Il disadattamento delle élites. Le risposte di Paolo Galante

Il sito italiaeilmondo.com ha iniziato a rivolgere quattro domande a Aurelien[1], e continua a proporle, identiche, a diversi amici, analisti, studiosi italiani e stranieri.

Oggi risponde ad alcune delle domande Paolo Galante

Qui il collegamento con la raccolta di tutti gli articoli sino ad ora pubblicati_Giuseppe Germinario, Roberto Buffagni

 

1) Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?

2) Sono errori di una classe dirigente o di un’intera cultura?

3) La guerra in Ucraina manifesta una crisi dell’Occidente. È reversibile? Se sì, come? Se no, perché?

4) Cina e Russia, le due potenze emergenti che sfidano il dominio unipolare degli Stati Uniti e dell’Occidente, dopo il crollo del comunismo si sono ricollegate alle loro tradizioni culturali premoderne: Il confucianesimo per la Cina, il cristianesimo ortodosso per la Russia. Perché? Il ritorno all’indietro, letteralmente “reazionario”, può attecchire in una moderna società industriale?

Il mio contributo alle domande poste è di proporre una riflessione sui fondamenti filosofici alla base della concezione del mondo secondo la tradizione e secondo la modernità. Ho tralasciato, pertanto, di trattare le tematiche geopolitiche, delle quali – sebbene io sia interessato alla geopolitica in generale – non sono un esperto, concentrandomi invece sulla contrapposizione tradizione/modernità.Paolo Galante

L’antitesi tradizione/modernità dovrebbe, a mio avviso, essere collocata in una dimensione metastorica, in quanto afferisce a delle concezioni del mondo che sono costantemente presenti nella psiche collettiva, e che in questo terreno sempre si confrontano e scontrano. Per me, quindi, ha poco senso parlare di tradizione come cosa riguardante il passato e modernità come riguardante il presente. Le 2 opposte filosofie, come ci insegna Giambattista Vico, si alternano nel tempo il dominio nelle coscienze. Oggi come oggi, tuttavia, vige incontrastato la filosofia della modernità.

Ma vediamo quali, a mio avviso, sono i presupposti su cui si fondano la tradizione e la modernità. Per me, esistono solo 2 filosofie intese come modalità di rapportarsi all’essere, e ciò perché 2 sono pure le logiche che presiedono non solo al pensiero, ma anche alla nostra vita psichica: quella basata sul principio di non contraddizione e quella sul principio di contraddizione ( dialettica). Così la pensava Eraclito, la filosofia cinese con la contrapposizione di Yin e Yang ecc. A dire il vero,però, non c’è bisogno ndi far riferimento a blasonate correnti filosofiche per rendersi conto che ogni essere si relaziona al mondo in base a 2 solo categorie: il bene e il male. Quindi, tradizione e modernità altro non rappresentano che 2 diversi approcci all’eterna contrapposizione fra bene e male, contrapposizione della quale tutte le altre sono soltanto riedizioni in forma simbolica di questa.

Credo che tutti concordiamo nell’individuare nell’illuminismo il momento cruciale di trapasso dalla tradizione alla modernità, che determinò un approccio alla tematica bene/male fondato sul principio di non contraddizione. Secondo questo principio bene e male sono opposti inconciliabili, per cui fra di loro nessuna collaborazione è possibile, per cui dal male non può venir alcun bene. Il male, pertanto, diviene qualcosa di ingiustificabile quindi da estirpare. Per il pensiero della tradizione, invece, la contrapposizione esiste nel presente per produrre quella tensione per volgere l’essere a realizzare nel futuro l’essenza stessa dell’essere, l’unità: unità di bene e male, in quanto il male è concepito come uno strumento per distaccarci da un bene materiale onde spronarci a realizzare un bene spirituale. Certo, che il male sia al servizio di un bene spirituale non è dimostrabile. Lo si può credere solo con la fede, una fede che la modernità ha smarrito. Il pensiero della tradizione pone a fondamento dell’essere il bene, cioè l’idea che il bene è causa e scopo dell’essere. Anche le religioni condividono questa idea, non per niente Giovanni Gentile dimostrò apprezzamento per il cristianesimo, anche se ne ridimensionò il valore, relegandolo al ruolo di filosofia per il popolo, a causa delle molte aporie del suo sistema teologico. Dall’idea, o meglio, dalla fede che l’essere e il bene coincidano ne discende una concezione positiva della vita, da cui un approccio psicologico a tutta quella gamma di sentimenti che corroborano il valore della vita stessa: fiducia nel prossimo, amore per il bello, convinzione della significatività della vita, apertura fiduciosa al futuro. Che la vita sia significativa implica,poi, che nel mondo viga il principio della giustizia e, soprattutto, la fede che il male sia uno strumento finalizzato a promuovere il bene. Solo così, infatti, il male, ciò che è espressione dell’insignificanza assoluta, acquista significato. La fede in Dio quale fondamento dell’essere,su cui si fonda la tradizione, rende la vita significativa non tanto perché rappresenta un argomento giustificativo del potere, avvalorando la struttura gerarchica della società; non tanto perché giustifica il potere sulla base che “ omnis potestas a Deo”; ma in quanto la fede, più che in un ipotetico essere metafisico, è fede nell’attributo primo di Dio,il sommo bene, fede dunque che l’essere è bene. Non quindi una fede come credenza in una narrazione che si pretende reale della storia sacra e del piano di salvezza di Dio, ma fede che attinge la verità sull’essere in virtù del sentimento che l’essere e il bene coincidono. Se ciò è vero, allora tale verità non è cosa da pensare ma da sentire; non è un concetto e neppure un fatto, ma un sentimento. Ribadiamolo, che l’essere sia bene non è dimostrabile con la razionalità del principio di non contraddizione, ma lo si può sentire solo entrando in quello stato di coscienza che si relaziona all’essere mediante la logica del principio di contraddizione. Così posta, la verità sull’essere diventa pertanto non di natura oggettiva, un qualcosa posto fuori di noi ( ob- iectum), che di conseguenza sarebbe conoscibile mediante la facoltà oggettiva dell’essere, che è il pensiero fondato sulla logica del principio di non contraddizione; ma diventa di natura soggettiva. Intendiamoci, non soggettiva in quanto opinabile, e quindi diversa da persona a persona, ma in quanto siamo noi come soggetti a creare la verità. E la creiamo lavorando sulla nostra coscienza onde sintonizzarla su quella che è l’autentica natura dell’essere, il bene. La conoscenza dell’essere non è dunque passiva ricezione di una verità a noi esterna, ma attiva costruzione di essa; in altre parole, non è cosa da pensare, ma da essere: conosciamo la verità diventandola.

Per la tradizione, la conoscenza è prioritariamente rivolta verso l’interiorità che l’esteriorità, quindi volta a trasformare se stessi piuttosto che il mondo esterno: una conoscenza che privilegia le discipline che sono espressione del lato soggettivo della psiche invece di quello oggettivo. Da qui la grande fioritura artistica della civiltà preilluministica, mentre minore, rispetto a quello che sarà a partire dall’illuminismo, era l’interesse per le discipline tecno-scientifiche. Già prima dell’illuminismo, comunque, l’oggettivazione del mondo aveva cominciato ad assestare dei colpi significativi al pensiero della tradizione. A cavallo fra il 1500 e il 1600, infatti, Galileo enunciò la tesi che “ le leggi del mondo sono scritte in caratteri matematici”. Da ciò ne conseguirebbe che il creato funziona secondo la logica oggettiva delle macchine. Dio diviene così il grande architetto o, come usava dirsi, il grande orologiaio. Da garante dell’ordine fondato sul bene, diventa una sorta di meccanico celeste, il cui compito è di far funzionare il mondo secondo la logica quantitativa delle macchine. Ma un Dio che pensa e opera sulla base della logica quantitativa, a ragion di logica, è lui stesso una macchina. Infatti,la logica quantitativa è tanto più efficiente nel suo operare quanto più sono espunti da essa i tratti qualitativi della soggettività.

Se, come abbiamo detto, a fondamento della tradizione c’è la fede in Dio, a fondamento della modernità l’ateismo, o, quanto meno, una crescente emancipazione da Dio in tutte le sfere della vita pubblica, riducendo il rapporto col divino a mero fatto privato. Ora, quello che più caratterizza la modernità è il fatto che l’emarginazione di Dio comporta ipso facto negare che il bene, di cui Dio è la massima e perfetta manifestazione, sia causa e fine dell’essere. Si capisce, allora, perché per la modernità, sia assurdo quanto affermato dal mistico tedesco, Jacob Boehme, che “ le leggi del mondo sono di carattere morale”. Per essa, il creato funziona esclusivamente secondo leggi meccaniche, quindi secondo una logica fondata sulla necessità, una logica che, escludendo la libertà, porta anche a escludere la coscienza, quale forza agente sul mondo accanto a quelle meccaniche.

E’ curioso, a questo proposito, osservare quanto il pensiero della modernità sia messo in discussione da una della sue figlie più legittime, la fisica, la più profonda della scienze della materia. Infatti, alcuni dei più grandi teorici della meccanica quantistica ipotizzano ceh la coscienza agisca sulla materia al pari delle altre forze oggettive, se non a un livello ancor più profondo.

Ma ritorniamo al rapporto fra essere e bene. Nonostante tutto il nichilismo di cui è capace, neppure la modernità può negare che gli esseri viventi, pur funzionando unicamente secondo leggi oggettive, aspirino a un bene che non è solo oggettivo, di natura materiale; ma anche a un bene di natura psicologica. Ora, per il meccanicismo la logica a fondamento dell’essere è solo quella del principio di non contraddizione, da cui il corollario del principio di causa-effetto, per il quale tutto ciò che è esiste solo come conseguenza di una causa passata. Ciò, ovviamente, vien fatto valere anche per il bene. Quindi, dalla modernità il bene viene pensato solo come prodotto da una causa posta nel passato, dimensione della necessità ( etimologicamente, la necessità è ciò che pone fine al moto); ciò esclude che possa esistere un bene causato dal futuro, cioè dalla tensione della volontà verso una meta futura. Ma con ciò si esclude pure che la volontà possa essere causa del bene. E, se non lo è, come può esistere un bene psicologico, visto che la volontà è a fondamento della psiche? Semplice, per la modernità anche la volontà è conseguenza di una causa passata, il che comporta l’escludere l’essenza stessa della volontà, che è la libertà di scegliere il proprio futuro. Libertà e volontà sarebbero, dunque, un’illusione; il bene di natura psichica pure.

Analizziamo ora le assurdità e il conseguente nichilismo cui la modernità giunge prima in campo filosofico-psicologico e poi in quello politico-sociale.

Nichilismo in campo filosofico-psicologico

L’idae che il bene risponda alla logica del principio di causa-effetto comporta porre la radice del bene nel passato. Di conseguenza, l’idea di bene assume le caratteristiche proprie del passato: la finitezza, l’essere espressione della necessità. Da ciò ne discende il ritenere che il bene non sia attingibile mediante le facoltà psichiche che ci proiettano nel futuro, cioè la libertà, la volontà. Anzi, come già detto, per il pensiero della modernità, esse sono facoltà illusorie. Ma libertà e volontà stanno a fondamento della coscienza, e quindi della soggettività. Quindi, l’escludere che il bene sia in relazione a esse implica che esso afferisca solo alla sfera oggettiva dell’essere: un bene, pertanto, che non ha a che fare col sentimento, la passione, l’idealità, l’etica; ma solo con ciò che è materiale e, quindi, destinato a finire. Il bene, quale lo concepisce la modernità, è, dunque, espressione soltanto di ciò che nel nostro essere è finitezza. Essa si manifesta come:

  1. identificazione del nostro essere con l’ego. Conseguenza di ciò, poi, è l’incapacità e anche il rifiuto di costruire legami con gli altri. Rifiuto perché, se il mio essere è tutto contenuto dentro il finito del mio ego, il costruire legami con gli altri mi metterebbe in contatto con il non essere. L’amore, l’amicizia, la solidarietà, tutto ciò che è legame costituirebbe, pertanto, un’esperienza di annichilamento del mio essere.

  2. Propensione a restringere la propria progettualità esistenziale al futuro immediato, quando non all’istantaneità del presente; quindi una progettualità avente per meta qualcosa di immediatamente a portata di mano, un bene da poter afferrare, quindi materiale, che gratifica subito.

D’altra parte, è evidente che un essere, che si sente come finito, concepisca pure il bene come finito, perché difetta delle qualità con cui tendersi oltre il finito: la pazienza e l’amore.

La pazienza è la capacità di saper attendere intesa come disposizione d’animo di tendere verso (at-tendere) il futuro perché fiduciosi che il bene autentico non sta nel finito del passato o nell’istantaneità del presente, ma nell’infinito del futuro: un bene quindi di natura immateriale. Per quanto riguarda l’amore, quello autentico ha la radice nella pazienza, in quanto sa attendere la sua ricompensa. Anzi, addirittura la vuole attendere, nel senso che tale amore non vuole un bene immediato, perché sarebbe un bene collegato al finito; ma un bene che lo metta nella stato psichico del tendersi oltre: oltre il finito dell’ego, dell’immediatezza del presente. Nell’atto di tendersi oltre i confini del proprio ego, questo amore deborda dal finito in cui identificava il suo essere per darsi al di fuori, e nel momento stesso del darsi riceve. Ora, per il principio di non contraddizione, proprio della filosofia della modernità, è assurdo che gli opposti, dare e ricevere, possano essere percepiti come un’unità; non per la filosofia della tradizione fondata sul principio dialettico.

Donare è far sì che il bene non ristagni dentro i confini dell’ego, ma si volga oltre il proprio finito. Quello che si riceve è allora un sentimento di espansione del proprio essere. Infatti, se essere e bene coincidono, il mio essere si estenderà fin dove farò giungere il mio bene. Per essere più chiari: estendere il bene oltre il confine del proprio ego significa donarlo agli altri, farli compartecipi del proprio bene; in tal modo, però, stante l’identità di essere e bene, diventiamo compartecipi anche del loro essere, la nostra vita si estende nella loro vita.

Ciò che si riceve donando, dunque, è l’accedere a uno stato di coscienza che sente l’essere come cosa che sta oltre, quindi come continuo superamento delle barriere del finito, superamento della separazione fra io e altro per giungere alla realizzazione di un altro attributo dell’essere: l’unità. Aggiungiamo ora che, per la proprietà transitiva, dato che l’essere è bene e che l’essere è uno, anche il bene è uno. Il bene è autentico solo se è bene comune.

Il bene, secondo l’accezione datane dalla modernità, non è relazionato invece alla pazienza né all’amore autentico. Non lo è alla prima, perché un bene finito – tale lo è per la modernità – è fruibile immediatamente, senza che ci si debba tendere oltre sia spazialmente che temporalmente. Non lo è al secondo, perché la modernità concepisce l’amore solo come un ricevere: un amore che non ha come fine il bene altrui ma solo il proprio; un amore per il quale gli altri non sono fatti per essere amati, ma per amarci.

Veramente non ci si può non chiedere a quale grado di follia sia giunta la modernità da non capire che il concepire l’essere e il bene com ristretti al finito dell’ego comporta, di necessità, anche il volere che l’essere abbia a finire, l’annichilimento dell’essere stesso. È proprio perché è ossessionata da questa più o meno inconscia volontà di autodistruzione che la modernità è tutta tesa all’opera di voler preservare il finito dall’inevitabile suo destino di dover finire. Ma che il finito non finisca è cosa impossibile. A rigor di logica, questo impossibile può essere scongiurato dall’accadere solo da un altro impossibile. Questo è la volontà della modernità di dotare il finito dell’ ego di una potenza infinita. È dal terreno di questa follia che trae nutrimento la mala pianta della smodata volontà di potenza dell’uomo contemporaneo.

E’ l’essa che,invece di orienrarlo verso il belle artistico, l’interrogarsi sul senso del proprio esistere, il perseguimento di un bene comune, specchio dell’unità dell’essere, lo induce a pensare costantemente a come accrescere la propria potenza. Questo spiega l’enorme importanza della scienza e delle sue applicazioni tecnologiche nella società contemporanea, e la forsennata volontà di dominio, quasi a voler piegare il tutto a obbedire alla volontà egoica del singolo.

Nichilismo in campo politico e sociale

La concezione della modernità che l’essere e il bene siano autentici solo manifestandosi nella forma del finito porta l’uomo ad agire per incrementare il finito in tutti gli aspetti della vita. E come lo si incrementa? Creando barriere onde dividere, separare gli esseri, richiudendoli entro confini psicologici e materiali sempre più angusti. Ecco allora che in campo economico viene favosito il bene privato rispetto a quello comune, cercando poi, per giunta, di dare a questo modo di operare una giustificazione etica: quella saltata in testa ad Adam Smith della “mano invisibile del mercato”. Secondo tale bislacca teoria, il perseguimento egoistico del proprio ineresse porta indirettamente al miglioramento del benessere collettivo. Il che vale dire che alla base dell’etica c’è l’egoismo. Questo è il fondamento filosofico su cui dovrebbe poggiare il pensiero e l’agire economico secondo la modernità. Un tale assunto, che viola palesemente il principio di non contraddizione, viene poi addirittura spacciato per scientifico dai soloni dell’economia liberista! Che dire? Anche loro sono tenuti a dare il proprio contributo al nichilismo, se vogliono far carriera in un mondo sgovernato dai “signori del caos”. In campo politico-sociale, il finito viene imposto facendo perno ancora su un altro britannico, Thomas Hobbes. Egli, in contrapposizione ad Aristotele, che sosteneva essere l’uomo un “animale sociale”, se ne uscì con la tesi dell’ “homo homini lupus”, il cui corollario è poi l’altro motto latino ” mors tua vita mea”. Sulla base di questa tesi si spiega il perché la modernità abbia fatto, e stia facendo di tutto per distruggere tutto ciò che è associazione, collaborazione, solidarietà, empatia onde promuovere un individualismo assoluto. Ciò poi è alimento di tutte quelle disposizioni psichiche che sono espressione del finito: egoismo, narcisismo, diffidenza. Ma oltre a queste, che possiamo definirle come malevolenza pasiva verso gli altri, bisogna mettere in conto anche la malevolenza attiva, come l’ostilità, la propensione a danneggiare gli altri sia sul piano psicologico che materiale. L’inclinazione a identificare l’essere col finito viene, inoltre, favorita dalla modernità con il precludere alla psiche la dimensione temporale del futuro, schiacciandola sull’istantaneità del presente. A tal proposito si è proceduto a creare un’immagine sempre più negativa del futuro attraverso: 1) la precarizzazione del lavoro 2) lo smantellamento progressivo dello stato sociale che, almeno, dsva una garanzia di poter contare sul fatto che non si era lasciati soli ad affrontare le difficoltà che il fututo porta inevitabilmente con sè 3) il costringere la gente a vivere in uno stato di perenne emergenza di natura sanitaria, criminale, economica, climatica; ora, come se non bastasse, i potentati economici e industrial-militari occidentali, per timore di perdere il loro potere, pare pronta a scatenare un nuovo conflitto mondiale.

A mio giudizio, il nichilismo implicito, che sottende tutta la modernità, può essere curato – si tratta, infatti, di una patologia che ha allignato, in modo più o meno inconscio nella psiche collettiva – solo rimettendo in discussione il presupposto fondamentale di essa: la convinzione che l’autenticità dell’essere sta nel suo darsi nella forma del finito. A tal scopo, mi limiterò a proporre la cura avanzata dal poeta tedesco Novalis: ” il mondo dev’essere romanticizzato” intendendo che ciò lo si ottiene ” quando conferisco al finito una parvenza infinita”. Il romanticismo, di cui Novalis è uno dei grandi esponenti nel campo della poesia, rappresentò un momento di aperta contestazione verso la deriva scientista e materialista dell’illuminismo. Citiamo ancora Novalis: ” romanticizzare non è altro che che un potenziamento qualitativo”. Per Novalis, quindi, occorre smarcarsi dalla concezione meccanicista dell’essere, che riduce il mondo e la vita tutta a mera quantità, equiparando così l’uomo a una macchina, con la sola differenza della maggiore complessità della macchina uomo. Occorre, invece, riportare alla coscienza la convinzione che è alla base della concezione tradizionale del mondo, cioè la natura infinita dell’essere, della quale Dio ne è l’espressione. Ciò implica, ovviamente, che tale natura non la può cogliere la regina delle scienze quantitative, la matematica, perchè questa natura è di ordine qualitativo: un ordine non fondato sulla necessità, ma sulla libertà. La possono cogliere, allora, solo quelle discipline che sono espressione dell’aspirazione della psciche alla libertà e non alla necessità, come lo è la matematica. Intendo discipline quali le arti, la filosofia spiritualista (quella fondata sul principio di contraddizione), ma in genere ogni attività fisica o mentale finalizzata a promuovere la libertà. Attenzione: non la libertà dell’ego, come la libertà è intesa dalla modernità, cioè la libertà del finito di imporre la sua volontà alla totalità dell”essere; ma la libertà relativa alla nostra essenza spirituale, quindi una libertà di natura etica, quella per cui l’uomo si sente veramente libero solo quando agisce per la realizzazione del bene comune.

Per il romanticismo di Novalis, la poesia è una modalità di conoscenza dell’essere, perché l’essere stesso è di natura poetica, in quanto è manifestazione di una volontà (Dio), e quindi di una soggettività. Il mondo lo si romanticizza , allora, rinterpretando la natura in modo poetico, come facevano gli antichi, quindi ritornando dall’epistemologia alla mitologia: da una conoscenza di natura scientifica ,fondata sul finito, a una di natura mitica, fondata, sul l’infinito. Si tratta, dunque, di repsicologizzare il mondo, di riportare la coscienza e gli dei, in quanto immagini mitiche delle forze archetipiche, nella natura. Non dimentichiamoci del monito di Mircea Eliade che l’aver posto Dio in cielo, come hanno fatto tante religioni, fra cui il cristianesimo ( il cattolicesimo e l’ortodossia, almeno, hanno il merito, grazie al culto dei santi, di mantenere una parte del divino anche sulla terra ), è un modo diplomatico di esiliarlo dalla vita degli uomini, prodromico alla sua successiva sparizione.

Certo che bisogna essere realisti e che, quindi, ritornare a un paganesimo che vedeva la presenza del divino in ogni manifestazione della vita sarebbe pretendere troppo. Per contenere la follia meccanicista e transumanista della modernità, accontentiamoci, allora, di rivitalizzare le religioni; contrastando recisamente, però, ogni tentativo da parte dei potenti di usarle a giustificazione della loro smania di dominio. Il loro fondamentale apporto nella battaglia contro il nichilismo della modernità è di affermare che a fondamento dell’essere c’è un principio etico, di cui Dio è la manifestazione metafisica: l’idea che il bene è causa e fine dell’essere, e che il bene, però, è tale solo quando è bene comune.

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Il disadattamento delle élites_ Le risposte di Mario Iannaccone

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Oggi risponde Mario Iannaccone

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1) Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?

 

Penso che i principali errori dei decisori militari – per quanto possiamo capire – non stiano nello scoppio o estensione della guerra d’Ucraina nel febbraio del 2022 che, ampiamente previsti e forse ricercati. Credo che l’errato calcolo stia nella valutazione della capacità dell’apparato industriale-militare russo di rispondere e resistere al logoramento. Errori sono stati fatti nel calcolo delle sue riserve, negli stoccaggi di mezzi di artiglieria, missili. Errori di valutazione, anche, mi pare, nella capacità di utilizzare in modo flessibile i nuovi mezzi che si stanno rivelando cruciali, i droni esplosivi e i missili ipersonici di cui pure si conosceva la precisione.

Anche la valutazione della strategia militare della Federazione Russa, che si credeva antiquata e si è rivelata invece flessibile e adatta ai tempi e agli armamenti, è stata valutata in modo impreciso. L’utilità di droni di basso costo che distruggono mezzi e sistemi missilistici da milioni di dollari, la loro efficacia era stata prevista in questo modo e in questa portata? Non pare. Per il resto, sul campo, la dottrina russa sembra quella di sempre: si ritirano con movimenti di truppe veloci e flessibili, creano sacche che colpiscono con l’artiglieria prima di avanzare di nuovo eventualmente. Si ritirano per risparmiare uomini e mezzi. I carri armati si stanno rivelando meno efficienti del previsto in questa guerra? Anche questo mi pare evidente, e sono mezzi costosissimi (pensiamo ai Leopard 2). Non sappiamo su chi grava la maggior parte della responsabilità. Ovviamente hanno potuto contare su un regime, come quello di Kiev, che dimostra pochi scrupoli nel inviare i propri militari in operazioni ad altissimo rischio di fallimento.

Per quanto, nello specifico, i decisori politici e non strettamente militari mi pare molto grave non aver previsto i gravi danni che vengono inflitti all’economia tedesca, quindi italiana e francese, oltre che di altri paesi europei. Soprattutto le potenze manifatturiere rischiano danni di lungo corso se non permanenti ma certamente decennali anche con l’azzeramento dele esportazioni e l’aggravamento della bilancia dei pagamenti. D’altra parte, gli Stati Uniti stanno mostrando, al solito, di essere in grado di mettere in campo mezzi, anche fiscali e di stimolo (si parla di circa 400 miliardi a favore dell’industria “green”), per riportare nel loro continente quelle produzioni che erano passate soprattutto ai tedeschi, magari delocalizzando gli impianti più pesanti. Quale sia il vantaggio europeo in questo gioco va ancora compreso ma non è facile capire: al momento, sembra, nulla: perdita secca e accelerazione di politiche “green” che non possono che  essere distruttive dei modelli sociali che sino a ora hanno funzionato, bene o male, e tenuto in equilibrio il sistema.

 

 

2) Sono errori di una classe dirigente o di un’intera cultura?

 

Sono errori – ma sono errori? – di una classe dirigente tecnocratica e, a catena, di coloro che rispondono alla classe dirigente perché le devono privilegi ovvero gran parte del mondo della cultura, dei media e dell’accademia. Soltanto isolati intellettuali, storici, analisti, giornalisti, criticano la gestione di questa vicenda e spesso in modo parziale. La gente comune non era ostile alla Russia se non perché mossa da una narrazione parziale e una grossolana approssimazione della realtà, che riattivava in modo indebito le paure contro l’Unione Sovietica finita nel 1991. Questo disastro voluto e preparato, è propedeutico alla volontà di cambiare l’intero modello sociale, quanto meno in Europa e in quelle parti del mondo che si autodefiniscono “Occidente”. Potremmo passare da una  società relativamente libera e con una certa mobilità sociale a una società bloccata, soggetta a restrizioni di cui la città 15 minuti, C40, Agenda 20-30 e simili ordigni ideologici non sono che segni.

 

 

3) La guerra in Ucraina manifesta una crisi dell’Occidente. È reversibile? Se sì, come? Se no, perché?

 

La crisi dell’Occidente viene da lontano, se ne parla da ben oltre un secolo e non si vede il modo di risolverla. Le categorie utilizzate oggi dalla classe dirigente, quelle che si traducono in concetti come “transizione green”, “woke”, e tutto quanto esce dai laboratori dell’ONU, delle riunioni COP, del WEF e di altri organismi simili – cinghia di trasmissione fra politica, economia, finanza e media, sembrano anzi fatti per trasferire ricchezza dal basso all’altro e per aggravare la crisi sociale e culturale. Non vedo possibilità di risolverla se non con uno slittamento di paradigma o la presa di coscienza dopo un lungo periodo di logoramento che porti ad aggravare ancora di più la crisi in essere: come è accaduto con il marxismo, questo sistema cadrà sotto le proprie contraddizioni. Questo, però, presuppone una lunga marcia nella notte e la presa di coscienza, anche da parte delle generazioni più giovani di aspetti non secondari come l’insostenibile imposizione fiscale italiana.

Inoltre, per risolvere la crisi una pace con la Federazione russa è necessaria. Ma lo strappo non è facilmente reversibile, se non in una o due generazioni a patto che cambi la classe dirigente europea. Così come siamo messi oggi è difficile pensare a una reversibilità facile e veloce. Troppe gravi ammissioni sono state fatte: firma di trattati Minsk 1 e 2 senza l’intenzione di rispettarli, promesse di ulteriori allargamenti della NATO a est, eventi come la distruzione dell’enorme infrastruttura North Stream che garantiva combustibile a buoni prezzi a molti paesi europei, costata circa 15 miliardi di euro a Germania e Federazione russa soltanto nel tratto offshore. Altri fatti, come l’estromissione di atleti e artisti russi dai circuiti internazionali, lo sganciamento dal sistema dei pagamenti internazionali SWIFT appaiono molto gravi, e riflettono proprio la “crisi dell’Occidente” che sta rigettando i presupposti su cui si è fondata e l’ordine internazionale che era stato faticosamente costruito negli ultimi secoli per ordine, sembra delle talassocrazie occidentali. Occorre il cambio di un’intera classe dirigente amministrativa politica e anche culturale per ricucire nei governi, nelle istituzioni internazionali, negli organismi dell’Unione Europea e degli Stati Uniti. Non è cosa che possa avvenire in pochi anni ma forse in 20 o 30.

 

 

4) Cina e Russia, le due potenze emergenti che sfidano il dominio unipolare degli Stati Uniti e dell’Occidente, dopo il crollo del comunismo si sono ricollegate alle loro tradizioni culturali premoderne: Il confucianesimo per la Cina, il cristianesimo ortodosso per la Russia. Perché? Il ritorno all’indietro, letteralmente “reazionario”, può attecchire in una moderna società industriale?

 

L’esempio di Cina e Russia dimostra che sì, ricollegarsi alle tradizioni culturali premoderne è possibile: la società diviene più coesa e forte. Ma si tratta di paesi che non temono il loro passato. Sanno che è stato gestito da loro avi con errori e anche orrori così come sanno che chi gestisce adesso il potere appartiene ad altre generazioni: non si sentono schiacciati da indebiti complessi di colpa. Sanno che non ha senso pretendere che ogni generazione si debba cospargere il capo di cenere per quello che è stato fatto da chi la preceduti. Questa libertà di tenersi liberi dal fardello del passato non c’è più in Occidente, l’entità formata dall’Europa continentale, Inghilterra e Stati Uniti dove i mea culpa sempre riferiti al passato lontano (Medioevo, Colonialismo, Schiavismo ecc.) e mai a quello più recente. Tutto questo è parte della strategia del marxismo culturale francofortese – è una semplificazione ma la radice è quella – teso a creare l’uomo nuovo che deve sentire la colpa del passato per poterlo cancellare e superare completamente. Questo alla lunga ha prodotto società malate, deboli, composte da individui insicuri e sempre disposti ad autocolpevolizzarsi. Il cristianesimo, sino a che è stato forte, non ha mai prodotto simili fenomeni ma negli ultimi decenni è entrato in pieno nel meccanismo di autocolpevolizzazione che rende la società e gli individui manipolabili. I risultati li stiamo vedendo.

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Il disadattamento delle élites occidentali. Intervista a Massimo Morigi

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Oggi risponde il nostro collaboratore Massimo Morigi

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DA MASSIMO MORIGI RISPONDENDO ALLE DOMANDE GIÀ POSTE AD Aurélien E POI AGLI ALTRI AMICI DE “l’ITALIA E IL MONDO”

  1. Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?

La domanda n.1 deve essere necessariamente diversamente formulata, e la corretta formulazione è «Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori anglo-americani nella guerra in Ucraina?», in quanto nella vicenda specifica (come in tutte quelle che riguardano le decisioni veramente strategiche del c.d. occidente) di decisori europei – escludendo ovviamente dal novero degli c.d. europei quei paesi dell’est e del nord-Europa di nuova aggiunta all’UE o di prossima unione alla stessa che per ragioni storiche hanno il dente avvelenato contro la Russia e che vedono nella NATO come il suo logico antemurale – non s’è vista traccia. Sotto questo punto di vista, penoso l’atteggiamento che ha assunto la Francia. Se per quanto riguarda l’Italia e la Germania il servilismo verso la NATO è del tutto scontato vista il progressivo dileguarsi in seguito alla caduta del muro di Berlino di una qualsivoglia politica estera autonoma da parte di questi due paesi (torneremo sull’Italia), per quanto riguarda la Francia si è trattato di barattare la schiena curva ai diktat angloamericani in cambio di una sorta di mano libera (ma libera si fa per dire, perché il margine di azione della Francia lasciato dagli angloamericani è assai stretto e condizionato) in Africa. All’Esagono, auguri e figli maschi!, come si suol dire.

2) Sono errori di una classe dirigente o di un’intera cultura?

Alla domanda due si è già risposto in parte con la risposta n.1, nel senso che se la guerra di Ucraina è stata un errore di una classe dirigente, di un eventuale errore della classe dirigente statunitense (e in subordine di quella britannica) si deve parlare, tenendo ovviamente presente che quando si parla di classi dirigenti non le si deve mai intendere come blocchi monolitici che prendono questa o quella decisione. Il termine classe dirigente è una drastica semplificazione creata per dare un senso apparentemente logico e con una teleologia ispirata alla logica aristotelica a decisioni che in realtà sono il frutto di fortissimi scontri fra gruppi ferocemente contrapposti. A questo proposito è di tutta evidenza che per comprendere appieno queste dinamiche e per una riscrittura delle categorie della politica ci sarebbe anche la necessità di adottare paradigmi logico-filosofici diversi, uno dei quali è il paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico, ma non è questa la sede specifica per discuterne, mentre su un piano più strettamente storico, è ovvio che si risponde di sì, cioè che siamo di fronte per il c.d. occidente al fallimento della cultura liberal-illuministica che se, sul piano delle élite porta a non capire le reali dinamiche storico-sociali di un mondo che va verso sempre un maggiore multipolarismo, sul piano del popolo tende a creare delle masse culturalmente abbruttite ed economicamente disperate sulle quali si possono svolgere le più cupe e criminali operazioni, una delle quali, mi preme particolarmente sottolineare questo punto, è favorire in tutti i modi possibili ed immaginabili la denatalità delle popolazioni. È di tutta evidenza che con l’attuale denatalità dell’occidente e con la conseguente composizione per età di queste popolazioni dove i vecchi sormontano i giovani, non sono assolutamente concepibili né rivoluzioni più o meno violente né rivoluzioni più o meno culturali. Con i vecchi non si può fare nessun tipo di rivoluzione, in essi prevale la paura di vivere male gli ultimi anni della loro vita e tutto il resto può ben andare al diavolo, il massimo che ci si può aspettare da costoro è qualche – giustissima, per carità! – protesta per innalzare le misere pensioni.

3)La guerra in Ucraina manifesta una crisi dell’Occidente. È reversibile? Se sì, come? Se no, perché?

Discende logicamente dalle prime due risposte che la crisi di questo occidente è assolutamente irreversibile, sarebbe necessario, per farla breve, più cultura, politica e non, e più popolo e per essere assolutamente chiari, le ondate migratorie che assaltano il c.d. occidente sono assolutamente inadeguate sia per creare più cultura che per creare più popolo per il semplice fatto che questa sostituzione culturale (non etnica, i poveretti di destra che usano quest’ultima terminologia non fanno altro che dimostrare la loro inadeguatezza nel definire il fenomeno, anche se unita all’intuizione del pericolo, ma una intuizione che non trova le parole per esprimersi vale meno di niente ed è anzi dannosa) non sprigiona alcuna contraddizione all’interno della società ma solo maggiori richieste securitarie da parte degli autoctoni, per giunta per lo più pensionati o in via di, e il giochetto del divide et impera (fra chi vuole più sicurezza, la destra, e chi vuole più libertà, la sinistra, stanca erede della tradizione illuministico-liberale, entrambe gabbate nei loro rispettivi elettorati perché il problema vero è il sempre maggior restringimento degli spazi di libertà diffusa e condivisa, perché vera libertà, come ha più volte sottolineato la dottrina del Repubblicanesimo Geopolitico, altro non è che un concreto potere cellularmente diffuso in tutti gli strati della società) è fatto.

4) Cina e Russia, le due potenze emergenti che sfidano il dominio unipolare degli Stati Uniti e dell’Occidente, dopo il crollo del comunismo si sono ricollegate alle loro tradizioni culturali premoderne: Il confucianesimo per la Cina, il cristianesimo ortodosso per la Russia. Perché? Il ritorno all’indietro, letteralmente “reazionario”, può attecchire in una moderna società industriale?

Certo, sì, sono ricollegate alle loro tradizioni premoderne ma, sinceramente, la mobilitazione – o l’addormentamento – delle masse richiede sempre qualche slogan, il fatto veramente importante è che questi slogan di stampo premoderno permettono di contrapporsi con successo alla narrazione illuministico-liberale che fa il gioco del c.d.blocco occidentale, cioè degli Stati uniti e del suo reggicoda Gran Bretagna, seguiti dalla attuale compagnia cantante dove l’Italia è l’ultima ruota del triste e sgangherato carro. Importante sottolineare che di narrazioni premoderne si tratta e di narrazioni illuministico-liberali si tratta, cioè che in entrambi i casi si tratta di retoriche di mobilitazione e/o smobilitazione delle masse, con una differenza però. Le retoriche atavistiche tendono comunque a far emergere un mondo multipolare e a far prevalere le mobilitazioni popolari, la qual cosa se contiene dei pericoli di totalitarismo favorisce l’irrobustimento e la fiducia in sé dei vari popoli verso il quali sono indirizzate queste retoriche, mentre le retoriche liberal-illuministiche vanno non solo interamente nella direzione di un disegno imperialistico, ça va sans dire, ma soprattutto alla disintegrazione culturale ed anche demografica del popolo. Se proprio vogliamo tenerci per buono il termine ‘democrazia’ (vi prego non ridete per il mio uso di questa parola che più sputtanata non potrebbe essere), si può dire che il c.d. occidente va verso una democrazia senza popolo, inteso questo ‘senza’ nel senso sia dal punto di vista culturale, cioè un popolo sempre più abbruttito, ma anche un popolo sempre più in decrescita demografica. E così questo nuovo tipo di dominio totalitario è servito. Un’ultima parola per quanto riguarda l’Italia, non per niente il nostro blog si chiama “L’Italia e il Mondo”. L’Italia è il paese dove quanto detto finora riguardo la crisi dell’occidente è più evidente che in tutti gli altri paesi investiti da questa degenerazione cultural-demografica (e per essere veramente realisti riguardo il suo ruolo nello scenario del c.d. occidente, esso è direttamente condizionato dalla sua dipendenza culturale ed economica dalla sfera angloamericana; detto brutalmente: nel suo attuale stato delle cose l’Italia altro non è che un paese costretto a comportarsi come un vile soldato di ventura che arruolatosi per la paga e/o per sfuggire ai suoi debiti, deve rispondere signorsì ogni qual volta viene chiamato a combattere. Situazione plasticamente rappresentata nella sua scriteriata ma anche ineluttabile partecipazione alla guerra di Ucraina e tutto il resto sono racconti di fate).

Condivido però con Machiavelli, tramite il sempre ottimo Teodoro Klitsche de la Grange «che per rigenerare una repubblica occorre “ritornare” al principio.» E su questo sarò breve. Questo principio non è certo la costituzione del ’48 dove, dettaglio più comico non si potrebbe immaginare alla luce dell’attuale situazione, l’Italia ripudia la guerra (se mi si passa la battuta, ripudiare la guerra ha lo stesso valore etico ed operativo di ripudiare il mal di denti, ma ad una nazione che ha perso la guerra ed è ridotto allo stato di colonia degli Stati uniti questo ed altro bisogna perdonare!), ma il nostro Risorgimento e non tanto il Risorgimento oleografico (Cavour voleva l’unità d’Italia?, manco per idea, egli voleva solo allargare il regno del Piemonte fino all’Italia centrale e oleografia che fra l’altro tralascia il piccolo dettaglio che l’unità d’Italia, oltre alla Francia che palesemente aiutò l’espansionismo del Piemonte, ebbe dietro le quinte la Gran Bretagna per sostituirsi al dominio nella penisola italica dell’impero austroungarico e per far fuori il Regno delle due Sicilie che non voleva uniformarsi alla sua politica imperialista nel Mediterraneo e contro la Russia: il Regno delle due Sicilie aveva proclamato la sua neutralità nella guerra di Crimea, una neutralità de facto favorevole alla Russia, uno sgarro che la Gran Bretagna non gli poteva certo perdonare, corsi e ricorsi…, si veda in proposito “Eugenio di Rienzo, Il Regno delle due Sicilie e le Potenze Europee, Rubettino, 2012” ed anche la mia conferenza tenuta il 10 marzo 2023 alla Casa Matha di Ravenna, “Lo Stato delle Cose della Geopolitica Italiana nei Conflitti Mazzini/Garibaldi”, all’URL https://www.youtube.com/watch?v=KwA00IOPCsM , dove affermo con la massima chiarezza che la spedizione dei Mille senza l’appoggio della flotta britannica non sarebbe stata possibile e i garibaldini sarebbero finiti in pasto ai pesci) ma proprio quel Risorgimento sconfitto dalla storia perché in totale antitesi col progetto imperialistico sabaudo che non poteva accettare la nascita e la costruzione di un vero ed autentico popolo italiano come avrebbe voluto Giuseppe Mazzini (il sud, in poche parole, una volta conquistato dalla dinastia sabauda tramite la spedizione dei Mille, svolse egregiamente il ruolo di un territorio da sfruttare con tecniche di prelievo delle risorse economiche ed umane tipiche delle metropoli del Vecchio continente verso le colonie extraeuropee). E quindi, oltre ad un ritorno a Mazzini, bisogna tornare a pensare a Gramsci e al suo moderno principe centro unificatore e di irradiazione di pedagogia e politica popolar-proletaria, il cui compito, con profonde similitudini con l’azione mazziniana di educazione nazionale sotto l’insegna di Dio e Popolo, sarebbe stato quello di costruire un popolo rivoluzionario. Quindi il realismo politico di Machiavelli e poi Mazzini e poi Gramsci che seppur del Risorgimento critico senza sconti e del secondo non certo un grande estimatore ma che entrambi avevano ben capito che senza un popolo, e non una massa anomica e dispersa sul modello liberal-illuminista, nessuna azione politica realmente progressiva e di autentica libertà ed anche rivoluzionaria è possibile. Penso che da costoro sia assolutamente necessario ripartire e, per quanto ci riguarda come “L’ Italia e il Mondo”, indirizzare i nostri sforzi. 

Massimo Morigi, settembre 2023

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IL DISADATTAMENTO DELLE ELITES OCCIDENTALI. Intervista a Roberto Iannuzzi

 

Il sito italiaeilmondo.com ha iniziato a rivolgere quattro domande a Aurelien[1], e continua a proporle, identiche, a diversi amici, analisti, studiosi italiani e stranieri.

Oggi risponde Roberto Iannuzzi, che ringraziamo sentitamente per la sua gentilezza e generosità. Roberto Iannuzzi è stato ricercatore presso l’Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo). Il suo ultimo libro, Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo, è uscito nell’aprile 2017.

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1) Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?

Per comprendere quali sono state le ragioni degli errori occidentali (e bisogna distinguere quelli americani da quelli europei) nella crisi ucraina, è necessario partire da una premessa: l’Occidente attraversa una profonda crisi politica, economica, sociale e culturale, il cui spartiacque è rappresentato dal tracollo finanziario del 2008. Se l’11 settembre aveva segnato la crisi “culturale” (se mi si passa il termine) della globalizzazione nell’era unipolare americana, allorché l’omogeneizzazione senza precedenti imposta dal modello globalizzato occidentale aveva ceduto il passo alla logica dello “scontro di civiltà”, il tracollo finanziario del 2008 ha fatto emergere le gravi crepe presenti nelle fondamenta economiche di tale modello. Gli americani escono da quella crisi non solo con una credibilità a pezzi – agli occhi soprattutto del mondo non occidentale – riguardo al loro sistema finanziario ed al modello di globalizzazione da essi propagandato, ma anche con due guerre enormemente dispendiose e fallimentari alle spalle, in Iraq e Afghanistan. È l’eredità dell’era Bush, anche se la crisi ha radici più lontane. Da quel momento in poi, due dinamiche prendono corpo: da un lato il dibattito serrato, quasi ossessivo, all’interno dell’establishment USA su come ristabilire la credibilità ed il prestigio americano a livello internazionale. Dall’altro, il “risveglio” del cosiddetto “Sud del mondo”, il mondo non occidentale, trainato in gran parte dalla Cina. Pechino comincia a concepire un progetto per emanciparsi dalla dipendenza da Washington, che ormai viene vista più come un rischio che non come un vantaggio. Da qui prenderanno corpo i BRICS (alla cui nascita la Russia dà un contributo chiave, avendo già compreso con Primakov, alla fine degli anni ’90, di poter sopravvivere solo in un mondo multipolare), la via della seta, e le altre strutture del nascente multipolarismo. Nel frattempo a Washington, la presidenza Obama, che avrebbe dovuto essere quella del riscatto, si risolve in un fallimento. Obama dapprima annuncia il “pivot” verso l’Asia, cioè il ridispiegamento della parte più consistente delle forze navali USA nel Pacifico per contenere la Cina, e lancia l’idea di due gigantesche aree di libero scambio – la Trans-Atlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) e la Trans-Pacific Partnership (TPP) – per isolare Russia e Cina. Quello di Obama è di fatto il primo tentativo americano di smontare la globalizzazione nella quale gli USA non riescono più a primeggiare. Poi però, il presidente che doveva risollevare l’America, “stuzzicato” dalle rivolte arabe del 2011, si lascia “risucchiare” ancora una volta in guerre infruttuose e fallimentari in Medio Oriente, in particolare in Libia e Siria. Soprattutto questo secondo conflitto sarà causa di pericolose tensioni sul terreno, e di aspri confronti in sede ONU, con la Russia. Il pivot verso l’Asia, e le due aree di libero scambio nell’Atlantico e nel Pacifico, resteranno sulla carta. Sotto Obama abbiamo però anche il culmine dell’annoso processo di infiltrazione americana dell’Ucraina, in particolare tramite il costante sostegno statunitense ai nazionalisti del paese, con la rivolta di Maidan nel 2014 (scoppiata naturalmente anche per ragioni economiche e sociali) pesantemente appoggiata dagli USA. Basti ricordare le immagini di Victoria Nuland e John McCain nelle strade di Kiev. Il rovesciamento del presidente ucraino Viktor Yanukovych, e l’insediamento a Kiev di un governo nazionalista e violentemente antirusso, costituiscono il prologo indispensabile per comprendere l’attuale conflitto in Ucraina. La presa della Crimea da parte della Russia e lo scoppio della guerra civile in Donbass, dove il nuovo governo non viene riconosciuto, ne sono la prima conseguenza. Dopo le iniziali avvisaglie avutesi con il conflitto siriano, Maidan 2014 segna il riacutizzarsi di una guerra fredda fra USA e Russia che per gli angloamericani non si era mai realmente conclusa. Il rifiuto di accogliere Mosca, dopo il crollo del muro, in una comune architettura di sicurezza europea, in primo luogo a causa del veto di Washington e Londra, ha progressivamente trasformato i paesi dell’Europa dell’Est, tramite la continua espansione della NATO, nel fronte di un nuovo conflitto con l’erede dell’Unione Sovietica. La brama dell’establishment americano di ristabilire il “primato” degli USA, dopo la drammatica crisi del 2008, ha contribuito ad infiammare questo fronte mai realmente pacificato. Una costante del dibattito interno statunitense dopo il 2008 è stata infatti il dilemma riguardo a quale avversario affrontare e contenere prima: disimpegnarsi dal Medio Oriente o no? Affrontare prima la Russia o la Cina? Dopo la parentesi imprevista della presidenza Trump, manifestatasi proprio a causa del fallimento di Obama anche sul fronte interno, con Biden il confronto con la Russia riacquista la precedenza, mentre quello con la Cina, avviato dalla guerra dei dazi promossa dal suo predecessore, rimane principalmente sul piano delle contromisure economiche. Fin dal tentativo americano di isolare Mosca sia politicamente che economicamente, attraverso l’imposizione delle prime sanzioni, nella crisi internazionale seguita a Maidan 2014, si comprende qual è l’obiettivo di Washington: porre fine alla progressiva integrazione economica fra Russia ed Europa, riconducendo gli europei ad una più stretta fedeltà e dipendenza dall’alleato statunitense. Tale integrazione costituisce infatti un tassello essenziale della più vasta integrazione eurasiatica che rappresenta la principale minaccia al primato americano a livello mondiale. Appena entrato alla Casa Bianca, Biden dà nuovo impulso alla penetrazione della NATO in Ucraina, mai realmente interrottasi dal 2014 attraverso esercitazioni militari congiunte, invio di armi all’esercito ucraino, costruzione di basi navali e fornitura di navi da guerra compatibili con gli standard NATO, sostegno logistico e di intelligence alla campagna militare di Kiev nel Donbass. I preparativi ucraini per un’offensiva militare finalizzata a riguadagnare definitivamente il controllo sul Donbass, e la firma, nel novembre 2021, di una Carta di partnership strategica da parte di Washington e Kiev, che prevedeva fra l’altro l’impegno a ristabilire la “piena integrità territoriale” ucraina (inclusa la Crimea), sono gli ultimi elementi che probabilmente hanno spinto Mosca a ritenere che una guerra fosse inevitabile. Questa lunga premessa sulle fasi storiche che hanno preceduto lo scoppio del conflitto dovrebbe far comprendere, in primo luogo, che lo slogan occidentale della “aggressione non provocata” da parte di Mosca è in realtà un mito privo di fondamento. Un mancato intervento militare da parte del Cremlino avrebbe infatti potuto portare non solo alla totale sottomissione del Donbass, ma anche alla successiva perdita della Crimea e di Sebastopoli, dove risiede la base navale (per Mosca insostituibile) che ospita la flotta russa del Mar Nero. Temporeggiare ulteriormente avrebbe dunque potuto comportare per Mosca l’estromissione di fatto dal Mar Nero e la trasformazione dell’Ucraina in un paese completamente integrato con la NATO, che a quel punto sarebbe potuto diventare membro effettivo dell’Alleanza, eventualmente schierando missili in grado di raggiungere Mosca in 4-5 minuti. Un esito inaccettabile per la Russia qualora non avesse voluto rassegnarsi al proprio inarrestabile declino. Del resto Washington era consapevole del fatto che la Russia sarebbe probabilmente intervenuta, poiché Mosca aveva tentato un ultimo approccio diplomatico nel dicembre 2021, presentando ai negoziatori USA un trattato vincolante, di fatto una sorta di ultimatum, che la Casa Bianca rifiutò. Da ciò segue che i decisori politico-militari occidentali – in particolare quelli americani – dovevano quantomeno aspettarsi che la deflagrazione di un conflitto fosse del tutto plausibile. Ed in effetti, nelle settimane che hanno preceduto l’invasione russa dell’Ucraina, l’intelligence statunitense aveva incessantemente fatto trapelare sulla stampa notizie sull’imminenza dell’intervento di Mosca. Si può dunque concludere che la scelta americana di spingere la Russia verso un possibile conflitto sia stata consapevole. Naturalmente, si può affermare che questo sia stato il principale errore strategico di Washington. Altri sosterranno invece che gli USA hanno ottenuto ciò che volevano, ovvero separare la Russia dall’Europa e riaffermare l’egemonia americana sul vecchio continente. Il punto dirimente, a questo riguardo, sono gli enormi costi che una scelta del genere ha comportato, i quali probabilmente si ritorceranno contro gli stessi Stati Uniti sul lungo periodo. Ma prima di esaminare questo punto, vale la pena sottolineare che gli errori di valutazione “tecnicamente” più gravi i decisori occidentali, ed americani in particolare, li hanno commessi a conflitto iniziato. Naturalmente, almeno un grave errore lo hanno commesso anche i russi, ma gli strateghi statunitensi non hanno saputo interpretarlo. Inizialmente, infatti, l’invasione russa era stata davvero concepita come una “operazione militare speciale”, come l’aveva definita il Cremlino, ovvero un’operazione rapida, compiuta da una forza relativamente esigua (150.000 uomini), che con uno spargimento di sangue contenuto avrebbe dovuto assumere il controllo di alcuni punti nodali del territorio e, grazie alla defezione di parte dell’esercito ucraino e di elementi delle istituzioni, avrebbe spinto il governo di Kiev ad accettare di sedersi al tavolo negoziale (una sorta di replica in grande stile dell’operazione compiuta in Crimea nel 2014). Emblematica a questo proposito la marcia russa su Kiev con una forza di 40.000 uomini, del tutto insufficiente a conquistare militarmente la città, ma utile come strumento di pressione politica. Il piano di Mosca fallì (in particolare, l’esercito ucraino rimase compatto) ma non completamente, se si pensa che russi ed ucraini effettivamente negoziarono fra marzo ed aprile 2022, ed erano prossimi a giungere ad un accordo. Come riferiscono diverse testimonianze, fra cui quella dell’ex premier israeliano Naftali Bennett, il negoziato fallì soprattutto a causa delle pressioni britanniche su Kiev. La chiusura della finestra negoziale comportò di fatto il fallimento dell’operazione militare speciale. A questo punto, Mosca avviò un lungo processo di riorganizzazione militare per prepararsi ad un vero e proprio confronto bellico. Ciò comportò il ritiro da Kiev, poi da Kharkiv ed infine da Kherson, per attestarsi su linee effettivamente difendibili a protezione della Crimea e del corridoio terrestre che la univa al Donbass. Mosse affiancate dalla mobilitazione di 300.000 riservisti nel settembre del 2022. Quella di Mosca, tuttavia, non era stata una sconfitta militare sul campo, bensì una sconfitta dell’intelligence che non aveva saputo valutare la coesione dell’esercito ucraino né la determinazione occidentale ad alimentare lo scontro bellico. Paradossalmente, proprio l’errore russo ha spinto gli occidentali a commettere uno sbaglio ancora più grande, quello cioè di interpretare il fallimento russo come frutto di mera impreparazione militare, e di ritenere conseguentemente di poter sconfiggere militarmente i russi sul campo, in un conflitto aperto. Vi sono indicazioni secondo cui, nell’imminenza dell’invasione, l’intelligence americana si attendeva (proprio come i russi) che il governo e l’esercito ucraini si sarebbero sgretolati, che i russi avrebbero imposto un governo fantoccio a Kiev, e che Washington ed i suoi alleati avrebbero organizzato un’insurrezione armata contro di esso, come avevano fatto in Afghanistan, utilizzando questa volta la Polonia come retrovia. Gli USA avrebbero raggiunto ugualmente il loro obiettivo strategico, ovvero quello di spezzare il legame tra Russia ed Europa imponendo durissime sanzioni contro l’economia russa e creando una nuova cortina di ferro nel vecchio continente, tuttavia con un coinvolgimento militare molto inferiore, lasciando a Mosca l’onere di governare l’Ucraina e la possibilità di “dissanguarsi” contro un’insurrezione armata come era accaduto in Afghanistan. La scelta di Mosca di optare per un’operazione “leggera”, incomprensibile agli occhi di Washington, e il fallimento di questa scelta, hanno paradossalmente attirato gli USA e l’intera NATO in un conflitto militare tradizionale contro la Russia in territorio ucraino, con l’illusione di poter sconfiggere militarmente l’esercito russo e, come taluni politici a Washington hanno vagheggiato, addirittura di provocare un eventuale cambio di regime a Mosca. Il punto è che, mentre la Russia si preparava ad un possibile conflitto armato con la NATO fin dalla guerra in Georgia del 2008, l’Alleanza Atlantica era completamente impreparata ad affrontare un conflitto militare ad alta intensità come quello ucraino, essendo ormai abituata da decenni a combattere al più insurrezioni armate come quella dei talebani. L’altro errore fatale dei decisori occidentali è stato quello di ritenere che l’imposizione di dure sanzioni avrebbe fatto collassare l’economia russa. Ciò non è avvenuto perché, fin dal 2014, cioè dall’imposizione delle prime misure economiche punitive – all’epoca relativamente leggere – contro la Russia, Mosca (traendo insegnamento dall’esperienza dell’Iran e di altri paesi colpiti dalle ritorsioni economiche di Washington) aveva ristrutturato la propria economia così come il proprio sistema finanziario al fine di renderli il più possibile immuni all’eventuale shock delle sanzioni occidentali. Naturalmente, l’economia russa ha resistito anche grazie ad un terzo grave errore commesso dall’Occidente. Quello di confidare nel fatto che il mondo non occidentale lo avrebbe assecondato, applicando alla lettera le sanzioni. Riassumendo, americani, britannici, ed europei continentali, in varia misura, non hanno saputo interpretare militarmente il conflitto, hanno drammaticamente sottovalutato le capacità militari di Mosca e sopravvalutato le proprie, non hanno compreso che la Russia si era preparata anche economicamente all’eventualità di uno scontro con l’Occidente, e non hanno capito che gli equilibri mondiali sono enormemente cambiati dal 2008 e che i paesi occidentali non sono più in grado di dettare la propria volontà al resto del mondo. Gli europei, inoltre, hanno commesso un gravissimo errore strategico ben prima dello scoppio del conflitto. Quello cioè di non rendersi conto che assecondare l’espansione inarrestabile della NATO, e la nuova “guerra fredda” di Washington, avrebbe finito per scardinare il modello produttivo europeo fondato sulle fonti energetiche russe a basso costo. Naturalmente, per certi versi, l’obiettivo strategico che Washington si prefiggeva è invece raggiunto: una nuova cortina di ferro, apparentemente insanabile, spacca il vecchio continente, e gli alleati europei sono tornati sotto l’ala protettrice di Washington. Ma la Russia non è isolata a livello mondiale, come gli Stati Uniti si auguravano. E gli alleati europei hanno pagato un costo economico altissimo, che probabilmente sul lungo periodo finirà per indebolire anche Washington. Inoltre, gli USA hanno a tal punto investito la loro credibilità in questo conflitto, lasciandosi coinvolgere militarmente oltre ogni ragionevole cautela, che un’eventuale vittoria della Russia in Ucraina sarà devastante per il prestigio di Washington e per la coesione del fronte occidentale e della NATO. Difficilmente gli USA – ed ovviamente ancor meno l’Europa – usciranno da questo conflitto con un vantaggio strategico.

2) Sono errori di una classe dirigente o di un’intera cultura?

Gli errori fin qui enumerati sono ovviamente in primo luogo quelli di una classe dirigente. Tuttavia è evidente che tali errori nascono anche dal retroterra culturale a cui tale classe attinge. Essa non è più in grado di leggere la realtà globale poiché prigioniera della propria convinzione di superiorità, frutto di secoli di dominio sul resto del mondo. Le recenti dichiarazioni dell’alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri, Josep Borrell, che ha definito l’Europa un “giardino”, contrapponendolo alla “giungla” che rappresenterebbe il resto del mondo, sono indicative di un modo di pensare diffuso fra le élite occidentali, che le rende incapaci di attribuire il giusto valore agli enormi progressi compiuti da svariate aree del resto del pianeta. Il “complesso di superiorità” dell’Occidente è un ingrediente essenziale della sua incapacità di reagire alla crisi in cui è sprofondato. A ciò si aggiunge un problema drammatico di incompetenza, clientelismo, corruzione, interessi corporativi delle classi dirigenti, ed in particolare della classe politica, che è frutto dell’assenza di un valido processo di selezione, e in ultima analisi di una gravissima crisi democratica che impedisce il ricambio di tali classi, l’afflusso di idee nuove, e un’azione nel reale interesse della collettività.

3) La guerra in Ucraina manifesta una crisi dell’Occidente. È reversibile? Se sì, come? Se no, perché?

Come ho già accennato nella lunga premessa alla prima domanda, le radici di questa crisi vengono da lontano. La globalizzazione avviata negli anni ’70 del secolo scorso ha prodotto enormi trasformazioni nell’economia mondiale. La liberalizzazione del commercio e dei flussi finanziari, e la propensione alla massimizzazione dei profitti da parte delle grandi multinazionali, hanno contribuito alla delocalizzazione della produzione, alla progressiva deindustrializzazione di molti paesi occidentali, alla finanziarizzazione dell’economia angloamericana, e alla precarizzazione del lavoro, favorita anche dall’ingresso nel mercato mondiale di centinaia di milioni di lavoratori cinesi e indiani e dalla crescente immigrazione. L’11 settembre, e la retorica dello scontro di civiltà che ne seguì, hanno messo in evidenza le aporie culturali del mondo globalizzato. Ma quella data ha segnato anche l’inizio della perdita di credibilità delle democrazie occidentali, allorché le “extraordinary renditions” permisero detenzioni arbitrarie e sparizioni forzate. Da Guantanamo a Cuba, ad Abu Ghraib in Iraq, Washington costruì una rete di centri di detenzione dove sono state commesse terribili torture ed altre violazioni dei diritti umani. Contemporaneamente, l’11 settembre ha segnato l’inizio dell’erosione dei diritti democratici negli USA (e in Europa), consentendo la sorveglianza di massa di milioni di americani, permettendo detenzioni senza precisi capi di accusa, e segnando l’introduzione della “logica dell’emergenza” all’insegna dello slogan che garantiva “sicurezza in cambio di libertà”. La crisi del 2008 ha rappresentato un nuovo punto di svolta: le misure di austerità, le crescenti disuguaglianze, l’aumento della corruzione, il potere sempre più incontrollato delle multinazionali, la spettacolarizzazione del processo elettorale, e l’asservimento della politica a interessi e capitali privati, hanno svuotato la democrazia dall’interno. Davanti all’inarrestabile deterioramento del clima economico e sociale, le élite al potere hanno reagito ricorrendo ad un unico schema: la logica dell’emergenza, e la demonizzazione del dissenso. L’attuale crisi sarebbe reversibile se le élite occidentali fossero in grado di “cambiare rotta”, modificando le politiche che l’hanno determinata. Nella pratica, però, gli interessi di casta, il radicamento del sistema, l’impossibilità di rinnovare la classe di governo a causa di un processo elettorale che ripropone invariabilmente figure ritenute accettabili dal sistema di potere dominante, impediscono ogni cambiamento nel breve periodo. La sensazione sconfortante è che questo sistema debba subire altri shock, ed attraversare crisi ancora più gravi, prima di essere scardinato, consentendo l’ingresso di energie nuove.

4) Cina e Russia, le due potenze emergenti che sfidano il dominio unipolare degli Stati Uniti e dell’Occidente, dopo il crollo del comunismo si sono ricollegate alle loro tradizioni culturali premoderne: Il confucianesimo per la Cina, il cristianesimo ortodosso per la Russia. Perché? Il ritorno all’indietro, letteralmente “reazionario”, può attecchire in una moderna società industriale?

Premesso che, malgrado la “fase comunista”, entrambi i paesi hanno mantenuto un certo livello di continuità culturale, più che di risposta “reazionaria” parlerei forse di risposta “identitaria”. Non bisogna dimenticare che, oltre alla “fase comunista”, entrambi i paesi hanno vissuto fasi di asservimento semicoloniale. La Cina ne ha vissute addirittura due: il cosiddetto “secolo di umiliazione” (fra il XIX ed il XX secolo) per mano delle potenze occidentali e del Giappone a seguito delle guerre dell’oppio, e l’apertura alla globalizzazione americana a partire dagli anni ’70 del secolo scorso. Questa seconda fase ha visto una “colonizzazione” più morbida, di fatto controllata dal governo cinese. Ciononostante, anch’essa ha comportato l’adozione di modelli produttivi ed anche culturali occidentali. La Russia ha vissuto una fase semicoloniale più breve, ma più recente ed ancora viva nella memoria dei russi, allorché, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, essa fu sottoposta all’arrivo dei capitali occidentali ed alle ricette neoliberiste della cosiddetta “shock economy”. In entrambi i paesi, a mio avviso, la risposta “identitaria” non è che un tentativo di ancorare la modernità così traumaticamente assorbita alle proprie radici culturali. Non si tratta dunque di un – peraltro impossibile – ritorno al passato, ma di una rilettura della modernità secondo le rispettive categorie culturali dei due paesi. Sia Cina che Russia, del resto, si considerano non soltanto delle nazioni, ma delle “civiltà”, ed era inevitabile che si cimentassero nello sforzo di concepire una propria formulazione di modernità. E’ un’altra delle conseguenze del nascente multipolarismo. L’Occidente ha perso il monopolio sulla modernità. Non esiste più solo la versione occidentale di modernità, ma tante versioni quante sono le “civiltà” che l’hanno fatta propria.

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IL DISADATTAMENTO DELLE ELITES OCCIDENTALI. Intervista a Luigi Longo

IL DISADATTAMENTO DELLE ELITES OCCIDENTALI.

Intervista a Luigi Longo

Su questo link la raccolta delle interviste

 

Premessa

 

Non risponderò alle singole domande, che per comodità del lettore riporto in premessa, ma risponderò complessivamente perché c’è un filo rosso che le collega: il conflitto per l’egemonia mondiale tra un mondo monocentrico sostenuto dagli Usa come unico coordinatore egemonico (il polo occidentale) e un mondo multicentrico rappresentato dalla Cina e dalla Russia che è per la condivisione del dominio tra le potenze egemoni storicamente date (il polo orientale). La cesura mondiale, imposta con la guerra che gli Usa hanno dichiarato alla Russia via Ucraina-Nato-UE, ha comportato una accelerazione della costruzione del polo asiatico allargato nella fase multicentrica. Quindi il conflitto è tra un mondo a somiglianza e immagine degli Usa e tra un mondo dialogante tra le diverse potenze egemoni. La visione statunitense porta direttamente alla fase policentrica (la guerra), mentre quella cinese e russa comporta l’affermarsi della fase multicentrica che può evitare la guerra (forse l’ultima della storia umana, considerata la capacità distruttiva delle armi nucleari sulla vita della Terra) (Manlio Dinucci, La guerra. E’ in gioco la nostra vita).

 

Ecco le domande: 1) Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina? 2) Sono errori di una classe dirigente o di un’intera cultura? 3) La guerra in Ucraina manifesta una crisi dell’Occidente. È reversibile? Se sì, come? Se no, perché? 4) Cina e Russia, le due potenze emergenti che sfidano il dominio unipolare degli Stati Uniti e dell’Occidente, dopo il crollo del comunismo si sono ricollegate alle loro tradizioni culturali premoderne: Il confucianesimo per la Cina, il cristianesimo ortodosso per la Russia. Perché? Il ritorno all’indietro, letteralmente “reazionario”, può attecchire in una moderna società industriale?

La risposta complessiva.

 

Gli agenti strategici statunitensi (perché sono loro che coordinano la guerra alla Russia e non un generico Occidente) credo abbiano commesso l’errore fondamentale, temuto da Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski, di aver favorito la svolta decisiva alla costruzione del polo asiatico allargato [attraverso gli strumenti quali l’associazione interstatale dei BRICS, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), la Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), l’Unione Economica Eurasiatica (UEE), l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO), la RIC (Russia, India, Cina)], intorno alle consolidate potenze Cina e Russia, in grado di sfidare il polo occidentale, ad egemonia Usa, per la realizzazione di un mondo multicentrico. Diventa difficile, ora, per gli strateghi statunitensi, uscire da una situazione di impasse sia interna (crisi e declino strutturale di una nazione-potenza) sia esterna (relazioni con la Cina e la Russia improntate nella logica imperiale del divide et impera). Sullo sfondo ci possono essere anche alcuni loro errori di valutazione: a) il tentativo di frammentazione della Russia; b) la confusione tra economia reale ed economia finanziaria con la conseguenza di imporre sanzioni poco efficaci; sembrerebbe però un errore troppo madornale; a me pare piuttosto che si tratti di un colpo assestato dagli egemoni alla serva Europa per tenerla stretta al guinzaglio del comando, soprattutto nella fase multicentrica; c) il tentativo di ri-presa del controllo sul mar Nero importante per la Russia, per lo sbocco nel Mediterraneo.

L’Ucraina di fatto è già nella Nato, la Russia è circondata da basi Nato (ricordo l’importanza delle basi come controllo del territorio e come modello di sviluppo incastrato nelle strategie statunitensi; gli esempi delle città Nato in Italia sono eloquenti!). Quindi, il velamento dell’adesione ucraina alla Nato è funzionale sia agli Usa nel non dichiarare guerra direttamente alla Russia per equilibri/squilibri interni ed esterni (la fase multicentrica è lunga e spero che non si passi alla fase policentrica), sia alla Russia per tutelare la via del mar Nero e la popolazione delle regioni del Donbass e della Novorussia (Crimea inclusa) che rappresentano i territori (storicamente russi) più sviluppati dell’Ucraina. Ai russi non interessa la parte occidentale dell’Ucraina, sono interessati alla parte orientale meridionale del fiume Dnieper: lo hanno detto dal primo momento.

L’Ucraina, a mio parere, non esisterà più come nazione. La parte occidentale, dove vivono i veri ucraini, sarà trasformata in un territorio-enclave così come è accaduto al popolo palestinese.

Negli Usa non ci sono agenti strategici che propongono una nuova visione di sviluppo della società da portare avanti nel conflitto del mondo multicentrico; mancano, per dirla con Fedor M. Dostoevskij (Delitto e castigo), gli uomini straordinari, gli agenti strategici straordinari, in grado di dire una parola nuova. Ci sono agenti strategici, espressione di blocchi di potere, che lottano tra di loro senza una visione nazionale e gli interessi di parte prevalgono sull’interesse generale del Paese. Gli Usa non sono più un compatto insieme perché il conflitto tra i decisori è insanabile a causa della profonda crisi interna che tocca in maniera strutturale tutte le sfere della società.

Riporto una mia riflessione già sviluppata in altri scritti e, cioè, che la crisi della potenza egemone di coordinamento mondiale è una crisi di declino irreversibile che riguarda tutto l’Occidente, non fosse altro per il modello di sviluppo sociale imposto con il consenso e la coercizione. Gli Stati Uniti appaiono, nel mondo di oggi, una realtà onnipresente: non solo essi sono una delle superpotenze da cui dipende l’avvenire dell’umanità (e, invero, data la terrificante capacità distruttiva delle armi moderne, la sua stessa esistenza), ma le teorie scientifiche, i processi tecnologici, i condizionamenti culturali, i modelli di comportamento americani penetrano, per il bene come per il male, tutta la nostra vita, influenzandola assai più di quanto comunemente non appaia (Raimondo Luraghi, Gli Stati Uniti). Quindi, non è solo la crisi degli Usa ma è una crisi di civiltà dell’Occidente che si evidenzia con maggiore decisione nella fase multicentrica (una crisi d’epoca, di passaggio verso nuovi equilibri mondiali e nuovi modelli economici e sociali); una crisi che evidenzia il nichilismo occidentale della ricerca del post-umano (intelligenza artificiale, rivoluzione digitale, robotizzazione, recisioni delle radici umane e naturali, eccetera) e non riesce ad esprimere una nuova idea di sviluppo economico e sociale tendente al benessere individuale e sociale. Quale società sarà quella dove il popolo, sempre più plebe, vivrà la sua realtà virtuale tramite la rivoluzione informatica/digitale e le elites vivranno la realtà reale trasformando città e territori e costruendo nuovi paesaggi dove i flussi e il godimento della natura saranno sempre controllati e selezionati? Si va verso un nuovo paradigma sociale che porta dritto nel profondo nichilismo a meno che non si crei la possibilità di frenare questa discesa nel baratro sociale. Il morto afferra il vivo e lo fa prigioniero (Karl Marx).

La cosiddetta civiltà, qui mi riferisco sia all’Occidente sia all’Oriente, ha bisogno di ben altro progresso, di ben altra scienza: vanno ripensati sia la sua produzione sia i suoi obiettivi, tenendo presente la non neutralità della scienza. Abbiamo raschiato il fondo facendo passare per scienza la produzione dei falsi vaccini per combattere la malattia da covid-19 scaturita da un virus Sars-Cov-2 di origine artificiale usato per una guerra batteriologica, prevalentemente statunitense. Abbiamo bisogno di un progresso che aiuti a costruire sensatezza individuale e sociale affrontando i bisogni fondamentali della produzione e riproduzione della vita, innervato con il rispetto delle leggi della natura (di cui non sappiamo molto!).

Come l’Occidente affronta la fine del vecchio nomos e la costruzione del nuovo nomos (Carl Schmitt, Terra e mare)? Come si porrà il nuovo nomos occidentale in rapporto al nuovo nomos orientale che si inizia a intravedere nel costruendo polo asiatico allargato? Riusciranno i due ordini a rimanere nella fase multicentrica della storia mondiale con rispetto reciproco, basando il confronto sul riconoscimento della diversità storica e territoriale (Francois Jullien, Essere o vivere. Il pensiero occidentale e il pensiero cinese in venti contrasti; Luce Irigaray, Tra oriente e occidente. Dalla singolarità alla comunità; Guy Mettan, Russofobia. Mille anni di diffidenza) proponendo un nuovo modello di organizzazione di produzione e riproduzione della vita sessuata dei popoli?

Il “continente” Europa può svolgere un ruolo fondamentale (considerato il declino irreversibile dell’egemonia statunitense) nel creare un nuovo ordine, a patto però che crei la rottura con un progetto-percorso di de-americanizzazione (è poco studiata l’americanizzazione del territorio europeo), così come gli Stati Uniti imposero, con la dottrina Monroe, la de-europizzazione del continente America? Occorre, per dirla con Costanzo Preve, “un radicale riorientamento gestaltico” che faccia uscire l’Europa dalla servitù volontaria statunitense e pensare ad un’altra Europa come soggetto politico di nazioni autodeterminate e libere (con una propria idea di sviluppo e di organizzazione sociale, i cui territori facciano da crocevia di interscambio tra Occidente e Oriente), che aiuti gli Usa ad uscire da una logica di padroni del mondo. Una rottura forte e qualitativa che può essere realizzata mettendo in discussione il modello egemonico degli Usa a partire dalla liberazione dei territori europei dalle basi Usa e Usa-Nato che interferiscono nelle scelte di sviluppo imponendo il proprio modello di sviluppo e le proprie linee strategiche per le esigenze di potenza mondiale (l’Europa è piena di basi, di cui 140 in Italia; di 481 bombe nucleari, di cui 70 in Italia, di soldati, eccetera, cfr Redazione de “Il Messaggero”, Bombe atomiche dove sono in Italia? Oltre 70 testate nucleari in due basi, utilizzabili da Jet dell’aeronautica (ma degli Usa); Comidad, Il militarismo è un catalizzatore del crimine, www.comidad.org, 7/9/2023). E’ ideologia, nell’accezione negativa del termine, parlare di territori europei liberi quando sono occupati da basi statunitensi direttamente e indirettamente (Usa-Nato).

Bisogna uscire dalla Nato quale strumento che ha incorporato l’Unione Europea (che è stata un progetto Usa ideato negli anni trenta del secolo scorso e realizzato nel secondo dopoguerra con l’affermazione del dominio occidentale da parte degli Usa) per la realizzazione delle scelte strategiche statunitensi nel conflitto con le potenze mondiali Cina e Russia: la guerra alla Russia e tutte le scelte politiche formalmente europee lo stanno a dimostrare!

Costanzo Preve fa riflettere quando afferma che << […] l’Europa è diventata una Eurolandia priva di sovranità economica e soprattutto geopolitica e militare. Al suo interno è insediato un corpo di occupazione straniero, denominato NATO, inviato da tempo come mercenariato soldatesco in Asia Centrale, pronto a minacciare ed a rischiare una guerra mondiale in Georgia ed in Ucraina. Se questo è anche in parte vero, allora che senso ha elencare la tiritera del nostro grande profilo europeo, dalla filosofia greca al diritto romano, dalle cattedrali romaniche e gotiche dell’umanesimo rinascimentale, dalla rivoluzione scientifica all’illuminismo, dall’eredità classica greco-romana al cristianesimo, eccetera? Pura ipocrisia >> (Costanzo Preve e Luigi Tedeschi, Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale).

Fin qui ho parlato di una rivoluzione dentro il capitale (inteso come rapporto sociale) che riguarda sia l’Occidente sia l’Oriente. Occorre invece pensare e progettare una rivoluzione fuori dal capitale, ma questa è un’altra grande e fondamentale questione.

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Q & A WITH JACQUES SAPIR – WESTERN ELITES AND REALITY

italiaeilmondo.com began putting these four questions to Aurélien[1], and continues to put them, in the same way, to various Italian and foreign friends, analysts and researchers.

Today it’s Jacques Sapir’s[2] turn to answer, and we’d like to thank him sincerely for his kindness and generosity.

Q & A WITH JACQUES SAPIR – WESTERN ELITES AND REALITY

1) What are the main reasons for the serious errors of judgment made by Western political-military decision makers in the war in Ukraine?

These errors are of various kinds. First, there are errors of a ‘technical’ nature linked to a misunderstanding of the data, or of the nature of the data. For example, the oft-repeated assertion that Russia’s GDP was more or less equal to that of Italy or Spain stemmed from a lack of understanding – common among politicians and journalists alike – of statistics and how to use them. When you compare two economies, it’s important to use GDP calculated in Purchasing Power Parity (PPP) terms, because other methods are highly biased. This has led to an underestimation of Russia’s GDP (which is actually higher than Germany’s today) and therefore to a major error of judgement about Russia’s ability to cope with both the war and Western sanctions. Similarly, “technical” errors were also made regarding the capacity of Russian industry to produce large numbers of weapons and munitions. These errors are based on a lack of knowledge of Russia or on the fact that decision-makers (and journalists) have not listened to those with a real knowledge of Russia. This first level of error stems from a desire not to know, whether it concerns the subject (the war in Ukraine, Russia, Ukraine, etc.) or the way in which the data is collected. This is therefore an important error, because it reveals a form of intellectual ‘laziness’ on the part of decision-makers, a ‘laziness’ that can have many causes (from genuine laziness to forms of cognitive capacity saturation, particularly in the case of information presented in ‘technical’ forms).

 

Then we have errors that stem from the ideological filter that is present in the behaviour of all actors and decision-makers. This is an important point. No one can completely extricate themselves from their own ideological representations. To believe that we can arrive at a non-ideologised representation is a mistake (and an impossibility from the point of view of cognitive analysis). But you can know that your own representations are potentially biased, and listen to (or consult) other representations that carry a different ideology. Not that these ‘other representations’ are necessarily more ‘correct’ than one’s own. Nevertheless, the confrontation between different representations can be a warning signal as to the validity and operational relevance of one’s own representations.

The diplomatic and political discourse of the Russians since the early 2000s (since the Kosovo crisis) should have been listened to. After all, this discourse has varied remarkably little over time and shows strong discursive continuities. This does not, of course, imply that it is totally accurate, but it does suggest that it is based on real facts, on “docks of stability”, the representation of which does not change, and which should therefore be taken into account.

Proceeding in this way would undoubtedly have given a more accurate idea of the intentions of the Russian leaders and of the points which, for them, constituted “red lines”, the crossing of which would necessarily imply a large-scale response. If this was not done, the reasons may also be varied. It may be that Western decision-makers have locked themselves into a debate that is far too closed to representations other than their own. There are a number of reasons for this, including the way in which decision-makers do not accept ideological pluralism among their advisers, the pre-eminence of ideological representations which are no longer “debatable”, and finally, a “communication culture” which leads decision-makers to become increasingly dependent on “communicators” who themselves come from closed circles, favouring ideological conformity (both in training and in professional practice). The profound endogamy that exists in many countries between the world of political decision-makers and the world of journalists has exacerbated this phenomenon.

The fundamental causes of these errors can be summed up as a lack of curiosity, but also as a closed institutional system. What is interesting here is that in February-March 2022, this type of dysfunction was attributed to the Russian leaders, without Western decision-makers questioning the possibility that they themselves were victims of the same type of malfunction.

Finally, a third type of error can be attributed to a political and psychological resistance to considering that the world had profoundly changed between the 1990s and 2022. At the end of the 1990s, the dominance of the United States was accepted and, overall, Western countries exercised a form of supremacy, whether political, economic or military. But the world has changed profoundly in the last twenty years.

International economic relations have been marked by the emergence of China, which has supplanted the United States from an industrial and commercial point of view, but also by the global emergence of Asia, which has gradually supplanted Europe. At the same time, areas that were thought to be permanently sidelined by the United States and Europe, such as Latin America and the Middle East, and to a lesser extent Africa, have begun to emancipate themselves. The BRICS summit in Johannesburg at the end of August 2023 was a striking illustration of this.

This change is fundamental, because it brings to an end a period of domination over the world exercised by what can be called the “North Atlantic” zone that has lasted at least since the beginning of the 19th century. For Western decision-makers, it presents a twofold challenge: political (how to think about one’s country’s place in the international balance of power) and psychological (how to think about oneself when moving from a position of centrality to one of peripherality). Overall, however, decision-makers in Western countries were poorly prepared for this dual challenge. In some cases, they were relatively young people with limited experience. In other cases, the conditions of their training, whether this training is understood in the university sense of the term or in the political sense, had not prepared them to face a challenge of this importance. Faced, then, with major changes that are far beyond their control and which create situations of cognitive dissonance, these decision-makers opt either for strategies of denial (these changes do not exist, or are only temporary…) or for the reproduction of past behaviour. Thus, at best, they are prepared to engage in a “Cold War 2.0”, reproducing the behaviour of their predecessors from 1948 to 1952, but in a situation that is now radically different.

The causes of the mistakes made by “Western” leaders are probably as numerous as the mistakes themselves. They all add up to a major crisis of decision-making.

 

2) Are they errors of a ruling class or are they errors of an entire culture?

These errors are, of course, primarily the errors of the ruling class. But their scale, their diversity and their systematic nature are indeed striking. A modern Hamlet would no doubt exclaim: “something is rotten in Western countries“.

After that, there are many problems. The first is the tendency of the ruling elites to self-replicate. This is not entirely new. The ruling classes have always tended to operate in a vacuum. But from the 1950s to the 1990s, they became more open to the entry of people with no prior ties to these classes. Since the 2000s, they have tended to close in on themselves and, naturally, to produce a specific culture. This is true in France, the UK and Germany, but probably less so in the Scandinavian countries. We can now speak of a culture (or more precisely a sub-culture) of the elite that is largely distinct from the culture (or sub-cultures) of the working classes in terms of representations and behaviour, but not necessarily in terms of relationships with institutions.

This ‘elite’ subculture has certainly been one of the foundations of the mistakes made, in that it is characterised by a self-satisfied arrogance, by a contempt for anything that is not expressed in its own particular language, by a difficulty or even an impossibility of standing back and questioning its ‘values’, and finally by a fairly systematic form of hypocrisy. This elite subculture has facilitated the reproduction and perpetuation of the structures that we have mentioned and that have been at the root of these errors, such as the belief in simplified discourse, the absence of any criticism of one’s own representations (supposed to be “the best”), and forms of intellectual routine that have not prepared these ruling elites for the challenges of the period. From this point of view, it is not wrong to speak of the many errors committed by the Western ruling classes as being both practically and intellectually bankrupt.

But does this mean that ‘popular’ subcultures have been entirely preserved from the faults and defects of the elite subculture? Here, it would undoubtedly be necessary to specify the diagnosis country by country. If we take the case of the United States, American exceptionalism, its lack of interest in anything external, has undoubtedly played an important role in the non-contestation of certain statements of the elite subculture, and this has facilitated for a time the harmful work of neo-conservative circles in the ruling classes.

For European countries, on the other hand, this is much more difficult to demonstrate. Indeed, the need to maintain fairly crude propaganda about Ukraine in the mainstream media clearly shows that popular subcultures have remained relatively resistant to the discourse of the ruling classes. Here again, we need to refine our findings. The image of the “evil Russian” or the presence of a threatening “Russian imperialism” is certainly more present in the populations of Northern European countries, or certain former Warsaw Pact countries. It should be noted, however, that part of the Hungarian ruling class has a rather different discourse, which can be described as “realistic” (in the sense that this term has in international politics), and that this discourse seems largely in tune with the ideas conveyed among the population. The same thing seems to be happening in Austria. In France, Germany and Italy, despite the diversity of cultures, we can nevertheless observe a certain resistance of popular subcultures to the elite subculture. France is a case in point. Popular subculture has been profoundly affected by the American Holywood representation machine. Thus, the vision of the Soviet (and therefore Russian) contribution, which was extremely positive at the end of the forties and in the fifties and sixties, was gradually reversed. Nevertheless, the French popular subculture is not spontaneously convinced by the stereotypes of the “evil Russian” or the “Russian aggressor”. Various opinion polls show that there is still a “pro-Russian” base in the population. They also show that, spontaneously, the working classes have a more realistic, if necessarily sketchy, view of current geopolitical developments.

 

This inability of the elite subculture to fully influence and shape the popular subcultures is reflected today in the fact that the intermediate strata between the top of the ruling classes and the popular classes, those we might call the ‘petty-bourgeoisie culture’, have become a strategic target in the ‘cultural war’ being waged by the ruling classes. These classes, knowing that the “cultural petty-bourgeoisie” is particularly dependent on the media (whether traditional print or broadcast media or social networks), have undertaken a ferocious struggle to exclude from these media any opinion that is divergent on these points. But the sheer ferocity of this fight has led to the traditional press being discredited. The “cultural petty-bourgeoisie” now tends to seek information, and therefore representations, increasingly on social networks. Hence a shift in the struggle. The ruling classes are now seeking to muzzle these social networks, to legitimise the introduction of indirect or direct forms of censorship.

 

3) The war in Ukraine manifests a crisis of the West. Is it reversible? If so, how? If not, why?

It is indeed clear that the war in Ukraine manifests a crisis in the “collective West”, as the Russians call it. This “collective West” is proving incapable of allowing Ukraine to “win” and, beyond that, incapable of halting the transformations of a world that is increasingly beyond its control.

This process seems irreversible. We do not know whether Russia will have a “small” victory (maintaining the gains made since 2014) or a “big” victory (extending the gains and satisfying its main demands). But there seems to be little doubt about a Russian “victory”. More generally, it is hard to see how the “collective West” could return to the position it was in in 2010, or even before. So the real question is not whether these developments are reversible, but whether the “collective West” will continue to lose ground, economically, politically, militarily and, of course, culturally, or whether it will be able to stabilise its position over the next five to ten years.

To stabilise its position, the “collective West” needs to do two things: stabilise its economic situation and put a stop to the process of de-industrialisation that it has been undergoing for nearly forty years now, and change its attitude towards the rest of the world, to show that it is aware of its loss of hegemony and that it is, at last, ready to discuss things on an equal footing, without always wanting to set itself up as a teacher. But these two objectives will raise contradictions within the “collective West” itself.

On the subject of de-industrialisation, there is an internal conflict between the United States and the countries of the European Union. The United States is convinced that its own re-industrialisation must take place at the expense of Europe, in other words that it must cannibalise European industry. It is in the process of doing so, having forced the countries of the European Union to imitate it in a near-break-up with Russia over energy issues. Access to the low-cost energy Russia was selling was of particular importance to the economic and industrial development of the European Union. This is a zero-sum game between the United States and the EU. However, the current US strategy is contradictory to the economic stabilisation of the “collective West”. Whatever the US may gain from this strategy will be more than offset by the losses in Europe. True, the United States will become the undisputed leader of the “Western camp”, but the latter will continue to weaken and the United States will be the master of a group that will continue to decline and lose economic importance. Note that this strategy is the opposite of that pursued by the United States from 1948 to 1960, at the start of the “first” Cold War. At that time, the United States agreed to cede part of its growth to Western Europe, which was in the process of reconstruction. If we look at the two “major” crises of Cold War 1.0, the Korean War and the Cuban Missile Crisis, the “Western world”, as it was called at the time, was much stronger in 1962 than it was in 1950. The current American strategy therefore contradicts the objective of long-term economic stabilisation of the “collective West”.

 

On the second point, the problem is more ideological. Agreeing to treat the rest of the world as equals, and to stop constantly trying to teach lessons, means coming to terms with our former hegemony, but also with vulgar universalism. As far as the former hegemony is concerned, everyone will understand. As for what I call vulgar universalism, and this may come as a surprise from someone who claims to be a universalist, it concerns the belief, which I consider to be false, that there is only one way to achieve the universals enshrined in the Rights of Man (and therefore Woman’s) and Citizen, development for all, or more rational management of resources leading to carbon neutrality. The reality is that there are several different approaches, several possible trajectories, that can lead to these results. We cannot draw from the historical experience of our particular trajectories the conclusion that these are the only possible trajectories. We must therefore let other nations, other peoples, experiment, discover through historical processes of trial and error, which trajectories are appropriate to their cultures. True universalism is a universalism of objectives, not of trajectories. We can only demand respect for our own culture by respecting the culture of others, even if we may consider, and sometimes rightly so, that it is oppressive, backward and sometimes absolutely cruel. We must remember that all attempts to bring about progress and advance towards the universals set out above, by means of cannon, bombs or napalm, have been bloody failures and have actually caused societies to regress.

We can, however, measure what the simple objective of stabilising the position of the “collective West”, which is the only realistic objective, implies in terms of cultural and political revolution in the ruling elites. This is why I believe that this objective will not be achieved and that, as a “bloc”, this “collective West” no longer has a future.

 

4) China and Russia, the two emerging powers challenging U.S. and Western unipolar domination, have since the collapse of communism reconnected with their pre-modern cultural traditions: Confucianism for China, Orthodox Christianity for Russia. Why? Can the backward, literally “reactionary” return take root in a modern industrial society?

The return of China and Russia to their “traditional values” is more a part of the current discourse than a reality. In reality, Soviet and Chinese communism remained steeped in these “values”. The rhetoric of the Bolshevik and Chinese communist leaders should not be taken at face value when they claim to have made a radical break with their past. In these two revolutions, the elements of continuity are at least as important as the elements of rupture. Stalinist society remained largely within the framework of Orthodox values, even when the church was persecuted: reverence for a discourse conceived as a religion, the role of portraits of leaders in the image of ancient icons, social puritanism, etc, etc. Bolshevism was the form that modernising ideology adopted in Russia. This explains why a large part of the technical intelligentsia rallied to the new regime in 1918-1920. Similarly, the essence of Confucianism was always present in People’s China, even when Confucianism was officially opposed (the short-lived “Pi Lin, Pi Kong” campaign).

The end of the “Soviet” framework in Russia, and the gradual evolution of the system in People’s China, have led to a gradual rehabilitation of the classic forms of these “traditional values”. But these countries still look back on their recent past with some sympathy, whether it be the role of Stalin in Russia or that of Mao in China. In fact, it is more accurate to speak of evolutions in the synthesis between traditional values and the particular form taken by modernity for these countries than to speak of a return to ancient cultural traditions. The Chinese and Russian populations have evolved profoundly over the last century, in their relationship with children, in the role of women, in the balance between collective and individual values, and they will continue to evolve. But this evolution will not be (and has not been) an imitation of Western societies. It is the ideal example of what I have called different trajectories but a search for a common ultimate goal.

 

 

 

 

[1] https://italiaeilmondo.com/2023/08/23/western-elites-and-reality-q-a-with-aurelien_edited-by-roberto-buffagni/

[2] https://en.wikipedia.org/wiki/Jacques_Sapir

 

IL DISADATTAMENTO DELLE ÉLITES OCCIDENTALI. INTERVISTA A TEODORO KLITSCHE de la GRANGE

IL DISADATTAMENTO DELLE ÉLITES OCCIDENTALI. INTERVISTA A TEODORO KLITSCHE de la GRANGE

Il sito italiaeilmondo.com ha iniziato a rivolgere quattro domande a Aurelien[1], e continua a proporle, identiche, a diversi amici, analisti, studiosi italiani e stranieri.

Oggi risponde Teodoro Klitsche de la Grange[2], che ringraziamo sentitamente per la sua gentilezza e generosità. 

Qui il collegamento con la raccolta di tutti gli articoli sino ad ora pubblicati_Giuseppe Germinario, Roberto Buffagni

DOMANDE

1) Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?

2) Sono errori di una classe dirigente o di un’intera cultura?

3) La guerra in Ucraina manifesta una crisi dell’Occidente. È reversibile? Se sì, come? Se no, perché?

4) Cina e Russia, le due potenze emergenti che sfidano il dominio unipolare degli Stati Uniti e dell’Occidente, dopo il crollo del comunismo si sono ricollegate alle loro tradizioni culturali premoderne: Il confucianesimo per la Cina, il cristianesimo ortodosso per la Russia. Perché? Il ritorno all’indietro, letteralmente “reazionario”, può attecchire in una moderna società industriale?

RISPOSTE

Premesso che, come i lettori di “Italia e il mondo” sanno, la “nebbia della guerra” nel conflitto russo-ucraino è particolarmente fitta – anche se rozza – e pertanto ha, quanto meno, l’effetto di disorientare i giudizi; tenuto conto di tale – fondamentale limite – provo a rispondere:

Al primo quesito: sembra che sia stato di sottovalutare il nemico. Ma non è certo, dato che lo “scopo” politico potrebbe anche (per gli USA) essere di impelagare la Russia in una guerra lunga. Obiettivo, per ora, conseguito.

Quanto al secondo quesito (e in parte al primo), l’errore più evidente (dell’epoca contemporanea) è valutare fatti politici, come per eccellenza è la guerra, con “categorie” e criteri economici. Se è vero che contiene (una parte) di vero il detto “c’est l’argent qui fait la guerre” è vero (per l’altra, prevalente, parte) che se fossero PIL, cambi, spread, ecc. ecc,. e così la sproporzione economica a determinare la vittoria in guerra, non si capirebbe l’esito –  opposto – di tanti conflitti. Già oltre quarant’anni fa Luttwak ironizzava sui rapporti redatti dal pentagono sulla guerra in Vietnam, dove l’impegno militare era commisurato dal numero di proiettili e missili sparati, dal peso delle bombe, ecc. ecc.: con criteri e parametri assai simili a quelli di manager che misurano la produttività in base alla quantità di “pezzi” che escono dalla fabbrica. E dalle vendite dei medesimi.

Circostanze importanti, ma non decisive in politica e in campo militare. Qui essenziale è fiaccare la volontà di combattere del nemico, seguendo la prima definizione della guerra nel “Von Kriege”. Il che spiega come popoli del Terzo mondo, poverissimi, abbiano sconfitto gli eserciti delle grandi potenze, colmi di ogni ben di Dio. Napoleone, che di queste cose s’intendeva, sosteneva che il morale sta al materiale come 3 sta ad 1. Sarebbe bene che se ne ricordassero.

E ovviamente questo non è il solo ambito – ma è il principale – che distorce i giudizi delle élites.

Ma è sicuro che tale errore coinvolge sia le élite che la cultura in cui sono vissute e prosperate (loro): che è quello della “fine della Storia” durato poco più di un decennio, ma che dopo ha continuato a far danni. Secondo la quale i quattro cavalieri dell’Apocalisse erano andati in pensione. Ma negli ultimi anni almeno due: peste e guerra hanno ripreso servizio, anche in Europa, infrangendo i sogni delle anime belle (quanto ingenue o ipocrite).

Il terzo quesito: la crisi è una conseguenza della fuga dalla realtà; della credenza di poter cambiare il reale in conformità ai propri sogni e favole mentre, come scriveva Machiavelli, così si trova “più presto la ruina” propria.

Sul quarto: non mi intendo di Russia e Cina da poter azzardare giudizi. Posso all’uopo ricordare anche qui quello di Machiavelli: che per rigenerare una repubblica occorre “ritornare” al principio

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IL DISADATTAMENTO DELLE ÉLITES OCCIDENTALI. INTERVISTA A Jacques Sapir

Il sito italiaeilmondo.com ha iniziato a rivolgere quattro domande a Aurelien[1], e continua a proporle, identiche, a diversi amici, analisti, studiosi italiani e stranieri.

Oggi risponde Jacques Sapir[2], che ringraziamo sentitamente per la sua gentilezza e generosità. Anche per il testo di Sapir pubblicheremo le versioni in inglese e francese

Qui il collegamento con la raccolta di tutti gli articoli sino ad ora pubblicati_Giuseppe Germinario, Roberto Buffagni

INTERVISTA A JACQUES SAPIR

1) Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?

Questi errori sono di vario tipo. Innanzitutto, ci sono errori di natura “tecnica”, legati a un’incomprensione dei dati o della loro natura. Ad esempio, l’affermazione spesso ripetuta che il PIL della Russia fosse più o meno uguale a quello dell’Italia o della Spagna derivava da una mancanza di comprensione – comune a politici e giornalisti – delle statistiche e del loro utilizzo. Quando si confrontano due economie, è importante utilizzare il PIL calcolato in termini di parità di potere d’acquisto (PPA), perché altri metodi sono altamente distorcenti. Questo ha portato a una sottostima del PIL russo (che in realtà oggi è più alto di quello tedesco) e quindi a un grave errore di valutazione sulla capacità della Russia di far fronte sia alla guerra che alle sanzioni occidentali. Allo stesso modo, sono stati commessi errori “tecnici” sulla capacità dell’industria russa di produrre un gran numero di armi e munizioni. Questi errori si basano su una mancanza di conoscenza della Russia o sul fatto che i decisori (e i giornalisti) non hanno ascoltato chi ha una reale conoscenza della Russia. Questo primo livello di errore deriva dal desiderio di non sapere, sia che si tratti dell’argomento (la guerra in Ucraina, la Russia, l’Ucraina, ecc.) sia che si tratti del modo in cui vengono raccolti i dati. Si tratta quindi di un errore importante, perché rivela una forma di “pigrizia” intellettuale da parte dei decisori, una “pigrizia” che può avere molte cause (dalla pigrizia vera e propria a forme di saturazione delle capacità cognitive, soprattutto nel caso di informazioni presentate in forme “tecniche”).

Poi ci sono gli errori che derivano dal filtro ideologico presente nel comportamento di tutti gli attori e i decisori. Questo è un punto importante. Nessuno può liberarsi completamente dalle proprie rappresentazioni ideologiche. Credere di poter arrivare a una rappresentazione non ideologizzata è un errore (e un’impossibilità dal punto di vista dell’analisi cognitiva). Ma si può sapere che le proprie rappresentazioni sono potenzialmente distorte e ascoltare (o consultare) altre rappresentazioni che portano un’ideologia diversa. Non che queste “altre rappresentazioni” siano necessariamente più “corrette” delle proprie. Tuttavia, il confronto tra rappresentazioni diverse può essere un segnale di allarme sulla validità e sulla rilevanza operativa delle proprie rappresentazioni.

Il discorso diplomatico e politico dei russi dall’inizio degli anni 2000 (dalla crisi del Kosovo) avrebbe dovuto essere ascoltato. Dopo tutto, questo discorso è variato molto poco nel tempo e mostra una forte continuità discorsiva. Ciò non implica, ovviamente, che sia totalmente accurato, ma suggerisce che si basa su fatti reali, su “moli di stabilità”, la cui rappresentazione non cambia e che quindi vanno tenuti in considerazione.

Procedere in questo modo avrebbe senza dubbio dato un’idea più precisa delle intenzioni dei leader russi e dei punti che, per loro, costituivano “linee rosse”, il cui superamento avrebbe necessariamente comportato una risposta su larga scala. Se questo non è stato fatto, le ragioni possono anche essere diverse. Può darsi che i decisori occidentali si siano rinserrati in un dibattito troppo chiuso a rappresentazioni diverse dalle proprie. Le ragioni sono molteplici, tra cui il modo in cui i decisori non accettano il pluralismo ideologico tra i loro consulenti, la preminenza di rappresentazioni ideologiche non più “discutibili” e, infine, una “cultura della comunicazione” che porta i decisori a dipendere sempre più da “comunicatori” che a loro volta provengono da circoli chiusi, favorendo il conformismo ideologico (sia nella formazione che nella pratica professionale). La profonda endogamia che esiste in molti Paesi tra il mondo dei decisori politici e quello dei giornalisti ha esacerbato questo fenomeno.

Le cause fondamentali di questi errori si possono riassumere in una mancanza di curiosità, ma anche in un sistema istituzionale chiuso. L’aspetto interessante è che nel febbraio-marzo 2022 questo tipo di disfunzionalità del sistema decisionale è stata attribuito ai leader russi, senza che i decisori occidentali si interrogassero sulla possibilità di essere essi stessi vittime di questo tipo di disfunzione.

Infine, un terzo tipo di errore può essere attribuito a una resistenza politica e psicologica a considerare che il mondo è profondamente cambiato tra gli anni ’90 e il 2022. Alla fine degli anni ’90, il dominio degli Stati Uniti era accettato e, nel complesso, i Paesi occidentali esercitavano una forma di supremazia, sia politica che economica o militare. Ma il mondo è profondamente cambiato negli ultimi vent’anni.

Le relazioni economiche internazionali sono state segnate dall’emergere della Cina, che ha soppiantato gli Stati Uniti dal punto di vista industriale e commerciale, ma anche dall’emergere globale dell’Asia, che ha gradualmente soppiantato l’Europa. Allo stesso tempo, aree che si pensava fossero definitivamente emarginate dagli Stati Uniti e dall’Europa, come l’America Latina e il Medio Oriente, e in misura minore l’Africa, hanno iniziato a emanciparsi. Il vertice dei BRICS tenutosi a Johannesburg alla fine di agosto 2023 ne è stata una dimostrazione lampante.

Questo cambiamento è fondamentale, perché pone fine a un periodo di dominio sul mondo esercitato da quella che può essere definita la zona “nord-atlantica”, che durava almeno dall’inizio del XIX secolo. Per i decisori occidentali rappresenta una duplice sfida: politica (come pensare il posto del proprio Paese nell’equilibrio di potere internazionale) e psicologica (come pensare se stessi quando si passa da una posizione di centralità a una di perifericità). Nel complesso, tuttavia, i responsabili delle decisioni nei Paesi occidentali sono stati poco preparati ad affrontare questa duplice sfida. In alcuni casi, si trattava di persone relativamente giovani con un’esperienza limitata. In altri casi, le condizioni della loro formazione, sia essa intesa in senso universitario o politico, non li avevano preparati ad affrontare una sfida di tale importanza. Di fronte a grandi cambiamenti, che vanno ben oltre le loro possibilità e creano dissonanze cognitive, questi decisori optano per strategie di negazione (questi cambiamenti non esistono, o sono solo temporanei…) o per la riproduzione del comportamento passato. Così, nella migliore delle ipotesi, sono pronti a impegnarsi in una “Guerra Fredda 2.0”, riproducendo il comportamento dei loro predecessori dal 1948 al 1952, ma in una situazione che ora è radicalmente diversa.

Le cause degli errori commessi dai leader “occidentali” sono probabilmente numerose quanto gli errori stessi. Tutte si sommano a una grande crisi decisionale.

 

2) Sono errori di una classe dirigente o di un’intera cultura?

Questi errori sono, ovviamente, in primo luogo errori della classe dirigente. Ma la loro portata, la loro varietà e la loro sistematicità sono davvero impressionanti. Un moderno Amleto esclamerebbe senza dubbio: “c’è del marcio nei Paesi occidentali“.

Dopodiché, i problemi sono molti. Il primo è la tendenza delle élite al potere ad auto-replicarsi. Non si tratta di una novità assoluta. Le classi dirigenti hanno sempre avuto la tendenza a operare nel vuoto. Ma dagli anni Cinquanta agli anni Novanta sono diventate più aperte all’ingresso di persone che non avevano legami precedenti con esse. Dagli anni Duemila, tendono a chiudersi in se stesse e, naturalmente, a produrre una cultura specifica. Questo è vero in Francia, Regno Unito e Germania, ma probabilmente di meno nei Paesi scandinavi. Oggi possiamo parlare di una cultura (o più precisamente di una sottocultura) delle élite che è ampiamente distinta dalla cultura (o dalle sottoculture) delle classi lavoratrici in termini di rappresentazioni e comportamenti, ma non necessariamente in termini di rapporti con le istituzioni.

Questa subcultura “d’élite” è stata certamente uno dei fondamenti degli errori commessi, in quanto caratterizzata da un’arroganza autocompiaciuta, da un disprezzo per tutto ciò che non si esprime nel suo linguaggio particolare, da una difficoltà o addirittura da un’impossibilità di fare marcia indietro e di mettere in discussione i suoi “valori”, e infine da una forma abbastanza sistematica di ipocrisia. Questa sottocultura d’élite ha facilitato la riproduzione e la perpetuazione delle strutture che abbiamo menzionato e che sono state all’origine di questi errori, come la fiducia in un discorso semplificato, l’assenza di qualsiasi critica alle proprie rappresentazioni (che si suppone siano “le migliori”) e forme di routine intellettuale che non hanno preparato queste élite al potere per le sfide del periodo. Da questo punto di vista, non è sbagliato parlare dei molti errori commessi dalle classi dirigenti occidentali come di una bancarotta sia pratica che intellettuale.

Ma questo significa che le subculture “popolari” sono state interamente preservate dai difetti e dalle mancanze della subcultura d’élite? In questo caso, sarebbe senza dubbio necessario specificare la diagnosi paese per paese. Se prendiamo il caso degli Stati Uniti, l’eccezionalismo americano, il suo disinteresse per tutto ciò che è esterno, ha senza dubbio giocato un ruolo importante nella non contestazione di alcune affermazioni della subcultura d’élite, e questo ha facilitato per un certo periodo l’opera nefasta dei circoli neoconservatori nelle classi dirigenti.

Per i Paesi europei, invece, questo è molto più difficile da dimostrare. Infatti, la necessità di mantenere una propaganda piuttosto rozza sull’Ucraina, nei media tradizionali, dimostra chiaramente che le sottoculture popolari sono rimaste relativamente resistenti al discorso delle classi dirigenti. Anche in questo caso, dobbiamo affinare i nostri risultati. L’immagine del “russo cattivo” o della presenza di un minaccioso “imperialismo russo” è certamente più presente nelle popolazioni dei Paesi del Nord Europa o di alcuni Paesi dell’ex Patto di Varsavia. Va notato, tuttavia, che una parte della classe dirigente ungherese ha un discorso piuttosto diverso, che può essere descritto come “realistico” (nel senso che questo termine ha nella politica internazionale), e che questo discorso sembra in gran parte in sintonia con le idee trasmesse tra la popolazione. La stessa cosa sembra accadere in Austria. In Francia, Germania e Italia, nonostante la diversità delle culture, possiamo comunque osservare una certa resistenza delle sottoculture popolari nei confronti della sottocultura d’élite. Il caso della Francia è piuttosto caratteristico a questo proposito. La sottocultura popolare è stata profondamente influenzata dalla macchina di rappresentazione americana di Hollywood. Così, la visione del contributo sovietico (e quindi russo), estremamente positiva alla fine degli anni Quaranta e negli anni Cinquanta e Sessanta, è stata gradualmente ribaltata. Tuttavia, la sottocultura popolare francese non si lascia convincere spontaneamente dagli stereotipi del “russo cattivo” o dell'”aggressore russo”. Diversi sondaggi di opinione mostrano che esiste ancora una base “filorussa” nella popolazione. Mostrano anche che, spontaneamente, le classi lavoratrici hanno una visione più realistica, anche se necessariamente sommaria, degli attuali sviluppi geopolitici.

 

L’incapacità della sottocultura d’élite di influenzare e plasmare pienamente le sottoculture popolari si riflette oggi nel fatto che gli strati intermedi tra i vertici delle classi dominanti e le classi popolari, quelli che potremmo definire la “cultura piccolo-borghese”, sono diventati un obiettivo strategico nella “guerra culturale” condotta dalle classi dominanti. Queste classi, sapendo che la “piccola borghesia culturale” dipende in modo particolare dai media (sia quelli tradizionali, sia quelli radiotelevisivi, sia i social network), hanno intrapreso una lotta feroce per escludere da questi media qualsiasi opinione divergente su questi punti. Ma la ferocia di questa lotta ha portato al discredito della stampa tradizionale. La “piccola borghesia culturale” tende ormai a cercare informazioni, e quindi rappresentazioni, sempre più sui social network. Da qui un cambiamento nella lotta. Le classi dominanti cercano ora di imbavagliare questi social network, per legittimare l’introduzione di forme indirette o dirette di censura.

 

3) La guerra in Ucraina manifesta una crisi dell’Occidente. È reversibile? Se sì, come? Se no, perché?

È infatti evidente che la guerra in Ucraina manifesta una crisi dell'”Occidente collettivo”, come lo chiamano i russi. Questo “Occidente collettivo” si sta dimostrando incapace di permettere all’Ucraina di “vincere” e, oltre a ciò, incapace di arrestare le trasformazioni di un mondo che sfugge sempre più al suo controllo.

Questo processo sembra irreversibile. Non sappiamo se la Russia otterrà una “piccola” vittoria (mantenendo le conquiste fatte dal 2014) o una “grande” vittoria (estendendo le conquiste e soddisfacendo le sue principali richieste). Ma sembrano esserci pochi dubbi su una “vittoria” russa. Più in generale, è difficile vedere come l'”Occidente collettivo” possa tornare alla posizione in cui si trovava nel 2010, o anche prima. La vera domanda non è quindi se questi sviluppi siano reversibili, ma se l'”Occidente collettivo” continuerà a perdere terreno, economicamente, politicamente, militarmente e, naturalmente, culturalmente, o se sarà in grado di stabilizzare la propria posizione nei prossimi cinque-dieci anni.

Per stabilizzare la sua posizione, l'”Occidente collettivo” deve fare due cose: stabilizzare la sua situazione economica e porre fine al processo di deindustrializzazione che sta subendo da quasi quarant’anni, e cambiare atteggiamento nei confronti del resto del mondo, per dimostrare che è consapevole della sua perdita di egemonia e che è finalmente pronto a discutere su un piano di parità, senza volersi sempre ergere a maestro. Ma questi due obiettivi solleveranno contraddizioni all’interno dello stesso “Occidente collettivo”.

Sul tema della deindustrializzazione esiste un conflitto interno tra gli Stati Uniti e i Paesi dell’Unione Europea. Gli Stati Uniti sono convinti che la loro reindustrializzazione debba avvenire a spese dell’Europa, ovvero che debbano cannibalizzare l’industria europea. Lo stanno facendo, avendo costretto i Paesi dell’Unione Europea a imitarli in una quasi rottura con la Russia per questioni energetiche. L’accesso all’energia a basso costo che la Russia vendeva era di particolare importanza per lo sviluppo economico e industriale dell’Unione Europea. Si tratta di un gioco a somma zero tra gli Stati Uniti e l’UE. Tuttavia, l’attuale strategia statunitense è in contraddizione con la stabilizzazione economica dell'”Occidente collettivo”. Qualunque cosa gli Stati Uniti possano guadagnare da questa strategia sarà più che compensata dalle perdite in Europa. È vero che gli Stati Uniti diventeranno il leader indiscusso del “campo occidentale”, ma quest’ultimo continuerà a indebolirsi e gli Stati Uniti saranno il padrone di un gruppo che continuerà a declinare e a perdere importanza economica. Si noti che questa strategia è l’opposto di quella perseguita dagli Stati Uniti dal 1948 al 1960, all’inizio della “prima” guerra fredda. A quel tempo, gli Stati Uniti accettarono di cedere parte della loro crescita all’Europa occidentale, che era in fase di ricostruzione. Se guardiamo alle due “grandi” crisi della Guerra Fredda 1.0, la Guerra di Corea e la Crisi dei Missili di Cuba, il “mondo occidentale”, come veniva chiamato all’epoca, era molto più forte nel 1962 che nel 1950. L’attuale strategia americana contraddice quindi l’obiettivo di stabilizzazione economica a lungo termine dell'”Occidente collettivo”.

Sul secondo punto, il problema è più ideologico. Accettare di trattare il resto del mondo da pari a pari, smettere di cercare continuamente di dare lezioni, significa fare i conti con la nostra ex egemonia, ma anche con un universalismo volgare. Per quanto riguarda la vecchia egemonia, tutti mi capiranno. Quello che chiamo universalismo volgare, e che può sorprendere chi si dichiara universalista, riguarda la convinzione, che considero falsa, che esista un solo modo per raggiungere gli universali dei Diritti dell’Uomo (e quindi delle donne) e del Cittadino, lo sviluppo per tutti o una gestione più razionale delle risorse che porti alla neutralità carbone. La realtà è che esistono diversi approcci, diverse traiettorie possibili, che possono portare a questi risultati. Non possiamo trarre dall’esperienza storica delle nostre particolari traiettorie la conclusione che queste siano le uniche possibili. Dobbiamo quindi permettere ad altre nazioni, ad altri popoli, di sperimentare, di scoprire attraverso processi storici per prova ed errore, quali traiettorie sono più adatte alle loro culture. Il vero universalismo è un universalismo di obiettivi, non delle traiettorie. Possiamo pretendere il rispetto della nostra cultura solo rispettando quella degli altri, anche se la consideriamo, a volte a ragione, oppressiva, arretrata e a volte assolutamente crudele. Dobbiamo ricordare che tutti i tentativi di far progredire e avanzare verso gli universali di cui sopra, mediante cannoni, bombe o napalm, sono stati dei sanguinosi fallimenti e hanno provocato, di fatto, la regressione delle società.

 

Tuttavia, è possibile misurare ciò che comporta il semplice obiettivo di stabilizzare la posizione dell'”Occidente collettivo”, che è l’unico obiettivo realistico, in termini di rivoluzione culturale e politica delle élite al potere. Ecco perché ritengo che questo obiettivo non sarà raggiunto e che, come “blocco”, questo “Occidente collettivo” non ha più un futuro.

 

4) Cina e Russia, le due potenze emergenti che sfidano il dominio unipolare degli Stati Uniti e dell’Occidente, dopo il crollo del comunismo si sono ricollegate alle loro tradizioni culturali premoderne: Il confucianesimo per la Cina, il cristianesimo ortodosso per la Russia. Perché? Il ritorno all’indietro, letteralmente “reazionario”, può attecchire in una moderna società industriale?

Il ritorno della Cina e della Russia ai loro “valori tradizionali” è più un elemento del discorso odierno che una realtà. In realtà, il comunismo sovietico e cinese è rimasto impregnato di questi “valori”. La retorica dei leader comunisti bolscevichi e cinesi non deve essere presa alla lettera, quando affermano di aver operato una rottura radicale con il loro passato. In queste due rivoluzioni, gli elementi di continuità sono importanti almeno quanto quelli di rottura. La società staliniana rimase in gran parte nel quadro dei valori ortodossi, anche quando la Chiesa fu perseguitata: la riverenza per un discorso concepito come una religione, il ruolo dei ritratti dei leader a immagine di antiche icone, il puritanesimo sociale, eccetera eccetera. Il bolscevismo fu la forma che l’ideologia modernizzatrice assunse in Russia. Questo spiega perché gran parte dell’intellighenzia tecnica si sia schierata a favore del nuovo regime, nel 1918-1920. Allo stesso modo, l’essenza del confucianesimo è sempre stata presente nella Cina popolare, anche quando il confucianesimo era ufficialmente osteggiato (la breve campagna “Pi Lin, Pi Kong”).

La fine del quadro “sovietico” in Russia, e la graduale evoluzione del sistema nella Cina popolare hanno portato a una graduale riabilitazione delle forme classiche di questi “valori tradizionali”. Ma questi Paesi guardano ancora con una certa simpatia al loro recente passato, che si tratti del ruolo di Stalin in Russia o di quello di Mao in Cina. In realtà, per questi Paesi è più corretto parlare di evoluzione nella sintesi tra i valori tradizionali e la forma particolare assunta dalla modernità, piuttosto che parlare di un ritorno alle antiche tradizioni culturali. Le popolazioni cinesi e russe si sono profondamente evolute nell’ultimo secolo, nel rapporto con i figli, nel ruolo della donna, nell’equilibrio tra valori collettivi e individuali, e continueranno a evolversi. Ma questa evoluzione non sarà (e non è stata) un’imitazione delle società occidentali. È l’esempio ideale di quelle che ho definito traiettorie diverse ma alla ricerca di un obiettivo finale comune.

[1] https://italiaeilmondo.com/2023/08/23/il-disadattamento-delle-elites-occidentali-intervista-ad-aurelien-_-a-cura-di-roberto-buffagni/

[2] https://fr.wikipedia.org/wiki/Jacques_Sapir

Il disadattamento delle élites occidentali. Intervista a Giacomo Gabellini

Abbiamo posto giorni fa ad Aurelien quattro domande alle quali l’analista ci ha rapidamente e compiutamente risposto. Abbiamo pubblicato il 23 agosto qui la sua replica.

Su suggerimento di alcuni lettori abbiamo esteso ad altri autori ed analisti l’invito a rispondere alle medesime. Proseguiamo con la pubblicazione del punto di vista di Giacomo Gabellini. Nella voce “dossier” sulla barra orizzontale abbiamo creato una apposita raccolta. Buona lettura, Giuseppe Germinario

  • Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?

Credo che le ragioni degli sbalorditivi errori di calcolo compiuti siano da attribuire al senso di onnipotenza che ha pervaso le classi dirigenti statunitensi a partire dal collasso dell’Unione Sovietica. Questa percezione distorta ha atrofizzato il pensiero critico e alimentato un sostanziale disinteresse per il resto del mondo; il conformismo dilagante che ne è scaturito ha pregiudicato la capacità sia di formulare valutazioni realistiche delle potenzialità proprie e del nemico, sia di comprendere le implicazioni strategiche delle proprie scelte politiche. Hanno quindi trasformato deliberatamente la questione ucraina da crisi regionale in sfida esistenziale per la Russia, senza rendersi pienamente conto dei pericoli che comporta la decisione di mettere con le spalle al muro quello che si configura come il Paese più grande del mondo dotato di oltre 6.000 testate atomiche e vettori ipersonici in grado di trasportarle verso l’obiettivo. Hanno quindi sottovalutato la capacità industriale, la coesione sociale, le competenze tecnologiche e la forza militare latente della Federazione Russa, sovrastimando allo stesso tempo la propria capacità di condizionamento e dissuasione nei confronti dei Paesi terzi, l’impatto delle sanzioni, le implicazioni della sempre più spiccata tendenza a “militarizzare” il dollaro e i circuiti attraverso cui circola la moneta Usa. Si sono quindi illusi di strangolare l’economia russa come avevano fatto con quella cilena negli anni ’70, di poter agevolmente convincere il resto del mondo ad aderire alla campagna sanzionatoria orchestrata dall’Occidente contro la Federazione Russa e di infliggerle una sconfitta strategica sul campo di battaglia contando sulla presunta superiorità della propria dottrina militare, oltre che dei propri sistemi d’arma. Nei confronti della Cina hanno commesso errori di calcolo paragonabili, se non peggiori. Hanno ritenuto di poterla “occidentalizzare” includendola nell’ordine globalizzato, e quindi favorendo il trasferimento dei migliaia di stabilimenti produttivi presso la principale potenza demografica al mondo, che nel corso dei millenni è rimasta straordinariamente fedele a se stessa facendo affidamento su un bagaglio culturale inestimabile. Hanno quindi posto le condizioni per la trasformazione di un Paese poverissimo in una superpotenza a tutto tondo, con intenti palesemente anti-egemonici. Un risultato sbalorditivo.

 

  • Sono errori di una classe dirigente o di un’intera cultura?

Credo si tratti del frutto avvelenato di un processo di “imbarbarimento” culturale generalizzato. Negli Stati Uniti, il concetto paretiano di “circolazione delle élite” ha trovato applicazione fino a degenerare nel ben noto sistema delle “porte girevoli” (revolving doors), già analizzato a suo tempo da Charles Wright Mills nel suo eccellente Le élite del potere. Militari, politici, banchieri e finanzieri che passano con grande disinvoltura dal pubblico al privato e poi di nuovo al pubblico, dando origine a grovigli di interessi particolari profondamente confliggenti con quelli della nazione nel suo complesso. La funzione politica diviene così ostaggio del più bieco affarismo, che si esprime sotto forma di peculiarissimo sodalizio che l’ex analista della Cia Ray McGovern ha definito “Military-Industrial-Congressional-Intelligence-Media-Academia-Think-Tank Complex”, in cui la circolazione del denaro per via tangentizia interconnette i mezzi di comunicazione di massa, le università, i “pensatoi”, le agenzie spionistiche e il Congresso orientando le direttrici strategiche del potere pubblico. L’enormità degli sforzi profusi in propaganda al fine di modellare l’opinione pubblica interna e “costruire consenso” a livello domestico dà la misura del livello di corruzione raggiunto dagli Stati Uniti, che a mio avviso tendono a somigliare sempre di più all’Unione Sovietica degli anni ’80. Ultimamente, quando rifletto sull’entità del degrado che orai caratterizza gli Usa, mi sovvengono spesso le amare valutazioni formulate in quel periodo da Nikolaj Ivanovič Ryžkov, ex ufficiale e politico sovietico, in riferimento al suo Paese.  «L’ottusità del paese – affermò Ryžkov – ha raggiunto un picco: dopo, c’è solo la morte. Nulla è fatto con cura. Rubiamo a noi stessi, prendiamo e diamo mazzette, mentiamo nei nostri rapporti, sui giornali, dal podio, ci rivoltoliamo nelle nostre menzogne e intanto ci conferiamo medaglie a vicenda. Tutto questo dall’alto in basso, e dal basso in alto».

 

  • La guerra in Ucraina manifesta una crisi dell’Occidente. È reversibile? Se sì, come? Se no, perché?

Direi di sì. Intendiamoci; l’Occidente ha ancora numerose frecce al proprio arco, ma mi pare stia scivolando ormai irreversibilmente su un ripidissimo piano inclinato. Come ho cercato di spiegare nei miei lavori, il conflitto russo-ucraino ha palesato urbi et orbi l’inaffidabilità dell’“occidente collettivo” e l’arbitrarietà del cosiddetto “ordine basato su regole” (rules based order) di cui i portavoce di Washington magnificano senza sosta le inesistenti virtù. Ma soprattutto, ha messo a nudo la debolezza strutturale degli Stati Uniti e la falsa coscienza delle classi dirigenti euro-statunitensi, le quali inquadrano il conflitto russo-ucraino come scontro tra democrazie e autocrazie mentre il resto del mondo lo vede come una guerra per procura tra Nato e Russia, che vede quest’ultima tenere testa dal punto di vista sia economico che militare all’intera Alleanza Atlantica. Sono molto d’accordo con Emmanuel Todd, secondo cui «la resistenza dell’economia russa spinge il sistema imperiale americano verso il precipizio. Nessuno aveva previsto che l’economia russa avrebbe tenuto testa al “potere economico” della Nato. Credo che i russi stessi non lo avessero anticipato. Se l’economia russa resistesse alle sanzioni indefinitamente e riuscisse a esaurire l’economia europea, laddove essa rimanesse in campo, sostenuta dalla Cina, il controllo monetario e finanziario americano del mondo crollerebbe e con esso la possibilità per gli Stati Uniti di finanziare il proprio enorme deficit commerciale dal nulla. Questa guerra è quindi diventata esistenziale per gli Stati Uniti». Agli Stati Uniti occorrerebbe un “adattamento morbido” a un mondo in rapida evoluzione, ma il Paese non dispone di apparati dirigenti all’altezza del compito.

 

  • Cina e Russia, le due potenze emergenti che sfidano il dominio unipolare degli Stati Uniti e dell’Occidente, dopo il crollo del comunismo si sono ricollegate alle loro tradizioni culturali premoderne: Il confucianesimo per la Cina, il cristianesimo ortodosso per la Russia. Perché? Il ritorno all’indietro, letteralmente “reazionario”, può attecchire in una moderna società industriale?

La riscoperta delle radici culturali ha permesso a Cina e Russia di erigere “grandi muraglie” sufficientemente robuste da resistere all’ostinato tentativo tutto statunitense di occidentalizzare il mondo intero. Il recupero del passato costituisce uno strumento formidabile per entrambi questi Stati-civiltà, in un’ottica di affermazione della propria identità differenziata rispetto alle altre, e di compattamento della società attorno a valori millenari specifici. Credo che “innestare” queste tradizioni in una società moderna rappresenti un compito difficile a livello generale, ma che per nazioni come Cina e Russia possa risultare molto meno arduo perché si tratta di Paesi che non hanno mai realmente rinnegato il proprio passato. In un modo o nell’altro, i capisaldi di entrambe le culture sono sempre riemersi, anche quando sono stati sottoposti a prove durissime come la Rivoluzione Culturale o i progetti trockysti miranti alla creazione del cosiddetto “uomo del futuro”. La deriva nichilistica dell’Occidente rende invece particolarmente difficile l’attuazione di un processo di rivalutazione del passato analogo a quello realizzato da Cina e Russia.

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IL DISADATTAMENTO DELLE ÉLITES OCCIDENTALI. INTERVISTA A ROBERTO NEGRI

Abbiamo posto giorni fa ad Aurelien quattro domande alle quali l’analista ci ha rapidamente e compiutamente risposto. Abbiamo pubblicato il 23 agosto qui la sua replica.

Su suggerimento di alcuni lettori abbiamo esteso ad altri autori ed analisti l’invito a rispondere alle medesime. Proseguiamo con la pubblicazione del punto di vista di Roberto Negri. Buona lettura, Giuseppe Germinario

 RISPONDE ROBERTO NEGRI

1) Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?

Prima del – lungo – elenco di motivazioni, credo vada ricordato il loro sottofondo ideologico comune, l’eccezionalismo americano e la visione quasi messianica del ruolo degli Stati Uniti come elemento ordinatore e di governo del mondo, che anche in élite migliori di quelle attuali implica il rischio di ignorare il potenziale, e tanto più le motivazioni e la determinazione degli antagonisti. Su questo substrato si innestano una serie di circostanze ed eventi, fra cui un trentennio di dominio pressoché incontrastato; alcune prove di forza vinte facilmente contro avversari strutturalmente inferiori; il plauso servile degli alleati anche di fronte a operazioni sorrette da motivazioni smaccatamente artefatte e una conseguente convinzione di totale impunità che vediamo replicata anche oggi; una classe dirigente mediocre e incompetente, formata e perpetuata per cooptazione, eterodiretta da conglomerati economici, interessata soprattutto alla propria autoconservazione; un impoverimento culturale che non si limita alla sfera politica ed economica ma tocca anche quella militare e informativa, cosa in qualche misura inevitabile quando le verità scomode possono stroncare una carriera. In un quadro di questa natura non solo la sottovalutazione del potenziale economico, militare e industriale della Russia è una conseguenza quasi logica, ma soprattutto anche i margini per eventuali correzioni di rotta sono di fatto molto limitati.

2) Sono errori di una classe dirigente o di un’intera cultura?

A mio modo di vedere, nel contesto che stiamo esaminando ogni errore tecnico è innanzitutto, e forse principalmente, un errore culturale latu sensu (vedi le considerazioni della risposta precedente). Non imputerei peraltro questa inadeguatezza alla sola classe dirigente, e non solo perché, con tutti i limiti che le democrazie del dopoguerra stanno evidenziando, i decisori formali sono pur sempre eletti dal popolo. Ad oggi, ad esempio, è senza dubbio vero che gran parte della popolazione mostra nei confronti della guerra in Ucraina un orientamento che spazia dal tiepido al francamente contrario; ma pensare che solo per gli Stati Uniti lo stile di vita occidentale non sia negoziabile è a mio avviso un errore, e questo rende possibile che, poste di fronte alle conseguenze concrete di una sconfitta strategica del blocco occidentale e in particolare alla fine del dominio postcoloniale su interi continenti e dei vantaggi economici da questo derivanti, le opinioni pubbliche occidentali si schierino alla fine al fianco di qualsiasi classe dirigente si proponga di arrestare o quanto meno rallentare questa evoluzione, che – mi pare valga la pena ricordarlo – non prevede alcun ritorno al business as usual. Insomma, ho l’impressione che la vita delle scelte strategiche di questa élite, magari con volti diversi e con minore rozzezza, sia ancora lontana dall’essere al termine.

3) La guerra in Ucraina manifesta una crisi dell’Occidente. È reversibile? Se sì, come? Se no, perché?

Oltre all’assenza della volontà politica e della lucidità necessarie a prendere atto del fatto che il nostro modello di sviluppo illimitato non è più sostenibile né accettabile per chi finora ne ha pagato il costo, non credo che oggi il mondo occidentale disponga delle risorse culturali e intellettuali per invertire un processo che peraltro, anche in presenza di tali risorse, credo si sarebbe probabilmente comunque prodotto pur se in tempi e con connotati differenti. Quelle che ancora sopravvivono sono silenziose per scelta, costrizione o obliterazione da un dibattito pubblico la cui ragione sociale, spogliata dai fronzoli, sembra essere la distruzione di tutto quanto, pur fra errori e macchie a volte indelebili, ha dato un senso e un valore alla nostra storia, e di conseguenza anche delle risorse necessarie a invertire la rotta. Non fosse per la straordinaria mediocrità degli attori in gioco verrebbe quasi la tentazione di interpretare quanto sta accadendo ad ogni livello – economico, politico, culturale – come un cosciente cupio dissolvi dettato dalla consapevolezza di avere esaurito la nostra parabola, ma la realtà ci restituisce piuttosto l’immagine del proverbiale cavaliere che “andava combattendo, ed era morto”.

 4) Cina e Russia, le due potenze emergenti che sfidano il dominio unipolare degli Stati Uniti e dell’Occidente, dopo il crollo del comunismo si sono ricollegate alle loro tradizioni culturali premoderne: Il confucianesimo per la Cina, il cristianesimo ortodosso per la Russia. Perché? Il ritorno all’indietro, letteralmente “reazionario”, può attecchire in una moderna società industriale?

Innanzitutto trovo significativo il fatto che Cina (che credo non abbia mai veramente abbandonato il proprio retaggio culturale) e Russia sembrano avere imboccato anche sotto questo aspetto una direzione diametralmente opposta alla nostra, che siamo al contrario apparentemente impegnati a distruggere qualsiasi pensiero non in linea con lo Zeitgeist imposto dall’agenda modernista. Senza dubbio, nel caso di questi due paesi, le rispettive tradizioni rappresentano un elemento ordinatore, identitario e di coesione, tanto più utile e funzionale di fronte a tempi che non saranno privi di difficoltà per nessuno, oltre che un presidio e un elemento di difesa contro le derive culturali di un Occidente che entrambi vedono come irrimediabilmente corrotto e fonte di possibile corruzione. Per rispondere invece alla domanda, anche senza necessariamente inclinare per l’antimodernismo del Pasolini di Difendi, conserva, prega bisogna innanzitutto chiedersi se la tradizione abbia ancora qualcosa da dire nel mondo contemporaneo che si sta profilando. Non dispongo degli strumenti filosofici per azzardare una risposta che sia qualcosa di più e di diverso da una posizione  personale; la mia, a maggior ragione in un mondo e un tempo che identificano erroneamente la modernità come progresso tout court, propende senz’altro per il si, se non altro come richiamo e punto di riferimento a un “altrove” culturale ed esistenziale che – non casualmente – si tenta quotidianamente di cancellare.

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