicurezza europeo senza la partecipazione della NATO alla direzione del nuovo organismo che include la Russia come membro fondatore e, quindi, come pilastro di un nuovo quadro di sicurezza del Vecchio Continente. Pertanto, la sua proposta, in quanto tale, era inaccettabile per il Collettivo Occidentale.

Va sottolineato che il passo più difficile nel riavvicinamento tra le agende di sicurezza russe e quelle europee occidentali, in competizione tra loro, dopo la Guerra Fredda 1.0, è stato ed è tuttora l’atteggiamento politicizzato della parte filo-occidentale dell’Europa (UE/NATO) secondo cui la Russia rappresenta un pericolo per la sicurezza del continente. Tuttavia, sul versante opposto, i timori della Russia per la sicurezza derivano principalmente almeno dalla politica di allargamento della NATO verso est, se non dalla questione dell’esistenza della NATO dopo il 1991 in generale.

In fondo, sembra che il problema centrale non fosse il mantenimento dello status quo in termini di quadro di sicurezza europeo, ma il nuovo sistema di sicurezza. In altre parole:

1) Dovrebbe essere una struttura centrata sulla NATO (come lo è stata dal 1991)? In questo caso, la NATO sarà trasformata in un forum di consultazione su questioni di sicurezza sia europee che globali; oppure
2) Dovrebbe essere un nuovo quadro istituzionale fondato su un trattato giuridicamente inquadrato che garantisca l’uguaglianza e l’indivisibilità della sicurezza di tutti i soggetti politici (Stati)?
Il programma di sicurezza russo “in quattordici punti” del 2009 rappresentava all’epoca la prima iniziativa positiva di politica estera da parte di Mosca dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. L’iniziativa di D. Medvedev aveva sia un reale significato geopolitico sia molte caratteristiche diplomatiche simboliche. Il valore cruciale dell’iniziativa era che:

1) ha sostenuto la formazione di un nuovo quadro di sicurezza europeo fondato sui principi nuovi e democratici dell’indivisibilità della sicurezza internazionale e dell’inclusione di tutti gli attori interessati e rilevanti; e
2) gli obiettivi principali dell’iniziativa erano il potenziamento del sistema di sicurezza europeo già esistente (ma inefficace) e la sua espansione nella regione dell’Asia-Pacifico al fine di creare un’area di sicurezza comune dall’Alaska alla Siberia.
Era tuttavia ovvio che la creazione di un tale sistema di sicurezza avrebbe preservato principalmente gli interessi nazionali russi in entrambe le regioni, in primo luogo in Europa ma anche in Asia-Pacifico. Inoltre, la proposta aprirà la strada all’integrazione di una Cina in ascesa e di altri Paesi asiatici in una complessa rete del quadro di sicurezza europeo. Tuttavia, la proposta è stata respinta in nome di un’ulteriore espansione della NATO verso est che, agli occhi di molti occidentali, è stato l’errore più fatale della politica statunitense durante l’intero periodo dell’era post-Guerra Fredda 1.0. Tale politica della NATO, infatti, è stata in grado di creare un’ulteriore rete di sicurezza per l’Europa, ma anche per l’Asia-Pacifico.

Tale politica della NATO, infatti, ha infiammato i sentimenti nazionalistici, anti-occidentali e militaristici in Russia, e ha infine ripristinato la politica della Guerra Fredda 1.0 nella Guerra Fredda 2.0 (una rinnovata competizione per la sicurezza tra Est e Ovest in Europa), tenendo conto del fatto che in Russia esiste la forte convinzione, basata sulle testimonianze di Mikhail Gorbaciov, Evgenii Primakov e altri politici russi più influenti, che Washington abbia violato l’impegno di non espandere la NATO come precondizione per la riunificazione tedesca nel 1989-1990.

Dr. Vladislav B. Sotirović
Ex professore universitario
Vilnius, Lituania
Ricercatore presso il Centro di Studi Geostrategici
Belgrado, Serbia
www.geostrategy.rs
sotirovic1967@gmail.com
© Vladislav B. Sotirović 2024
Disclaimer personale: l’autore scrive per questa pubblicazione a titolo privato e non rappresenta nessuno o nessuna organizzazione, se non le sue opinioni personali. Nulla di quanto scritto dall’autore deve essere confuso con le opinioni editoriali o le posizioni ufficiali di altri media o istituzioni.

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Ucraina: Una guida per i più curiosi, di AURELIEN

Ucraina: Una guida per i più curiosi

La prima parte, intanto. La prossima settimana la seconda.

Questo sito ha ufficialmente superato i 6000 “follower”, che comprendono sia gli abbonati sia coloro che mi “seguono” sull’applicazione Substack. È un risultato molto gratificante e vorrei ringraziare in particolare tutti coloro che hanno riproposto o condiviso i miei post. Per questo vi ricordo che, anche se questi saggi saranno sempre gratuiti, potete continuare a sostenere il mio lavoro mettendo like, commentando e, soprattutto, trasmettendo i saggi ad altri e inviando i link ad altri siti che frequentate. Ho anche creato una pagina Buy Me A Coffee, che potete trovare qui.☕️

E grazie ancora a coloro che continuano a fornire traduzioni. Leversioni in spagnolo sono disponibili qui, e alcune versioni italiane dei miei saggi sono disponibili qui. Marco Zeloni sta pubblicando anche alcune traduzioni in italiano e ha creato un sito web dedicato a queste traduzioniGrazie infine a chi pubblica occasionalmente traduzioni in altre lingue. Sono sempre felice che ciò avvenga: vi chiedo solo di comunicarmelo in anticipo e di fornire un riconoscimento.

Se siete stati osservatori ragionevolmente coscienziosi della crisi in Ucraina dal 2021, negli ultimi tempi avrete trovato sempre più difficile dare un senso a ciò che sta accadendo, o che si suppone stia accadendo, nel Paese e nelle sue vicinanze. Anche quando sembra che le dichiarazioni del governo e i pronunciamenti autorevoli degli opinionisti siano effettivamente accurati, non sembrano necessariamente avere molto senso. Date le affermazioni spesso contrastanti dei diversi governi, le dichiarazioni speciali dei diversi opinionisti e la totale incapacità dei presunti “esperti” di vario tipo di comprendere ciò che stanno vedendo, a volte sembra impossibile farsi un’idea di ciò che sta realmente accadendo e di ciò che potrebbe accadere in seguito.

Questo saggio è un modesto tentativo di dissipare un po’ di questa confusione: non entrando in discussioni su particolari eventi passati o possibilità future, e ancor meno polemizzando sulle origini e sull’andamento della guerra, ma applicando alcune semplici analisi di buon senso basate sulla logica di come le crisi politiche e militari si sono storicamente svolte e alla fine risolte. Parte di ciò che segue è già stato trattato in saggi precedenti, ma ho ritenuto comunque utile cercare di riunire tutto ora. Data la complessità della situazione, tuttavia, ho diviso questo resoconto in due parti. Questa settimana mi occuperò solo delle questioni a breve termine relative alla cessazione dei combattimenti, che sono di per sé un po’ più complesse di quanto si possa pensare a prima vista.

Credo che sia particolarmente importante scriverlo ora, perché probabilmente non c’è mai stato un momento della crisi in cui si è registrata una differenza così sostanziale tra il modo in cui le cose vengono presentate dai media e dalla leadership politica occidentale e quello in cui le cose sono note sul campo. Questo è almeno tanto il risultato dell’ignoranza e della pura incapacità intellettuale quanto della deliberata mendacità, ma il risultato è una sorta di groupthink in cui solo gli opinionisti o i politici più coraggiosi sono pronti a dire a denti stretti che “l’Ucraina non sarà in grado di recuperare tutto il territorio che ha perso”. È quindi particolarmente importante ora concentrarsi su come stanno le cose e su come è probabile che si sviluppino.

Quindi, qui non troverete né storie di soldati russi in preda al panico che gettano via i loro badili e disertano in massa, né resoconti di stabilimenti di ricerca sulla guerra biologica top-secret comandati da generali canadesi sotto Mariupol. La Russia non sta per crollare, né sta per scoppiare la Terza Guerra Mondiale. Facciamo un respiro profondo e ripercorriamo logicamente le possibili sequenze di eventi, partendo da dove siamo, basandoci su cose che potrebbero realmente accadere e ispirandoci a ciò che è accaduto in passato e a ciò che è politicamente e militarmente possibile oggi. A rigor di logica, quindi, iniziamo da dove siamo ora – e dove, esattamente? Come spesso accade, è utile scomporre queste domande in parti più piccole.

Qual è la situazione sul campo? Le Forze Armate Ucraine (UAF) sono state completamente sconfitte, e con questo non intendo semplicemente dire che ora non possono “vincere” (come alcuni dei commentatori occidentali più coraggiosi hanno iniziato ad ammettere), ma che presto cesseranno di esistere come forza combattente coerente. Vediamo di capire meglio. “Vincere” può significare molte cose. Poiché i russi stanno combattendo una guerra di logoramento e poiché i loro obiettivi territoriali sono modesti, è altamente improbabile che le truppe russe vogliano penetrare in tutta l’Ucraina, se non in numero simbolico. Così, fingendo che la guerra sia stataeffettivamente una guerra di conquista territoriale, l’Ucraina e i suoi sostenitori occidentali potranno affermare che i russi hanno “perso” e, per (dubbia) estensione, che hanno “vinto”. È probabile che questa sia la risposta politica occidentale alla sconfitta, come ho sostenuto di recente.

Ma in questo caso, “vincere” per i russi significa raggiungere i criteri di vittoria annunciati, che includono la distruzione dell’UAF come forza combattente. Ora, è importante capire che stiamo parlando della distruzione di una capacità: Kiev non avrà più a disposizione forze organizzate in grado di svolgere compiti che potrebbero influenzare il corso della guerra. Questo non significa l’uccisione di ogni soldato dell’UAF o la distruzione di ogni singolo pezzo di equipaggiamento (e nella storia questo accade raramente, se non mai), ma significa che i russi distruggeranno l’UAF come istituzione militare funzionante e diretta a livello centrale. Rimarranno distaccamenti di truppe ed equipaggiamenti, e alcuni potranno anche essere descritti come “Brigate”, ma non saranno più in grado di agire come un insieme coerente. Finora sembra che l’UAF abbia conservato la capacità di condurre operazioni che coinvolgono un certo numero di Brigate e di mantenere una forma di comando centrale. Molto presto perderanno questa capacità e possiamo aspettarci che accadano due cose. Una è che le forze rimaste (e per ragioni politiche anche le formazioni di poche centinaia di uomini saranno probabilmente ancora chiamate “Brigate”) saranno semplicemente troppo deboli e mal equipaggiate per impedire ai russi di fare ciò che vogliono. L’altra è che la struttura di comando dell’UAF comincerà a crollare, e che non sarà più possibile per le alte sfere coordinare le operazioni.

Ma si noti che questo non ha nulla a che fare con il controllo del territorio. Infatti, dal punto di vista russo, più unità UAF vengono inviate a sostegno della linea del fronte per difendere il territorio, più velocemente verranno distrutte e più velocemente i russi raggiungeranno i loro obiettivi. L’analogia più utile (e il modo migliore per rispondere alla persistente domanda “perché i russi non hanno ancora vinto, se sono così forti?”) è pensare alle ultime fasi di una partita a scacchi. Immaginate che al giocatore più debole siano rimasti forse il Re e due pedoni, mentre il giocatore più forte ha due o tre volte più pezzi, tra cui la Regina ed entrambi gli Alfieri. A quel punto, come per l’UAF, il giocatore più debole non può letteralmente vincere e probabilmente è arrivato il momento di arrendersi. Altrimenti, la partita andrà avanti per un tempo variabile, a seconda della strategia adottata e dell’abilità del giocatore più debole, ma il risultato non sarà in dubbio.

Gli ucraini possono quindi fare qualcosa per impedirlo? Non proprio. In teoria, l’UAF potrebbe organizzare una ritirata, abbandonando l’est del Paese e cercando almeno di formare uno schermo intorno alle principali città dell’ovest. Gli esperti militari dubitano che questo sia possibile, e naturalmente qualsiasi ritirata sarebbe perseguita senza pietà dalla potenza aerea russa. Che ne sarà allora delle centinaia di migliaia di nuovi coscritti? Ebbene, che ne sarà di loro? A meno che non possano essere integrati in unità funzionanti, sotto comandanti capaci, dotati di armi che facciano la differenza e che rispondano agli ordini delle alte sfere, sono soprattutto una seccatura. Questa non è una guerra di fanteria: è una guerra in cui la fanteria muore molto rapidamente. È già chiaro che i russi stanno manovrando molto più liberamente con i veicoli corazzati, perché sanno che l’UAF è praticamente priva di armi con cui attaccarli. E che dire dell’attacco ai ponti e dell’uso dei droni? Questo significa fraintendere il livello a cui si sta conducendo la guerra e le dimensioni e la potenza delle forze russe. Anche queste sono solo seccature, in termini relativi.

L’Occidente può quindi fare qualcosa per impedirlo? Non proprio. Ricordiamo che l’intera strategia dell’Occidente si è basata fin dall’inizio sull’idea che la Russia fosse debole, che la campagna militare sarebbe rapidamente crollata e che presto ci sarebbe stato un nuovo governo a Mosca. Una vittoria militare ucraina, anche se senza dubbio gradita a molti (e fantasticata da alcuni) non è mai stata il punto. Era solo necessario che l’Ucraina continuasse a combattere fino al crollo della Russia. Ma ciò significa che, fin dall’inizio, le forniture di armi e munizioni e l’addestramento dei soldati di leva avevano come unico scopo quello di prolungare la guerra, non di vincerla. Quindi, anche se l’Occidente trasferisse all’Ucraina ogni pezzo di equipaggiamento rimasto e tutte le munizioni, e addestrasse ogni soldato di leva, la potenza militare non sarebbe sufficiente per fare qualcosa di più che rallentare i russi. (Sto parlando, ovviamente, del prossimo anno, non di un ipotetico futuro in cui l’Europa ricostituisca una capacità di guerra corazzata e invii migliaia di carri armati in Ucraina). L’anno scorso c’è stato un breve periodo di illusione in cui si è ipotizzato che la sola comparsa di mezzi occidentali con equipaggi addestrati dall’Occidente sarebbe stata sufficiente a far scappare i russi. Ora nessuno ci crede più, ovviamente, e di fatto l’Occidente si è praticamente arreso. È quindi meglio interpretare le affermazioni e le controaffermazioni sul fatto che non sono stati inviati abbastanza equipaggiamenti come l’inizio del gioco delle colpe che sarà portato avanti con ferocia anche dopo la fine dei combattimenti, piuttosto che come commenti seri sulla situazione attuale. In ogni caso, qualche pezzo di artiglieria o qualche munizione in più in questa fase è essenzialmente simbolica. Per darvi un’idea del perché, questo articolo di Wikipedia descrive alcune delle diverse organizzazioni di una batteria di artiglieria (in genere 6-8 cannoni), il suo personale (100-200 persone, spesso altamente addestrate) e tutte le attrezzature tecniche accessorie, oltre, naturalmente, a una costante fornitura di munizioni. E se per miracolo si riuscisse a fornire tutto questo, si avrebbe, per ripetere, una sola batteria.

E il personale occidentale? È una domanda che si articola in più parti, ma riflette anche l’incapacità dell’Occidente di comprendere le dimensioni e la violenza del conflitto in corso. Nessun numero plausibile di forze che l’Occidente potrebbe inviare, in qualsiasi veste, farebbe la differenza, in una situazione in cui i russi hanno forse 600.000 truppe direttamente impegnate nell’operazione (alcune delle quali nella stessa Russia) e altre centinaia di migliaia in riserva. Inoltre, l’Occidente non ha più la capacità di condurre una seria guerra corazzata, quindi qualsiasi intervento occidentale assomiglierebbe alle Brigate meccanizzate leggere improvvisate e addestrate dall’Occidente che hanno fallito in modo così spettacolare l’anno scorso. Ora, quasi certamente ci sono forze occidentali in Ucraina al momento, anche se non ho visto alcuna prova che siano in unità formate. Ci saranno consiglieri, addestratori, pianificatori e ufficiali di stato maggiore presso i quartieri generali, e probabilmente ci sono già da tempo. Non c’è nulla di insolito nella storia: le squadre di addestramento e di collegamento sono ampiamente impiegate da molti Paesi anche in tempo di pace, e durante la Guerra Fredda i “consiglieri” sovietici venivano sistematicamente impiegati per sostenere la parte che i sovietici stavano appoggiando. Questo non rende nessuno degli Stati invianti co-belligerante e non equivale a una dichiarazione di guerra. D’altra parte, nemmeno le perdite di questo personale equivalgono a una dichiarazione di guerra da parte dei russi. Inoltre, non sarei sorpreso di trovare sia ufficiali di collegamento dispiegati in avanti con le Brigate, sia truppe di ricognizione o delle Forze Speciali che si muovono discretamente intorno al fronte, cercando di capire cosa sta realmente accadendo, poiché è improbabile che l’Occidente creda a tutto ciò che gli ucraini raccontano. Un’altra possibilità, non di più, è che vi siano unità occidentali specializzate nella raccolta di informazioni tecniche dispiegate nella stessa Ucraina. Ovviamente, nulla di tutto ciò è di grande aiuto. Quindi cos’altro si potrebbe fare?

La prima opzione sarebbe quella di aumentare il numero di “consiglieri”, magari includendo operatori e manutentori di attrezzature, per consentire all’UAF di fare un uso adeguato delle attrezzature che ancora possiede. Secondo alcune voci (ma non ci sono prove concrete) questo starebbe già avvenendo. Ma naturalmente il numero di equipaggiamenti è ridotto e in diminuzione, così come la quantità di munizioni, per cui anche se si ricorresse a questa opzione, l’effetto sui combattimenti sarebbe al massimo marginale.

La seconda opzione, ora meno discussa, è una sorta di forza “mercenaria” composta da ex soldati della NATO. Non c’è alcuna indicazione che questa opzione sia seriamente perseguita, perché avrebbe un effetto pratico minimo, se non nullo. I mercenari (“mercs” nel vocabolario di coloro che amano atteggiarsi a esperti militari) non sono comunque così numerosi, dato che gli eserciti occidentali si sono radicalmente ridotti, e sembra che molti siano già stati in Ucraina, anche se un po’ meno sono tornati interi. Ma al giorno d’oggi ci sono molti lavori più attraenti e meglio retribuiti per gli ex soldati esperti, che forniscono cose come la protezione e la scorta dei VIP per i governi e le organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite. Ma in ogni caso, non siamo nell’Africa degli anni ’70 e ’80, dove piccole forze di soldati ben addestrati potevano sconfiggere gruppi di miliziani in scontri di fanteria di basso livello. Guardate di nuovo l’articolo su una batteria di artiglieria. Dove troverete un centinaio o più di mercenari, dal soldato semplice al maggiore, con le giuste specializzazioni, che conoscono l’equipaggiamento e parlano tutti la stessa lingua? E poi, dove si possono trovare equipaggi di carri armati mercenari e specialisti della manutenzione? Ma anche se fosse possibile, i numeri potenziali sono un errore di arrotondamento in una guerra di queste dimensioni.

Infine, che dire del dispiegamento di vere e proprie unità di combattimento occidentali? In primo luogo, l’idea che possano essere schierate operativamente in prima linea e che possano fare la differenza per il risultato è una fantasia. Ho già sottolineato in precedenza i problemi pratici del dispiegamento di forze occidentali su distanze così enormi. Allo stesso modo, è ben noto che la maggior parte degli eserciti occidentali sono sotto-forti, hanno un supporto logistico molto limitato, munizioni limitate e gravi problemi di disponibilità di equipaggiamento. Ma per molti versi i problemi sono più profondi. Gli alti comandanti degli eserciti occidentali, a livello di brigata e di divisione, non hanno mai combattuto una guerra convenzionale e, al massimo, hanno studiato tali guerre allo Staff College. Le loro carriere sono state fatte in Afghanistan, in missioni ONU e in operazioni a bassa intensità. Gli eserciti occidentali nel loro complesso non hanno una tradizione di guerra corazzata di massa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, né una tradizione di studio e addestramento in tal senso negli ultimi trentacinque anni. Nella maggior parte degli eserciti occidentali, le “Brigate” e ancor più le “Divisioni” sono organizzazioni essenzialmente amministrative, che raramente, se non mai, si addestrano insieme e che necessitano di riservisti e forse di unità prese in prestito da altri paesi per poter operare come una formazione.

Non esiste quindi un’esperienza istituzionale di combattimenti ad alta intensità su larga scala, né una memoria popolare istituzionale in merito. Tendiamo anche a dimenticare quanto violenti e mortali siano questi combattimenti: tutti ricordano le orribili perdite della Prima Guerra Mondiale, ma in realtà il periodo 1939-45 fu altrettanto mortale, anche sul fronte occidentale. Molti anni fa, durante la Guerra Fredda, ricordo di aver parlato con un giovane Maggiore appena uscito dallo Staff College che aveva visitato i campi di battaglia della Normandia ed era stato guidato da un veterano. Questo individuo raccontò, tra l’incredulità dei giovani ufficiali, come il suo battaglione avesse perso venti ufficiali e duecento uomini in poche ore di combattimento una mattina. Un tale tasso di perdite è impensabile in tempi moderni e significa che l’unità è stata distrutta e dovrà essere ritirata dallo schieramento.

Ma la situazione peggiora. Certo che c’è di peggio, perché questa non è la Seconda Guerra Mondiale, e nemmeno una delle Guerre del Golfo. È la prima guerra combattuta con armi veramente moderne, con un potere distruttivo senza pari e con una visibilità in tempo reale dell’intero campo di battaglia. In una certa misura gli ucraini avevano iniziato a conoscere questo tipo di guerra dopo il 2014, e i russi hanno dovuto imparare molto rapidamente nel 2022. Ma non c’è alcuna indicazione che l’Occidente comprenda davvero le lezioni tattiche e operative dell’Ucraina – ad esempio, che il principio militare della concentrazione delle forze diventa rapidamente pericoloso – se non come vaghe idee teoriche. Non esiste una dottrina, né una pianificazione per questo tipo di guerra. I più esperti di me danno a una Brigata occidentale forse mezz’ora di combattimento con le forze russe prima di essere spazzata via, probabilmente da forze avversarie che non possono nemmeno individuare. Un attacco missilistico al quartier generale di una brigata sarebbe sufficiente da solo a fare buona parte del danno.

Perché si parla di “escalation”? In realtà non ne ho idea. Come ho detto più volte, serve qualcosa con cui fare un’escalation e un luogo in cui farla. L’Occidente non ha né l’uno né l’altro. Ora è chiaro, credo, perché l’idea di un “coinvolgimento diretto” della NATO è essenzialmente priva di significato, e di certo non serve a tenere sveglio di notte lo Stato Maggiore russo. Naturalmente, sarebbe possibile architettare un conflitto apparente. Come ho discusso di recente, sarebbe possibile inviare una sorta di forza di blocco politicamente dimostrativa, magari a Odessa, per formare una barriera umana all’occupazione russa. Ho il forte sospetto che questa non sia una proposta reale, quanto piuttosto una fantasia politica, ma per quel che vale possiamo vedere brevemente cosa potrebbe comportare. Per esempio, si è parlato di inviare un distaccamento della Legione straniera francese, forse di 1.500 uomini, da qualche parte in Ucraina. Tuttavia, la Legione è una forza prevalentemente di fanteria, con un solo reggimento dotato di veicoli leggeri da combattimento su ruote. In altre parole, è probabilmente la forza meno adatta al combattimento effettivo con i russi che si possa immaginare. Il presupposto, tuttavia, sembra essere che, di fronte a una tale forza, i russi esiterebbero, per paura di… beh, ci stanno ancora lavorando. In pratica, qualsiasi forza così dispiegata potrebbe essere semplicemente circondata e ignorata dai russi, fino a quando non esaurisce cibo e provviste.

Quindi non stiamo andando verso la terza guerra mondiale? Essendo la stupidità politica, è probabilmente saggio non escludere nulla in modo definitivo. Ma come ho sottolineato, l’Occidente non ha di fatto nulla concui combattere la Terza Guerra Mondiale . Da parte loro, i russi sono stati abbastanza attenti finora a evitare di colpire deliberatamente le forze della NATO, e finché queste ultime resteranno fuori dai combattimenti diretti, probabilmente questa sarà ancora la loro politica. Dopo tutto, man mano che l’UAF diventa sempre più debole, l’assistenza della NATO diventa di conseguenza meno efficace. E no, non siamo nemmeno diretti verso l’uso di armi nucleari, a meno di qualche follia assolutamente imprevedibile. Come ho sostenuto subito dopo l’inizio della crisi, è importante abbandonare gli stereotipi culturali di generali pazzi e di escalation automatica che risalgono agli anni Cinquanta e Sessanta e le storie trafelate della crisi dei missili di Cuba. Gli Stati non si minacciano a vicenda con armi nucleari al giorno d’oggi, o in realtà non lo hanno mai fatto dalla fine degli anni ’60, quando sono stati dispiegati i primi sottomarini con missili balistici. Né siamo impotenti in un processo di escalation meccanica in stile 1914. Anzi, la situazione non potrebbe essere più diversa: nel 1914 erano già stati elaborati piani complicati e dettagliati e gli Stati sapevano chi stavano combattendo e dove. La mobilitazione e il dispiegamento avvennero quindi più o meno come previsto.

Cosa succede alla fine del combattimento? È una bella domanda, che non è stata discussa se non a livello di propaganda agonistica. Molto dipende da cosa si intende per “fine” e “combattimento” in una guerra come questa. Possiamo elencare le possibilità come segue, in ordine crescente di complessità e importanza, tenendo presente il detto di Clausewitz secondo cui in guerra tutto è semplice, ma anche la cosa più semplice è difficile. Nell’ordine, quindi:

  • Cessate il fuoco organizzate a livello locale.

  • Cessate il fuoco lungo parti o tutto il fronte.

  • Arrendersi da parte di singoli e piccoli gruppi.

  • Arrendersi da parte di unità formate al completo.

  • Un armistizio generale.

  • Un trattato bilaterale con l’Ucraina.

  • Un trattato multilaterale con i Paesi della NATO.

Ora, non c’è alcuna prova che l’Occidente stia pensando a nessuno dei punti di questo elenco, a parte una versione quasi esilarante e fantastica dell’ultimo, che prevede concessioni da parte dei russi alla NATO. Esaminiamo i primi cinque in ordine sparso, ricordando che le differenze sono importanti e che è fondamentale tenerle a mente nei prossimi mesi, man mano che le opzioni, o le varianti e i fraintendimenti di esse, vengono sballottate dai media. Gli ultimi due li tratterò la prossima settimana.

cessate il fuoconon sono altro che ciò che il nome suggerisce: pause temporanee nei combattimenti, di solito per consentire l’evacuazione, la fornitura di aiuti umanitari o qualcosa di simile. Potremmo arrivare a un punto in cui l’Ucraina, sostenuta probabilmente dall’Occidente, chiederà dei cessate il fuoco come modo per evitare l’inevitabile fine, e nella speranza che qualcosa (un colpo di stato a Mosca, un meteorite, chi lo sa?) salti fuori. Ma i cessate il fuoco tendono ad avere una durata molto breve (giorni o settimane al massimo) e sono generalmente concordati per uno scopo specifico. Sebbene non sia impossibile che ci sia un caso specifico, come l’evacuazione di Odessa, in cui questo potrebbe funzionare, è difficile capire perché i russi dovrebbero essere entusiasti dell’idea, e bisogna essere in due a mettersi d’accordo.

Alcuni arresti da parte di singoli e piccoli gruppi hanno già avuto luogo. Con l’aumento delle perdite dell’UAF e con la crescente separazione delle unità sopravvissute, le opportunità di arrendersi diventeranno maggiori. Ma ci sono anche dei problemi. Gran parte dei combattimenti si svolgono tra piccoli gruppi di sezioni o plotoni con pochi veicoli, ed è possibile che la parte che accetta la resa possa temere un’imboscata, così come le truppe che si arrendono potrebbero temere di cadere in un’imboscata. Ci sono prove che i russi abbiano stabilito e diffuso procedure per la resa, ma non è chiaro se queste siano state ricevute e comprese dall’UAF. La psicologia di base ci dice che in condizioni di grande stress, quando la vita è in pericolo, le persone vedono cose che non ci sono, e la paura e il sospetto reciproco spesso fanno il resto. È praticamente certo che alcune unità dell’UAF, comprese quelle nazionaliste estreme, cercheranno di usare le finte rese come tattica, sia per fuggire che per attaccare. A sua volta, questo significa che le unità russe potrebbero avere il grilletto facile e aprire il fuoco su coloro che vogliono veramente arrendersi. Questo è probabilmente il motivo per cui le rese non sono state più frequenti finora.

Un’opzione più probabile è che i russi chiedano a coloro che sono interessati ad arrendersi di riunirsi in un determinato momento e luogo, senza armi personali, probabilmente in un villaggio o in una piccola città recentemente conquistati. Sebbene questo richieda un certo grado di fiducia da entrambe le parti, più alto è il numero dei partecipanti, più alti sono gli ufficiali presenti e più organizzato è l’intero processo, più è probabile che funzioni. Poiché tali preparativi non possono essere tenuti segreti, potrebbero esserci tentativi dell’UAF di impedire la resa, prendendo di mira le proprie truppe. Questo potrebbe funzionare per piccoli numeri, ma più il gruppo è numeroso e meno sarà facile far passare un attacco di artiglieria, ad esempio, come un incidente.

La resa di un’unità completa, ad esempio una brigata, è più semplice in linea di principio, perché verrebbe negoziata tra comandanti di alto livello. Tuttavia, né i negoziati né gli ordini alle unità subordinate che potrebbero essere necessari potrebbero essere tenuti segreti, quindi le alte sfere dell’UAF sarebbero a conoscenza del piano e potrebbero cercare di impedirlo. Tali arrese sarebbero più probabili, quindi, quando una brigata fosse relativamente concentrata (in una città, per esempio) e tagliata fuori e circondata. A causa della natura attorale della guerra, però, è improbabile che ci siano arrese di massa di truppe circondate, come ci si aspetterebbe in una guerra di movimento e di manovra, e in effetti non è nemmeno chiaro se i russi stiano cercando di raggiungere questo obiettivo. Mentre preferirebbero ovviamente che l’UAF si arrendesse, piuttosto che combattere con perdite da entrambe le parti, fare un gran numero di prigionieri non sembra essere parte del loro concetto al momento. Tuttavia, vale la pena sottolineare che, alla fine dei combattimenti, avere un numero significativo di prigionieri dell’UAF potrebbe essere una leva negoziale molto preziosa per Mosca, quindi è possibile che i russi pongano maggiore enfasi su questo aspetto con il passare del tempo.

Questo ci porta alla questione dell’armistizio. A differenza del cessate il fuoco, l’armistizio è un accordo formale che stabilisce le condizioni e le modalità per la fine del conflitto tra le parti. Si noti che, così come un armistizio non è un cessate il fuoco, non è nemmeno un trattato di pace, e il contenuto sarebbe in gran parte o addirittura esclusivamente militare. Un buon esempio è l’Accordo di armistizio del 1918 (potete vedere il testo che fu effettivamente imposto ai tedeschi qui). L’intenzione abituale è che un armistizio sia seguito da un trattato di pace, ma non è sempre così: l’esempio coreano è l’eccezione più nota, ma lo stesso vale per tutti i Paesi che i tedeschi hanno invaso nel 1939-41. Fino alla negoziazione di un trattato di pace è tecnicamente ancora in corso un conflitto armato, e il testo dell’armistizio può dare alle parti il diritto di sospendere l’accordo e tornare in guerra in determinate circostanze.

Come l’accordo del 1918, con le sue 34 clausole, l’accordo di armistizio dovrà coprire un ampio spettro. Ma prima di entrare nei dettagli, vale la pena di fare un paio di considerazioni generali. In primo luogo, sebbene un armistizio sia vincolante, non è un trattato. Per molti versi, è meglio inteso come una messa per iscritto dei rapporti di forza alla fine dei combattimenti. È un documento temporaneo, in gran parte di natura tecnica, progettato per strutturare la fine della guerra e le sue immediate conseguenze. Le sue disposizioni in Ucraina rifletteranno (come nel 1918) un equilibrio di potere molto diseguale. Inoltre, si tratta di un documento militare, che deve essere certamente approvato dalla leadership politica, ma che non prevede la ratifica da parte del Parlamento. L’Ucraina non può portare la Russia davanti alla Corte internazionale di giustizia, sostenendo che ha violato qualche disposizione o altro.

Tuttavia, e questo è un grosso “tuttavia”, la decisione di chiedere un armistizio in primo luogo è una decisione politica, e la guerra potrebbe, in teoria, continuare inutilmente per mesi, anche se l’UAF è ormai completamente esaurita. Gli armistizi non si fanno per caso e la vittoria, come ci ricorda Clausewitz, è il risultato di una decisione politica, in quanto costringiamo il nemico a “fare la nostra volontà”. Ma supponiamo che Kiev non possafare la volontà di Mosca perché il governo è troppo disorganizzato e diviso, perché diversi Paesi occidentali spingono in direzioni diverse e l’esercito (o parte di esso) non obbedisce agli ordini? Questo tipo di caos sarebbe il più grave sviluppo potenziale che mi viene in mente.

In ogni caso, si tratta di un documento negoziato solo tra belligeranti. Questo potrebbe essere una spiacevole sorpresa per la NATO, che senza dubbio si immagina di ospitare i negoziati e di dettare in larga misura il risultato. A meno che una nazione della NATO non sia disposta a dichiararsi co-belligerante (e nessuna lo ha fatto, o sembra probabile che lo faccia), il massimo che può sperare è di influenzare il risultato attraverso la pressione sull’Ucraina, per quanto possa essere utile. Poiché si tratta solo di un accordo tra i combattenti per porre fine ai combattimenti, non ci sarebbe spazio, ad esempio, per garanzie internazionali. Detto questo, dato che nel Donbas c’erano già osservatori dell’OSCE da anni prima dell’intervento russo, non è improbabile che ci sia un accordo separato in base al quale l’OSCE o qualche organismo simile osservi il processo di attuazione dell’armistizio. Ma se i russi si oppongono o propongono invece un team cinese, gli ucraini non possono fare molto.

La combinazione di questi due fattori fa sì che i russi cercheranno probabilmente di usare i negoziati per l’armistizio per strappare agli ucraini ogni possibile concessione, comprese alcune cose che dovrebbero davvero far parte di un trattato di pace, o che avranno l’effetto di pre-giudicare i negoziati di pace: non saranno mai più così forti e l’Occidente non avrà mai meno influenza. Inoltre, le forze russe saranno potenti come sempre e quelle ucraine non saranno mai state così deboli, per cui i russi si troveranno in una posizione privilegiata per far rispettare la loro interpretazione dell’accordo, con la minaccia della forza a sostegno delle loro richieste.

Quindi, cosa potrebbe esserci nell’accordo di armistizio? È difficile dirlo, ma una disposizione necessaria sarebbe la separazione delle forze. Da un lato, tutte le unità ucraine sulla linea di contatto con le unità russe potrebbero essere obbligate ad arrendersi entro, diciamo, 48 ore. Dall’altro, le unità rimanenti dovrebbero ritirarsi a ovest e a nord di una linea che immagino i russi siano impegnati a tracciare ora e che, tra le altre cose, darebbe loro il controllo di Odessa. Alle forze ucraine sarebbe poi vietato spostarsi a est o a sud della linea di demarcazione, anche se è dubbio se le unità russe sarebbero soggette a limiti reciproci. Come minimo, i russi insisterebbero sul diritto di sorvolo con aerei e droni per verificare la conformità ucraina.

Le forze che si arrendono dovrebbero ovviamente consegnare le armi, ma le forze che si ritirano a ovest dell’attuale linea di contatto potrebbero anche dover lasciare sul posto le armi pesanti, così come le scorte di munizioni e missili, e qualsiasi aereo ed elicottero rimasto. Gli ucraini sarebbero probabilmente obbligati a consegnare immediatamente i prigionieri russi, anche se la possibilità che i russi facciano lo stesso dipende da molti fattori politici e pratici. Tutto il personale militare straniero dovrebbe essere espulso immediatamente. È molto probabile che i russi chiedano che gli aerei non danneggiati nella parte occidentale del Paese vengano consegnati o distrutti. Probabilmente ci sarebbe una commissione congiunta per supervisionare i dettagli e per gestire i reclami che dovessero emergere. E no, gli Stati Uniti non ne farebbero parte.

Questo può sembrare duro e persino irragionevole (anche se inevitabilmente i dettagli di un tale regime sono molto poco chiari in questa fase), ma la realtà è che, a meno che l’Ucraina non accetti questi termini, o qualcosa di simile, la guerra continuerà finché non lo farà.

Questo non vuol dire che non ci saranno problemi pratici. Abbiamo pochissima idea di dove si trovi attualmente il potere reale a Kiev e ancor meno di come cambierebbe la distribuzione del potere se fosse necessario concordare un armistizio che fosse essenzialmente una resa. In una situazione del genere, non possiamo essere certi che le unità a est del Paese (ammesso che fossero ancora in contatto con Kiev) riceverebbero l’ordine di arrendersi o di spostarsi a ovest, per non parlare di obbedire. Possiamo aspettarci ammutinamenti, contro-mutinamenti e completa disorganizzazione a molti livelli. In effetti, non è chiaro se a Kiev ci sarà un governo in grado di esercitare un controllo sufficiente sui militari per indurli ad applicare i termini dell’armistizio. (Questa è una questione ben diversa dall’esistenza di un governo in grado di negoziare un trattato di pace).

Il rischio è che si crei una situazione caotica, magari con catene di comando diverse e contrastanti, con ordini diversi che vanno a unità diverse. Ci saranno sicuramente dei rancorosi che rifiuteranno di arrendersi o di smobilitare, perché ce ne sono sempre. Se si tratta semplicemente di forze dell’UAF che cercano di rompere il contatto e di fuggire per evitare di essere fatte prigioniere, la cosa è contenibile: alcune ci riusciranno, altre saranno ricatturate o uccise, e dubito che i russi si preoccupino troppo. Ma la disorganizzazione diffusa nell’Est, forse con movimenti nazionalisti in fermento, il terrorismo e gli omicidi tra gruppi e fazioni diverse, potrebbe di fatto rendere impossibile qualsiasi conclusione organizzata dei combattimenti.

In tali circostanze, i russi sarebbero molto riluttanti a coinvolgersi in un simile caos: d’altra parte, hanno bisogno almeno di un regime ucraino ragionevolmente coerente per concordare l’armistizio e, naturalmente, ciò che ne consegue. Questo potrebbe essere il motivo per cui hanno lasciato in piedi almeno alcune parti del sistema di comando dell’UAF. Il problema sarà probabilmente più acuto per l’Occidente, e soprattutto per gli europei, che subiranno le conseguenze pratiche della disgregazione dello Stato ucraino, in particolare sotto forma di rifugiati e migrazioni. Per la prima volta, l’Occidente potrebbe trovarsi a dover scegliere tra fazioni, e per questo sarà necessario un accordo tra diversi Stati con interessi molto diversi. Non è da escludere che, in uno dei colpi di scena finali di questa storia surreale, le forze militari occidentali rimaste possano essere impegnate in Ucraina, non contro i russi, ma per conto di una fazione di Kiev contro un’altra.

Ma se può essere di consolazione, quello che ho descritto finora è la parte più facile. Tornate la prossima settimana e parleremo delle questioni molto più difficili che seguirebbero un eventuale armistizio.

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Molto più di un mercato, di Enrico Letta

Un rapporto di natura integralmente agiografica, come nel carattere e nella formazione dell’autore che merita, comunque, una lettura ed una critica da curare appena possibile. Intanto alcune domande:

  • è casuale che i due rapporti che dovrebbero contribuire a rifondare la UE siano stati affidati a due italiani?
  • le politiche comunitarie sono state effettivamente fattori di sviluppo del continente?
  • sono state fattori piuttosto di polarizzazione che di equilibrio interno alle economie?
  • quale collocazione e quali interessi hanno garantito nel contesto internazionale?

Giuseppe Germinario

Molto più di un mercato

La pietra angolare sta tremando. Sulla scia della pandemia, con la guerra che dilaga da Gaza a Kiev, per liberare la linfa vitale dell’integrazione europea, dobbiamo avere il coraggio di operare sul cuore dell’Europa: il mercato unico. Un pezzo di dottrina di Enrico Letta

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Nella riunione del Consiglio di oggi, Enrico Letta presenterà ai capi di Stato e di governo dell’UE il rapporto di 147 pagine Much more than a Market, che gli è stato commissionato il 15 settembre. Egli ci ha affidato questa versione sintetica, un pezzo di dottrina da leggere e discutere nelle lingue di 1. Se avete i mezzi per sostenere il nostro lavoro di costruzione di un dibattito politico, strategico e intellettuale su scala continentale,prendete in considerazione la possibilità di abbonarvi.

Il nostro mercato unico è nato in un mondo più piccolo

Il mercato unico è il prodotto di un’epoca in cui l’Unione e il mondo erano più piccoli, più semplici e meno integrati, e in cui molti dei protagonisti di oggi non erano ancora entrati in scena. Quando Jacques Delors concepì e presentò il mercato unico europeo nel 1985, l’Unione era ancora solo le Comunità europee. Il numero di Stati membri era meno della metà di quello attuale. La Germania era divisa e l’Unione Sovietica era ancora una realtà. Cina e India insieme rappresentavano meno del 5% dell’economia mondiale e l ‘acronimo BRICS non esisteva ancora. All’epoca l’Europa, come gli Stati Uniti, era al centro dell’economia mondiale, in testa per peso e capacità di innovazione: un terreno fertile per lo sviluppo e la crescita.

Il quadro generale è profondamente cambiato. È urgente un aggiornamento. Dobbiamo sviluppare un nuovo mercato unico per il mondo di oggi.

ENRICO LETTA

Il mercato unico è stato creato per rafforzare l’integrazione europea eliminando gli ostacoli al commercio, garantendo una concorrenza leale e promuovendo la cooperazione e la solidarietà tra gli Stati membri. Ha facilitato la libera circolazione di beni, servizi, persone e capitali attraverso l’armonizzazione e il riconoscimento reciproco, rafforzando così la concorrenza e incoraggiando l’innovazione. Per garantire che tutte le regioni possano beneficiare in egual misura delle opportunità di mercato, sono stati istituiti i fondi di coesione. Questo approccio globale ha svolto un ruolo essenziale nell’integrazione economica e nello sviluppo dell’Unione.

Progettato per essere efficace nel mondo in cui è stato costruito, il mercato unico ha dimostrato fin dall’inizio di essere un formidabile motore per l’economia europea, oltre che un potente fattore di attrattiva. Oggi, a più di trent’anni dalla sua creazione, rimane una pietra miliare dell’integrazione e dei valori europei, un potente catalizzatore di crescita, prosperità e solidarietà.

Ma il contesto più ampio è profondamente cambiato. Un aggiornamento sta diventando urgente. Dobbiamo sviluppare un nuovo mercato unico per il mondo di oggi.

Il mercato unico è sempre stato intrinsecamente legato agli obiettivi strategici dell’Unione. Spesso percepito come un progetto tecnico, è in realtà intrinsecamente politico. Il suo futuro è legato agli obiettivi profondi dell’Unione europea come vera e propria costruzione. Sarebbe un errore considerarlo un’impresa finita. È piuttosto un progetto che ogni generazione deve rinnovare.

Proprio per la sua natura e la sua costante evoluzione, è sempre stata chiamata ad adattarsi ai cambiamenti europei e globali. Dalla fine degli anni Ottanta, quando è stato redatto l’Atto unico europeo, si è assistito a un costante e progressivo processo di riflessione concettuale, che ha comportato la stesura di relazioni e piani d’azione, portati avanti in particolare dalla Commissione europea e dai suoi commissari. Nel 2010, il rapporto Monti ha fornito una rivalutazione critica e ha formulato raccomandazioni per il suo rilancio. Il lavoro della mia relazione si inserisce in questo continuum, con l’obiettivo di esaminare in profondità il futuro del mercato unico dopo una serie di crisi e di sfide esterne che ne hanno messo a dura prova la tenuta.

Un nuovo mercato unico per un mondo più ampio

L’Europa è cambiata radicalmente dal lancio del mercato unico, in gran parte grazie al suo stesso successo. L’integrazione ha raggiunto livelli elevati in molti settori dell’economia e della società, ma non in tutti, e l’80% della legislazione nazionale è il risultato di decisioni prese a Bruxelles. Tuttavia, con 27 Stati membri, la diversità e la complessità del sistema giuridico sono aumentate notevolmente, così come i potenziali vantaggi. Questi sviluppi significano che non possiamo più fare affidamento solo sulla semplice convergenza delle leggi nazionali e sul riconoscimento reciproco, che sono diventati troppo lenti o insufficienti per beneficiare delle economie di scala.

Diversi fattori depongono a favore di un aggiornamento dei punti cardine del mercato unico, per adeguarli alla nuova visione del ruolo dell’Unione in un mondo che si è “allargato” e ha subito grandi cambiamenti strutturali.

Il panorama demografico ed economico mondiale è cambiato radicalmente. Negli ultimi tre decenni, la quota dell’UE nell’economia globale è diminuita e la sua rappresentanza tra le maggiori economie mondiali si è ridotta drasticamente a favore delle economie asiatiche in forte espansione. Questa tendenza può essere spiegata in parte dai cambiamenti demografici, con l’UE che si trova ad affrontare una popolazione in calo e in via di invecchiamento.

In contrasto con la crescita registrata in altre regioni, il tasso di natalità nell’UE sta diminuendo ad un ritmo allarmante, con 3,8 milioni di nuovi nati nel 2022, rispetto ai 4,7 milioni del 2008.

Inoltre, anche senza tener conto delle economie asiatiche, il mercato unico è in ritardo rispetto a quello statunitense. Nel 1993, le dimensioni dei due erano paragonabili. Ma mentre il PIL pro capite è cresciuto di quasi il 60% negli Stati Uniti tra il 1993 e il 2022, è cresciuto solo del 30% in Europa.

L’ordine internazionale è entrato in una fase caratterizzata dalla rinascita della politica di potenza. L’UE è tradizionalmente impegnata nel multilateralismo, nel libero scambio e nella cooperazione internazionale, principi che hanno costituito la base della sua governance e delle sue strategie economiche.

Questi valori hanno guidato le interazioni dell’Unione sulla scena internazionale, promuovendo un ordine normativo che è stato al centro del suo ethos fondativo e del suo quadro operativo. Oggi, guerre e conflitti commerciali stanno minando sempre più queste basi. La guerra di Vladimir Putin contro l’Ucraina rappresenta una rottura radicale. Il 24 febbraio 2022 segna l’inizio di una nuova era per l’Europa. Molto presto ha preso forma una nuova linea europea, con la Dichiarazione di Versailles del marzo 2022, seguita dalla Dichiarazione di Granada dell’ottobre 2023 e dalla strategia di sicurezza economica recentemente aggiornata dalla Commissione europea.

Il 24 febbraio 2022 segna l’inizio di una nuova era per l’Europa.

ENRICO LETTA

Tuttavia, il successo dell’Unione poggia sui pilastri del libero scambio e dell’apertura. Compromettere questi ideali significa minare le fondamenta stesse su cui è costruita l’Unione. Dobbiamo quindi trovare una via d’uscita che ci permetta di continuare a svolgere un ruolo in un mondo sempre più complesso, puntando al contempo a preservare la pace e a sostenere un ordine internazionale basato sulle regole, garantendo la nostra sicurezza economica. In questa difficile impresa, è essenziale continuare a investire nel miglioramento e nella promozione degli standard, rafforzando il ruolo del mercato interno come solida piattaforma che sostiene l’innovazione, protegge gli interessi dei consumatori e promuove lo sviluppo sostenibile.

Un’altra dimensione cruciale da affrontare riguarda il perimetro del mercato unico. All’inizio, tre settori sono stati deliberatamente esclusi dal processo di integrazione, considerati troppo strategici perché il loro funzionamento e la loro regolamentazione si estendessero oltre i confini nazionali: finanza, telecomunicazioni ed energia. Questa esclusione era motivata dalla convinzione che il controllo nazionale di questi settori avrebbe servito meglio i nostri interessi strategici. Tuttavia, i mercati nazionali, concepiti per proteggere le industrie nazionali, rappresentano oggi un freno importante alla crescita e all’innovazione in settori in cui la concorrenza globale e la sicurezza economica richiedono un rapido passaggio a una scala europea. Anche all’interno del perimetro originario, il mercato unico necessita di una revisione: in particolare, la fornitura di servizi all’interno dell’Unione continua a incontrare ostacoli significativi che devono essere affrontati e rimossi per liberare il pieno potenziale del mercato comune.

Per questo mondo più ampio, abbiamo bisogno di un impegno politico e di un nuovo quadro in grado di proteggere le libertà fondamentali sulla base di condizioni di parità, sostenendo al contempo una politica industriale comune dinamica ed efficace. Per raggiungere questi obiettivi ambiziosi, abbiamo bisogno di velocità, di scala e, soprattutto, di risorse finanziarie sufficienti.

D’un grand tour: una conversazione a livello continentale per progettare il nuovo mercato unico

Durante i viaggi in Europa che hanno accompagnato la preparazione di questo rapporto, dal settembre 2023 all’aprile 2024, ho visitato 65 città europee e partecipato a oltre 400 incontri in cui ho avuto l’opportunità di interagire, ascoltare e discutere con migliaia di persone. Il dialogo ha coinvolto tutti i governi nazionali e le principali istituzioni europee, nonché tutti i gruppi politici del Parlamento europeo. Al di fuori dell’UE, si è discusso con i Paesi che condividono il mercato unico ma non sono membri dell’Unione e con tutti i Paesi candidati. Le parti sociali – sindacati e associazioni imprenditoriali – così come il terzo settore, i datori di lavoro dei servizi di interesse generale e i gruppi della società civile sono stati consultati, spesso in più occasioni, sia a Bruxelles che nelle varie capitali nazionali. Sono stati inoltre organizzati numerosi incontri con i cittadini e dibattiti nelle università o all’interno di think tank, non solo nelle grandi città, ma anche in regioni lontane dai principali centri integrati.

Questo percorso ha contribuito allo sviluppo di una riflessione collettiva. In quanto autore del rapporto, mi assumo naturalmente la piena responsabilità delle analisi e delle proposte. Tuttavia, per formularle, è stato fondamentale ascoltare e interagire con persone di tutta Europa.

Durante questo viaggio, ho anche sperimentato in prima persona il paradosso più evidente delle infrastrutture europee: l’impossibilità di viaggiare in treno ad alta velocità tra le capitali europee. Si tratta di una profonda contraddizione, emblematica dei problemi del mercato unico. Il nostro continente ha sviluppato un sistema ferroviario ad alta velocità in modo rapido ed efficiente, ma, ad eccezione della tratta Parigi-Bruxelles-Amsterdam, è rimasto all’interno dei confini nazionali. Non siamo nemmeno riusciti a collegare le tre principali capitali europee, Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo.

Durante questo viaggio, ho anche sperimentato in prima persona il paradosso più evidente delle infrastrutture dell’Unione: l’impossibilità di viaggiare in treno ad alta velocità tra le capitali europee.

ENRICO LETTA

Sebbene l’alta velocità ferroviaria abbia trasformato il panorama economico e sociale di molti Paesi europei, migliorando la mobilità e le opportunità di sviluppo, questi benefici non si sono estesi all’intero mercato unico. Ciò è dovuto agli incentivi fiscali, che sono principalmente nazionali e mettono in difficoltà gli operatori internazionali. Il settore è pronto e ha lanciato diverse iniziative di successo, ma è necessario un approccio europeo alla regolamentazione e agli incentivi fiscali, piuttosto che nazionale. I prossimi anni dovranno dare priorità alla pianificazione, al finanziamento e all’attuazione di un grande piano di collegamento delle capitali con treni ad alta velocità. Questo progetto deve diventare uno dei pilastri della transizione giusta, verde e digitale. Può mobilitare energie e risorse e, soprattutto, dare risultati progressivi che andranno a beneficio non solo delle generazioni future, ma anche di quelle attuali.

Le ispirazioni per il mio viaggio in Europa sono state molte e incoraggianti. Tuttavia, tra i tanti temi affrontati nei dibattiti europei e nazionali, uno è emerso ovunque come predominante: la questione del sostegno e del finanziamento degli obiettivi che, insieme, abbiamo identificato come centrali per gli anni a venire e che l’Unione sembra ormai aver abbracciato in modo irreversibile.

Si tratta di scelte coraggiose e positive che accompagneranno la vita europea per almeno un decennio e che saranno fondamentali per noi e per i futuri cittadini europei. Queste scelte, pur offrendo notevoli opportunità, saranno inevitabilmente accompagnate da costi significativi.

  • In primo luogo, l’impegno per una transizione ecologica e digitale equa. Questa scelta riflette un impegno a lungo termine per trasformare la società e l’economia europea in modo sostenibile ed equo. Il prossimo ciclo politico sarà cruciale per garantire l’attuazione e il successo di questa transizione globale.
  • In secondo luogo, la decisione di perseguire l’allargamento. L’enfasi non è solo sull’obiettivo in sé, ma anche sulla meticolosa esecuzione della sua realizzazione. Definire una chiara direzione per l’integrazione dei nuovi membri è una delle principali sfide dei prossimi anni.
  • In terzo luogo, la necessità di rafforzare la nostra sicurezza. Nel nuovo disordine globale, in questo “mondo spezzato” descritto dal Grande Continente, caratterizzato da una profonda e sistemica instabilità, il futuro dell’Unione non può prescindere dalla necessità di garantire la sicurezza dei cittadini europei. Ciò ha un’implicazione fondamentale: posizioni e decisioni più impegnative nel campo della difesa.

Sembra ormai certo che questi tre grandi orientamenti strategici guideranno l’Unione negli anni a venire. La questione non è più se l’Europa li perseguirà, ma come. Il dibattito sarà certamente vivace. Ne ho avuto una chiara percezione durante i numerosi incontri organizzati durante il mio viaggio. Ho avuto anche un’altra netta impressione: per i cittadini europei è chiaro che perseguire questa strada comporterà alti costi collettivi. Finché non ci sarà chiarezza e trasparenza su come verranno individuati questi fondi e su chi li pagherà, le preoccupazioni dei cittadini e delle forze trainanti delle nostre società cresceranno. Per evitare contraccolpi politici, la questione del sostegno finanziario e della condivisione dei costi per la transizione, l’allargamento e le nuove politiche di difesa deve trovare una risposta chiara, diretta e trasparente.

La costruzione del mercato unico di domani sarà una delle condizioni essenziali per soddisfare queste esigenze di finanziamento. La mia analisi non va volutamente oltre il mandato ricevuto dal Consiglio dell’Unione Europea e dalla Commissione – redatto sotto l’attuale trio di presidenze belga, spagnola e ungherese – e mira a dare un contributo il più possibile concreto e operativo ai programmi di lavoro di queste istituzioni e alla relazione di Mario Draghi sul futuro della competitività europea.

Il mercato unico ci riguarda tutti: ognuno deve fare la sua parte

Il mercato unico non è solo un concetto astratto: è la pietra angolare del processo di integrazione dell’Unione. Per sviluppare un mercato efficace in grado di creare le condizioni per la prosperità, è necessario che tutti – istituzioni europee, Stati membri, imprese, cittadini, lavoratori e società civile – facciano la loro parte. Altrimenti, l’intero edificio crollerà.

Il prossimo quadro finanziario pluriennale rappresenta un momento critico per le ambiziose proposte illustrate nel presente rapporto e invita tutte le parti interessate a riaffermare il proprio impegno e a sviluppare un nuovo mercato unico. La prossima legislatura, dal 2024 al 2029, offre un’opportunità strategica per portare avanti questa visione. Tenendo conto delle nuove tendenze economiche e della concorrenza globale, questo periodo potrebbe catalizzare una significativa trasformazione del mercato unico in un vero e proprio “mercato europeo”, aprendo la strada a un grande balzo in avanti del nostro quadro economico integrato.

Una quinta libertà per un nuovo mercato unico

Il quadro del mercato unico, ancorato alla definizione delle quattro libertà – la libera circolazione di persone, beni, servizi e capitali – si basa fondamentalmente su principi teorici del XX secolo. Le dinamiche mutevoli di un mercato sempre più plasmato dalla digitalizzazione, dall’innovazione e dalle incertezze legate al cambiamento climatico e al suo impatto sulla società richiedono un cambio di paradigma: la distinzione tra beni e servizi è diventata sempre più sfumata, con i servizi che spesso vengono sussunti ai beni, rendendo impossibile cogliere gli aspetti immateriali dell’economia digitale.

In un momento in cui la tecnologia è al centro di tutte le transizioni, l’UE deve affrontare la sfida di tenere il passo con i rapidi progressi a livello globale. Tuttavia, il continente non ha sviluppato un’industria solida o ecosistemi coerenti in grado di trarre vantaggio dalla nuova ondata di innovazione. Il risultato è una dipendenza da tecnologie esterne che sono ormai vitali per le imprese europee.

Perché è successo? La difficoltà dell’UE di convertire il proprio potenziale di ricerca in industrie europee in grado di competere sui mercati mondiali è dovuta a una serie di fattori.

Una politica tecnologica comune coordinata e completa consentirebbe di intraprendere i necessari investimenti a lungo termine per sostenere uno sviluppo tecnologico ambizioso ma costoso. Negli ultimi anni, l’UE ha attuato in modo efficace una regolamentazione digitale sostanziale, evitando la potenziale frammentazione che avrebbe potuto derivare dall’introduzione di norme proprie da parte degli Stati membri e proteggendoci dall’influenza di forze normative esterne. Tuttavia, una strategia che si basasse esclusivamente sul pilastro normativo sarebbe inadeguata a raggiungere il livello di innovazione necessario per realizzare i nostri obiettivi. Attualmente, l’UE dispone di un vasto serbatoio di dati, competenze e start-up che non vengono sufficientemente sfruttati. Questa ricchezza di risorse rischia di andare a beneficio di altri attori globali che sono in una posizione migliore per trarne vantaggio. È un rischio che non possiamo correre: la nostra autonomia strategica e la nostra sicurezza economica ne risulterebbero gravemente compromesse.

La costruzione di una solida infrastruttura tecnologica europea è una sfida strategica che richiede un cambiamento nella governance. Ciò significa dare maggiore autorità a una politica industriale collettiva su scala europea, superando i confini nazionali.

ENRICO LETTA

Dobbiamo invece sviluppare l’intelligenza collettiva del XXI secolo, combinando le conoscenze e le competenze dei singoli, le nuove forme di dati e lo sfruttamento del potere della tecnologia, tutti elementi che hanno il potenziale di trasformare il modo in cui comprendiamo il futuro e il modo in cui agiamo. Per raggiungere questo obiettivo, dobbiamo stimolare l’innovazione e promuovere lo sviluppo di ecosistemi industriali all’avanguardia in grado di produrre entità di importanza globale. La costruzione di una solida infrastruttura tecnologica europea è una sfida strategica che richiede un cambiamento nella governance. Occorre dare maggiore autorità a una politica industriale collettiva su scala europea, superando i confini nazionali. È indispensabile attuare strategie caratterizzate da una visione chiara e da un coordinamento centralizzato, in grado di attrarre ingenti investimenti privati. Senza la presenza di grandi aziende tecnologiche europee, l’Europa sarà sempre più esposta a minacce alla sicurezza informatica, a campagne di disinformazione e persino al rischio di potenziali scontri militari sul proprio territorio.

È quindi essenziale sfruttare appieno il potenziale dei nostri punti di forza nella ricerca e nello sviluppo e massimizzare le opportunità offerte dal mercato unico. È indispensabile che l’Europa dia priorità alla creazione di una base tecnologica che promuova la conoscenza e l’innovazione, dotando gli individui, le imprese e gli Stati membri delle competenze, delle infrastrutture e degli investimenti che garantiranno una prosperità diffusa e una leadership industriale.

Verso la fine del suo mandato, Jacques Delors parlò della necessità di esplorare una nuova dimensione del mercato unico. Egli prevedeva di aggiungere una quinta libertà per rafforzare la ricerca, l’innovazione e l’istruzione. L’integrazione di questa quinta libertà nel quadro del mercato unico ne rafforzerebbe il ruolo di pietra angolare dell’integrazione europea. Trasformerebbe le conoscenze disperse, le frammentazioni e le disparità esistenti in opportunità convergenti di crescita, innovazione e inclusione. Un ambiente competitivo per la ricerca e nuovi modelli economici che incoraggino gli investimenti nelle nuove tecnologie sono due elementi essenziali per massimizzare la condivisione dell’interesse pubblico e limitare la concentrazione del valore privato derivante dalla raccolta e dalla profilazione dei dati.

La quinta libertà non si limita quindi a facilitare la circolazione dei risultati della ricerca e dell’innovazione, ma comporta l’integrazione dei motori della ricerca e dell’innovazione nel cuore del mercato unico, favorendo così un ecosistema in cui la diffusione della conoscenza stimola la vitalità economica, il progresso sociale e l’arricchimento culturale. In questo quadro, l’Unione potrà posizionarsi non solo come leader mondiale nella definizione di standard etici per l’innovazione e la diffusione della conoscenza, ma anche come creatrice e produttrice di nuove tecnologie – e dei loro modelli di evoluzione – sviluppate e utilizzate nel rispetto della libertà, della privacy e della sicurezza, e a beneficio del maggior numero di persone.

L’attuazione della quinta libertà richiede un approccio sfaccettato che comprenda iniziative politiche, miglioramenti infrastrutturali, strutture collaborative e un forte impegno per l’innovazione, la scienza aperta e l’alfabetizzazione digitale. Nel rapporto presento sia idee che proposte concrete da esplorare. Tra le sue prime iniziative faro, la prossima Commissione europea dovrebbe sviluppare, in consultazione con tutte le istituzioni dell’UE e gli Stati membri, un piano d’azione completo e ambizioso per delineare e attuare la quinta libertà.

È indispensabile che l’UE intraprenda un’azione decisiva per promuovere l’integrazione nel settore sanitario, garantendo un accesso sostenibile a tutti i suoi cittadini.

ENRICO LETTA

Tra i vari settori che potranno beneficiare della sua attuazione, il settore sanitario occupa una posizione centrale. La sua importanza critica, sottolineata dalla pandemia di Covid-19, significa che può trarre il massimo vantaggio da questo nuovo quadro, che promette di rafforzare la cooperazione e stimolare l’innovazione. Questa iniziativa è tanto più vitale se si considera l’urgente necessità di rivitalizzare l’assistenza sanitaria europea. La crescente dipendenza dell’UE da fornitori esterni per i principi attivi di sintesi chimica, i componenti e i prodotti finiti ha portato a un forte calo della produzione europea, passata dal 53% dei primi anni 2000 a meno del 25% attuale. La migrazione dei talenti europei in cerca di opportunità al di fuori dell’UE sta seriamente compromettendo la nostra capacità di innovazione.

Alla luce di questi problemi, nonché dei cambiamenti demografici e delle potenziali crisi future, è indispensabile che l’UE intraprenda un’azione decisiva per promuovere l’integrazione nel settore sanitario, garantendo un accesso sostenibile a tutti i suoi cittadini.

Un mercato unico per cambiare scala

I cambiamenti demografici e la trasformazione dell’economia mondiale rischiano di compromettere il ruolo dell’Unione su scala globale per molto tempo ancora. Questo declino non è irreversibile. Possiamo affrontarlo, a patto di elaborare una strategia di adattamento basata sulla constatazione che, se oggi l’Unione beneficia ancora di risorse ad alto impatto, presto queste non saranno più sufficienti. La nostra influenza futura dipenderà dalle prestazioni e dalla capacità di trasformazione delle nostre imprese, che oggi soffrono di un preoccupante deficit dimensionale rispetto ai loro concorrenti globali, soprattutto Stati Uniti e Cina.

Questa disparità ci penalizza in molti ambiti: innovazione, produttività, creazione di posti di lavoro e, in ultima analisi, sicurezza. È quindi essenziale aiutare le grandi imprese europee a diventare più grandi e competitive sulla scena mondiale. In questo modo è possibile diversificare le catene di approvvigionamento, attrarre investimenti esteri, sostenere gli ecosistemi dell’innovazione e proiettare un’immagine forte dell’UE. Un’economia fiorente sostenuta da imprese forti mette l’Unione nel suo complesso nella posizione di negoziare accordi commerciali più favorevoli, di definire standard internazionali e di affrontare con successo crisi e sfide globali senza precedenti.

Possiamo affrontarlo se elaboriamo una strategia di adattamento basata sulla constatazione che, se oggi l’Unione beneficia ancora di risorse ad alto impatto, presto queste non saranno più sufficienti.

ENRICO LETTA

Consentire alle imprese europee di svilupparsi all’interno del mercato unico non è solo un imperativo economico, ma anche strategico. Non è solo una questione di dimensioni. Non dobbiamo imitare modelli che sono sistematicamente diversi dai nostri e che non corrispondono alla realtà europea.

Il nostro modello, che si basa sul legame essenziale tra grandi e piccole imprese e garantisce attivamente condizioni di parità, deve essere preservato. Si tratta di un punto di forza fondamentale e della base della nostra economia sociale di mercato. Non si deve permettere a nessuna azienda di svilupparsi in modo da minare la concorrenza leale, che è alla base della protezione dei consumatori e del progresso economico. Ma l’attuazione del principio della concorrenza leale non deve portare al dominio di grandi aziende straniere che beneficiano di regole favorevoli sui loro mercati nazionali.

La mancanza di integrazione nei settori finanziario, energetico e delle telecomunicazioni è una delle ragioni principali del declino della competitività europea. È urgente recuperare e rafforzare la dimensione del mercato unico per i servizi finanziari, l’energia e le telecomunicazioni. Ciò richiede la creazione di un quadro integrato tra il livello europeo e quello nazionale.

La mancanza di integrazione nei settori finanziario, energetico e delle telecomunicazioni è una delle ragioni principali del declino della competitività europea.

ENRICO LETTA

Questo modello prevede un approccio a due livelli, con un’autorità europea centralizzata incaricata di garantire la coerenza delle regole con una dimensione di mercato unico, mentre le questioni che, per la loro rilevanza, rimangono nazionali, dovrebbero essere trattate da autorità nazionali indipendenti all’interno di un quadro comune, in cui ogni entità deve avere un ruolo definito, con una forte collaborazione tra il livello europeo e quello nazionale a garanzia dell’efficacia del sistema. I mercati in questione devono evolvere verso una dimensione europea, superando i limiti nazionali che attualmente impediscono una concorrenza sostanziale con i conglomerati americani, cinesi o indiani. Identificando il mercato europeo come mercato rilevante, possiamo permettere alle forze di mercato di guidare il consolidamento e la crescita di scala, nel pieno rispetto dei principi, degli obiettivi e delle regole europee.

Una serie di decisioni chiave recentemente esposte in documenti ufficiali – tra cui la dichiarazione del Consiglio direttivo della BCE sui progressi verso l’Unione dei mercati dei capitali, la dichiarazione dell’Eurogruppo in formato inclusivo sul futuro dell’Unione dei mercati dei capitali e il Libro bianco della Commissione “Come soddisfare le esigenze dell’Europa in materia di infrastrutture digitali” – si muovono in una direzione favorevole, riflettendo un consenso crescente. – si stanno muovendo in una direzione favorevole, riflettendo un consenso crescente. Questa tendenza è evidente anche nelle scelte critiche fatte dalle istituzioni europee in materia di indipendenza energetica e di ristrutturazione della struttura dei mercati dell’elettricità e del gas.

Identificando il mercato europeo come mercato rilevante, possiamo consentire alle forze di mercato di guidare il consolidamento e la crescita di scala, nel pieno rispetto dei principi, degli obiettivi e delle regole europee.

ENRICO LETTA

Per sfruttare appieno i vantaggi del mercato unico dell’energia, nei prossimi anni sarà necessario un ulteriore salto di qualità nell’interconnettività, oltre a massicci investimenti nelle reti infrastrutturali europee, dalla modernizzazione delle reti di trasmissione e distribuzione dell’elettricità alla costruzione di un’infrastruttura per l’idrogeno. In questo modo si massimizzerà il potenziale rinnovabile dell’Europa, si garantirà un’energia sicura e conveniente e si amplieranno le possibilità di approvvigionamento per l’industria.

Anche se l’UE sarà sempre più in grado di produrre l’energia di cui ha bisogno per la sua crescita, man mano che si avvia verso un futuro a zero emissioni di carbonio, l’economia europea avrà ancora bisogno di importare parte dell’energia dal resto del mondo e dovrà quindi sviluppare strategicamente una rete di infrastrutture che la colleghi a partner affidabili nei Paesi limitrofi a est, a sud e oltre.

Propongo tabelle di marcia concrete per accelerare l’integrazione nei settori della finanza, dell’energia e delle telecomunicazioni, sottolineando la necessità di compiere progressi nella prossima legislatura (2024-2029). Senza questi risultati essenziali, l’obiettivo della sicurezza economica europea e la creazione di una politica industriale comune sono fuori portata. Le lezioni apprese dalle recenti crisi sottolineano l’urgente necessità di passare dalla deliberazione all’azione.

Un grande mercato comune contribuirà a rendere più europeo il mercato mondiale.

ENRICO LETTA

Ci sono molti esempi di come le decisioni e le politiche definite a livello europeo abbiano determinato le politiche in altre parti del mondo. Un mercato unico più forte stabilirà standard che diventeranno punti di riferimento globali, rendendo più facile per le aziende europee fornire beni e servizi a livello mondiale. Un grande mercato comune contribuirà a rendere il mercato globale più europeo.

Un mercato unico efficiente per le reti e i servizi di telecomunicazione

Le telecomunicazioni sono uno dei settori in cui le politiche di liberalizzazione, sostenute da una regolamentazione favorevole alla concorrenza a livello europeo, hanno funzionato meglio: i nuovi operatori hanno sfidato gli operatori storici, i prezzi al dettaglio sono diminuiti, il passaggio a una rete in fibra ottica è progredito e l’evoluzione dalle reti 3G a quelle 5G prosegue, anche se lentamente. Tuttavia, a causa delle notevoli differenze tra gli Stati membri, anche in termini di investimenti, siamo lontani dal raggiungere gli obiettivi della strategia 2030 dell’UE per rispondere adeguatamente alle esigenze di connettività. Persistono forti disparità in termini di organizzazione, sviluppo dell’industria e del mercato e copertura territoriale dellabanda ultralarga.

La frammentazione delle norme e dei settori a livello nazionale sta ostacolando l’ultimo passo fondamentale verso un mercato unico delle telecomunicazioni.

Nonostante l’attuazione del “regolamento sul mercato unico delle telecomunicazioni”, che ha introdotto il “paradigma dell’Internet aperto” nell’acquis comunitario, l’UE ha ancora 27 mercati nazionali separati nel settore. Questa frammentazione ostacola la crescita degli operatori paneuropei, limitando la loro capacità di investire, innovare e competere con le loro controparti globali. L’entità delle disparità è impressionante: l’operatore europeo medio serve solo cinque milioni di abbonati, rispetto ai 107 milioni degli Stati Uniti e ai 467 milioni della Cina. Inoltre, un confronto in termini di investimenti mostra livelli pro capite corretti per il PIL di 104 euro in Europa nel 2021, rispetto ai 260 euro del Giappone, ai 150 euro degli Stati Uniti e ai 110 euro della Cina.

Le tendenze a lungo termine sono caratterizzate da un persistente calo dei ricavi, con solo lievi miglioramenti nei servizi di rete fissa in mercati nazionali limitati. La sostenibilità economica dell’intero settore delle telecomunicazioni dell’UE è a rischio se non si interviene immediatamente, con costi a carico dei lavoratori e dei cittadini.

Emergono una serie di questioni critiche. Se da un lato si riconosce che la regolamentazione europea pro-concorrenziale ha portato negli anni maggiori benefici agli utenti finali in termini di accesso (prezzo) ai servizi (rispetto ad esempio agli Stati Uniti), dall’altro molti operatori del settore lamentano un eccessivo ingresso di operatori nel mercato, favorito da un approccio di liberalizzazione e regolamentazione che potrebbe aver generato forti incentivi per un “eccessivo ingresso” di piccoli operatori basati sul territorio e, di conseguenza, equilibri di mercato insostenibili con scarsi incentivi all’innovazione.ingresso eccessivo” di operatori piccoli e radicati sul territorio e, di conseguenza, equilibri di mercato insostenibili con scarsi incentivi all’investimento innovativo.

La sostenibilità economica dell’intero settore delle telecomunicazioni dell’UE è a rischio se non si interviene immediatamente, e i costi sono a carico dei lavoratori e dei cittadini.

ENRICO LETTA

Oggi, in un mercato europeo con più di 100 operatori, concentrarsi esclusivamente sulla regolamentazione a favore dell’accesso sarebbe dannoso per la transizione tecnologica verso reti avanzate che richiedono investimenti massicci. Nei mercati della telefonia mobile, in cui l’accesso non è regolamentato, un approccio antitrust orientato all’ingresso nella valutazione delle concentrazioni ha portato allo stesso risultato 2.

Nel panorama globale, le tecnologie digitali sono alla base della produttività industriale e del benessere dei cittadini. Un settore delle comunicazioni elettroniche sano e sicuro è essenziale per la transizione ecologica, l’innovazione e la resilienza dell’Unione, soprattutto in termini di sicurezza informatica. L’instabilità della redditività economica degli operatori può essere dannosa per il futuro benessere dei consumatori a causa della minore qualità del servizio, della sicurezza e della distribuzione non uniforme dell’accesso alla rete. Inoltre, ostacola la digitalizzazione delle industrie e dei servizi, determinando una minore crescita e competitività per l’Europa nel suo complesso e per ciascun mercato nazionale.

Lo sviluppo di reti e servizi di telecomunicazione efficienti può contribuire a colmare molte delle attuali carenze in modo coerente con i valori europei, i diritti dei cittadini e i principi dell’economia di mercato. Il processo per raggiungere questo obiettivo è complesso ed è meglio adottare un approccio graduale: dovrebbe essere sviluppato in relazione ad alcune questioni chiave.

Un mercato unico per promuovere politiche energetiche e climatiche efficaci

L’energia non era uno dei settori più dinamici quando il progetto del mercato unico è stato lanciato nel 1992. Come ha osservato il rapporto Monti nel 2011, “il settore energetico è uno degli ultimi arrivati nel mercato unico”. Il 2012 non segnerà il 20° anniversario del mercato unico dell’energia. Piuttosto, segnerà l’inizio del consolidamento di un mercato comune dell’energia”. Tuttavia, nel corso degli anni, l’integrazione del mercato dell’energia è progredita in modo significativo, diventando una delle pietre miliari del mercato unico dell’Unione. Oggi il mercato unico dell’energia potrebbe essere la migliore risorsa dell’Europa per garantire il suo successo in un nuovo ordine mondiale.

Uscita da una crisi energetica di una gravità senza precedenti, l’Europa si trova ad affrontare sfide di notevole portata e urgenza in un panorama energetico geopolitico radicalmente nuovo. In un momento in cui la competizione globale per la supremazia nelle tecnologie pulite si intensifica, l’UE non può permettersi di perdere tempo. Deve trasporre nelle sue attività quotidiane il senso di urgenza e di azione dimostrato durante le recenti crisi, apportando cambiamenti in tutto il suo sistema energetico e portando rapidamente a compimento progetti concreti.

L’invasione militare dell’Ucraina da parte della Russia ha rappresentato un momento decisivo per il panorama energetico europeo. Ha cambiato relazioni commerciali di lunga data e ha ridisegnato le dinamiche geopolitiche dell’approvvigionamento e del commercio di energia.

All’interno del mercato unico, la direzione dei flussi commerciali di gas ha subito una trasformazione sostanziale: l’offerta si è diversificata a scapito della Russia e l’Unione è ora più dipendente dai mercati del gas naturale liquefatto (GNL), che sono ampiamente influenzati dagli Stati Uniti in termini di offerta e dalla Cina in termini di domanda, e che sono più volatili. Al di là dei confini europei, le principali economie mondiali e quelle emergenti stanno accelerando la loro transizione energetica e intensificando gli investimenti nelle tecnologie pulite, aumentando la pressione sugli ecosistemi industriali europei.

La gravità senza precedenti della crisi ha portato il mercato energetico dell’UE sull’orlo del collasso. Alcuni Stati membri hanno preso in considerazione la possibilità di introdurre, o addirittura hanno introdotto, restrizioni temporanee alle esportazioni di gas, al fine di salvaguardare la sicurezza degli approvvigionamenti dei propri clienti. I governi si sono precipitati nei Paesi esportatori di gas per assicurarsi forniture critiche di gas da fonti affidabili, facendo offerte più alte gli uni degli altri. Hanno istituito regimi nazionali di tasse e sussidi per contenere l’aumento dei prezzi e alleggerire l’onere per le famiglie e le imprese. La struttura del mercato dell’elettricità è stata a lungo al centro di un acceso dibattito come possibile fattore di crisi dei prezzi dell’energia.

Eppure il mercato unico ha resistito alle pressioni. Al contrario, è stato una leva potente nel garantire la capacità dell’Europa di superare la crisi con successo. Anzi, ha dimostrato la sua forza. Il mercato dell’elettricità è riuscito a evitare blackout o carenze di approvvigionamento. Anche il mercato del gas, nonostante un’interruzione delle forniture senza precedenti, ha funzionato in modo molto efficace. L’allocazione del gas tra i mercati è stata gestita in modo efficiente, senza la necessità di complesse negoziazioni tra gli Stati membri sull’allocazione dei volumi o di decisioni politiche sul razionamento per i consumatori domestici. I segnali di prezzo hanno svolto un ruolo essenziale, incoraggiando la riduzione della domanda e i cambiamenti nel comportamento dei consumatori. Hanno agito da catalizzatore per nuovi investimenti nelle infrastrutture dei terminali GNL e per la modernizzazione dei sistemi di trasporto del gas.

Nel complesso, la risposta dell’Europa alla crisi energetica del 2022 è stata più efficace e unitaria rispetto a qualsiasi altra crisi energetica precedente, in primo luogo grazie a un maggiore coordinamento centrale delle politiche energetiche nazionali, con ad esempio il regolamento sullo stoccaggio nel maggio 2022 e il regolamento sulla riduzione coordinata della domanda nel luglio 2022, poi attraverso una risposta comune a livello europeo, utilizzando regolamenti di emergenza, con interventi nei mercati dell’elettricità e del gas e regole comuni sull’autorizzazione accelerata per le energie rinnovabili. In meno di un anno di negoziati è stata adottata anche una riforma della struttura del mercato dell’elettricità.

Nonostante questa risposta unitaria, c’è ora il rischio concreto che l’integrazione dei mercati si esaurisca, con un possibile contraccolpo all’orizzonte. Gli effetti della crisi persistono e si riflettono in diverse misure nazionali che rischiano di mettere a repentaglio la coesione del mercato unico. Inoltre, il settore industriale è sempre più preoccupato che l’eredità della crisi e la complessità e la frammentazione della regolamentazione possano portare alla deindustrializzazione.

È vero che i costi dell’energia in Europa rimangono più alti di quelli dei suoi principali concorrenti. Durante la crisi energetica, l’UE, come altre regioni dipendenti dalle importazioni di gas fossile (Regno Unito, Giappone, Corea del Sud), ha registrato una tendenza all’aumento dei differenziali di prezzo con altre parti del mondo. I prezzi del gas erano da 3 a 6 volte superiori a quelli degli Stati Uniti, rispetto a 2 o 3 volte in passato, e sono ancora oggi significativamente più alti. I prezzi al dettaglio dell’elettricità industriale nell’UE sono quasi il doppio di quelli degli Stati Uniti e stanno gradualmente diventando più alti di quelli della Cina. Questa situazione persisterà fino a quando il prezzo marginale sarà determinato principalmente da fonti di elettricità rinnovabili e a basse emissioni di carbonio piuttosto che dal gas. La limitata autosufficienza energetica del continente aumenta anche la sua vulnerabilità agli shock improvvisi dei prezzi. Nel 2021, la dipendenza dell’Unione dalle importazioni di energia era elevata: 91,7% per il petrolio, 83,4% per il gas e 37,5% per i combustibili fossili solidi, contribuendo a un indice di dipendenza energetica complessiva di circa il 55,5%. Solo nel 2022, il conto delle importazioni di combustibili fossili in Europa ammonterà a 640 miliardi di euro, pari a circa il 4,1% del PIL. Nel 2023, anche con prezzi più bassi, questa fattura rimarrà vicina al 2,4% del PIL dell’Unione.

Inoltre, la crisi ha esacerbato le divergenze dei prezzi dell’elettricità tra gli Stati membri. Ciò pone problemi alle imprese ad alta intensità energetica, alle industrie a valle, alle industrie delle tecnologie pulite e alle PMI in diverse regioni europee.

Anche il settore manifatturiero deve affrontare la sfida di integrare in questo difficile contesto tecnologie e processi puliti, spesso costosi o non ancora disponibili in quantità sufficienti. Anche in settori in cui l’Europa è tradizionalmente in vantaggio, come l’eolico offshore, i produttori europei si trovano ora ad affrontare forti pressioni competitive in una corsa globale alla supremazia tecnologica. La nuova dipendenza dai combustibili nucleari e dai materiali critici rappresenta un’ulteriore minaccia alla fattibilità della transizione pulita, rendendo l’economia europea vulnerabile alle pressioni esterne.

Ancora una volta, è il mercato unico che può fornire le leve e il peso economico necessari per affrontare efficacemente le sfide dell’Europa. Nessuno Stato membro può competere con gli Stati Uniti sui prezzi del gas o del petrolio, dato che è il maggior produttore mondiale di combustibili fossili. Né l’Europa può replicare alcuni dei vantaggi offerti dall ‘economia statale cinese. Tuttavia, l’UE dispone di un mercato energetico su scala continentale, unito da un quadro normativo moderno e sofisticato che non ha eguali al mondo. Senza mettere in discussione il diritto di ogni Stato membro di scegliere il proprio mix energetico, un passo decisivo verso l’integrazione del mercato e un’azione congiunta possono creare un sistema energetico più sicuro, più accessibile e più sostenibile al servizio di una base industriale moderna. Nell’energia, come in altri settori, un mercato unico dinamico significa maggiore libertà per le imprese di rimanere in Europa e per i lavoratori di prosperare in posti di lavoro di alta qualità.

Più l’UE si muove verso un sistema energetico a basse emissioni di carbonio, maggiore è la necessità di integrazione del mercato. I benefici dell’integrazione, in termini assoluti, aumentano con la crescita delle rinnovabili nel sistema, rafforzando il valore della sua flessibilità e resilienza complessiva. In primo luogo, i mercati integrati a livello continentale garantiscono che la nuova generazione di energia pulita possa essere distribuita nel modo più rapido ed economico possibile. Le fonti di energia rinnovabile variano nei loro modelli di produzione e nel loro potenziale in Europa.

Sfruttando il suo mercato unico, l’Europa può trasformare la diversità dei suoi sistemi energetici in un vantaggio competitivo. Per raggiungere questo obiettivo, dobbiamo raccogliere la volontà politica di intraprendere azioni decisive in aree strategiche.

ENRICO LETTA

Inoltre, i modelli di domanda sono diversi in Europa. Uno scambio transfrontaliero trasparente di energia elettrica significa che è necessario installare un numero molto inferiore di turbine e moduli solari, che possono essere collocati rispettivamente nelle zone più ventose e più soleggiate. In secondo luogo, poiché l’Europa punta a un sistema elettrico al 70% a fonti rinnovabili variabili entro il 2030, mercati ben interconnessi sono essenziali per ridurre al minimo i costi associati allo sviluppo della rete, allo stoccaggio, alle soluzioni di flessibilità o alle centrali elettriche a gas di riserva. L’interconnettività riduce i rischi per gli investitori e incoraggia l’afflusso di capitali privati. Inoltre, i mercati integrati attenuano l’impatto degli shock esterni che colpiscono selettivamente uno o più Paesi. Se il sistema di uno Stato membro è sotto pressione, può importare l’elettricità in eccesso a costi inferiori da un altro Stato membro, garantendo così la sicurezza energetica e la stabilità economica. Infine, un mercato unico continentale aumenta la scelta dei consumatori e fornisce un ambiente ideale per la fioritura dell’industria delle tecnologie pulite, incoraggiando l’innovazione nelle tecnologie pulite e nelle soluzioni digitali per il settore energetico.

Sfruttando il suo mercato unico, l’Europa può trasformare la diversità dei suoi sistemi energetici in un vantaggio competitivo. Per raggiungere questo obiettivo, dobbiamo raccogliere la volontà politica di intraprendere azioni decisive in aree strategiche.

Un mercato unico che promuova la creazione di posti di lavoro e semplifichi la vita delle imprese

Il mercato unico, così come era stato originariamente concepito, era profondamente radicato in una concezione convenzionale del processo produttivo. Questo modello di sviluppo possedeva una caratteristica essenziale che è venuta meno negli ultimi decenni: il mercato unico rappresentava l’unica opzione possibile per le imprese europee, sia come base produttiva o sede centrale che come mercato principale. Nel contesto globale dell’epoca, mentre l’esportazione era una strategia praticabile, l’idea di delocalizzare le attività al di fuori del mercato unico era quasi inconcepibile. Oggi questa alternativa non solo esiste, ma è sempre più diffusa e adottata. Una moltitudine di Paesi in tutto il mondo si presenta oggi come un’opzione interessante per le aziende europee che desiderano delocalizzare le proprie attività, in tutto o in parte.

Lo snellimento delle normative in vari settori essenziali per il ciclo di vita di un’azienda gioca un ruolo decisivo nella scelta della sede. In particolare, molti Paesi al di fuori dell’Unione Europea hanno messo a punto modalità specifiche per accelerare le risposte alle esigenze burocratiche e amministrative, rendendole più attraenti per le imprese. Molti degli imprenditori con cui ho parlato durante il mio viaggio hanno espresso preoccupazioni al riguardo, sottolineando che le alternative stanno diventando sempre più attraenti rispetto ai notevoli oneri burocratici che le imprese devono affrontare in vari Paesi europei. Gran parte di questi oneri burocratici sono dovuti alla sovrapposizione di normative e alle complessità amministrative generate dal complesso sistema di governance multilivello dell’Unione. Troppo spesso la frammentazione del mercato unico, l’eccesso di regolamentazione e la compartimentazione a livello di attuazione nazionale e regionale, per non parlare delle asimmetrie tra territori e sistemi giuridici e fiscali, finiscono per aumentare le difficoltà e moltiplicare gli ostacoli all’attività produttiva.

La sfida della semplificazione del quadro normativo è uno dei principali ostacoli al futuro mercato unico.

ENRICO LETTA

Il mondo imprenditoriale è sempre più preoccupato per la mancanza di una cultura di sostegno e facilitazione delle attività economiche. Troppo spesso questo malcontento porta alla tentazione di delocalizzare le attività in Paesi al di fuori del mercato unico dell’UE, che oggi rappresentano un’alternativa credibile. Si tratta di una sfida importante che richiede risposte solide. La Commissione ha compiuto progressi significativi nei settori della tassazione delle imprese, della semplificazione e della riduzione della burocrazia. Le proposte avanzate dalla Presidente della Commissione Ursula Von der Leyen rappresentano un impegno importante che deve essere perseguito come priorità assoluta nei prossimi anni. La bussola del nuovo mercato unico deve sottolineare l’importanza cruciale della proporzionalità e della sussidiarietà, in particolare nel contesto del suo quadro normativo.

La sfida della semplificazione del quadro normativo è uno dei principali ostacoli al futuro mercato unico. Da qui emerge una proposta essenziale: riaffermare e adottare il metodo Delors della massima armonizzazione unita al riconoscimento reciproco, pienamente sancito dalle sentenze della Corte di giustizia europea. Questo metodo sottolinea l’importanza fondamentale delle normative come pietra angolare per raggiungere tale armonizzazione nel mercato unico. Esso postula che le istituzioni dell’Unione debbano dare inequivocabilmente priorità all’uso dei regolamenti nella formulazione delle norme vincolanti del mercato unico. Nei casi in cui il ricorso alle direttive rimane inevitabile o preferibile, è necessario operare due scelte fondamentali per garantirne l’effettiva attuazione.

  • In primo luogo, gli Stati membri devono dare prova di maggiore disciplina, evitando di includere misure che vadano oltre lo stretto necessario.
  • In secondo luogo, si dovrebbe sempre utilizzare la base giuridica del quadro del mercato unico, in particolare l’articolo 114 del Trattato. Questa disposizione sostiene la piena armonizzazione, che è fondamentale per mantenere la coerenza tra gli Stati membri, mentre altre disposizioni del Trattato consentono un’armonizzazione minima, permettendo agli Stati membri di adottare misure più severe che potrebbero portare alla frammentazione e danneggiare il mercato unico.

Riteniamo inoltre che un Codice europeo di diritto commerciale rappresenterebbe un passo avanti verso un mercato unico più unificato, offrendo alle imprese un 28° regime per operare all’interno del mercato unico 3. Il Codice affronterebbe e supererebbe direttamente l’attuale mosaico di normative nazionali, agendo come strumento chiave per liberare il pieno potenziale della libera circolazione all’interno dell’Unione. Affronterebbe direttamente e supererebbe l’attuale mosaico di normative nazionali, agendo come strumento chiave per sbloccare il pieno potenziale della libera circolazione all’interno dell’Unione.

Allo stesso tempo, l’importanza di un’applicazione coerente delle norme del mercato unico non può essere sopravvalutata. Un’applicazione efficace garantisce che le norme vadano a beneficio di tutti gli Stati membri in modo equo, evitando la frammentazione del mercato e mantenendo condizioni di parità, il che è fondamentale per la competitività delle nostre imprese e per il dinamismo economico dell’Unione. Certamente, se non si affrontano questi problemi, il rischio di deindustrializzazione del continente – che, come abbiamo visto, non è irreversibile – diventa una minaccia reale. Possiamo essere decisamente proattivi, chiedendo la più ampia azione possibile su questo tema. Nell’attuale contesto globale, l’Europa non può e non deve cedere ad altri il suo ruolo di leader manifatturiero. All’inizio del secolo e per tutto il decennio successivo, questa era considerata un’opzione fattibile e persino vantaggiosa. È stato un errore.

La transizione equa, verde e digitale come catalizzatore di un nuovo mercato unico: verso una “Unione del risparmio e degli investimenti”.

La scorsa legislatura ha gettato le basi per una transizione equa, verde e digitale introducendo proposte legislative cruciali. Ora che quasi tutte le norme sono in vigore, l’attenzione deve concentrarsi sull’attuazione. È essenziale passare dalla progettazione delle politiche all’applicazione pratica, assicurando che queste misure siano integrate e attuate in modo trasparente per produrre benefici ambientali tangibili.

Di conseguenza, uno dei principali obiettivi del nuovo mercato unico deve essere quello di rendere la capacità industriale europea compatibile con gli obiettivi della transizione equa, verde e digitale. A tal fine, nel corso della prossima legislatura, sarà necessario indirizzare tutte le energie verso il sostegno finanziario alla transizione, convogliando verso questo obiettivo tutte le risorse pubbliche e private necessarie per rendere possibile la trasformazione del sistema produttivo europeo. In questo sforzo, il mercato unico può e deve giocare un ruolo centrale.

Una tendenza preoccupante è il dirottamento annuale di circa 300 miliardi di euro di risparmi delle famiglie europee dai mercati dell’UE all’estero, principalmente verso l’economia statunitense, a causa della frammentazione dei nostri mercati finanziari.

ENRICO LETTA

La prima priorità dovrebbe essere la mobilitazione del capitale privato, un passo cruciale che getta le basi per un quadro di finanziamento più inclusivo ed efficiente, poiché questo è il settore in cui l’Unione è rimasta più indietro. Nel nostro Paese sono presenti ben 33.000 miliardi di euro di risparmi privati, detenuti principalmente sotto forma di valuta estera e depositi. Tuttavia, questa ricchezza non viene sfruttata appieno per soddisfare le esigenze strategiche dell’Unione. Una tendenza preoccupante è il dirottamento annuale di circa 300 miliardi di euro di risparmi delle famiglie europee dai mercati dell’UE all’estero, principalmente verso l’economia statunitense, a causa della frammentazione dei nostri mercati finanziari.

Questo fenomeno evidenzia una significativa inefficienza nell’utilizzo delle risorse economiche dell’Unione che, se riorientate efficacemente all’interno delle proprie economie, potrebbero contribuire in modo sostanziale al raggiungimento dei suoi obiettivi strategici. In questo contesto, chiedo una trasformazione significativa: la creazione di un’Unione del Risparmio e degli Investimenti, sviluppata a partire dall’Unione dei Mercati dei Capitali, che non è ancora completa. Integrando pienamente i servizi finanziari nel mercato unico, l’Unione del Risparmio e degli Investimenti mira non solo a mantenere il risparmio privato europeo all’interno dell’Unione, ma anche ad attrarre ulteriori risorse dall’estero.

Per creare una fiorente Unione del Risparmio e degli Investimenti all’interno del Mercato Unico è necessario intervenire con urgenza in tre aree strutturali: l’offerta di capitale, la domanda di capitale, il quadro istituzionale e la struttura di mercato che regolano i movimenti di capitale. È indispensabile che qualsiasi pacchetto di riforme tenga conto di tutte e tre queste aree. Esse sono parte integrante di un ecosistema più ampio e non possono quindi essere affrontate in modo isolato. Richiedono un’azione congiunta delle istituzioni europee, degli Stati membri e degli operatori di mercato.

È essenziale perseguire in parallelo sia le soluzioni tecniche – che possono teoricamente essere attuate in tempi relativamente brevi – sia gli sforzi strutturali a più lungo termine. Anche se nella maggior parte dei casi sono affidati a enti e autorità diverse, la loro attuazione combinata è essenziale per raggiungere l’obiettivo finale a lungo termine.

Il passo successivo è affrontare il dibattito sugli aiuti di Stato. Dovremmo sviluppare soluzioni coraggiose e innovative che trovino un equilibrio tra, da un lato, la necessità di mobilitare rapidamente un sostegno pubblico nazionale mirato per l’industria, nella misura in cui affronta i fallimenti del mercato in modo proporzionato, e, dall’altro, la necessità di evitare la frammentazione del mercato unico. Se da un lato il graduale allentamento degli aiuti di Stato in risposta alle recenti crisi ha contribuito a limitare gli effetti negativi sull’economia reale e i successivi quadri temporanei hanno introdotto concetti innovativi per tenere conto del mutevole contesto internazionale, dall’altro ha portato a distorsioni della concorrenza. Con il tempo, questo approccio rischia di amplificare le distorsioni nelle condizioni di concorrenza all’interno del mercato unico, a causa del diverso margine di manovra fiscale a disposizione degli Stati membri. Un modo per superare questo dilemma potrebbe essere quello di trovare un equilibrio tra un’applicazione più rigorosa degli aiuti di Stato a livello nazionale e la graduale espansione del sostegno finanziario a livello europeo. In particolare, si potrebbe prevedere un meccanismo di contribuzione agli aiuti di Stato, che richieda agli Stati membri di destinare parte dei loro fondi nazionali al finanziamento di iniziative e investimenti paneuropei.

È essenziale stabilire un solido legame tra la transizione equa, verde e digitale e l’integrazione finanziaria all’interno dei mercati unici.

ENRICO LETTA

Liberando gli investimenti privati e affinando il nostro approccio agli aiuti di Stato, sarà più facile creare le condizioni politiche necessarie per liberare un’altra dimensione essenziale: gli investimenti pubblici europei. Per allentare la tensione tra i nuovi approcci industriali e il quadro del mercato unico, la strategia industriale dell’Unione deve adottare un approccio più europeo, basandosi sul modello dei Progetti Importanti di Interesse Comune Europeo (IPCEI) e sviluppandolo ulteriormente, garantendo al contempo che la parità di condizioni non sia compromessa da sussidi dannosi. Di fronte alla forte concorrenza globale, l’UE deve intensificare gli sforzi per sviluppare una strategia industriale competitiva in grado di contrastare gli strumenti recentemente adottati da altre potenze mondiali, come l’Inflation Reduction Act statunitense.

È essenziale stabilire un solido legame tra la transizione equa, verde e digitale e l’integrazione finanziaria all’interno dei mercati unici. Questo legame è essenziale per rendere la transizione una possibilità reale. Senza risorse adeguate, i progressi rischiano di essere bloccati. I costi della transizione sono sistemici e devono essere condivisi collettivamente. Se si scarica l’onere solo su settori specifici, si finisce per ostacolare il processo anziché agevolarlo. L’incapacità di compiere questo sforzo collettivo potrebbe portare alla resistenza di diversi gruppi sociali – gli agricoltori di oggi, i lavoratori dell’auto di domani – che sentono di sostenere in modo sproporzionato i costi della trasformazione senza un sostegno sufficiente.

Il sostegno strutturale alla transizione è un obiettivo fondamentale del quadro strategico dell’Unione europea.

ENRICO LETTA

Per raggiungere questi obiettivi, presento una proposta chiave. Questo legame funziona anche nella direzione opposta, poiché il finanziamento della transizione equa, verde e digitale può incoraggiare un’ulteriore integrazione all’interno del mercato unico. Il tentativo di creare un’Unione dei mercati dei capitali nell’ultimo decennio non ha avuto successo, in parte perché è stato visto come un fine in sé. Una vera integrazione dei mercati finanziari europei non sarà raggiunta finché i cittadini e i politici europei non riconosceranno che tale integrazione non è solo positiva per la finanza in sé, ma è fondamentale per raggiungere obiettivi globali altrimenti irraggiungibili, come una transizione equa, verde e digitale.

Il sostegno strutturale alla transizione è un obiettivo fondamentale del quadro strategico dell’Unione Europea. Tuttavia, le discussioni non devono concentrarsi esclusivamente sui costi associati a questa transizione. È essenziale riconoscere i notevoli benefici che questa transizione offre ai cittadini, alle imprese e ai lavoratori. Investire e finanziare questa transizione non è solo una decisione finanziaria; è probabilmente la scelta più strategica che l’Unione possa fare per assicurarsi un significativo vantaggio competitivo sulla scena mondiale, preservando e sviluppando al contempo gli standard sociali di cui l’Europa va fiera. Questo vantaggio diventa particolarmente rilevante vista la crescente importanza della sostenibilità nell’ordine mondiale emergente. Fornendo un sostegno strutturale alla transizione, l’Unione rafforza il suo impegno per la prosperità economica a lungo termine e per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile. La Banca europea per gli investimenti svolge un ruolo centrale in questo senso, fornendo finanziamenti e competenze essenziali per progetti allineati con questi obiettivi di sostenibilità e trasformazione in tutti gli Stati membri. Inoltre, la promozione di una maggiore integrazione nei mercati degli appalti pubblici è fondamentale per il raggiungimento degli obiettivi strategici dell’UE; i mercati degli appalti pubblici per l’innovazione, in particolare nelle tecnologie verdi e digitali, potrebbero essere una delle leve più importanti per sostenere le start-up, le grandi imprese e le PMI nello sviluppo di nuovi prodotti e servizi.

In sintesi, è necessario mobilitare assi per l’integrazione finanziaria europea che siano esterni al settore finanziario e che si concentrino su obiettivi che riguardano il futuro dei cittadini piuttosto che la finanza stessa. Il sostegno strutturale alla transizione è, in questo senso, un dovere sistemico. È fondamentale, tanto più che senza le risorse private che emergeranno dalla creazione di una forte e autentica Unione del Risparmio e degli Investimenti, le divisioni interne agli Stati membri sull’allocazione delle risorse pubbliche nazionali ed europee necessarie a coprire i costi della transizione rischiano di diventare intrattabili.

Allargamento: benefici e responsabilità

Una visione strategica simile, basata sul principio della condivisione dei vantaggi relativi, deve essere applicata anche agli altri due grandi processi che caratterizzeranno l’Unione nel prossimo decennio, ossia l’allargamento e la sfida della sicurezza.

Per quanto riguarda il primo, è essenziale riconoscere alcuni pilastri concettuali fondamentali. Gli allargamenti passati sono stati scelte vantaggiose per l’Unione. In particolare, hanno compensato la relativa perdita di peso causata dalla trasformazione geopolitica e geoeconomica dopo la guerra fredda.

Gli allargamenti hanno esteso il mercato unico e i suoi benefici sia ai vecchi che ai nuovi membri. Un’Unione allargata è lo strumento migliore per proteggere gli interessi e la prosperità dell’Unione, sostenere i principi dello Stato di diritto e difendere i cittadini dalle minacce esterne.

Il prossimo allargamento dovrebbe essere affrontato con lo stesso spirito e la stessa visione. Il dibattito non dovrebbe concentrarsi solo sull’obiettivo in sé, ma piuttosto sul metodo e sul calendario. L’interazione con il mercato unico solleva questioni complesse che richiedono un’attenta considerazione. È necessario trovare un approccio sfumato, che faciliti l’estensione graduale ma significativa dei suoi benefici ai Paesi candidati, salvaguardando al contempo la stabilità delle loro economie e quella del mercato comune.

Una condizione rimane cruciale: dato che il mercato unico è il cuore e il motore dell’integrazione europea, lo strumento deve rimanere almeno in parte sotto il controllo dei negoziatori di Bruxelles durante tutto il processo e soprattutto nelle sue prime fasi, per evitare di perdere il più potente strumento negoziale. È essenziale riaffermare in modo inequivocabile che qualsiasi Paese che voglia ottenere una sostanziale partecipazione al mercato unico in fase di preadesione deve aderire pienamente a tutti gli aspetti del primo criterio di Copenaghen, dimostrando un chiaro e incrollabile rispetto per i principi non negoziabili di “democrazia, stato di diritto, diritti umani e rispetto e protezione delle minoranze”. In un momento in cui questi stessi principi vengono messi in discussione e il modello democratico europeo è sempre più minato da minacce esterne e sfide interne, non ci possono essere ambiguità: è all’interno dell’Unione e di ogni Stato membro che questi valori fondamentali devono essere pienamente praticati e difesi. Ogni Paese candidato che voglia intraprendere la sua graduale integrazione nel mercato unico – o in qualsiasi altra dimensione dell’Unione – deve allinearsi pienamente ad essi.

Né l’allargamento deve essere percepito, né dai governi né dai cittadini, come una rottura con il sostegno alla crescita e alla convergenza – in particolare per i Paesi di recente adesione – fornito dalla politica di coesione e dalla politica agricola comune.

Saranno sicuramente decisive le politiche di accompagnamento per gli Stati membri e una riforma della politica di coesione, che è sempre stata e continuerà ad essere una condizione essenziale per il successo del mercato unico. A questo proposito, la creazione di un meccanismo di solidarietà per l’allargamento, dotato delle risorse finanziarie necessarie per gestire le esternalità, potrebbe essere uno strumento essenziale per sostenere il processo.

Promuovere la pace e difendere lo Stato di diritto: un mercato comune per l’industria della sicurezza e della difesa

Il terzo grande orientamento strategico per il prossimo decennio, accanto alla transizione e all’allargamento, riguarda la sfida della sicurezza. La guerra di aggressione di Vladimir Putin contro l’Ucraina ha cambiato il corso della storia e ridisegnato il destino dell’Europa. “Il suolo dell’Europa sta cambiando sotto i nostri piedi”. L’Unione ha immediatamente deciso collettivamente che la componente sicurezza e difesa, che storicamente ha avuto un peso minore rispetto ad altre politiche comuni ed è stata in gran parte ancorata a livello nazionale, deve ora assumere una maggiore importanza. La risposta unitaria e decisiva deve ora essere sostenuta da coerenza e continuità, attingendo al potenziale non sfruttato dell’Unione in questo settore.

La logica è semplice: la sicurezza deve essere affrontata da una prospettiva globale e deve influenzare le politiche energetiche così come quelle finanziarie, le minacce informatiche, le scelte infrastrutturali, la connettività, lo spazio, la salute e la tecnologia. È quanto emerge anche dalle dichiarazioni di Versailles e di Granada, nonché dalla Strategia europea di sicurezza economica presentata dalla Commissione europea. Questa definizione ampia e senza precedenti di sicurezza avrà inevitabilmente ripercussioni su tutti gli aspetti dell’economia e della vita delle persone. È quindi essenziale trovare un equilibrio con i diritti fondamentali dell’individuo, posizionando l’Europa ancora una volta come leader nella regolamentazione dei nuovi progressi tecnologici.

La nostra capacità industriale nei settori della sicurezza e della difesa deve subire una trasformazione radicale se vogliamo evitare di ripetere la dinamica osservata nel periodo 2022-2024, quando l’80% dei fondi spesi per sostenere la difesa ucraina sono stati spesi per attrezzature non europee. Al contrario, gli Stati Uniti hanno acquistato circa l’80% delle loro attrezzature militari direttamente da fornitori americani. Sostenere i posti di lavoro e le industrie in Europa, piuttosto che finanziare lo sviluppo industriale dei nostri partner o rivali, deve essere un obiettivo prioritario quando si spende denaro pubblico. Non è mai stato così urgente sviluppare le nostre capacità industriali per essere autonomi in aree strategiche. Poiché l’applicazione del quadro del mercato unico non è oggi possibile a causa della natura intrinseca del settore, è essenziale progredire verso lo sviluppo di un “mercato comune per l’industria della sicurezza e della difesa”, al fine di fornire all’Unione i mezzi necessari per affrontare le sfide attuali e future della difesa.

Allo stesso tempo, la sicurezza deve essere oggetto di scelte coerenti in termini di finanziamento. La continuità delle politiche passate non è più possibile. L’Unione Europea sta valutando diverse opzioni di finanziamento innovative per sostenere un mercato unificato della difesa. Per modernizzare le nostre capacità, dobbiamo sviluppare misure e strumenti innovativi che integrino efficacemente le risorse finanziarie pubbliche e private. Questi sforzi devono essere allineati con l’appartenenza all’Alleanza Atlantica e con gli impegni corrispondenti di quasi tutti gli Stati membri.

Libertà di circolazione e di soggiorno: un mercato unico sostenibile per tutti

Il mercato comune è la pietra angolare di una crescita economica senza precedenti, del progresso sociale e del miglioramento del tenore di vita in tutto il continente. Ha agito da catalizzatore per la convergenza tra gli Stati membri – come evidenziato anche dal FMI – favorendo un ambiente in cui l’innovazione prospera, le economie fioriscono e i cittadini beneficiano di una più ampia gamma di opportunità.

In mezzo a questi successi, sta emergendo un dibattito sulla distribuzione dei benefici. Si è diffusa l’idea che i benefici del mercato unico andrebbero soprattutto alle persone che hanno già i mezzi e le competenze per sfruttare le opportunità transfrontaliere, o alle grandi imprese che possono facilmente espandere le loro attività. Incoraggiando la concorrenza, il mercato unico stimola l’innovazione, di cui beneficiano indirettamente le persone altamente qualificate: le aziende sono incoraggiate a investire in ricerca e sviluppo, creando una domanda di competenze in settori all’avanguardia. Allo stesso modo, la conoscenza delle lingue straniere è essenziale per sfruttare appieno le opportunità formative e occupazionali offerte dal mercato unico. La situazione per le imprese è simile: le grandi aziende sono generalmente in una posizione migliore rispetto alle PMI per trarre il massimo vantaggio dal mercato comune, in quanto dispongono delle risorse e delle infrastrutture necessarie per sfruttare i minori costi di produzione, ottimizzare la distribuzione transfrontaliera, superare le barriere e accedere all’enorme base di consumatori. I marchi affermati e le grandi aziende dispongono già di ampie reti di fornitori, partner e clienti; il mercato unico può amplificare questi effetti di rete, rafforzando la loro posizione sul mercato.

Se non affrontata, questa percezione potrebbe erodere il sostegno pubblico e politico che è vitale per il continuo successo del mercato unico. Fin dall’inizio, il mercato comune è stato concepito tenendo conto dei potenziali effetti differenziati su lavoratori, imprese e regioni e con il chiaro obiettivo di affrontarli. Per questo motivo, la politica di coesione è stata introdotta come elemento fondamentale.

Tuttavia, l’UE opera ora in un ambiente globale radicalmente trasformato, generando nuove sfide di distribuzione che richiedono soluzioni innovative. L’impatto della pandemia di Covid-19 non è stato uniforme tra i settori, i territori e i gruppi socio-economici. L’impatto della perturbazione delle catene del valore varia notevolmente tra le economie locali. Le transizioni verdi e digitali avranno impatti diversi su regioni e settori economici diversi.

I costi dell’inflazione ricadono in modo sproporzionato su famiglie e imprese, che già si trovano ad affrontare difficoltà economiche. Inoltre, la ristrutturazione in corso della politica industriale rischia di ampliare involontariamente le disuguaglianze regionali all’interno dell’Unione. Come sottolinea la recente relazione del Gruppo di alto livello sul futuro della politica di coesione, “entro il 2023, più di 60 milioni di cittadini dell’UE vivranno in regioni in cui il PIL pro capite è inferiore a quello del 2000. Altri 65 milioni vivranno in regioni in cui la crescita sarà prossima allo zero. In totale, circa 135 milioni di persone, quasi un terzo della popolazione dell’UE, vivono in regioni che sono rimaste indietro negli ultimi due decenni. I residenti delle aree in declino sentono di non avere altra scelta se non quella di trasferirsi a causa della mancanza di posti di lavoro, di accesso a un’istruzione di qualità e di servizi adeguati necessari per coltivare uno stile di vita indipendente e dignitoso all’interno della propria comunità. Allo stesso modo, le PMI sentono il peso delle normative europee, ma traggono solo benefici limitati dal mercato unico, spesso a causa di modelli di business o capacità non adatti all’espansione transfrontaliera.

Secondo Eurobarometro, un’ampia e stabile maggioranza di europei (61%) afferma che l’appartenenza all’Unione è vantaggiosa e che il proprio Paese ne ha tratto beneficio (72%). Tuttavia, quasi un cittadino su due ritiene che le cose stiano andando nella direzione sbagliata, mentre solo uno su tre ritiene che stiano andando nella direzione giusta. In sedici Paesi, la maggioranza degli intervistati ritiene che le cose stiano andando nella direzione sbagliata.

Per mantenere la sua promessa di prosperità condivisa, il mercato unico deve soddisfare una serie di esigenze vitali che si rafforzano a vicenda.

ENRICO LETTA

Le difficoltà socio-economiche continuano a incidere sulla vita quotidiana degli europei: il 73% ritiene che il proprio tenore di vita diminuirà nel corso del prossimo anno, mentre il 47% afferma di aver già registrato un calo. Più di un terzo (37%) ha difficoltà a pagare le bollette a volte o per la maggior parte del tempo. Non è un caso che i cittadini ritengano che la lotta alla povertà e all’esclusione sociale e la salute pubblica siano le questioni cruciali a cui il Parlamento europeo dovrebbe dare priorità nella prossima legislatura, seguite dalla lotta al cambiamento climatico e dal sostegno all’economia.

Per mantenere la sua promessa di prosperità condivisa, il mercato unico deve soddisfare una serie di esigenze vitali che si rafforzano a vicenda.

Dobbiamo continuare a garantire la libera circolazione delle persone, ma anche la “libertà di restare”. Il mercato unico dovrebbe dare potere alle persone, anziché creare circostanze in cui si sentano obbligate a spostarsi per realizzare il proprio potenziale. La libera circolazione è un bene prezioso, ma deve essere una scelta, non una necessità.

Il mercato unico è un potente motore di crescita e prosperità, ma può anche essere fonte di disuguaglianza e povertà se i suoi benefici non sono ampiamente condivisi o, peggio, se porta a una corsa al ribasso degli standard sociali.

ENRICO LETTA

Come ha detto Jacques Delors in un’intervista del 2012, “ogni cittadino dovrebbe essere in grado di controllare il proprio destino”. Gli obiettivi del mercato unico dovrebbero essere allineati alla libertà di circolazione e alla libertà di rimanere nella comunità di propria scelta.

Il mercato unico è un potente motore di crescita e prosperità, ma può anche essere fonte di disuguaglianza e povertà se i suoi benefici non sono ampiamente condivisi o, peggio, se porta a una corsa al ribasso negli standard sociali. Una forte dimensione sociale del mercato comune può promuovere una prosperità inclusiva, garantendo opportunità eque e diritti dei lavoratori e contribuendo al contempo alla crescita.

Se vogliamo che l’Unione trovi il suo posto in questo “mondo più ampio”, dobbiamo facilitare una maggiore partecipazione delle piccole e medie imprese – la spina dorsale dell’economia dell’Unione – al mercato unico, per evitare che lo vedano come un ostacolo anziché come un’opportunità. Le PMI impiegano quasi due terzi della forza lavoro europea e rappresentano poco più della metà del suo valore aggiunto. Tuttavia, devono affrontare procedure burocratiche complesse, elevati oneri amministrativi e una mancanza di informazioni e servizi di supporto. Semplificare le procedure, fornire una consulenza adeguata e rendere le informazioni più facilmente accessibili contribuirebbe notevolmente alla prosperità delle PMI all’interno del mercato comune.

Inoltre, nonostante i recenti progressi, la frammentazione fiscale rimane un ostacolo importante. Un migliore allineamento attraverso un quadro fiscale armonizzato è essenziale per facilitare la libera circolazione di lavoratori, beni e servizi e per sostenere la crescita e gli investimenti privati. La lotta alla pianificazione fiscale aggressiva, all’evasione e alla frode fiscale è essenziale per garantire il finanziamento continuo di beni pubblici essenziali e di strumenti sociali adeguati. Infine, il rafforzamento delle norme di protezione dei consumatori è essenziale per costruire un mercato unico che funzioni per tutti. Non solo garantisce un accesso equo a beni e servizi in tutti gli Stati membri, ma favorisce anche un ambiente competitivo a vantaggio sia dei consumatori che delle imprese. Mentre l’UE continua ad adattarsi alle mutevoli preferenze dei consumatori e alle sfide economiche, forti tutele garantiranno la resilienza e l’integrità del mercato unico, assicurando che rimanga una pietra miliare della prosperità e dell’innovazione.

Un invito all’azione

È tempo di sviluppare una nuova bussola per guidare il mercato unico in questo complesso contesto internazionale. Le potenti forze del cambiamento – demografico, tecnologico, economico e geopolitico – richiedono risposte politiche innovative ed efficaci. Date le crisi e i conflitti in corso, è diventato urgente agire, soprattutto perché la finestra di opportunità per intervenire e rilanciare l’economia rischia di chiudersi nel prossimo futuro.

Questa relazione, che contiene raccomandazioni politiche per il futuro del mercato unico, mira a ispirare un vero e proprio appello all’azione tra l’opinione pubblica europea. Per ottenere il massimo impatto, dovrebbe essere attuato a livello di istituzioni europee, Stati membri, parti sociali e cittadini.

Queste conclusioni intendono sottolineare l’urgenza e l’importanza delle raccomandazioni proposte, nonché la necessità di un ampio impegno e di azioni concrete.

Data l’importanza cruciale del mercato unico per il rafforzamento della competitività europea, è essenziale che il Consiglio europeo svolga un ruolo decisivo nel portare avanti le riforme necessarie al suo completamento. Questa iniziativa dovrebbe essere un punto centrale dell’agenda della prossima legislatura, sottolineando il nostro impegno comune a rivitalizzare l’economia europea. Il Consiglio è invitato a delegare alla Commissione il compito di elaborare una strategia globale per il mercato unico. Questo piano dovrebbe articolare le azioni per eliminare le barriere esistenti, promuovere il consolidamento e rafforzare la competitività, in linea con le proposte della relazione. È essenziale che gli orientamenti politici fungano da catalizzatore per un rapido accordo tra il Consiglio e il Parlamento su un piano ambizioso, che comprenda una dettagliata valutazione d’impatto e un approfondito lavoro parlamentare a sostegno del processo. È inoltre necessario che il Comitato economico e sociale europeo e il Comitato europeo delle regioni diano priorità a queste iniziative di riforma nel loro ruolo consultivo, garantendo che il processo legislativo sia guidato da un’analisi completa e orientata alla pratica. Questo impegno collettivo non solo rafforzerà il mercato comune, ma garantirà anche che esso rimanga un pilastro della nostra resilienza economica e della nostra competitività globale.

Questa iniziativa dovrebbe essere un punto chiave dell’agenda della prossima legislatura, sottolineando il nostro impegno comune a rivitalizzare l’economia europea.

ENRICO LETTA

Al centro del modello sociale europeo, inaugurato da Jacques Delors con il dialogo di Val Duchesse nel 1985, c’era l’impegno a un forte dialogo sociale. Negli ultimi anni, l’essenza di questi dialoghi si è un po’ indebolita. Tuttavia, il dialogo sociale e la contrattazione collettiva rimangono strumenti unici che consentono ai governi e alle parti sociali di trovare soluzioni mirate ed eque. È essenziale riconoscere l’importante ruolo svolto dalle parti sociali nell’affrontare le sfide odierne, dal cambiamento climatico alla digitalizzazione. Promuovere condizioni di lavoro eque nel contesto del cambiamento dei modelli produttivi è essenziale per garantire che le transizioni siano ampiamente condivise e accettate. Il rinnovato impegno a rafforzare il dialogo sociale a livello dell’UE, illustrato dal rilancio del vertice di Val Duchesse promosso da Ursula von der Leyen nel suo discorso sullo Stato dell’Unione del 2023, rappresenta un cambiamento importante. Per trarre vantaggio da queste dinamiche, le norme che regolano il mercato unico devono lasciare spazio alla contrattazione collettiva e alle strutture di rappresentanza locale, e incoraggiare – o almeno non scoraggiare – l’auto-organizzazione di lavoratori e datori di lavoro. Lo stesso deve valere, a maggior ragione, per il processo legislativo.

Il mercato unico riflette le aspirazioni collettive dei suoi cittadini, che sono al centro della sua struttura. Dal 6 al 9 giugno, le elezioni europee forniranno un quadro chiaro della visione dei cittadini europei per il futuro. Il risultato non solo guiderà la direzione strategica, ma darà anche forma alle raccomandazioni dettagliate in questo rapporto. In questo momento critico, il Parlamento europeo ha la profonda responsabilità di guidare lo sviluppo e l’attuazione di un nuovo quadro forte per il mercato unico, garantendo che esso incarni pienamente i valori democratici e soddisfi le esigenze in evoluzione dei suoi cittadini.

Se il mercato comune deve rimanere il cuore e la forza trainante dell’integrazione europea, nessuna riforma, nessun concetto innovativo, nessun progresso reale sarà possibile, compreso e accettato senza la partecipazione attiva e l’impegno genuino dei cittadini.

ENRICO LETTA

Per rafforzare questo processo, sarebbe utile istituire una conferenza permanente dei cittadini per informare e sostenere il seguito di questa relazione. La Conferenza sul futuro dell’Europa ha indicato il desiderio dei cittadini di essere sistematicamente coinvolti nello sviluppo e nell’attuazione delle politiche pubbliche europee. In particolare, una delle proposte avanzate durante la sessione plenaria suggeriva di organizzare regolarmente assemblee di cittadini. Questo aspetto è stato ripreso dalla Presidenza della Commissione europea con le iniziative dei Pannelli dei cittadini, che sono destinate a diventare parte integrante della vita democratica europea, contribuendo a rafforzare le nostre democrazie. La Conferenza dei Cittadini potrebbe mettersi in contatto con le tre principali istituzioni dell’Unione e formulare raccomandazioni su come attuare questa relazione, offrendo così una prospettiva preziosa, sicuramente più ampia e fondata.

Se il mercato comune deve rimanere il cuore e la forza trainante dell’integrazione europea, nessuna riforma, nessun concetto innovativo, nessun progresso reale sarà possibile, compreso e accettato senza la partecipazione attiva e l’impegno genuino dei cittadini.

Il momento di agire è adesso. Dobbiamo lavorare tutti insieme per rafforzare il mercato unico e l’Unione europea.

FONTI
  1. Una versione inglese di questo testo può essere letta qui.
  2. Le politiche di gestione dello spettro per le frequenze utilizzate per i servizi mobili e fissi sono ancora frammentate. Mentre l’uso delle bande di frequenza è armonizzato a livello europeo, l’assegnazione delle frequenze segue ancora le regole nazionali, in termini di tempi, capacità e ripartizione dello spettro tra gli operatori e criteri di assegnazione (compresi i requisiti di copertura). Anche le norme sui livelli di emissione elettromagnetica e le politiche relative alle infrastrutture delle torri sono frammentate. Ciò impedisce la creazione di un mercato unico dello spettro e di operatori paneuropei su larga scala, riducendo gli investimenti e i benefici per gli utenti finali. Due possibili azioni per affrontare questi problemi nel breve e medio termine sono: garantire la convergenza dei limiti di esposizione sulla base della raccomandazione CE del 1999 sui livelli massimi di esposizione ai campi elettromagnetici (che deve essere regolarmente rivista per tenere conto delle evidenze scientifiche e dell’evoluzione delle linee guida internazionali) e l’adozione di una posizione unificata dell’UE sulle prossime decisioni riguardanti la banda superiore dei 6 GHz.

    Un’altra questione fondamentale è l’evoluzione dei mercati digitali globali e dell’architettura di Internet, e il conseguente rapporto sbilanciato tra gli operatori di TLC e le principali piattaforme online. Mentre la regolamentazione ha continuato a presupporre il dominio degli operatori di TLC nel mondo digitale, altri attori – come le grandi piattaforme online – hanno svolto il ruolo di gatekeeper dei servizi online e quindi di motori della domanda. In altre parole, l’attuale regolamentazione del settore ha introdotto significative asimmetrie normative tra gli operatori di TLC e i grandi gatekeeper in molti mercati emergenti rilevanti. I nuovi regolamenti sui servizi e i mercati digitali (DSA e DMA) hanno iniziato ad affrontare efficacemente questo squilibrio.

  3. Nel diritto europeo, i cosiddetti “28° regimi” sono quadri giuridici di norme dell’Unione che non sostituiscono le norme nazionali, ma possono costituire un’alternativa facoltativa ad esse.

MARIO DRAGHI: “PROPONGO UN CAMBIAMENTO RADICALE”_da Le Grand Continent

Pare ormai statisticamente accertato che ad ogni uscita pubblica di Mario Draghi, nel tempo particolarmente dosata, sugli organi di stampa corrisponda la possibilità di un suo importante incarico. Tutto lascia presagire che anche questa volta siamo alla vigilia prossima, non proprio immediata, di qualche candidatura ai massimi vertici istituzionali, nella fattispecie europei. Il personaggio è conosciuto e temuto, con una sua statura riconosciuta. Non può essere definito un mercenario, nemmeno un missionario; un funzionario di alto rango sì, di stretta osservanza e fedeltà. Negli scritti  qui sottoposti, specie il primo, il più puntuale ed attuale, si propone come l’innovatore, il timoniere in grado di indicare la rotta e condurre la nave verso una direzione certa. Parla di regole e deregolamentazioni comuni del mercato unico europeo necessarie a creare un contesto paragonabile a quello dei mercati americano e cinese; osserva che lo spazio concorrenziale sul quale misurarsi è il mercato mondiale e a quello va commisurata l’azione europea; poiché le regole universali della concorrenza sono a suo dire saltate per responsabilità soprattutto della Cina e per conseguente reazione degli Stati Uniti, l’Europa sta subendo una fase di stallo, se non di vera e propria regressione, alla quale si deve reagire con una azione attiva e diretta delle istituzioni pubbliche, nella fattispecie europee. Da buon discepolo gesuita, però, Mario Draghi glissa elegantemente su alcune questioni cruciali ed ignora distrattamente alcuni aspetti fondamentali delle politiche e delle dinamiche europee. In politica, ivi compresa quella economica, non esistono scelte neutre a beneficio ecumenico. A suo riguardo sarebbe corretto, prima di tutto, rispondere a due domande fondamentali per inquadrare i propri propositi: per conto di chi si agisce e per fare cosa.
La vita professionale di Mario Draghi ha conosciuto tre brillanti tappe fondamentali: le grandi privatizzazioni degli anni ’90 in Italia, la presidenza della BCE nel secondo decennio del XXI secolo, la Presidenza del Consiglio Italiano nel 2021. Nella prima è riuscito a privare della propria spina dorsale economica, in verità già un po’ malconcia, l’Italia; nella seconda, mettendo sotto capestro la Grecia e mantenendo sotto giogo l’Italia, è riuscito a salvaguardare sul proscenio i sistemi bancari di Francia e Germania, particolarmente esposti sui debiti sovrani in crisi, nelle retrovie, aspetto ben più rilevante, il circuito finanziario che, con la particolare e lucrosa intermediazione tedesca, riusciva e riesce tuttora a garantire costantemente i flussi finanziari dall’Europa verso gli Stati Uniti; nella terza è riuscito a riportare nuovamente a livelli allarmanti l’esposizione all’estero del debito pubblico italiano e, soprattutto, ha svolto brillantemente il compito di vigilare e ricondurre all’ordine le possibili, quanto sprovvedute, bizze del cancelliere tedesco e del “Napoleone” di Francia sul conflitto in Ucraina. A meno di una improbabile folgorazione sulla via di Damasco, intelligibile nel testo e della quale sottolineerò in seguito, la risposta alla domanda “per conto di chi?” non potrebbe essere più scontata.
Quanto al “che fare” occorre addentrarsi maggiormente nelle sue argomentazioni. Il declino dell’Europa, compresa la Germania, non ha coinciso, come sostiene Draghi, ma è iniziato decenni prima della emersione della Cina e della sua sagacia tattica e si è accentuato irreversibilmente con l’implosione del blocco sovietico, l’allargamento della Unione Europea, parallelo e complementare a quello della NATO e l’illusione statunitense dell’assenza epocale di avversari paragonabili per potenza; da qui la spinta esogena al ricambio di classe dirigente nei tre principali paesi, nefasto già nell’immediato per il continente, ma strategicamente, con ragionevole probabilità, per gli stessi Stati Uniti.
Mario Draghi, nella sua ambiguità, cerca di accattivarsi un consenso ecumenico su alcuni principi di azione generale apparentemente inoppugnabili, perché generici e generali. Propugna il superamento della logica della competizione esasperata interna al mercato europeo per acquisire una logica di competizione del Sistema Europa nell’agone mondiale. Un obbiettivo da raggiungere individuando prima di tutto i settori sui quali concentrare l’attenzione, nella fattispecie le tecnologie verdi, la difesa, il digitale e l’energia; creando di conseguenza piattaforme di acquisto comuni tali da favorire le economie di scala nella spesa e indirettamente nella produzione e nella concentrazione delle aziende; puntando sulla disponibilità di capitali al momento in gran parte immobilizzati nelle banche.
Nessun accenno alle modalità di mobilizzazione dei capitali che hanno portato alla creazione del mostro Deutsch Bank del tutto funzionale alla trasmigrazione di capitali negli Stati Uniti con modalità speculative di tipo predatorio e alla resistenza, in verità sempre più fragile, opposta alla trasformazione del regime giuridico delle Lands Bank tedesche, che ha consentito un minimo di autonomia decisionale nelle scelte economiche. In mano a quali fondi deve cadere questa ulteriore riorganizzazione e con quale libertà di movimento all’interno e all’esterno della UE?
La creazione di stazioni di appalto comune di acquisto di forniture militari non comporta di per sé, secondo astratte leggi di mercato, una espansione del complesso militare-industriale europeo senza tener conto che equipaggiamenti comuni, comportano modelli di difesa e di esercito comuni, che a loro volta implicano una politica estera comune. A tutt’oggi l’unica parvenza di politica estera comune europea è dettata dalla linea russofobica degli Stati Uniti, dalla invenzione del nemico russo, dal disastro euro-atlantico in Africa. Mario Draghi non pare perseguire alternative, né smentire se stesso e il suo operato.
Mario Draghi propugna il modello federativo della Unione Europea, ma pragmaticamente sostiene gli accordi di cooperazione rafforzata tra gruppi di stati, di fatto il riconoscimento del ruolo fondamentale e crescente dei governi, quindi degli stati nazionali. Un ossimoro sino ad ora reso praticabile dall’allineamento atlantico, di fatto una promanazione, sia degli apparati della UE che delle élites che dispongono delle leve degli stati nazionali.
Sin dalla nascita dei progetti unitari è stata sempre presente una componente federalista europea, tanto chiassosa, quanto velleitaria nel propugnare gli ideali di una Europa unita e indipendente. Si è sempre ridotta, pur di sopravvivere, ad essere la mosca cocchiera ed il paravento del dominio atlantista scaturito dal disastro della seconda guerra mondiale sin dagli albori della sua formazione. La stessa CED (Comunità Europea di Difesa), cavallo di battaglia e prima illusione di quella retorica negli anni ’50, fallì quando fu chiaro che né la Francia e la Gran Bretagna avrebbero potuto disporre dei comandi di quell’esercito e che alla Francia veniva richiesto il sacrificio dell’esercito coloniale da schierare, piuttosto sulla cortina di ferro antisovietica. Oggi Mario Draghi si rifà, concludendo il sermone, alla retorica dei “padri fondatori” della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio). Ma quell’accordo prevedeva la suddivisione delle quote di produzione tra i sei stati aderenti e la salvaguardia di una industria pesante a supporto soprattutto dello sforzo antisovietico, precedente di anni alla costituzione del Patto di Varsavia e in subordine ad una politica di consenso che spegnesse il miraggio bolscevico tra la gente. Attendiamo dal nostro risposte chiare e coraggiose; soprattutto risposte a quanto dichiarato da Raimondo, nell’articolo a fianco http://italiaeilmondo.com/2024/04/23/cina-stati-uniti-capire-la-dottrina-raimondo-di-alessandro-aresu/  Cominciano anche noi a porci domande giuste e risposte sui problemi ineludibili su quali modalità di relazioni tra paesi europei occorrerebbe costruire. Giuseppe Germinario
il coraggio che manca
 
MARIO DRAGHI: “PROPONGO UN CAMBIAMENTO RADICALE”

Il modo in cui siamo organizzati, i nostri processi decisionali e i nostri meccanismi di finanziamento sono progettati per il mondo di ieri: pre-Covid, pre-Ucraina, pre-conflagrazione in Medio Oriente, pre-ritorno delle ostilità tra grandi potenze. Ma a noi serve un’Unione europea che sia adeguata al mondo di oggi e di domani. Ecco perché quel che proporrò nella relazione che la Presidente della Commissione mi ha chiesto di preparare è un cambiamento radicale: perché è di un cambiamento radicale che abbiamo bisogno.

Con il suo accordo, pubblichiamo la versione italiana (approvata dall’autore) del testo dell’intervento di Mario Draghi alla High-level Conference on the European Pillar of Social Rights (Bruxelles, 16 aprile 2024). Il testo originale in inglese può essere letto a questo link.

Questa è, in sostanza, la prima volta in cui ho l’occasione di iniziare a condividere con voi, se non proprio la filosofia — non ci siamo ancora arrivati —, almeno il modo in cui si vanno delineando il disegno d’insieme e la filosofia complessiva del report.

La competitività è da molto tempo una questione controversa per l’Europa.

Nel 1994, l’economista e futuro premio Nobel Paul Krugman etichettò come “pericolosa ossessione” la tendenza a concentrarsi sulla competitività. A suo dire, una crescita a lungo termine si ottiene aumentando la produttività – che va a beneficio di tutti – e non tentando di migliorare la propria posizione relativa rispetto ad altri e di catturare la loro quota di crescita.

L’approccio alla competitività che abbiamo adottato in Europa dopo la crisi del debito sovrano sembrerebbe avergli dato ragione. Abbiamo deliberatamente perseguito una strategia basata sul tentativo di ridurre i costi salariali l’uno rispetto all’altro, in aggiunta a una politica fiscale prociclica, con l’unico risultato di indebolire la nostra stessa domanda interna e minare il nostro modello sociale.

Non è la competitività a essere viziata come concetto. È l’Europa che si è concentrata sulle cose sbagliate.

Ci siamo rivolti verso l’interno, vedendo noi stessi come concorrenti, anche in settori come la difesa e l’energia in cui abbiamo profondi interessi comuni. Allo stesso tempo, non abbiamo guardato abbastanza verso l’esterno: con una bilancia commerciale in fin dei conti positiva, non abbiamo considerato la nostra competitività esterna come una questione di policy seria.

In un ambiente internazionale favorevole, abbiamo fatto affidamento sulla parità di condizioni a livello globale e su un ordine internazionale basato sulle regole, aspettandoci che gli altri facessero lo stesso. Ma ora il mondo sta cambiando velocemente, e siamo stati colti di sorpresa.

Altre regioni, in particolare, hanno smesso di rispettare le regole e sono attivamente impegnate a elaborare politiche volte a migliorare la loro posizione competitiva. Nel migliore dei casi, queste politiche hanno l’obiettivo di riorientare gli investimenti verso le proprie economie a scapito della nostra; nel peggiore, sono progettate per rendere permanente la nostra dipendenza da loro.

La Cina, ad esempio, punta a catturare e internalizzare tutte le parti delle catene di approvvigionamento legate alle tecnologie verdi e avanzate, e sta facendo in modo di assicurarsi l’accesso alle risorse necessarie. Questa rapida espansione dell’offerta sta portando a un eccesso di capacità in numerosi settori e minaccia di indebolire le nostre industrie.

Gli Stati Uniti, da parte loro, utilizzano la politica industriale su larga scala per attrarre entro i propri confini la capacità produttiva interna di maggior valore, compresa quella delle imprese europee, ricorrendo al protezionismo per tagliare fuori la concorrenza e impiegando il loro potere geopolitico per riorientare e proteggere le catene di approvvigionamento.

Come Unione europea non abbiamo mai avuto un analogo “Industrial Deal”, anche se la Commissione continua a fare tutto quanto è in suo potere per colmare questa lacuna. Sta di fatto che, nonostante una serie di iniziative positive in corso, ci manca ancora una strategia complessiva sulle risposte da dare nei diversi settori.

Ci manca una strategia su come tenere il passo nella corsa, sempre più spietata, per la leadership nelle nuove tecnologie. Oggi i nostri investimenti in tecnologie digitali e avanzate, anche per la difesa, sono inferiori rispetto a quelle di Stati Uniti e Cina, e solo quattro dei primi 50 player tecnologici al mondo sono europei.

Ci manca una strategia su come proteggere le nostre industrie tradizionali da condizioni di disparità globali dovute ad asimmetrie nella regolamentazione, nei sussidi e nelle politiche commerciali. Un caso esemplare è quello delle industrie ad alta intensità energetica.

In altre regioni, queste industrie non solo devono sostenere costi energetici più bassi, ma sono anche soggette a minori oneri normativi e, in alcuni casi, ricevono pesanti sovvenzioni che rappresentano una minaccia diretta alla possibilità per le imprese europee di competere.

In assenza di politiche pianificate e coordinate strategicamente, la logica conseguenza è che alcune delle nostre industrie finiscano per ridurre la capacità produttiva o si trasferiscano al di fuori dell’UE.

E ancora, ci manca una strategia su come assicurarci le risorse e gli input di cui abbiamo bisogno per realizzare le nostre ambizioni, senza accrescere la nostra dipendenza da altri.

In Europa abbiamo giustamente un’agenda climatica ambiziosa e obiettivi impegnativi per i veicoli elettrici. Ma in un mondo in cui i nostri concorrenti controllano molte delle risorse di cui abbiamo bisogno, una simile agenda non può che essere accompagnata da un piano per mettere in sicurezza le nostre catene di approvvigionamento — dai minerali critici alle batterie, passando per le infrastrutture di ricarica.

Finora la nostra risposta è stata limitata perché il modo in cui siamo organizzati, i nostri processi decisionali e i nostri meccanismi di finanziamento sono progettati per il mondo di ieri: pre-Covid, pre-Ucraina, pre-conflagrazione in Medio Oriente, pre-ritorno delle ostilità tra grandi potenze.

Ma a noi serve un’Unione europea che sia adeguata al mondo di oggi e di domani. Ecco perché quel che proporrò nella relazione che la Presidente della Commissione mi ha chiesto di preparare è un cambiamento radicale: perché è di questo che c’è bisogno.

In ultima analisi, sarà necessario completare una trasformazione che attraversi tutta l’economia europea. Dobbiamo poter contare su sistemi energetici decarbonizzati e indipendenti; un sistema di difesa integrato e adeguato a livello di UE; produzione nazionale nei settori più innovativi e in più rapida espansione; e una posizione di leadership nell’innovazione deep-tech e digitale, che sia vicina alla nostra base produttiva.

Tuttavia, vista la velocità alla quale si muovono i nostri concorrenti, è altrettanto importante stabilire delle priorità. È necessario agire immediatamente nei settori maggiormente esposti alle sfide verdi, digitali e di sicurezza. Il mio report si concentrerà su dieci di questi macro-settori dell’economia europea.

Ogni settore richiede riforme e strumenti specifici, ma dalla nostra analisi emergono tre fili conduttori, comuni ai diversi interventi di policy.

Il primo è favorire le economie di scala. I nostri principali concorrenti stanno approfittando della propria dimensione continentale per generare economie di scala, aumentare gli investimenti e catturare quote di mercato nei settori in cui questo conta di più. In Europa avremmo naturalmente lo stesso vantaggio, ma la frammentazione ci frena.

Nell’industria della difesa, ad esempio, la mancanza di economie di scala ostacola lo sviluppo di una capacità industriale europea: un problema riconosciuto anche dalla recente Strategia industriale europea per la difesa. Negli USA, ai cinque soggetti principali fa capo l’80% del mercato statunitense nel suo complesso, mentre in Europa si arriva solo al 45%.

Questa differenza si spiega in gran parte con la frammentazione della spesa per la difesa nell’UE.

I governi non ricorrono molto spesso agli acquisti congiunti — gli appalti collaborativi rappresentano meno del 20% della spesa — e non si concentrano abbastanza sul mercato interno: negli ultimi due anni quasi l’80% degli acquisti è stato effettuato da paesi terzi.

Per soddisfare le nuove esigenze in materia di difesa e sicurezza, dobbiamo intensificare gli approvvigionamenti congiunti, rafforzare il coordinamento della spesa e l’interoperabilità delle attrezzature, ridurre notevolmente la dipendenza da fornitori internazionali.

Un altro ambito in cui non stiamo perseguendo economie di scala sono le telecomunicazioni. Nell’UE abbiamo un mercato di 445 milioni di consumatori, ma gli investimenti pro capite sono solo la metà di quelli negli Stati Uniti e siamo in ritardo nella diffusione del 5G e della fibra.

Uno dei motivi di questa lacuna è che abbiamo 34 gruppi di reti mobili in Europa — e 34 è una stima prudente, in realtà ne abbiamo molti di più — che spesso operano solo su scala nazionale, contro i tre degli Stati Uniti e i quattro della Cina. Per produrre maggiori investimenti, dobbiamo razionalizzare e armonizzare ulteriormente la normativa in materia di telecomunicazioni in tutti gli Stati membri e sostenere — non ostacolare — il consolidamento.

E le economie di scala sono fondamentali anche in un altro senso, per le imprese giovani che generano le idee più innovative. Il loro modello di business dipende dalla capacità di crescere rapidamente e commercializzare le proprie idee, il che a sua volta presuppone l’esistenza di un grande mercato interno. E la scala è essenziale anche per lo sviluppo di nuovi medicinali innovativi, attraverso la standardizzazione dei dati dei pazienti dell’Unione europea e l’uso dell’intelligenza artificiale, che ha bisogno di tutta la ricchezza di dati di cui disponiamo— se solo riuscissimo a standardizzarli.

In Europa siamo tradizionalmente molto forti nella ricerca di base, ma non riusciamo a portare l’innovazione sul mercato e a potenziarla.

Per affrontare questo ostacolo potremmo, tra le altre cose, rivedere l’attuale normativa prudenziale sul credito bancario e istituire un nuovo regime normativo comune per le start-up nel settore tecnologico.

Il secondo filo conduttore è la fornitura di beni pubblici. Ci sono investimenti di cui tutti beneficiamo, ma che nessun paese può sostenere da solo: in questi casi avremmo tutte le ragioni per agire insieme, pena il rischio di non essere all’altezza delle nostre esigenze— ad esempio sul fronte del clima, nel campo della difesa e anche in altri.

Nell’economia europea ci sono varie strozzature, punti in cui la mancanza di coordinamento si traduce in inefficienze dovute proprio al basso livello di investimenti. Un esempio è rappresentato dalle reti energetiche, e in particolare dalle interconnessioni.

Che si tratti di un bene pubblico è chiaro: un mercato integrato dell’energia ridurrebbe i costi energetici per le nostre imprese e ci renderebbe più resilienti di fronte alle crisi future— un obiettivo che la Commissione persegue nel contesto di REPowerEU.

Ma l’interconnessione richiede decisioni in materia di pianificazione, finanziamento, approvvigionamento di materiali e governance, e queste decisioni sono difficili da coordinare. Di conseguenza, non saremo in grado di costruire una vera Unione dell’energia fintanto che non ci accorderemo su un approccio comune.

Un altro esempio è la nostra infrastruttura di super computing. L’UE dispone di una rete pubblica di computer ad alte prestazioni (high-performance computers o HPC) di livello mondiale, ma le ricadute sul settore privato sono al momento molto, molto limitate.

Questa rete potrebbe essere utilizzata dal settore privato — ad esempio dalle start-up di intelligenza artificiale e dalle PMI — e in cambio, i vantaggi finanziari conseguiti potrebbero essere reinvestiti per aggiornare gli stessi HPC e sostenere l’espansione del cloud nell’UE.

Una volta identificati questi beni pubblici, dobbiamo anche dotarci dei mezzi per finanziarli. Il settore pubblico ha un ruolo importante da svolgere, e in passato ho già parlato di come potremmo fare un uso migliore della capacità di prestito comune dell’UE, in particolare in settori, come la difesa, in cui la frammentazione della spesa riduce la nostra efficacia complessiva.

La maggior parte del fabbisogno di investimenti, tuttavia, dovrà essere coperta da investimenti privati. L’UE dispone di risparmi privati molto elevati, che sono però per lo più incanalati nei depositi bancari e finiscono per non finanziare la crescita quanto potrebbero in un mercato dei capitali più ampio. Per questo motivo il progresso dell’Unione dei mercati dei capitali è una parte indispensabile della strategia complessiva per la competitività.

Il terzo filo conduttore è garantire l’approvvigionamento di risorse e input essenziali.

Se vogliamo raggiungere i nostri obiettivi in materia di clima senza aumentare la nostra dipendenza da paesi sui quali non possiamo più contare, avremo bisogno di una strategia globale che copra tutte le fasi della catena di approvvigionamento dei minerali critici.

Al momento, in quest’ambito stiamo per lo più lasciando campo libero agli attori privati, mentre altri governi hanno scelto di guidare in prima persona, o comunque di coordinare fortemente, l’intera catena. Abbiamo bisogno di una politica economica estera che produca, per la nostra economia, questo stesso risultato.

La Commissione ha già avviato questo processo con il Regolamento europeo sulle materie prime critiche, ma occorrono misure complementari per rendere più concreto il suo obiettivo. Ad esempio, potremmo prevedere una apposita piattaforma mineraria critica dell’UE, principalmente a fini di approvvigionamento congiunto, diversificazione e sicurezza dell’offerta, messa in comune delle fonti di finanziamento e costituzione di scorte.

Un altro contributo fondamentale che dobbiamo garantire — e che riveste un’importanza particolare per voi, le parti sociali — è la disponibilità di forza lavoro qualificata.

Nell’UE, tre quarti delle imprese segnalano difficoltà nell’assumere dipendenti con le giuste competenze, e per 28 profili professionali – che rappresentano il 14% della nostra forza lavoro – sono attualmente identificati come carenti di manodopera.

Con l’invecchiamento della società e un atteggiamento meno favorevole nei confronti dell’immigrazione, dovremo trovare queste competenze al nostro interno. Sarà necessario lavorare da più parti per assicurare la disponibilità delle skill necessarie e definire percorsi flessibili di miglioramento delle competenze.

Uno degli attori più importanti al riguardo sarete voi, le parti sociali. Siete sempre stati fondamentali nelle fasi di cambiamento e l’Europa farà affidamento su di voi per contribuire ad adattare il nostro mercato del lavoro all’era digitale e rafforzare i nostri lavoratori.

Questi tre filoni ci impongono una riflessione profonda sulla nostra organizzazione, su cosa vogliamo fare insieme e cosa mantenere a livello nazionale. Considerata l’urgenza della sfida che abbiamo davanti, tuttavia, non possiamo concederci il lusso di rimandare a una futura revisione del Trattato le risposte a tutte queste importanti questioni.

Per garantire la coerenza tra i diversi strumenti di policy dovremmo essere in grado di sviluppare ora un nuovo strumento strategico per il coordinamento delle politiche economiche.

E se dovessimo constatare che ciò non è fattibile, in casi specifici, dovremmo essere pronti a prendere in considerazione la possibilità di procedere con un sottoinsieme di Stati membri. Una cooperazione rafforzata sotto forma di 28° regime, ad esempio, potrebbe essere una strada percorribile per l’Unione dei mercati dei capitali, con l’obiettivo di mobilitare gli investimenti.

Come regola generale, tuttavia, credo che la coesione politica della nostra Unione ci imponga di agire insieme, possibilmente sempre. Dobbiamo essere consapevoli che oggi la nostra stessa coesione politica è minacciata dai cambiamenti in atto nel resto del mondo.

Ripristinare la nostra competitività non è un obiettivo che possiamo raggiungere da soli, o battendoci l’un l’altro. Ci impone di agire come Unione europea, come mai prima d’ora.

I nostri concorrenti sono in vantaggio perché possono agire ciascuno come un paese unico con un’unica strategia, allineando dietro quest’ultima tutti gli strumenti e le politiche necessarie.

Se vogliamo raggiungerli, avremo bisogno di un nuovo partenariato tra gli Stati membri, una ridefinizione della nostra Unione non meno ambiziosa di quella operata dai Padri Fondatori 70 anni fa con la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio.

Grazie.

 

La politica economica in un mondo che cambia

Nel prossimo futuro la politica fiscale sarà chiamata a svolgere un ruolo più significativo

di Mario Draghi

Il fermo immagine mostra Mario Draghi in un’intervista a Washington dopo aver ricevuto il premio Volcker alla carriera, 15 febbraio 2024 - Ansa
Il fermo immagine mostra Mario Draghi in un’intervista a Washington dopo aver ricevuto il premio Volcker alla carriera, 15 febbraio 2024 – Ansa

12′ di lettura

Vi proponiamo il discorso integrale che Mario Draghi ha tenuto al Nabe, Economic Policy Conference di Washington, durante il conferimento del premio Paul A. Volcker Lifetime Achievement Award

Tutti i governi, fino a non molto tempo fa, nutrivano grandi aspettative sulla globalizzazione, intesa come integrazione dinamica dell’economia mondiale.

Si pensava che la globalizzazione avrebbe aumentato la crescita e il benessere a livello mondiale, grazie a un’organizzazione più efficiente delle risorse mondiali. Man mano che i Paesi sarebbero diventati più ricchi, più aperti e più orientati al mercato, si sarebbero diffusi i valori democratici insieme allo Stato di diritto. E tutto ciò avrebbe reso le economie emergenti più produttive nelle istituzioni multilaterali, legittimando ulteriormente l’ordine globale.

Lo stato d’animo prevalente è stato ben colto da George H.W. Bush nel 1991, quando ha affermato che “nessuna nazione sulla Terra ha scoperto un modo per importare i beni e i servizi del mondo fermando le idee alla frontiera”.

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Questo circolo virtuoso porterebbe anche a una “uguaglianza per difetto”, nel senso che non sarebbe necessaria alcuna politica governativa specifica per raggiungerla. Piuttosto, avremmo una convergenza armoniosa verso standard di vita più elevati, valori universali e stato di diritto internazionale. Non c’è dubbio che alcune di queste aspettative si siano realizzate. L’apertura dei mercati globali ha portato decine di Paesi nell’economia mondiale e ha fatto uscire dalla povertà milioni di persone – 800 milioni solo in Cina negli ultimi 40 anni. Ha generato il più ampio e rapido miglioramento della qualità della vita mai visto nella storia.

Ma il nostro modello di globalizzazione conteneva anche una debolezza fondamentale. La persistenza del libero scambio fra Paesi necessita che vi siano regole internazionali e regolamenti delle controversie recepite da tutti i Paesi partecipanti. Ma in questo nuovo mondo globalizzato, l’impegno di alcuni dei maggiori partner commerciali a rispettare le regole è stato ambiguo fin dall’inizio. A differenza del mercato unico dell’UE, dove il rispetto delle regole è intrinseco e avviene attraverso la Corte di giustizia europea, le organizzazioni internazionali create per supervisionare l’equità del commercio globale non sono mai state dotate di indipendenza e poteri equivalenti.

Pertanto, l’ordine commerciale mondiale globalizzato è sempre stato vulnerabile a una situazione in cui qualsiasi paese o gruppo di paesi poteva decidere che il rispetto delle regole non sarebbe servito ai propri interessi a breve termine.

Per fare solo un esempio, nei primi 15 anni di adesione all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), la Cina non ha notificato all’OMC alcun sussidio del governo sub-centrale, nonostante la maggior parte dei sussidi sia erogata dai governi provinciali e locali. Questa inadempienza era nota da anni: già nel 2003 si era notato che gli sforzi della Cina per l’attuazione dell’OMC avevano “perso un notevole slancio”, ma l’indifferenza ha prevalso e non è stato fatto nulla di concreto per affrontarla.

Le conseguenze di questa scarsa conformità a regole condivise sono state economiche, sociali e politiche.

La globalizzazione ha portato a grandi squilibri commerciali, ed i responsabili politici hanno tardato a riconoscerne le conseguenze. Questi squilibri sono sorti in parte perché l’apertura del commercio avveniva tra Paesi con livelli di sviluppo molto diversi, il che ha limitato la capacità dei Paesi più poveri di assorbire le importazioni da quelli più ricchi e ha dato loro la giustificazione per proteggere le industrie domestiche nascenti dalla concorrenza estera.

Ma riflettono anche scelte politiche deliberate in ampie parti del mondo per accumulare avanzi commerciali e limitare l’aggiustamento del mercato. Dopo la crisi del 1997, le economie dell’Asia orientale hanno utilizzato le eccedenze commerciali per accumulare grandi riserve valutarie e autoassicurarsi contro gli shock della bilancia dei pagamenti, soprattutto impedendo l’apprezzamento dei tassi di cambio, mentre la Cina ha perseguito una strategia deliberata a lungo termine per liberarsi dalla dipendenza dall’Occidente per i beni capitali e la tecnologia.

Dopo la crisi dell’eurozona del 2011, anche l’Europa ha perseguito una politica di accumulo deliberato di avanzi delle partite correnti, anche se in questo caso attraverso le errate politiche fiscali procicliche sancite dalle nostre regole che hanno depresso la domanda interna e il costo del lavoro. In una situazione in cui i meccanismi di solidarietà dell’UE erano limitati, questa posizione poteva persino essere comprensibile per i paesi che dipendevano dai finanziamenti esterni. Ma anche quelli con posizioni esterne forti, come la Germania, hanno seguito questa tendenza. Queste politiche hanno fatto sì che le partite correnti dell’area dell’euro siano passate da un sostanziale equilibrio prima della crisi a un massimo di oltre il 3% del PIL nel 2017. A questo picco, si trattava in termini assoluti del più grande avanzo delle partite correnti al mondo. In percentuale del PIL mondiale, solo la Cina nel 2007-08 e il Giappone nel 1986 hanno registrato un avanzo più elevato.

L’accumulo di eccedenze ha portato a un aumento del risparmio globale in eccesso e a un calo dei tassi reali globali, un fenomeno rilevato da Ben Bernanke già nel 2005. A questo non è corrisposto un aumento della domanda di investimenti. Gli investimenti pubblici sono diminuiti di quasi due punti percentuali nei Paesi del G7 dagli anni ’90 al 2010, mentre gli investimenti del settore privato si sono bloccati una volta che le imprese hanno ridotto la leva finanziaria dopo la grande crisi finanziaria.

Il fermo immagine mostra Mario Draghi in un’intervista a Washington dopo aver ricevuto il premio Volcker alla carriera, 15 febbraio 2024. Ansa

Questo calo dei tassi reali ha contribuito in modo sostanziale alle sfide incontrate dalla politica monetaria negli anni 2010, quando i tassi di interesse nominali sono stati schiacciati sul limite inferiore. La politica monetaria è stata ancora in grado di generare occupazione attraverso misure non convenzionali e ha prodotto risultati migliori di quanto molti si aspettassero. Ma queste misure non sono state sufficienti per eliminare completamente il rallentamento del mercato del lavoro. Le conseguenze sociali si sono manifestate in una perdita secolare di potere contrattuale nelle economie avanzate, poiché i posti di lavoro sono stati spostati dalla delocalizzazione o le richieste salariali sono state contenute dalla minaccia della delocalizzazione. Nelle economie del G7, le esportazioni e le importazioni totali di beni sono aumentate di circa 9 punti percentuali dall’inizio degli anni ’80 alla grande crisi finanziaria, mentre la quota di reddito del lavoro è scesa di circa 6 punti percentuali in quel periodo. Si è trattato del calo più marcato da quando i dati relativi a queste economie sono iniziati nel 1950.

Ne sono seguite le conseguenze politiche. Di fronte a mercati del lavoro fiacchi, investimenti pubblici in calo, diminuzione della quota di manodopera e delocalizzazione dei posti di lavoro, ampi segmenti dell’opinione pubblica dei Paesi occidentali si sono giustamente sentiti “lasciati indietro” dalla globalizzazione.

Di conseguenza, contrariamente alle aspettative iniziali, la globalizzazione non solo non ha diffuso i valori liberali, perché la democrazia e la libertà non viaggiano necessariamente con i beni e i servizi, ma li ha anche indeboliti nei Paesi che ne erano i più forti sostenitori, alimentando invece l’ascesa di forze orientate verso l’interno. La percezione dell’opinione pubblica occidentale è diventata quella che i cittadini comuni stessero giocando in un gioco imperfetto, che aveva causato la perdita di milioni di posti di lavoro, mentre i governi e le imprese rimanevano indifferenti.

Al posto dei canoni tradizionali di efficienza e ottimizzazione dei costi, i cittadini volevano una distribuzione più equa dei benefici della globalizzazione e una maggiore attenzione alla sicurezza economica. Per ottenere questi risultati, ci si aspettava un uso più attivo dello “statecraft” (l’arte di governare), che si trattasse di politiche commerciali assertive, protezionismo o redistribuzione.

Una serie di eventi ha poi rafforzato questa tendenza. In primo luogo, la pandemia ha sottolineato i rischi di catene di approvvigionamento globali estese per beni essenziali come farmaci e semiconduttori. Questa consapevolezza ha portato al cambiamento di molte economie occidentali verso il re-shoring delle industrie strategiche e l’avvicinamento delle catene di fornitura critiche.La guerra di aggressione in Ucraina ci ha poi indotto a riesaminare non solo dove acquistiamo i beni, ma anche da chi. Ha messo in luce i pericoli di un’eccessiva dipendenza da partner commerciali grandi e inaffidabili che minacciano i nostri valori. Ora, ovunque vediamo che la sicurezza degli approvvigionamenti – di energia, terre rare e metalli – sta salendo nell’agenda politica. Questo cambiamento si riflette nell’emergere di blocchi di nazioni che sono in gran parte definiti dai loro valori comuni e sta già portando a cambiamenti significativi nei modelli di commercio e investimento globali. Dall’invasione dell’Ucraina, ad esempio, il commercio tra alleati geopolitici è cresciuto del 4-6% in più rispetto a quello con gli avversari geopolitici. Anche la quota di IDE che si svolge tra Paesi geopoliticamente allineati è in aumento.

E, nel frattempo, è aumentata l’urgenza di affrontare il cambiamento climatico. Raggiungere lo zero netto in tempi sempre più brevi richiede approcci politici radicali in cui il significato di commercio sostenibile viene ridefinito. L’Inflation Reduction Act degli Stati Uniti e, in prospettiva, il Carbon Border Adjustment Mechanism dell’UE danno entrambi la priorità agli obiettivi di sicurezza climatica rispetto a quelli che in precedenza erano considerati effetti distorsivi sul commercio.

Questo periodo di profondi cambiamenti nell’ordine economico globale comporta sfide altrettanto profonde per la politica economica. In primo luogo, cambierà la natura degli shock a cui sono esposte le nostre economie. Negli ultimi trent’anni, le principali fonti di disturbo della crescita sono state gli shock della domanda, spesso sotto forma di cicli del credito. La globalizzazione ha causato un flusso continuo di shock positivi dell’offerta, in particolare aggiungendo ogni anno decine di milioni di lavoratori al settore commerciale delle economie emergenti. Ma questi cambiamenti sono stati per lo più fluidi e continui.

Ora, con l’avanzamento della Cina nella catena del valore, non sarà sostituita da un altro esportatore di rallentamento del mercato del lavoro globale. Al contrario, è probabile che si verifichino shock negativi dell’offerta più frequenti, più gravi e anche più consistenti, mentre le nostre economie si adattano a questo nuovo contesto.

È probabile che questi shock dell’offerta derivino non solo da nuovi attriti nell’economia globale, come conflitti geopolitici o disastri naturali, ma ancor più dalla nostra risposta politica per mitigare tali attriti. Per ristrutturare le catene di approvvigionamento e decarbonizzare le nostre economie, dobbiamo investire un’enorme quantità di denaro in un orizzonte temporale relativamente breve, con il rischio che il capitale venga distrutto più velocemente di quanto possa essere sostituito.

In molti casi, stiamo investendo non tanto per aumentare lo stock di capitale, quanto per sostituire il capitale che viene reso obsoleto da un mondo in continua evoluzione. Per illustrare questo punto, si pensi ai terminali di GNL costruiti in Europa negli ultimi due anni per alleviare l’eccessiva dipendenza dal gas russo. Non si tratta di investimenti destinati ad aumentare il flusso di energia nell’economia, ma piuttosto a mantenerlo.

Gli investimenti nella decarbonizzazione e nelle catene di approvvigionamento dovrebbero aumentare la produttività nel lungo periodo, soprattutto se comportano una maggiore adozione della tecnologia. Tuttavia, ciò implica una temporanea riduzione dell’offerta aggregata mentre le risorse vengono rimescolate all’interno dell’economia.Il secondo cambiamento chiave nel panorama macroeconomico è che la politica fiscale sarà chiamata a svolgere un ruolo maggiore, il che significa – mi aspetto – deficit pubblici persistentemente più elevati. Il ruolo della politica fiscale è classicamente suddiviso in allocazione, distribuzione e stabilizzazione, e su tutti e tre i fronti è probabile che le richieste di spesa pubblica aumentino.

La politica fiscale sarà chiamata a incrementare gli investimenti pubblici per soddisfare le nuove esigenze di investimento. I governi dovranno affrontare le disuguaglianze di ricchezza e di reddito. Inoltre, in un mondo di shock dell’offerta, la politica fiscale dovrà probabilmente svolgere anche un ruolo di stabilizzazione maggiore, un ruolo che in precedenza avevamo assegnato principalmente alla politica monetaria.

Abbiamo assegnato questo ruolo alla politica monetaria proprio perché ci trovavamo di fronte a shock della domanda che le banche centrali sono in grado di gestire. Ma un mondo di shock dell’offerta rende più difficile la stabilizzazione monetaria. I ritardi della politica monetaria sono in genere troppo lunghi per frenare l’inflazione indotta dall’offerta o per compensare la contrazione economica che ne deriva, il che significa che la politica monetaria può al massimo concentrarsi sulla limitazione degli effetti di secondo impatto.

Pertanto, la politica fiscale sarà naturalmente chiamata a svolgere un ruolo maggiore nella stabilizzazione dell’economia, in quanto le politiche fiscali possono attenuare gli effetti degli shock dell’offerta sul PIL con un ritardo di trasmissione più breve. Lo abbiamo già visto durante lo shock energetico in Europa, dove i sussidi hanno compensato le famiglie per circa un terzo della loro perdita di benessere – e in alcuni Paesi dell’UE, come l’Italia, hanno compensato fino al 90% della perdita di potere d’acquisto per le famiglie più povere.

Nel complesso, questi cambiamenti indicano una crescita potenziale più bassa man mano che si svolgono i processi di aggiustamento e una prospettiva di inflazione più volatile, con nuove pressioni al rialzo derivanti dalle transizioni economiche e dai persistenti deficit fiscali. Inoltre, abbiamo un terzo cambiamento: se stiamo entrando in un’epoca di maggiore rivalità geopolitica e di relazioni economiche internazionali più transazionali, i modelli di business basati su ampi avanzi commerciali potrebbero non essere più politicamente sostenibili. I Paesi che vogliono continuare a esportare beni potrebbero dover essere più disposti a importare altri beni o servizi per guadagnarsi questo diritto, pena l’aumento delle misure di ritorsione.

Questo cambiamento nelle relazioni internazionali inciderà sull’offerta globale di risparmio, che dovrà essere riallocato verso gli investimenti interni o ridotto da un calo del PIL. In entrambi gli scenari, la pressione al ribasso sui tassi reali globali che ha caratterizzato gran parte dell’era della globalizzazione dovrebbe invertirsi.

Questi cambiamenti comportano conseguenze ancora molto incerte per le nostre economie. Un’area di probabile cambiamento sarà la nostra architettura di politica macroeconomica.

Per stabilizzare il potenziale di crescita e ridurre la volatilità dell’inflazione, avremo bisogno di un cambiamento nella strategia politica generale, che si concentri sia sul completamento delle transizioni in corso dal lato dell’offerta, sia sullo stimolo alla crescita della produttività, dove l’adozione estesa dell’IA (intelligenza artificiale) potrebbe essere d’aiuto.

Ma per fare tutto questo in fretta sarà necessario un mix di politiche appropriato: un costo del capitale sufficientemente basso per stimolare la spesa per gli investimenti, una regolamentazione finanziaria che sostenga la riallocazione del capitale e l’innovazione, e una politica della concorrenza che faciliti gli aiuti di Stato quando sono giustificati.

Una delle implicazioni di questa strategia è che la politica fiscale diventerà probabilmente più interconnessa alla politica monetaria. A breve termine, se la politica fiscale avrà uno spazio sufficiente per raggiungere i suoi vari obiettivi dipenderà dalle funzioni di reazione delle banche centrali. In prospettiva, se la crescita potenziale rimarrà bassa e il debito pubblico ai massimi storici, la dinamica del debito sarà meccanicamente influenzata dal livello più elevato dei tassi reali.

Ciò significa che probabilmente aumenterà la richiesta di coordinamento delle politiche economiche, cosa non implicita nell’attuale architettura di politica macroeconomica. In effetti, questa architettura ha volutamente assegnato diverse importanti funzioni politiche ad agenzie indipendenti, che operano a distanza dai governi, in modo da essere isolate dalle pressioni politiche – e questo ha senza dubbio contribuito alla stabilità macroeconomica a lungo termine. Tuttavia, è importante ricordare che indipendenza non significa necessariamente separazione e che le diverse autorità possono unire le forze per aumentare lo spazio politico senza compromettere i propri mandati. Lo abbiamo visto durante la pandemia, quando le autorità monetarie, fiscali e di vigilanza bancaria hanno unito le forze per limitare i danni economici dei blocchi e prevenire un crollo deflazionistico. Questo mix di politiche ha permesso a entrambe le autorità di raggiungere i propri obiettivi in modo più efficace.

Allo stesso modo, nelle condizioni attuali una strategia politica coerente dovrebbe avere almeno due elementi.

In primo luogo, deve esserci un percorso fiscale chiaro e credibile che si concentri sugli investimenti e che, nel nostro caso, preservi i valori sociali europei. Ciò darebbe maggiore fiducia alle banche centrali che la spesa pubblica corrente, aumentando la capacità di offerta, porterà a una minore inflazione domani.

In Europa, dove le politiche fiscali sono decentralizzate, possiamo anche fare un passo avanti finanziando più investimenti collettivamente a livello dell’Unione. L’emissione di debito comune per finanziare gli investimenti amplierebbe lo spazio fiscale collettivo a nostra disposizione, alleggerendo alcune pressioni sui bilanci nazionali. Allo stesso tempo, dato che la spesa dell’UE è più programmatica – spesso si estende su un orizzonte di più anni – la realizzazione di investimenti a questo livello garantirebbe un impegno più forte affinché la politica fiscale sia in ultima analisi non inflazionistica, cosa che le banche centrali potrebbero riflettere nelle loro prospettive di inflazione a medio termine.In secondo luogo, se le autorità fiscali dovessero definire percorsi di bilancio credibili in questo modo, le banche centrali dovrebbero assicurarsi che l’obiettivo principale delle loro decisioni siano le aspettative di inflazione. Nei prossimi anni la politica monetaria si troverà ad affrontare un contesto difficile, in cui dovrà più che mai distinguere tra inflazione temporanea e permanente, tra spinte alla crescita salariale e spirali che si autoavverano, e tra le conseguenze inflazionistiche di una spesa pubblica buona o cattiva.

In questo contesto, una misurazione accurata e un’attenzione meticolosa alle aspettative di inflazione sono il modo migliore per garantire che le banche centrali possano contribuire a una strategia politica globale senza compromettere la stabilità dei prezzi o la propria indipendenza. Questo obiettivo permette di distinguere con precisione gli shock temporanei al rialzo dei prezzi, come gli spostamenti dei prezzi relativi tra settori o l’aumento dei prezzi delle materie prime legato a maggiori investimenti, dai rischi di inflazione persistente. Abbiamo bisogno di spazio politico per investire nelle transizioni e aumentare la crescita della produttività. Le politiche economiche devono essere coerenti con una strategia e un insieme di obiettivi comuni. Ma trovare la strada per questo allineamento politico non sarà facile. Le transizioni che le nostre società stanno intraprendendo, siano esse dettate dalla nostra scelta di proteggere il clima o dalle minacce di autocrati nostalgici, o dalla nostra indifferenza alle conseguenze sociali della globalizzazione, sono profonde. E le differenze tra i possibili risultati non sono mai state così marcate.

Ma i cittadini conoscono bene il valore della nostra democrazia e ciò che ci ha dato negli ultimi ottant’anni. Vogliono preservarla. Vogliono essere inclusi e valorizzati al suo interno. Spetta ai leader e ai politici ascoltare, capire e agire insieme per progettare il nostro futuro comune.

Dall’educazione gesuita alle più alte magistrature, la traiettoria di Mario Draghi è quella di un uomo che ha capito come funzionano le regole dell’Europa del XXI secolo per giocare le carte a proprio vantaggio. In questo ritratto straordinariamente vivace, Ben Judah ripercorre la serie di scommesse che hanno portato Mario Draghi alla presidenza del Consiglio italiano.

Se c’è una frase in Europa nell’ultimo decennio su cui la storia ha girato, è questa. Dopo un confuso preambolo che paragona l’euro a un calabrone che vola quando non dovrebbe, Draghi smette di leggere il suo copione e, per 16 secondi, guarda la telecamera. “Nell’ambito del nostro mandato, nell’ambito del nostro mandato… la BCE è pronta a fare tutto il necessario per preservare l’euro”. Fa una pausa e aggiunge, per sicurezza: “Credetemi, sarà sufficiente”. Nel giro di pochi secondi, la notizia è passata su tutte le stazioni radio del mondo; i miliardi speculati contro l’euro sono stati girati nella direzione opposta.

Mario Draghi è ora il primo ministro italiano. L’uomo che ha “salvato l’euro” è uscito dalla pensione per “salvare l’Italia” dalla pandemia. C’è un’Europa dello spirito: quella di Beethoven, delle vacanze estive e dell’odore del caffè. E poi c’è l’Europa di oggi, quella di Mario Draghi. Una creatura dell’Unione Europea, capite lui e capirete come fare amicizia a Bruxelles, come vincere le battaglie più importanti e come essere, tra 27 Paesi, veramente europei. Ma soprattutto, capite Draghi e capirete come funziona il potere nell’Unione. Ha costruito un’Europa tecnocratica ed è salito ai suoi vertici.

Draghi è nato a Roma. Non la città dei vecchi di oggi, ma la Roma di Fellini, degli attentati delle Brigate Rosse e del miracolo economico italiano: un mercato emergente in Europa, infuocato dalle agitazioni sindacali, dalla rivolta comunista e dalla gioia dei giovani. Ma mentre la sua generazione era selvaggia, flirtava con l’estremismo e sognava nuovi mondi nei campus, Draghi era docile e carico di responsabilità. Un outsider nel maggio 68.

C’è un’Europa dello spirito: quella di Beethoven, delle vacanze estive e dell’odore del caffè. E poi c’è l’Europa di oggi, quella di Mario Draghi.

BEN JUDAH

Avevo i capelli abbastanza lunghi”, confessa a Die Zeit, “ma non molto lunghi. E, a parte questo, non avevo genitori a cui potessi ribellarmi”. Suo padre, l’anziano e ben inserito banchiere Carlo Draghi, nato nel 1895, morì quando lui aveva 15 anni. La madre cominciò a declinare rapidamente poco dopo. A 16 anni, al ritorno dalle vacanze, trovò ad attenderlo una pila di conti non pagati. Draghi rimase orfano a 19 anni.

Gli amici ricordano che il suo aspetto composto nascondeva un’ansia genuina. Maurizio Franzini, un economista, una volta condivise il suo ufficio: “Diceva sempre: “Non sembro ansioso. Ma sono molto ansioso”. Al momento di entrare all’università, ossessionato dalle discussioni con il padre e da uno dei suoi primi ricordi, un viaggio in treno con il governatore della Banca d’Italia, Draghi scelse economia alla Sapienza di Roma. Ma è stata la sua formazione secondaria, non l’università, che, secondo chi lo conosce meglio, lo ha reso quello che è.

“È stato ben formato dai gesuiti”, dice Vincenzo Visco, che ha lavorato a stretto contatto con lui come Ministro delle Finanze e poi del Tesoro. “Gli hanno insegnato a essere prudente, riservato e ad ascoltare. È un cattolico sociale. Parlare gesuita significa molte cose per gli italiani. È un segno di classe che lo lega inesorabilmente a Massimiliano Massimo, l’equivalente romano di Eton per i gesuiti, dove Draghi ha studiato con i figli di ministri e magnati. È il segno di un’educazione severa e rigorosa, impartita da sacerdoti eruditi; ed è un privilegio. Per gli europei è spesso un modo per attirare l’attenzione sul suo modo di fare: pedagogico, preciso, ombroso e, se necessario, spietato.

Herman Van Rompuy, ex presidente del Consiglio europeo e autore di haiku, lo trovava divertente. In più di un’occasione, durante le notti peggiori della crisi dell’euro, osservando un tavolo composto da Mario Monti e Mariano Rajoy, allora primi ministri di Italia e Spagna, seduti accanto a Draghi, l’ex primo ministro belga ha scherzato: “Siamo bravi studenti gesuiti, stiamo cercando di trovare un compromesso”.

Ma come tutte le buone battute, implicava qualcosa di serio: che questi uomini di una confraternita segreta fondata per salvare la Chiesa fossero ora al servizio dell’Europa. “Forse non sai”, dice Mario Tiberi, un vecchio collega accademico, “che i gesuiti hanno un mantra del loro fondatore Sant’Ignazio di Loyola sul servire la visione di Dio: todo modo.

Mentre un’ondata di omicidi politici seguiva il 1968, Draghi imparò la prima lezione della vita politica. Bisogna sempre trovare il mentore giusto. Il suo nome era Federico Caffè. In mezzo al clamore, viveva, come dicevano i suoi studenti, “come un monaco”. Caffè è influente: il principale economista keynesiano italiano. Convinto che Draghi fosse brillante, lo presentò a Franco Modigliani, economista italiano del MIT, che lo accettò come studente. Ma doveva ancora finire la sua tesi. “Era sulla moneta unica e conclusi che la moneta unica era una follia, qualcosa da non fare in nessun caso”, racconta Draghi in occasione di un evento in onore del suo mentore.

Mentre un’ondata di omicidi politici seguiva il 1968, Draghi imparò la prima lezione della vita politica. Bisogna sempre trovare il mentore giusto. Il suo nome era Federico Caffè.

BEN JUDAH

Al MIT Draghi è stato allievo di coloro che avrebbero plasmato il discorso economico dell’epoca. Egli sottolinea con orgoglio che cinque dei suoi professori hanno vinto il Premio Nobel: Paul Samuelson, Bob Solow, Franco Modigliani, Peter Diamond e Robert Engle. I suoi colleghi – Ben Bernanke, Paul Krugman, Kenneth Rogoff e Olivier Blanchard – sono diventati rispettivamente i sommi sacerdoti della Federal Reserve, del New York Times, dell’austerità e del FMI. Mentre inizia a delinearsi il nuovo mondo dei tassi di cambio fluttuanti, della libera circolazione dei capitali e dei banchieri centrali dotati di poteri, si è formato un circolo di economisti. Insieme, stanno dando forma all’era neoliberista.

Draghi non cerca dogmi. A differenza dei suoi mentori, l’economia di Draghi non si è mai chiusa in una teoria, ma ha continuato a muoversi in avanti, sempre un punto a sinistra rispetto al centro. Per lui questo è pragmatismo. A quarant’anni, ha deluso il suo mentore di sinistra. Draghi è ora direttore della Banca Mondiale. Nell’aprile del 1987, sopraffatto dal dolore di vedere il neoliberismo trionfare sull’economia di sinistra, i suoi discepoli morti o scomparsi, Caffè, il grande keynesiano, scompare. Non lo vedremo mai più. Alcuni dicono che si sia suicidato, altri che si sia ritirato in un monastero sulle Alpi, per nascondersi dal mondo che vedeva arrivare.

Nel febbraio 1992, Draghi era nella stanza di Maastricht quando è nato l’euro: era uno dei principali consiglieri del primo ministro italiano Giulio Andreotti quando firmò il trattato. Da tempo si era lasciato alle spalle il Caffè, la sinistra e la sua tesi di laurea. L’atmosfera era ottimista: la popolarità e il successo della nuova moneta unica dell’Unione avrebbero travolto tutti. Tanto che alla conferenza stampa Helmut Kohl scommise sei bottiglie di vino tedesco che la Gran Bretagna avrebbe aderito al progetto nel 1997. “Il governo fa sempre quello che vuole la City”, si vanta. “La City farà in modo che la Gran Bretagna entri nell’Unione monetaria.

Gli inglesi se ne andarono con un opt-out; gli italiani con condizioni così dure che i tedeschi si stupirono di averle accettate. Il secondo mentore di Draghi, Modigliani, è stufo. La decisione di firmare è stata di Draghi: era uno dei due italiani con l’autorità ultima di valutare le condizioni. Aveva consigliato al Presidente del Consiglio di procedere con quella che nella sua tesi ha definito una “follia”: l’unione monetaria senza unione politica ed economica. Perché? La risposta: la sua teoria neoliberista della politica italiana.

Mezzogiorno a Roma. Negli anni ’90, una città di politica, vicoli e corridoi. Le campane del Senato suonano a festa. Gli affari si aggiornano a Palazzo Montecitorio. Le tute si sparpagliano. I giornalisti urlano domande. Questo torrente di attività sembra riversarsi e invadere le strade intorno a Piazza Navona. Le trattative proseguono sotto gli ombrelloni della gelateria Giolitti. I funzionari incontrano i ministri all’Hotel Forum. Questo è l’habitat naturale di Draghi. Capo del Tesoro dal 1991, è qui che il quarantenne funzionario ha fatto tutto il necessario per portare il suo Paese nella moneta unica: regolare le banche italiane, gestire il debito e privatizzare oltre 100 miliardi di euro. Draghi è più che indispensabile. Sta costruendo il neoliberismo italiano.

Non c’è scuola migliore di Roma per la politica dell’euro: è già un gioco di politici deboli e tecnocrati potenti. Un quadro astratto italiano è appeso sopra la sua scrivania nel Palazzo delle Finanze. Fuori, la “Prima Repubblica” si sta sgretolando. Smascherata come un’accozzaglia clientelare di connessioni mafiose e tangenti, i quattro partiti del governo estromesso nel 1992 stavano per scomparire.

A tenere in vita il Paese è la burocrazia più forte d’Italia: gli ingegneri finanziari della pubblica amministrazione guidati dal primo Presidente del Consiglio tecnocratico del Paese, Carlo Azeglio Ciampi. Draghi è nel suo elemento. Il capitalismo, secondo lui, ha delle regole. Finché i politici si tolgono di mezzo e i tecnocrati creano la struttura giusta, la crescita sarà stabile. Questa è la filosofia del MIT. In un altro continente, i suoi ex studenti continuano a crescere. Come economisti, credono nell’intervento: per aiutare il mercato a funzionare.

Draghi è più che indispensabile. Sta costruendo il neoliberismo italiano.

BEN JUDAH

Ecco perché l’euro è un imperativo. Il capitalismo può fornire le regole – e la struttura – che mancano all’Italia. I politici sono ora limitati nella politica macroeconomica. Con l’adesione alla moneta unica, le leve fondamentali della macroeconomia – le principali politiche fiscali e monetarie – vengono sottratte alle mani della politica interna. Questa strategia è nota come vincolo esterno.

L’Italia sta andando così bene. La sua economia è più grande di quella della Gran Bretagna; il suo tenore di vita si avvicina a quello della Germania. I primi anni ’90 sono stati il momento migliore dell’Italia: il vino toscano ha superato quello francese negli Stati Uniti. Gucci e Prada conquistano il mondo. I magnati non erano disposti a rischiare. Vogliono aiuto. Nel 1992, il giovane Draghi attirò l’attenzione di uno degli uomini più ricchi d’Italia, Carlo De Benedetti, all’epoca proprietario de La RepubblicaL’Espresso e una serie di quotidiani regionali. I due si incontravano spesso e discutevano dell’euro. “Se l’Italia non fosse stata nell’eurozona, sarebbe stata come l’Egitto o il Nord Africa”, ricorda De Benedetti. Questo è ciò che le élite temevano negli anni Novanta: senza il vincolo, un ritorno agli anni Settanta.

Ma De Benedetti capisce subito che Draghi è una sfinge. Segreta. Intelligente. Non dà mai indizi. Ma cosa vuole da lui? “Una volta gli ho chiesto a bruciapelo: io traggo beneficio dalle nostre conversazioni. Ma tu cosa ne ricavi?”. Draghi sorrise: “Mi rispose che gli piaceva parlare con qualcuno nella vita reale”. De Benedetti aveva ragione a chiederlo. Perché Roma aveva già insegnato a Draghi alcune lezioni importanti. Non far sapere mai a nessuno quello che pensi, a meno che non sia necessario. E sempre, sempre, sempre farsi gli amici giusti: tra i media e i magnati. Un giorno avrete bisogno del loro favore.

Il tocco politico di Draghi non passa inosservato. In Parlamento viene spesso chiamato “Mr Britannia”, a causa dei suoi interminabili incontri con i banchieri londinesi. Salvatore Biasco, allora deputato di sinistra, osservò dalla sua commissione che Draghi giungeva lentamente a quella che sarebbe stata la sua più grande consapevolezza: che è da tecnocrate che si può esercitare il massimo potere. “Si comportava come un ministro del Tesoro, non come un funzionario pubblico”, ricorda Biasco. “Era una sorta di ministro del Tesoro ombra. È stato lì, come politico non eletto, che ha affinato la Draghipolitik tecnocratica che avrebbe plasmato l’Europa”.

Tutte le storie di denaro europeo finiscono a Londra. Nel 2002, Draghi divenne vicepresidente di Goldman Sachs International. Amici, seminari, magnati: tutto aveva dato i suoi frutti. Proprio come la sua strategia, a quanto pare. Certo, è stato un populista, Silvio Berlusconi, a diventare nuovamente Presidente del Consiglio nel 2001. E allora? È intrappolato dal vincolo: le sue mani sono lontane dalle vere leve del potere. I tecnici finanziari di Roma sono rilassati. L’Italia non è stata scialacquatrice: ha accumulato un grande debito nazionale negli anni ’80 a causa degli alti interessi applicati, in gran parte per abbassare l’inflazione e tenere il passo con il sistema monetario europeo che ha preceduto l’euro. Il boom in arrivo è destinato ad erodere questo debito.

La generazione di Draghi pensava di avere ragione. Fino al 2008. La crisi finanziaria ha rivelato che questi ingegneri avevano commesso un terribile errore. Avevano rotto un sistema che avrebbero passato il resto della loro carriera a cercare di aggiustare.

La generazione di Draghi pensava di avere ragione. Fino al 2008. La crisi finanziaria ha rivelato che questi ingegneri avevano commesso un terribile errore. Avevano rotto un sistema che avrebbero passato il resto della loro carriera a cercare di aggiustare.

BEN JUDAH

In questo modo, i banchieri centrali, che erano i tecnocrati responsabili della definizione delle regole del capitalismo, diventano i gestori politici della crisi e, così facendo, riorganizzano per sempre il potere nell’Unione.

Draghi avrà la possibilità di unirsi a questi nuovi superuomini. Prima uno scandalo di corruzione ha reso vacante il posto di governatore della Banca d’Italia. Poi, rifiutandosi di appoggiare la politica monetaria non ortodossa della BCE per combattere la crisi, il capo della Bundesbank, da tempo indicato come successore del francese Jean-Claude Trichet, ha ritirato la sua candidatura. Con Berlino fuori dai giochi, il posto di capo della BCE è stato aperto al banchiere centrale di un altro grande Stato.

La gestione dei media ha permesso a Draghi di ottenerlo nel giugno 2011. I media tedeschi detestano l’idea di un italiano all’Eurotower. Angela Merkel esita. De Benedetti riceve una telefonata: il conto della colazione è finalmente arrivato. Secondo De Benedetti, il solitamente soave Mario era isterico. “Era impazzito”, ricorda De Benedetti. La Bild pubblicò un articolo in prima pagina sull’Italia. Mamma mia, per gli italiani l’inflazione è uno stile di vita, come la salsa di pomodoro con gli spaghetti”, si legge nel titolo, “Mi chiamò e mi disse: ‘Cosa puoi fare per me'”, ricorda De Benedetti, “Temeva che avrebbe danneggiato la sua immagine”. Fu organizzato un incontro con il proprietario del tabloid. Ne seguì un ritratto luminoso, con una foto in prima pagina di Draghi che accettava un elmo prussiano con punte dalla Bild. “Mario è sempre stato molto riconoscente”, dice De Benedetti. Coltivare la sua immagine tecnocratica è stato al centro della Draghipoltik fin dall’inizio.

Anche Draghi ha adottato un approccio politico alla sua posizione di direttore. Anche in questo caso, è fortunato. Jean-Claude Trichet ha concluso il suo mandato così male che qualsiasi successore avrebbe fatto una bella figura al confronto. Secondo lo storico Adam Tooze, “lasciando l’incarico, Trichet, sostenendo solo governi di austerità sul mercato, ha aiutato Berlino a costruire l’austerità nel circuito stampato dell’Unione”. Cattiva economia: è questo che porta alla depressione dei consumatori, che prolunga la recessione. Ma Draghi è andato oltre. Nell’agosto 2011 ha firmato una lettera segreta al governo italiano: una nota di austerità che sollecitava tagli e riforme del lavoro. Roma era terrorizzata, Berlino era entusiasta. Facendo notare che Francoforte era disposta a mettere la sua liquidità solo al servizio di un certo tipo di politica, aprì la porta all’estromissione di Berlusconi. Al suo posto è subentrato un governo tecnocratico, che il leader estromesso ha definito un “colpo di Stato” da parte dell’Unione.

L’entourage di Draghi continua a plasmare il capitalismo: Ben Bernanke è a capo della Fed e Stanley Fischer è a capo della Banca d’Israele. A Francoforte, Draghi tratta l’Eurotower come il Tesoro di Roma, vantandosi: “In ogni conferenza stampa da quando sono diventato presidente della BCE, ho concluso la dichiarazione introduttiva con un appello ad accelerare le riforme strutturali in Europa”. I banchieri centrali hanno superato il limite: non sono più tecnocrati, ma politici.

Entrare alla BCE di Francoforte è come indossare un paio di cuffie a cancellazione di rumore. Tra il vetro blu e gli ascensori, tutto è improvvisamente silenzioso. Ma il suo freddo gelido è stato teatro di alcune delle riunioni più importanti d’Europa. Poco dopo essere diventato banchiere centrale, Maurizio Franzini, un vecchio amico, chiese a Draghi come facesse a sopportare l’ansia di un lavoro così importante: “Rispose che faceva ancora docce fredde tutte le mattine, una tecnica che aveva imparato negli Stati Uniti per tenersi in forma”.

A Francoforte, Draghi padroneggia le tre modalità del potere europeo: quella carismatica – la politica della persuasione – con cui rivendica il potere per la sua istituzione; quella tecnica – la politica delle regole – con cui è l’esecutore delle politiche dell’Unione in Grecia; e quella analitica – la politica dei numeri – con cui vince la battaglia per guidare i flussi di capitale con il quantitative easing (QE). Presi insieme, questi elementi formano la Draghipolitik, con la quale egli muove il quadrante tedesco. La sfida sta nel disegno stesso di ciò che la Germania ha accettato.

François Mitterrand aveva fatto dell’euro il prezzo dell’unificazione. Aveva obbligato Kohl a rispettare vaghi impegni a favore di una moneta unica, sui quali egli temporeggiava, minacciando il vicecancelliere Hans-Dietrich Genscher che, in caso di mancato impegno, la Germania si sarebbe trovata di fronte a una “triplice alleanza” tra Gran Bretagna, Francia e URSS che l’avrebbe isolata. In termini retorici, le sue esternazioni furono estreme. “Torneremo al mondo del 1913”, minacciò Bonn.

La Francia voleva l’euro per limitare il potere tedesco. Mitterrand disse che il marco tedesco era “l’arma nucleare” della Germania. Temeva che se non avesse avuto voce in capitolo sui tassi di interesse tedeschi, Parigi sarebbe stata costretta a seguirli per sempre. Si sbagliava. L’arma nucleare non era la moneta, ma il credito tedesco. Accettando una moneta unica senza eurobond, un bene sicuro a cui tutti potevano attingere per finanziarsi in caso di problemi, le obbligazioni tedesche erano diventate il bene sicuro dell’eurozona. Berlino aveva ora un veto di fatto sulla politica del debito.

L’errore di Mitterrand rafforzò il potere tedesco. Le esportazioni tedesche esplosero, mentre quelle italiane divennero meno competitive e quelle francesi ristagnarono. L’euro aveva reso i prodotti tedeschi più economici di quelli in marchi tedeschi e quelli italiani più costosi di quelli in lire. Berlino ha potuto contrarre nuovi debiti senza troppi rischi. Altri Paesi non sono stati così fortunati. Dopo il 2008, i governi più deboli avevano bisogno che l’UE acquistasse i loro titoli, li salvasse e collettivizzasse il loro debito. Ma Kohl aveva accettato l’euro a condizione che non ci fosse un debito collettivo e che la BCE non finanziasse direttamente i governi. Berlino ha dovuto essere convinta. La politica dell’euro è diventata un gioco in cui tutti ballano intorno ad Angela Merkel per cercare di convincerla ad aprire i rubinetti. In questo gioco, Draghi è il re.

Kohl aveva accettato l’euro a condizione che non ci fosse un debito collettivo, che la BCE non finanziasse direttamente i governi. Berlino doveva essere convinta. La politica dell’euro sta diventando un gioco in cui tutti ballano intorno ad Angela Merkel per cercare di convincerla ad aprire i rubinetti. In questo gioco, Draghi è il re.

BEN JUDAH

Il problema dell’Unione europea non è che è un superstato, ma che non è uno Stato. Era sorta una crisi e la soluzione era chiara. Ma non c’era un’autorità centrale che la attuasse. I politici, da Podemos a Syriza, erano stati eletti per costruire una zona euro più equa. Ma le loro mani erano lontane dalle vere leve del potere.

È qui che entra in gioco la Draghipolitik: l’arte tecnocratica di muovere Berlino. Draghi ha ricevuto un invito permanente a far parte del Consiglio europeo da parte del suo presidente, Van Rompuy: un livello di accesso agli intermediari del potere molto più alto di quello del presidente della Fed o del governatore della Banca d’Inghilterra. È qui che inizia a trasformare la BCE in una vera banca centrale e lui stesso in un attore. Innanzitutto, Draghi usa il suo potere carismatico per convincere la Merkel e i mercati a muoversi. Secondo Nicolas Véron, uno dei principali ricercatori sulla crisi dell’euro, Draghi ha svolto un ruolo storico come “pedagogo in capo” che ha convinto la Cancelliera ad accettare l’unione bancaria nel 2012. È qui che Draghi ha eccelso”, afferma Van Rompuy. Aveva un grande potere di persuasione: parlava chiaro, andava dritto al punto e aveva un’autorità naturale”. Ha spiegato alla Merkel: è nell’interesse della Germania e questo è il minimo che dovete fare”. Questi sono i punti di forza e i limiti della Draghipolitk. È la politica che, ancora oggi, secondo i presenti nella stanza di allora, lo mette estremamente a disagio: stabilisce i termini vaghi dell'”indipendenza” della banca.

L’Unione bancaria era abbastanza credibile per dire che Berlino era dietro l’eurozona. Poi l’ha moltiplicata. Guardare Draghi dire “whatever it takes” è stato come Hegel che guarda Napoleone a Jena. “È davvero una sensazione meravigliosa”, scrisse Hegel, “vedere un tale individuo che, concentrato in un solo punto, a cavallo di un cavallo, si estende sul mondo e lo domina”.

Ma chi era il cavaliere? Era Draghi? La Merkel? O i mercati? Secondo il filosofo politico Luuk van Middelaar, all’epoca consigliere di Van Rompuy, quei sedici secondi contenevano tutto. “Se si ascolta attentamente, prima c’è il tecnocrate. Dice: ‘entro il nostro mandato’. Poi c’è il politico, ‘qualsiasi cosa sia necessaria’. E solo dopo c’è l’autorità carismatica: ‘E credetemi, sarà sufficiente’. Ed è questo che lo rende il cavaliere. Il giorno dopo, Hollande e Merkel hanno confermato. Aveva spianato la strada alla BCE per sostenere i mercati del debito sovrano. La sua autorità carismatica aveva convinto i trader che dietro l’euro c’era un potere: usare il minimo indispensabile.

In qualità di ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis si è trovato di fronte a un’altra delle qualità politiche di Draghi: la spietatezza. Visto da Francoforte, si profilava all’orizzonte un default greco seguito da un collasso del sistema bancario europeo, a meno che la Grecia non fosse riuscita a riportare la situazione sotto controllo. Quando Atene ha cercato di scaricare maggiormente l’onere sui creditori mettendo ai voti il piano di salvataggio nel 2015, Draghi ha segnalato che avrebbe posto fine agli aiuti di emergenza alle sue banche. “L’azione libera contro di noi era guidata da Mario Draghi”, ricorda Varoufakis nelle sue memorie. È stata la politica europea delle regole nella sua forma più brutale. Tuttavia, punendo gli Stati più scialacquatori dell’Unione con piani di austerità, Varoufakis si è guadagnato la fiducia di Berlino per portare avanti la Draghipolitik.

Infine, ma non meno importante, Draghi padroneggia il potere analitico, cioè la politica dei numeri. Su un powerpoint, durante una riunione del Consiglio direttivo, Giuseppe Ragusa, ex economista senior della BCE, lo ha visto sconfiggere la frugale Bundesbank per lanciare il quantitative easing nel 2014. “Il modo in cui è riuscito a convincere le persone a fare quello che ha fatto”, dice Ragusa, “è stato spostare il dibattito politico sui numeri reali”.

Questi incontri cambieranno ancora una volta il capitalismo europeo. I mercati veramente liberi che si sono aperti negli anni ’70 con l’abolizione dei controlli sui capitali si sono chiusi. Il capitalismo gestito sta arrivando in Europa con la BCE che incoraggia i mercati a comprare attività più rischiose acquistando oltre 2.800 miliardi di dollari di attività sicure fino al 2018. Questo è l’ultimo atto di intervento senza redistribuzione. Draghi era convinto che l’euro non sarebbe sopravvissuto alla deflazione e a una terza recessione senza questo intervento. Ma i suoi errori stanno aggravando lo stesso problema che stava cercando di risolvere con l’austerità, prolungando il dolore nel sud.

Un sussurratore, un esecutore, un calcolatore. Non sono queste le qualità che ci aspettiamo da un grande uomo. Ma questo significa fraintendere il funzionamento dell’Unione. La sua macchina è stata costruita per depoliticizzare la politica, e chi riesce meglio prospera; un burocrate senza pretese diventa Napoleone. Grazie alla Merkel, ai media e ai dati, la Draghipolitik ha avuto la meglio su Jens Weidmann, capo della Bundesbank. “Draghi considerava Weidmann un suo nemico personale”, ha detto De Benedetti. Si tratta per lo più di una faccenda in sordina. Ma una volta, durante una cena, racconta Salvatore Bragantini, un’amica, la moglie Maria Serenella Cappello, si è lasciata sfuggire la cosa: “Quindi lei è nemico di mio marito”, ha detto, cogliendolo di sorpresa”.

Mentre la crisi aveva reso lo Stato più dipendente dalla finanza, la finanza sta diventando più dipendente dallo Stato. E uomini come Draghi hanno svolto un ruolo centrale in questo senso. Queste vittorie rivelano un’enorme abilità. Hanno reso la BCE un’istituzione ancora più potente della Banca d’Inghilterra. Ma sottolineano anche quanto la sua generazione si sia sbagliata. Avevano scommesso su una casa semi-costruita per l’Europa come chiave per la stabilità. Ma l’unione monetaria senza unione fiscale ha portato instabilità. Avevano scommesso su regole neoliberali per il capitalismo e su un ritorno al passato: è esploso. Hanno scommesso sull’austerità: hanno affrontato una depressione. Questi errori li hanno resi – i banchieri centrali d’élite del mondo che dovevano poi sistemare tutto – più potenti della maggior parte dei politici.

Durante il suo breve ritiro, dopo il 2019, Draghi trascorre molto tempo al telefono. Chiama i presidenti, passati e presenti: Bill Clinton, Emmanuel Macron. O gli altri superman che hanno diretto le banche centrali durante la crisi: Ben Bernanke, ex della Fed; Mark Carney, ex capo della Banca d’Inghilterra, o Stanley Fischer, che ha diretto la Banca d’Israele. “È l’unico uomo in Italia che può chiamare chiunque nel mondo”, dice De Benedetti. Ha costruito la sua carriera sulle sue reti. Così come la sua fortuna: una casa a Roma, una in Umbria, una sulla costa laziale e una nuova villa in Veneto.

Nel corso della sua vita, le scommesse personali e politiche di Draghi hanno pagato. Ma allo stesso tempo, la sua grande scommessa, quella fatta con l’Italia – il vincolo esterno – è fallita. L’aspetto geopolitico è fallito: non ha aiutato a gestire il potere tedesco. La parte economica è fallita: l’Italia ha mantenuto uno dei regimi di bilancio più severi d’Europa, registrando un avanzo primario quasi ogni anno dal 1995. Eppure l’Italia è diventata più povera. Nel 2000, il suo tenore di vita medio era pari al 98,6% di quello tedesco. Oggi, il reddito pro capite italiano è inferiore del 20% rispetto a quello d’oltralpe. Queste sono le conseguenze a lungo termine dell’austerità, delle riforme in scatola e di un euro che rende le esportazioni non competitive. Il debito accumulato dall’Italia negli anni ’80 è diventato il suo albatros. La crescita di Draghi non è mai arrivata.

Nel corso della sua vita, le scommesse personali e politiche di Draghi hanno pagato. Ma allo stesso tempo, la sua grande scommessa con l’Italia – il vincolo esterno – è fallita.

BEN JUDAH

E proprio nel suo successo, la politica ha fallito. I politici populisti e le coalizioni che flirtavano con l’uscita non potevano sfuggire all’ordine stabilito da Draghi. Ma l’Italia è rimasta intrappolata in un circolo vizioso di populisti sempre più deboli, punteggiato da deboli tecnocrati. Entrambi hanno fallito alle loro condizioni. Senza i mezzi per realizzare una macroeconomia favorevole alla crescita, i politici di Roma sono interessati alla politica dell’identità, non alle riforme. La crescita è soffocata. Il governo è debole. Dopo tutto, l’Italia aveva bisogno di leader forti.

L’Italia è passata da essere un Paese di Brigate Rosse a un Paese di vecchi. L’industria italiana, il calcio italiano e il cinema italiano sono in declino. Una delle generazioni più ambiziose d’Italia è emigrata di nuovo. Nel 2010, il programma televisivo di culto Boris ha catturato questa sensazione acida. “Questo è il futuro dell’Italia”, diceva uno sceneggiatore in una battuta diventata emblematica. “Un Paese di canzoni felici, mentre fuori c’è solo la morte”.

All’inizio della pandemia, la stessa storia si è ripetuta. Ma questa volta Macron ha convinto la Merkel a muoversi sulle sue linee rosse fondamentali: il debito collettivo dell’UE. La Germania ha accettato di concedere una tantum 750 miliardi di euro in prestiti Covid e sovvenzioni di stimolo. Il successo di Macron è arrivato solo quando ha smesso di sembrare Yanis Varoufakis in Grecia, con discorsi alla Sorbona che sottolineavano il suo mandato, e ha adottato la Draghipolitik per far muovere Berlino. È stata una svolta decisiva nelle manovre contro l’Europa frugale che Draghi aveva iniziato.

Ma l’Italia non è solo un Paese del passato: è il Paese, a quanto pare, degli stessi uomini. Un’ultima volta è stato pronto quando un altro uomo ha commesso un errore. “Da quando ha lasciato la BCE, il fantasma di Draghi aleggia sull’Italia”, dice una fonte. “È stato dopo la vicenda del piano di stimolo che si è interessato a un ritorno politico.

Telefonate al Presidente, telefonate a Renzi, telefonate a Berlusconi, quando il governo di Giuseppe Conte implode, Draghi ha un’idea. Sarà un premier tecnocratico, ma con un tocco: un governo essenzialmente politico, che riunirà tutti i partiti tranne quello di estrema destra. Si presenta come una soluzione al problema stesso che il vincolo esterno aveva alimentato: politici deboli e incapaci di guidare. Sono felici di usarlo.

“Secondo lo storico Marcel Gauchet, la verità è che gli europei non sanno cosa hanno costruito. Questo è ciò che rivelano le lotte di Draghi. Come europei, la sua generazione ha costruito un edificio di transizione per l’Italia. L’euro significa che non possiamo tornare a modelli nazionali di gestione economica, svalutazione e default. Ma anche la strada da percorrere, verso la riduzione del debito, i trasferimenti e l’unione fiscale, è bloccata. La politica dei mandati non funziona: l’unica politica che sembra funzionare è la Draghipolitik.

Alzando la maschera nel Parlamento italiano, il tecnocrate senza partito – ma maestro di politica – osserva la sua coalizione di sei partiti, che vanno dai populisti di destra della Lega alle schegge dell’estrema sinistra. Vede anche la sua opportunità storica. Nessuno meglio di lui sa che la vera politica dell’Europa è quella del debito della zona euro.

Ecco perché Bruxelles e Parigi stanno osservando Draghi. Riuscirà a investire i 200 miliardi di euro del piano di rilancio dell’Italia? “Il Presidente del Consiglio vede la sua missione economica in questo modo”, afferma un alto funzionario italiano. Sta cercando di dimostrare come il nuovo debito comune del piano possa rilanciare la crescita italiana”. Draghi ha sostenuto la necessità di un forte backstop fiscale per affrontare i rischi futuri dell’eurozona”. Spendendo saggiamente il denaro, Draghi vuole rendere il fondo una rete di sicurezza permanente. Se riuscirà a mantenere la sua coalizione, Draghi potrà governare in questo modo fino alle prossime elezioni, previste per il 2023. Ma prima di allora, quando il mandato di Matarella scadrà l’anno prossimo, dovrebbe puntare alla presidenza. “Questo è stato a lungo il ruolo che avrebbe preferito”, ha detto una fonte. Piuttosto che un ruolo cerimoniale, con i poteri di costruzione delle coalizioni che si aprono nel sistema italiano, gli permetterebbe di essere un vincolo interno.

Un crollo dell’euro è ormai improbabile. Questa è la sua eredità. Il rischio che corre l’Europa oggi è che il sistema dell’euro – la casa incompiuta – faccia lentamente all’Unione nel suo complesso quello che ha fatto all’Italia, mettendola su una traiettoria permanente di crescita più bassa. L’Unione europea ha bisogno di un debito comune per una ripresa più collettiva. Ma gli eredi della signora Merkel saranno d’accordo? Con tutte le implicazioni per la sovranità di quella che in definitiva non è altro che un’unione di trasferimenti? Finché nessuno riuscirà a compiere il doloroso passo successivo del consolidamento, il rischio è che l’Unione continui a perdere la battaglia della globalizzazione. Draghi sta mostrando cosa è possibile fare.

Alzando la maschera nel Parlamento italiano, il tecnocrate senza partito – ma maestro di politica – osserva la sua coalizione di sei partiti, che vanno dai populisti di destra della Lega alle schegge dell’estrema sinistra. Vede anche la sua opportunità storica. Nessuno meglio di lui sa che la vera politica dell’Europa è quella del debito della zona euro.

BEN JUDAH

Ma il prezzo della Draghipolitik è questo: consolidamento senza democrazia. Élite potenti con elettori alienati. Una politica che solo uomini come lui possono fare. Il che, indebolendo i partiti e l’importanza delle elezioni, rende ancora meno praticabile l’unica altra via per ottenere un’Europa migliore: un movimento transnazionale e democratico per un’eurozona più giusta. La draghipolitik può offrire una via per una soluzione tecnocratica, ma aggrava il problema politico.

Oggi è al passo con i tempi: promettendo di condurre l’Italia fuori dal neoliberismo, le sue ultime proposte fiscali sono perfettamente in linea con la Bidenomics. Ma questo non basta. Ora deve fare il contrario di ciò che ha iniziato a fare: incoraggiare una nuova generazione di politici forti a succedergli. Questo è l’unico modo per rompere il ciclo che sta indebolendo l’Italia.

Draghi ama citare Le Guépard, il grande romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa sull’adattamento di un nobile siciliano alla vita nella nuova Italia unita da Cavour e Garibaldi. “Tutto deve cambiare perché tutto rimanga uguale” è la massima ironica che viene spesso citata. Eppure, alla fine del romanzo, l’Italia unita è davvero arrivata.

Ma che tipo di Europa è questa? Questo sistema, il sistema di Draghi, è un sistema che si è depoliticizzato per sopravvivere. E ci è riuscito. Ma al costo di non saper più distinguere tra stabilità e stagnazione. Un sistema che può fare solo il minimo indispensabile. Non tutto.

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Industria e diritto di fronte allo smantellamento delle catene del valore_Intervista a Fabio Londero

Una intervista significativa che offre diversi spunti importanti che toccano alcune chiavi importanti di interpretazione che informano la produzione di questo sito. Intanto l’estensione del concetto di profitto, non solo nelle sue modalità di calcolo, anche esse discrezionali, ma anche dei criteri legati alla efficienza, alla solidità, alla possibilità di esistenza e, quindi, di mantenimento e perpetuazione del comando e del potere dei dirigenti. Figure, quindi, impegnate nel perseguimento di strategie politiche. Un altro aspetto riguarda il legame necessario che le aziende, il loro staff manageriale, devono mantenere, essendone anche l’espressione, con il proprio contesto sociale/culturale e, soprattutto, con i centri decisori nello Stato. Qui occorre fare una distinzione, del resto adombrata dallo stesso intervistato. Quella del legame originario con uno Stato egemone o, quantomeno, in possesso delle piene prerogative sovrane oppure con uno Stato dai centri decisori subordinati e sottomessi. Paradossalmente, l’autonomia strategica e decisionale delle aziende radicate in questi ultimi risulta spesso essere maggiore rispetto alle prime, anche se di fatto, in proporzione alla strategicità e peso delle loro attività, finiscono progressivamente per essere risucchiate dalla volontà egemonica dei centri decisori degli stati dominanti o da assumere questi come riferimento. La stessa esigenza di uniformazione dei principi etici, organizzativi e giuridici delle multinazionali deve appoggiarsi al tentativo degli stati egemoni di imporre la propria giurisdizione, il proprio intervento ed il proprio diritto nell’agone internazionale. L’insistenza sulle crescenti difficoltà delle multinazionali a mantenere coerenza ed unitarietà, operatività in un contesto geopolitico sempre più frammentato espressa nell’intervista è di per sé eloquente. A parere dello scrivente l’autore mette di fatto in discussione diversi punti fermi che vincolano e distorcono il dibattito oltre che in parte della corrente di pensiero dominante, soprattutto nell’area contestatrice dell’attuale assetto geopolitico/geoeconomico sino a rendere quest’ultima sterile e impotente. Tra questi il tema della cosiddetta crisi sistemica del capitalismo, del suo sistema unitario, tema per altro ricorrente almeno negli ultimi due secoli; la contrapposizione tra sistemi a dominio capitalistico da una parte, nella fattispecie il mondo occidentale a predominio anglo-statunitense, e sistemi a controllo politico; l’asserito predominio assoluto nei primi dei “nani della finanza” e della natura parassitaria del loro predominio e della predazione, anch’esso un tema ricorrente, almeno dalla fine del ‘800, nella narrazione antagonista. Si tratta, certamente, di una narrazione che “facilita” enormemente l’individuazione di un avversario perfettamente circoscritto, nella figura e nella dimensione, surdeterminato e, quindi, facilmente additabile al ludibrio delle “moltitudini”. Facili, però, quanto distorcenti di una realtà, esattamente come i mulini a vento del don Chisciotte.

Tocca ai Sancio Panza di turno introdurre qualche elemento di realtà più complesso, più scomodo, ma forse più proficuo alla costruzione di un disegno politico più impervio, ma più praticabile e meno fallimentare:

  • il modo di produzione capitalistico, in quanto rapporto sociale di produzione, è ormai da tempo presente nell’universo mondo e, devo dire, ambìto, pur in diverse modalità e intensità, da tutti i centri decisori delle varie formazioni sociali e statuali
  • una presenza diffusa che deve quindi pagare lo scotto di un adattamento ai contesti storici, culturali e territoriali, agli assetti di potere delle varie formazioni sociali; contribuendo quindi a plasmarli, ma anche ad essere plasmati e ad essere differenziati. Più che di capitalismo, si dovrebbe parlare, quindi, di capitalismi, per meglio dire di centri decisori capitalisti in cooperazione e conflitto tra loro, ma facenti parte, comunque, di centri decisori politici e strategici dagli interessi e da punti di vista più ampi rispetto alle mire di mero conseguimento di profitto
  • rispetto alle dinamiche capitalistiche interne, più che di crisi sistemica, parlerei di crisi cicliche o di crisi sistemiche propedeutiche alla formazione di nuovi assetti… appunto capitalistici
  • quanto al carattere finanziario e parassitario del capitalismo occidentale e al predominio politico assoluto delle sue figure occorre precisare e delimitare numerosi aspetti. Osservando il percorso dei flussi e il loro utilizzo si può facilmente osservare che anche quelli a carattere più speculativo, pur favorendo e alimentando in parte singoli protagonisti di natura parassitaria, assolvono in ultima istanza ad una funzione di drenaggio a fini di esercizio di potenza politica e di strategie politiche e di conformazione più o meno funzionale e coesa delle formazioni sociali-statuali dominanti; lo stesso ambito finanziario è molto articolato ed è riconducibile solo in parte ad attività speculative puramente parassitarie; nelle stesse attività finanziarie sono implicate quelle stesse imprese multinazionali che non sono avulse dalla produzione dei beni, ma che ne controllano le filiere e le catene globali di produzione con l’azione e il sostegno fondamentale degli stati egemonici

Per concludere un ragionamento che meriterebbe altri spazi ed altra profondità, più che di centri decisori finanziari egemonici nel mondo occidentale, parlerei di “strateghi del capitale” (Gianfranco La Grassa), non solo finanziari, facenti parte a pieno titolo, ma con peso più o meno relativo, di centri decisori strategici politici in competizione e conflitto tra di essi a fini di potere e di conformazione delle formazioni sociali, quindi anche di costruzione di identità e collettività e di obbligo e necessità di costruzione di una qualsivoglia coesione sociale, delle quali sono espressione. Nell’azione dei quali l’aspetto economico è solo parte ed è intriso dell’azione politica e delle finalità politiche di potere. Ambito, quello economico, che, con l’affermazione del modo capitalistico, ha assunto forme sempre più sofisticate e pervasive e, nei periodi di affermazione egemonica, carattere di apparente neutralità ed oggettività. Può assumere un interesse predominante tuttalpiù nelle periferie dei sistemi imperiali. Questo vale, pur in diversa misura e in diverse fasi storiche per tutte le formazioni sociali e per tutti i poli in via di formazione.

Possono sembrare sottigliezze fini a se stesse. In realtà hanno implicazioni particolarmente pesanti nel dibattito e nell’azione politica. Nella fattispecie nella caratterizzazione “neomedievale” delle future società, con annessa debilitazione del potere statale ridotto e conteso da altre figure, tese a generalizzare, secondo le tesi di importanti centri di pensiero (Rand), una condizione di crisi dello Stato altrimenti propria invece di alcune formazioni sociali declinanti in particolare del mondo occidentale, squassate da conflitti interni distruttivi; nella visione “populistica” del rapporto assolutamente determinante tra centri decisori, élites tout court e strati bassi della società; nel rapporto tra “moltitudini” e cupole ristrette di potere. In altre parole in una riduzione semplicistica delle stratificazioni sociali, delle gerarchie, della funzione delle élites e delle dinamiche del conflitto politico e sociale, di quelle geopolitiche e di conflitto orizzontale tra centri. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Industria e diritto di fronte allo smantellamento delle catene del valore

FABIO LONDERO — “Non c’è un’etica condivisa lungo la supply chain”: stiamo per far deragliare le catene del valore con i nostri valori?

In un mondo rotto e sempre più regolamentato, le multinazionali che avevano puntato su una crescita globalizzata e su un diritto uniforme rischiano di disgregarsi. Per Fabio Londero, General Counsel del gruppo siderurgico friulano Danieli, le conseguenze negative dell'”effetto Bruxelles” potrebbero essere fatali.

Fabio Londero è un giurista d’impresa, Group General Counsel della multinazionale friulana Danieli, tra i leader mondiali nella produzione di impianti siderurgici.

Fare impresa in un mondo, allo stesso tempo, globalizzato e frammentato, costringe a confrontarsi con notevoli rischi, di carattere economico, politico e giuridico. Negli ultimi anni si è sviluppata un’altra tipologia di rischio, che concerne, più che altro, l’immagine di una impresa di fronte all’opinione pubblica. Trattasi del cosiddetto rischio reputazionale, strettamente legato al concetto di etica d’impresa. In cosa consiste e quanto rileva all’interno della vita di una multinazionale?

Penso sia utile ripartire dall’insegnamento, che oggi sembra così sorpassato, di Milton Friedman, secondo cui l’impresa deve perseguire gli interessi degli azionisti, nel rispetto della legge. Tale massima, e in particolare la sua seconda parte, ossia la mera conformità dell’attività di impresa rispetto all’ordinamento giuridico vigente, rimane per me un canone fondamentale. È chiaro poi che tale approccio debba essere senz’altro rimodulato alla luce del contesto. Ho sempre avuto dubbi, però, sull’agire etico dell’azienda. John Locke, qualche secolo fa, evidenziava come l’etica fosse passata dalla religione allo Stato. Ora sembra che sia passata, in parte, dallo Stato alle aziende. Solo che l’impresa, e in particolare la multinazionale, è composta da un insieme di valori spesso differenti, non comprimibili in una scelta politica del consiglio di amministrazione. Una multinazionale, pure se occidentale, lavora in decine e decine di paesi e contesti giuridici e culturali profondamente diversi: è impossibile, se non proprio controproducente, trascurare idee e valori estranei ai nostri, così come non è possibile ignorare i quadri giuridici dei paesi in cui si opera, che sono dettati dai più svariati fattori di carattere politico, economico e culturale. Il principio di realtà per affrontare questo mondo frammentato dovrebbe essere informato da logiche che permettano all’impresa di rimanere efficiente, senza una adesione totale agli scontri politici e valoriali in atto. Anche perché, quando dico che l’impresa dovrebbe limitarsi a perseguire i profitti nel rispetto della legge, non intendo solo il cosiddetto lucro; profitto deriva dal latino proficĕre, che significa innovare, perfezionare, essere efficienti. Questo deve essere secondo me il paradigma dominante, specie in un contesto geopolitico così turbolento.

Spesso un’attività, seppure lecita secondo leggi e consuetudini in vigore, ciononostante subisce un vaglio di tipo etico. Da qui il dilemma: agire semplicemente in conformità delle leggi, assumendosi il rischio del danno reputazionale, o rinunciare a determinate attività e affari in via preventiva, per evitare possibili condanne morali? Trattasi, in ultima istanza, di una analisi costi-benefici? 

Molto spesso, la prima domanda che si pone un manager di una multinazionale è: tale azione è legale o illegale? Se è legale, la decisione è quasi già presa. Questo è – e secondo me dovrebbe pure rimanere – il paradigma tradizionale. È chiaro poi che quando si opera nei mercati globali vi sono certi rischi di carattere reputazionale. Credo però che spesso questa dimensione del danno da immagine sia eccessivamente sopravvalutata: se il prodotto è valido, l’eventuale danno da immagine lascerà il tempo che trova. Dopodiché, mi chiedo: si può dire che il danno reputazionale è lo stesso per le decine di paesi in cui la multinazionale opera? O è solo quello occidentale? La catena del valore è anche una catena dei valori, che passa per molteplici sistemi, tradizioni, culture. Non c’è un’etica condivisa lungo la supply chain. Per questo insisto sul fatto che l’unico imperativo da seguire, ulteriore rispetto ai profitti, sia quello legale: il limite e lo spazio dell’agire di impresa è e deve essere solo quello tratteggiato dai diversi legislatori.

John Locke, qualche secolo fa, evidenziava come l’etica fosse passata dalla religione allo Stato. Ora sembra che sia passata, in parte, dallo Stato alle aziende.

FABIO LONDERO

In merito al rischio reputazionale, sempre più centrale è il tema ambientale. Da qui, i vari criteri ESG, norme e direttive comunitarie, codici di condotta, raccomandazioni e soft law. Si richiede all’impresa, insomma, di essere il più possibile sostenibile, specie in Europa. Quanto incide o potrà incidere il tema ambientale nell’attività di impresa?

La decisione di perseguire una politica ambientale, sul fronte, ad esempio, della produzione di beni industriali, molto spesso non deriva da una decisione di carattere ideologico-politico assunta in qualche consiglio di amministrazione sotto la spinta delle raccomandazioni di Bruxelles. È molto più probabile, invece, riscontrare scelte aziendali che hanno origini nel tempo e che nascono da intuizioni, sviluppo di nuove competenze tecniche e, soprattutto, esigenze della clientela. Mi permetto di fare un esempio riferito all’azienda per cui lavoro, la Danieli & C. Officine Meccaniche S.p.A. Negli anni ci siamo ritagliati un ruolo leader nel cosiddetto green steel, ma questo perché? Non si tratta di una mera decisione di essere sostenibili, ma di un insieme di dinamiche di impresa, come i clienti che vogliono prodotti più efficienti, l’individuazione di soluzioni tecnologiche e competenze, l’intuizione di nuovi mercati. Grazie a questa combinazione di fattori, anni fa si è deciso di andare oltre al paradigma dei grandi impianti tipico degli anni ’60, investendo invece nella maggiore efficienza dei micro-impianti, di dimensioni più contenute e più localizzati (in prossimità dei clienti), con impatti positivi in termini di minore inquinamento, minore spesa energetica e via dicendo. Un passo avanti verso la sostenibilità, ma guidato da logiche decisamente più complesse – e, mi si permetta, capitalistiche – della mera decisione dall’alto di darsi un volto verde.

Un classico esempio dell’approccio dell’Unione europea è quello attuale della Direttiva sulla Corporate sustainability due diligence (CS3D), che impone diversi accorgimenti alle multinazionali sul fronte della sostenibilità lungo la supply chain. Cosa ne pensi?

Penso che stiamo assistendo ad una bulimia di normative, parametri, direttive, raccomandazioni di soft law. Il che ha implicazioni non solo in relazione ai maggiori rischi giuridici, ma anche sul fronte dei costi, tanto che a volte mi chiedo provocatoriamente quanto sia sostenibile la sostenibilità. Peraltro, oltre al tema dei costi, vi è un discorso di fattibilità. Pensiamo proprio alla Direttiva CS3D: identificare nuovi oneri e adempimenti è facile, ma chi si ritrova a doverli applicare deve fare fronte alla complessità della supply chain. Andare a ritroso nella catena per verificare se uno delle centinaia di fornitori rispetta o meno determinati principi non solo è piuttosto complicato (oltre ad ulteriori accorgimenti di compliance, nel concreto cosa deve fare l’impresa? Ispezioni tra decine e decine di paesi?), ma riporta anche a quanto già detto sulla catena, che non è solo del valore, ma dei valori: questi principi possono valere per noi occidentali, ma non per altre realtà, che rispondono a differenti sistemi culturali e giuridici. Un uso eccessivo di tali strumenti rischia di tradursi in quello che chiamo “imperialismo dei valori”: ossia l’errore di assumere la nostra prospettiva come universale, mentre il mondo – e lo vediamo ogni giorno – è eterogeneo, “particolare”. Da cittadino italiano o europeo posso anche essere d’accordo sull’attenzione verso certi valori, ma per un’impresa conta anche il principio di realtà.

Vi sono poi le implicazioni giuridiche di tali politiche e legislazioni o para-legislazioni ambientali. Uno dei rischi più concreti è che a livello giudiziario inizino ad essere adottate decisioni basate su principi che non si fondano su normative cogenti e certe, bensì su parametri, standard e best practices di soft law. Se i tribunali, nonostante l’assenza di vere e proprie leggi vincolanti, cominciassero ad applicare tale apparato di soft law alla stregua di un principio generale dell’ordinamento, questo si tradurrebbe in un panorama di profonda incertezza, ove alla fine l’attività di impresa finirebbe per dipendere dalla sensibilità del singolo giudice. Mancherebbero la prevedibilità e la calcolabilità del rischio giuridico. E il soft law rischierebbe di tramutarsi in hard law, non per opera del legislatore, bensì di un giudice.

La catena del valore è anche una catena dei valori, che passa per molteplici sistemi, tradizioni, culture. Non c’è un’etica condivisa lungo la supply chain.

FABIO LONDERO

Quali possono essere le implicazioni di queste fratture, anche valoriali e non solo politiche, all’interno delle catene del valore?

Se la divisione politica e valoriale dovesse essere perseguita in modo netto, nella direzione di un sempre minore dialogo tra sistemi giuridici e culturali differenti, il rischio concreto è quello di una frammentazione dell’attività aziendale, nell’ottica di una divisione per aree: così, per fare un esempio, la multinazionale Alpha si scinderebbe, di fatto, in un ramo con un brand occidentale, uno orientale e via dicendo, secondo regimi valoriali e legislativi diversi e, dunque, separandone i destini e la comunicabilità, come avvenuto in parte nel caso Sequoia riportato da Jeremy Ghez in un articolo su Grand Continent. Il punto è che una multinazionale è, dalla prospettiva economico-produttiva, un tutt’uno organico. È impossibile dividerla senza romperla, ad esempio creando Alpha Cina, Alpha Usa e Alpha Italia e pretendendo logiche, politiche e decisioni radicalmente diverse a seconda del contesto. L’azienda è interconnessa, vi è un flusso di conoscenze, competenze e rapporti che non si può scindere, a mio parere. La tecnologia, ad esempio, è una, attraverso la quale si progetta, si realizza, si produce. Come si può suddividere il patrimonio in entità separate e tra loro non comunicanti? Significherebbe, di fatto, privare la multinazionale della sua ragion d’essere organizzativa, economica e aziendale.

© Danieli Corus

Negli ultimi anni, le tensioni che percorrono il panorama internazionale hanno sollevato un ulteriore interrogativo per le imprese. Come muoversi rispetto alla politica estera dello Stato di riferimento? E, soprattutto, si può dire che pure le multinazionali, in ultima istanza, non prescindono dalla frammentazione del panorama in Stati nazionali e dalla singola bandiera che, nonostante le numerose filiali e sussidiarie, le identifica?

Dal mio punto di vista, non si può ignorare il fatto che ogni impresa ha un’origine, che per forza di cose è in un certo paese e secondo la sua legge. L’importanza del nesso tra impresa controllante e Stato di origine, e relativa politica estera, è pacifica. Detto questo, ribadisco – rifacendomi soprattutto all’esperienza delle aziende produttive, che è la realtà che conosco meglio – un punto fondamentale: una multinazionale che produce determinati beni opera in diversi paesi e siti produttivi. Ciò significa che, il più delle volte, ci sono migliaia di dipendenti in giro per il mondo, in percentuali maggiori di quelle presenti nello Stato d’origine. Se il cuore è in un posto, vi sono tante altre parti del corpo dislocate per decine e decine di paesi, che hanno altrettanta rilevanza. Peraltro, il tema secondo me si complica quando si va a discutere di filiali aperte in un altro Stato. Queste filiali sono disciplinate dal diritto dello Stato in cui sono costituite, non da quello dello Stato d’origine della controllante. Penso al tema delle sanzioni, la cui complessità deriva anche e soprattutto dalla diversità dei sistemi giuridici che informano le filiali lungo la catena. Spesso, il diritto che le regola non è quello occidentale che ha imposto le sanzioni, pur considerando la portata extraterritoriale che questo intende assumere. Nel momento in cui un soggetto opera all’estero, accetta anche le normative locali di riferimento. Questo rende meno scontata l’implementazione di certe politiche.

La catena non è solo del valore ma dei valori: questi principi possono valere per noi occidentali, ma non per altre realtà, che rispondono a differenti sistemi culturali e giuridici.

FABIO LONDERO

In uno scacchiere globale così anarchico, paiono paralizzati i vari sistemi sovranazionali di risoluzione delle dispute, dagli arbitrati internazionali al WTO, mentre proliferano misure protezionistiche di carattere unilaterale: cosa significa questo nel concreto? Ci troviamo di fronte ad una rivincita, ammesso abbia mai perso, della diversità, tra molteplici Stati nazionali, giurisdizioni, culture, confini e interessi contrapposti, rispetto alle pretese unificatrici del mercato?

Nelle dinamiche politiche, così come in quelle economiche, a partire soprattutto dall’entrata della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001, ci si è illusi sull’esistenza di un mondo pacifico e globalizzato, paradigma che oggi si scontra con un contesto geopolitico radicalmente cambiato. Certo, per una multinazionale il mondo piatto e unificato dal mercato sarebbe il contesto più auspicabile, ma la realtà non è più questa, ammesso sia mai stato veramente così.

Uno degli indici più concreti e interessanti per registrare tali cambi di paradigma è proprio quello delle controversie internazionali, che le multinazionali affrontano ogni giorno. Pensiamo all’arbitrato internazionale: anche in presenza di lodi arbitrali favorevoli, che ad esempio riconoscono il diritto ad ottenere dei beni di una impresa estera, nel concreto la possibilità di enforcement, ossia di eseguire questi lodi nello specifico paese per ottenere tali asset, è spesso impedita da una serie di misure protezionistiche delle singole realtà statuali. Tale tendenza sconfessa, da un certo punto di vista, l’idea del mercato globale regolato da un regime giuridico universale e uniforme. Nonostante le Convenzioni sottoscritte, di fatto risulta sempre più difficile vedersi riconosciuta la sentenza internazionale, a causa di barriere più o meno surrettizie che vengono innalzate dai singoli Stati. Così, anche se si ottiene un lodo favorevole contro un’impresa cinese, o egiziana o brasiliana e via dicendo, poi nel momento in cui si va ad eseguire tale lodo nei rispettivi paesi ove si trovano gli asset, ci si vede opporre una qualche eccezione di ordine pubblico interno che impedisce il riconoscimento del credito. E a cosa serve un lodo arbitrale internazionale che non si riesce a eseguire nel concreto? L’arbitrato internazionale è nato proprio come modello ideale di risoluzione delle controversie a livello sovranazionale, per evitare di affidarsi a sistemi giuridici statali di paesi problematici, ma ciò non è stato sufficiente a svincolare la realtà dalla concreta geografia degli asset, ossia dalla giurisdizione del singolo Stato in cui bisogna poi eseguire i lodi. Questo diventa un problema soprattutto con i soggetti locali, che hanno beni localizzati solo nel proprio Stato di riferimento, mentre le multinazionali hanno quantomeno asset più dislocati.

Trattasi di un altro fattore che può indurre alla frammentazione delle imprese in sezioni tra loro separate. Isole produttive, economiche e giuridiche sempre più indipendenti l’una dall’altra, in modo da ridurre i rischi di essere aggrediti e avvalersi, al caso, delle protezioni domestiche dello Stato. Un mondo che si frammenta in un arcipelago di isole la cui comunicazione è sempre più ridotta. Dai mercati globali ai mercati interni, con una separazione di fatto della capogruppo dalle proprie ramificazioni nei singoli paesi, con minore, se non nullo, trasferimento di ricchezze, competenze e tecnologie. Il problema, però, è che, come dicevo, la multinazionale è un tutt’uno organico, che necessita di scambi, interconnessioni. Ho dei dubbi sulla fattibilità, in concreto, di questo sistema ad arcipelago. Il rischio è che a forza di frammentare si finisca, sostanzialmente, per rovesciare le fondamenta su cui poggia una multinazionale contemporanea.

Una multinazionale è, dalla prospettiva economico-produttiva, un tutt’uno organico. È impossibile dividerla senza romperla

FABIO LONDERO

Rinnovata centralità dello Stato e della politica estera da un lato, maggiore sensibilità delle opinioni pubbliche, specie occidentali, dall’altro. È ormai impossibile per un’impresa emanciparsi dalla tenaglia composta da queste due dimensioni? Ogni fase di transizione comporta rischi, opportunità, cambi di paradigma. Quale può essere secondo te il ruolo della multinazionale al termine, se mai vi sarà un termine, di questo interregno?

Sono dell’idea che in questo mondo frammentato le aziende dovrebbero adottare una politica di basso profilo. Non bisogna ignorare la tenaglia di cui parli, ma proprio perché vi sono plurime e spesso eterogenee pressioni, l’obiettivo potrebbe essere quello tradizionale di perseguire il profitto, inteso come innovazione, efficienza, valore dell’azienda. In questo contesto non si può ignorare il quadro geopolitico, né quello dell’opinione pubblica, ma l’impresa ha una sua dimensione e deve fare i conti con i continui rapporti con le proprie ramificazioni. Quando mi confronto con un manager di un paese straniero, con valori diversi da miei, cosa devo fare? Chi ha ragione? Magari dal mio punto di vista occidentale ho ragione io, però non credo sia nell’interesse dell’impresa alzare un muro per tale mancata condivisione di un’etica comune. Per questo l’azienda dovrebbe fare un passo indietro: alla fine, cosa unisce i diversi manager? Degli scambi efficienti che portino ricchezza. Anche perché le imprese, come soggetti, non hanno alternativa, salvo perdere mercati o dividersi.

Poi certo, c’è chi potrebbe dire che proprio per le turbolenze geopolitiche di questa fase storica le imprese dovrebbero partecipare attivamente alla politica estera dei propri Stati. Questo però dipende dal contesto. Negli Stati Uniti si è sempre registrato, storicamente, un dialogo tra dimensione pubblica e privata, pensiamo alla nascita di Internet, ma stiamo parlando di un mercato enorme e di un paese con una politica estera piuttosto definita, centrale nella sua proiezione. Ma noi italiani? O noi europei? Possiamo avere buoni rapporti con le istituzioni di riferimento, certo. Ma pensiamo all’Europa: al momento è ancora percorsa da diverse geografie politiche, non è una nazione. Esiste veramente una politica industriale europea? Esiste una politica antitrust. O ambientale tuttalpiù. Ma qual è la politica estera e di sovranità europea? Se non si diventa un soggetto politico, si rimane, sostanzialmente, dei mercanti.

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