DAL POSSESSO DEI MEZZI DI PRODUZIONE AL CONTROLLO DEI MEZZI DELL’INTENZIONE, di Pierluigi Fagan

DAL POSSESSO DEI MEZZI DI PRODUZIONE AL CONTROLLO DEI MEZZI DELL’INTENZIONE. Una delle parzialità che coglie gli studiosi dei processi storici, è data dal concetto e dal campo categoriale che applicano a premessa della loro ricerca. Il concetto di “capitalismo”, un concetto di un sociologo tedesco dei primi del Novecento, W. Sombart e non di Marx come invece molti credono, è un concetto che taglia la realtà con una categoria socioeconomica. Ma i fatti socioeconomici accadono negli Stati e nelle relative nazioni. Come nella neurologia visiva ci sono sistemi neurali che colgono solo le forme orizzontali o solo le verticali o solo le fisse o solo il movimento etc. ma poi tutti assieme danno la visione umana, così la nostra conoscenza del mondo dovrebbe forse scalare queste gabbie categoriali e produrre sintesi di più alto livello. Quanto al “capitalismo”, ad esempio, non è un caso che quello veneziano o genovese fossero diversi tra loro e da quello olandese che poi risulterà diverso da quello anglo-britannico, che poi risulterà diverso da quello americano e questo poi nella sua versione primo o secondo Novecento. Forme, demografia, localizzazione e morfologia, dotazioni di materie prime o energia o ricchezza finanziaria, livelli di conoscenza, mentalità, tradizioni, obiettivi geostrategici dei vari attori stato-nazionali, modificano la semplice categoria socioeconomica che non declinata e contestualizzata rischia di diventare molto astratta. Così l’analisi critica continua a leggere la realtà passando dal generico capitalismo all’altrettanto generico neoliberismo come se la struttura del mondo nascesse dalle teorie economiche.
Quanto il termine medio dello stato e relativa nazione pesi nell’argomento, lo si nota oggi in diretta. Economisti e sociologi derivati da conoscenze molto settoriali, stanno scoprendo che la logica del principale operatore capitalistico coordinato ed intenzionato ovvero gli Stati Uniti d’America, oggi si preoccupa di difendere il proprio status geopolitico più che solo quello economico, ciò dato che è a loro noto che è da questo che deriva lo status economico e finanziario e non certo il contrario. Per ogni attore della prima citata sequenza storica del “capitalismo” quale indagata da Braudel ed Arrighi più e meglio di altri, si può rinvenire come gli interessi geopolitici della potenza hanno incanalato il processo di sviluppo della propria versione di capitalismo.
Passiamo così a segnalare un movimento di intenzioni della nostra principale potenza planetaria, gli Stati Uniti d’America. Conosciamo la svolta neolib-global-politico culturale imposta al mondo occidentale dai primi anni ’80. Reagan e Thatcher erano anglosassoni, il globalismo veniva dall’interesse americano espresso nel Washington consensus, la partizione conservatori (destra) progressismo (secondo questa cultura: “sinistra”) è tradizione fondante il sistema politico inglese-britannico-americano, quindi anglosassone (tory-whig/rep-dem). Dato il collasso sovietico, la “sinistra” euro-occidentale ovvero quella che ha genetica culturale in Marx, è entrata in una crisi ontologica poiché ancorché l’albero di sinistra aveva molte fronde lontane dalle radici, in senso di immagine di mondo un ramo è pur sempre un di cui del sistema “albero-radici”.
Piano-piano, ed oggi in maniera conclamata, s’è politicamente imposta la partizione conservatori – progressisti anche all’Europa occidentale. L’estensione egemonica culturale è stata pervasiva, dall’accademia alla cultura pop. La cattura egemonica anglosassone dell’Europa occidentale, anche usando l’Europa orientale a cui gli euro-occidentali sono sensibili per semplici ragioni di ovvia geografia ancorché le due parti abbiamo storie radicalmente diverse, è giunta al suo pieno compimento con la guerra in Ucraina. Attivato il trappolone ed invitato la Russia a farsi odioso nemico conclamato (ma i russi non avevano strategicamente altra opzione), gli USA possono oggi contare su un quasi perfetto allineamento strategico. Qualcosa di simile stanno cercando di replicare nel Pacifico usando il pericolo del c.d. “espansionismo cinese”.
Alla fine, gli Stati Uniti presiederanno un sistema che avrà un secondo livello basato sulla fratellanza anglosassone (Canada, Australia, Nuova Zelanda). A questo nucleo sarà collegato il sottosistema europeo occidentale sempre disarticolato dal “divide et impera” e messo anche sottopressione in vari modi, tra cui utilizzando la problematica parte orientale (balto-polacca-slava-danubiana). Negata come inesistente la minaccia di voler far entrare l’Ucraina della NATO all’inizio del conflitto, sia Stoltenberg che Draghi al MIT hanno iniziato il processo di abituazione sull’inevitabilità della cosa. Parallelamente, sospese tutte le procedure di selezione in passato strette e rigide, Ucraina, Georgia, Moldavia entreranno di gran carriera nell’UE. Non è possibile rinvenire alcuna logica economica in questo allargamento, infatti, la logica non è economica, ma geopolitica e non certo per interesse europeo. La nuova postura americana prevede di replicare un sistema simile, a base di alleanza soprattutto militare, ma anche cultural-tecnologica, in area asiatico-pacifica.
Con ciò, gli strateghi americani hanno pensato di risolvere il problema dell’annunciata transizione al mondo multipolare, destino ineluttabile per semplici ragioni di dinamica demografico-storica. Poiché qui da noi si fa spesso più analisi e critica info-culturale che fattuale, a molti sembra che “multipolare” sia una sorta di ideologia a piacere (o dispiacere, dipende dai punti di vista). Ma prima di esser vestita di ideologia, la cosa è un semplice fatto. Semplicemente, non è in altro modo possibile immaginare il funzionamento di una umanità a 8, prossimi 10 miliardi di individui segmentati in “n” civiltà e 200 stati, di cui molti accedono di recente e per la prima volta alle funzioni ordinatrici e di sviluppo dell’economia moderna che molti chiamano capitalismo, (illuminandone un aspetto che però non è l’unico ovvero l’accumulazione di capitale). Gli strateghi americani sono assai meno sprovveduti di quanto gli sprovveduti tendano a ritenere proiettando la propria sprovvedutezza a standard universale. Che il mondo andasse irreversibilmente verso un destino multipolare è noto da almeno venti anni, se non trenta. Se questo è il gioco, gli Stati Uniti hanno implementato una complessa strategia di costruzione sistemica, per presentarsi al tavolo di gioco con la maggior potenza, diretta ed indiretta, sotto il dominio di una unica intenzione coordinata.
Ma poiché questo nuovo sistema occidentale-orientale a base di democrazie ordinate dal mercato ed un mercato dominato dalle intenzioni e convenienze americane, ha pur sempre le proprie fragilità e contraddizioni interne e poiché l’economia e la finanza rimangono negli intenti l’ordinatore di questo tipo di società, c’è da scrutare che idee hanno oltreatlantico in merito a questo specifico campo.
L’idea principale sembra originare dai tempi della IIWW, quando gli americani cominciano a pensare a nuove tecnologie più complesse ed al destino del mondo con loro a capo. La Cibernetica (1948) deriva da uno scienziato, che era stato chiamato a risolvere il problema delle retroazioni nei sistemi di puntamento e lancio (sistemi missili-radar britannici alle prese coi V2 tedeschi). Lo stesso anno, altri due scienziati formalizzavano la Teoria dell’informazione (1948) le cui radici risalivano a sviluppi anche precedenti. Messe a sistema queste conoscenze sotto l’egida del governo e delle forze armate americane (tra cui la Marina finanziatrice del progetto di von Neumann di realizzare il primo computer su logica di Turing e poi promotrice anche della prima rete da cui origina Internet), sono l’unica invenzione significativa della seconda metà del ‘900, il campo detto dell’Information Communication Technology.
Oggi si parla e discute molto di A.I.. Ma l’operazione strategica più rilevante è più ampia ed è sussunta nell’acronimo NBIC, il cui intento strategico venne pubblicizzato venti anni dalla prima istituzione scientifica americana la National Science Foundation assieme al Dipartimento al Commercio USA. Anche a dire quanta poca informazione derivi dall’inquadrare il capitalismo come impresa di individui bramosi di profitto, non notando quanta istituzione si mobiliti per curarne le necessarie condizioni di possibilità. Tra l’altro, con certe chiavi di analisi sfugge il livello strategico che si muove sempre con ampio anticipo facendo piani e progetti poi promossi con la potenza di vario livello, cose che porta poi alcuni ingenui risvegliati dell’ultima ora a scambiare per “complotti”. Il “pianificare nel tempo” si chiama strategia, non complotto. Davos risponde a Washington non il contrario.
Ad ogni modo, il NBIC è un progetto di sviluppo parallelo e poi convergente lungo gli assi delle nanotecnologie, delle biotecnologie, di tutto ciò che funzione a base di informazione (secondo la teoria matematica non secondo il mondo dei media comunque arruolato per la sua funzione di propaganda) ed il grande mondo della cognizione umana, cervello-mente-corpo. Le nanotecnologie ( N) sono necessarie a nuove biotecnologie (B) funzionanti secondo i principi della teoria dell’informazione (I) ed hanno come fine il corpo e soprattutto la mente umana, la cognizione (C).
Da qui il perno del conflitto tra USA e Cina che parte da Taiwan oggi leader e di gran lunga nello sviluppo e produzione dell’unità base dell’impero informativo ovvero i semiconduttori, le leggi di Biden per proteggere e promuovere il “reshoring” di tutte le imprese che trattano questi campi (mentre in Europa ci sono ancora gli ingenui credenti della mano invisibile), la cattura egemonica euro-pacifica per formare il primo giocatore di multipla potenza del gioco multipolare, l’obiettivo di integrare il problema dei mezzi di produzione e financo di quelli monetari-finanziari per assicurarsi il controllo diretto dell’intenzionalità dell’unità fondamentale degli ordini sociali, politici, geopolitici, culturali, economici e finanziari: il corpo e la mente umana.
Che tutto ciò basterà magari con accanto un po’ di pittura verde e briciole di keynesismo di guerra a tenere in piedi l’ordine sociale economico è improbabile, per questo si rende necessario lo sforzo per il controllo delle intenzioni e delle mentalità umane, per adattarle alla inevitabile contrazione.
Così, gli Stati Uniti pensano di poter affrontare il XXI secolo, essere il principale soggetto geopolitico intenzionale in grado, all’interno della sua più ampia forma sistemica, di controllare il motore dell’intenzione umana: il singolo corpo-mente. Basterà?

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SISTEMI PENSANTI, di Pierluigi Fagan

SISTEMI PENSANTI. Come testimonia la foto del settore cervello-mente (in senso letterale, psicologia o psicoanalisi o logica o altro attinente le funzioni mentali stanno altrove) della mia biblioteca, sono anni che studio l’argomento. Pare ovvio che l’interesse per i prodotti della mente come, ad esempio, le immagini di mondo, chiami curiosità sugli organi che li producono. Vengo dalla lettura del saggio di uno tra i più noti neuroscienziati, S. Dehaene, francese, sulla coscienza [Coscienza e cervello, Cortina, 2014]. Il testo mi sollecita delle riflessioni.
Dovete sapere che sebbene tutte le cose importanti dell’essere propriamente umani provengano dal nostro cervello-mente, la scienza ha approcciato il tremendo argomento solo di molto recente. C’era un motivo tecnico ovvero che il cervello produce mente quando è vivo al pari del corpo di cui è parte. Ma un organo così complesso era impossibile da studiare in vivo, di solito la scienza biologica parte da dissezioni di cose morte. Solo negli ultimi decenni si sono prodotte tecnologie che riescono a farci sapere qualcosa del ciò che accade lì mentre funziona.
Ma c’era forse anche un motivo culturale aggiunto. Abbiamo prodotto talmente tanto pensato, a base di credenze di ogni tipo, tra cui alcune metafisiche rilevanti come la credenza dell’anima e della sua possibile eternità (l’eternità presuppone l’immaterialità, ovvio), che sembra noi si sia ritrosi ad andare a scoprire come funzionano le cose lì dove tutto questo origina.
Per dirne una, non c’è libro sul cervello-mente che non citi una o più volte Cartesio e la sua idea dualistica della cosa estesa (materia) e la cosa pensante (mente o anima), incluso il celebre “L’errore di Cartesio” influente best seller di A. Damasio. Studiai a suo tempo il problema studiando Cartesio in filosofia. A riguardo ho sempre avuto una idea eccentrica. Partendo da elementi biografici ovvero gli scambi epistolari col fidato amico Marsenne (teologo) o il fatto che il Discorso sul metodo ospiti in poco più di una scarsa paginetta questa idea pur rilevante (ricordo che questa fu la prima opera colta prodotta in francese volgare, a dire quanto Cartesio evitasse e temesse l’accademia del tempo che parlava solo latino) o la sua precipitosa fuga verso la Svezia per sentirsi più libero, pare che il nostro fosse letteralmente terrorizzato da quello che era successo a Galilei.
Poiché non era certo un cuor di leone, è forse ipotizzabile che Cartesio non fosse poi così convintamente certo di questa impostazione dualista, semplicemente voleva lasciar intatto il mondo mentale che poi era sede dell’anima, per non urtare le credenze fondamentali per sbizzarrirsi poi col suo meccanicismo materiale sui corpi. Del resto, il dualismo non è nato con Cartesio, le fonti più antiche sono orfico-misterico-pitagoriche, platoniche ed ovviamente cristiane. Stiamo parlando di qualcosa come duemila anni prima che il francese presentasse la sua versione ed è anche strano che in queste ricostruzioni del sistema delle idee, gli studiosi stessi si sveglino a notare Cartesio e non la lunghezza ed importanza della tradizione precedente. Piacevolezze degli studi disciplinari non comunicanti.
A ciò si è aggiunta una peculiarità specifica del nucleo centrale della cultura occidentale degli ultimi decenni, il nucleo americano. Derogo qui dall’utilizzo della categoria “anglosassone” poiché tra americani e britannici ci sono molte similarità, ma anche alcune differenze, la geostoria conta. Gli americani si sono convinti che l’unico discorso pubblico ammesso, l’ancoraggio di verità, debba essere scientifico (filosofia analitica, logica formale, matematizzazione di tutto ed il suo contrario come in “economics”).
Poiché hanno lungamente ritenuto che con metodo scientifico non si potesse dire niente di argomenti come la coscienza, arrivando pure a dubitare esista tal cosa, hanno ficcato il tutto in una cosa che hanno chiamato “scatola nera” ovvero qualcosa che non si può conoscere dentro ma solo per ciò che emana fuori, il comportamento, ad esempio. Ovviamente, dalle tesi di laurea alla richiesta di fondi per ricerche, alle pubblicazioni e relative carriere, a nessuno veniva in mente di andar a ficcar il naso lì dove era, implicitamente, vietato. La gran parte dell’A.I. risente di questa impostazione. Lo stesso assioma che la consistenza materiale di ciò che fa il cervello (neuroni, assoni, dendriti, spine, neurotrasmettitori, architettonica, elettricità, cellule gliali, sistema nervoso-corporeo di un animale sociale etc.) è ininfluente perché tanto ciò che ci interessa è il suo risultato che è “informazione” e come tale si possono creare sistemi di informazione al silicio, da cui l’espressione programmatica che è la promessa di creare intelligenza non biologica (artificiale), regge tutta l’impresa.
Ma non è dimostrato, forse dimostrabile anche perché sappiano così poco del cervello-mente (ed anche di “intelligenza”) che pare un po’ assurdo noi si pensi di poter replicare qualcosa che neanche sappiamo bene cosa sia e come funzioni. Tant’è che dei tanti studiosi messi a sistema nell’impresa A.I., mancano sistematicamente i neuro-biologi (che potrebbero dire come funzionano le cose nei cervelli veri) ed abbondano gli ingegneri che sono persone degnissime ma non si capisce cosa sappiano di quei neuroni la cui funzione vorrebbero replicare. Così, come alcuni stanno spiegando (ad esempio il N. Cristianini, La scorciatoia, il Mulino 2023), in effetti l’A.I. è una impresa dedita a manipolare il comportamento umano, non a replicare l’intelligenza umana.
Ad ogni modo, negli ultimi soli tre decenni, alcuni hanno invece cominciato ad “aprire” la scatola (in realtà a rilevarne da fuori il funzionamento) per vedere lì come funzionano le cose. Ed è sintomatico che Dehaene, allievo di J.P. Changeux, non usi il termine “informazione” più delle virgole come accade nei tanti testi sull’argomento americani, sebbene debba spendere più di duecento pagine del suo libro, prima di giungere al dunque. Ed è altresì sintomatico che giunga al dunque, partendo da una osservazione di R. Cajal, premio Nobel del 1906 in condominio col nostro Golgi, gente che sezionava fette di cervello per capire com’era fatto. Sintomatico perché questi studiosi facevano la cosa più ovvia ovvero guardare la cosa per capire com’era fatta nella speranza di capire come funzionava. A molti studiosi del campo, oggi, sembra che interessi dire come funziona senza occuparsi più di tanto com’è fatto l’organo.
Ricordo una deliziosa intervista sul FT di un “Sir-qualcosa” di cui non ricordo il nome, che è ritenuto il più o uno dei più importanti neurochirurghi del mondo; quindi, uno che nella cosa ci mette le mani. Interrogato su cosa pensasse dell’A.I. confessava di non riuscire speso a capire di cosa si occupassero questi studiosi, a lui risultava un altro mondo quanto a cervello da cui una mente. Nel mio piccolo, dopo venticinque anni di professione a certi livelli, è lo stesso smarrimento che ho lungamente provato quando sono diventato uno studioso, riguardo i testi di economia. Per dirvene una anche qui, l’economia comportamentale che negli ultimi anni ha mietuto premi Nobel come grande scoperta recente sul comportamento economico umano assai meno razionale del lungamente presupposto (assioma necessario a rendere l’economia una materia “scientifica”), è da decenni e decenni base del plesso di conoscenze del marketing commerciale. Forse gli economisti non lo sapevano ed hanno reinventato cose stranote ma non assunte in accademia. La conoscenza è una impresa sociale, politica, economica oltreché propria dei suoi paradigmi ed è poco conosciuto quanto venga distorta dalle immagini di mondo.
Era la scusa per fare riflessioni sparse più ampie. In sé, quello che sostiene il francese, semmai vi interessa l’argomento specifico, è più o meno lo stesso di ciò che hanno sostenuto e sostengono altri, come i concetti di “informazione integrata” di G. Tononi, gli “assemblaggi di cellule di D. Hebb, il “pandemonio” di J. Selfridge, i “rientri” di G. Edelmann, la “coalizione neurale” di F. Crick e C. Koch, le “zone di convergenza” di Damasio. Il nostro lo chiama “spazio di lavoro globale” e sarebbero regioni della corteccia prefrontale e non solo, collegate poi anche al talamo (che è evolutivamente molto antico), in cui ci sono alte densità di cellule particolarmente grandi, con assoni particolarmente spessi ed a lunga gittata (che arrivano anche a due metri), con dendriti particolarmente spessi con un grandissimo numero di spine, che creano un sistema iperconnesso a due vie (emettono e ricevono). Questa sarebbe la coscienza (o “stato di coscienza”), aree di neuroni densamente interconnessi tra loro e con tutte le altre principali parti del cervello, che scaricano assieme sincronicamente e si eccitano l’un l’altro allungando il tempo di eccitazione, che poi sarebbe quello di attenzione cosciente. Altri, si danno da fare ad inibire il funzionamento di altre cellule e regioni, da cui la spiegazione del fatto che il nostro stato cosciente può trattare solo una cosa per volta. Il resto è tutto inconscio, preconscio, subliminale, memorie, sfuggevolezze, nuclei dell’emozione, sistemi disconnessi (come quello che regola il respiro) etc.
Naturalmente il tizio non s’è svegliato una mattina con l’idea come fanno i più a proposito dei tanti temi che ci spingono a dire la qualunque sul qualsivoglia. Ci sono firme della coscienza rilevate, controprove, deduzioni, decine di esperimenti inclusa l’analisi degli stati di non coscienza dal coma al vegetativo, al locked-in, al sonno. Di base però, mi sembrava interessante segnalare come l’andare presso le cose che vogliamo conoscere, prima di esprimere idee e giudizi, sia meglio del contrario. Spesso, evitazione della materia come della realtà, sono presupposti necessari per liberarci nell’empireo che ci piace tanto, quello puramente mentale, ideale, spirituale. Poi, se questa tesi è valida, quanto ed euristica per ulteriori approfondimenti si vedrà. A me pare intuitivamente consistente, la più consistente tra quella di cui ho letto nei volumi di cui alla foto, per quel che vale…
Poi tutto ciò ha a che fare con le immagini di mondo solo in parte. Il dominio proprio delle idm sarebbe l’auto-coscienza o coscienza riflessiva o metacognizione. Ma questo è argomento da “…non aprite quella porta” (cioè categoria film horror).

Gabriele Germani

Ottimo post, pensare che l’ha scritto di getto, non osiamo pensare cosa fa quando si concentra 😃
Sul tema: per capirci qualcosa di più, nel 2014 iniziai un secondo percorso di laurea in Psicologia, cercando di approfondire ToM, filosofia della mente, neuroscienze, filosofia del linguaggio e archeologia della mente. Notai da subito come, nonostante in Italia avessimo delle eccellenze (due tra tutti: Rizzolatti e Gallese), la formazione universitaria fosse per lo più concentrata su marketing-lavoro, in ultima istanza clinica, dove la psicoanalisi ha un ruolo marginale.
Un vero peccato, perché la questione “mente” è a monte di un altro mare di problemi che ci riguardano tutti da vicino.

Claudio Raveli

Gabriele Germani concordo sull’ottimo e anche di più, per quanto ho potuto comprendere, attribuito al post.
Voglio qui dire che Pierluigi Fagan ha colto in pieno come le qualità attribuite alla AI siano mistificatorie e di fatto fonte di manipolazione che inizia proprio dalla sua definizione di Intelligenza artificiale.
E ha colto anche in pieno il neopositivismo meccanicistico di stampo statunitense degno di una situazione simile a quella descritta in “Noi” romanzo distopico risalente a un secolo fa di E. Zamiatin ,dove ogni attività umana è ridotta a formula matematica e sulla matematica, oggi, non a caso viene privilegiata quella applicata a scapito di quella generale e di base che non ha applicazioni pratiche immediate, come si può inferire da chi ha ottenuto le ultime medaglie Fields.

Claudio Bramby

Ho partecipato proprio questo fine settimana ad un incontro molto intenso ed estremamente interessante di 3 giorni a Prato sul tema “Scienza e Spiritualità” dove uno degli argomenti era proprio incentrato sulla coscienza e l’I.A. Erano presenti, tra gli altri, Federico Faggin (consiglio la lettura del suo recente libro “Irriducibile”) e alcuni teologi (Padre Paolo Gamberini e Paolo Squizzato) che hanno proposto la nuova visione del “Post-teismo” e di coscienza legata ad una nuova interpretazione del divino, molto legata ai recenti sviluppi della fisica quantistica. Relativamente all’I.A. Faggin ha espresso molto chiaramente la diffeeenza e i limiti della stessa rispetto alla coscienza umana e le ricerche e studi che la sua fondazione sta portando avanti. Grazie Pierluigi Fagan del suo contributo che aiuta il pensiero collettivo in questa critica fase del cammino umano.

Pierluigi Fagan

Claudio Bramby Vorrei precisare una cosa su “spiritualità” accennata nel testo in un contesto che poteva dare l’impressione una mia postura critica. Non credo esista nulla del mentale che non si possa riportare al cerebrale (o corporeo in senso lato), di questo mentale fa parte la spiritualità che è una indagine o un plesso di esperienze degnissime e umanissime, quindi interessantissime. Io sono convintamente evo-adattativo quindi ogni cosa dell’umano, mi porta sempre a domandarmi se ha avuto una funzione adattativa, non solo verso l’esterno anche verso l’interno. Ad esempio l’intera nostra complessione, come ogni forma vivente, tende a farci esistere al più a lungo possibile. Di contro, per altre vie, abbiamo sviluppato coscienza ed autocoscienza della nostra certa morte. Questa contraddizione insanabile, potrebbe aver favorito certe nostre idee che non vanno affatto svalutate, ma indagate, comprese, allacciate con altre. Sta il fatto che è provato che chi ha tali convinzioni e soprattutto le pratica e meglio se non da solo, ha meno disturbi mentali ed altri accidenti. Il cervello è una farmacia ambulante, premia le cose “buone da pensare”, poi magari bisogna vedere buone per cosa, ma questo è un altro discorso.

Cristiano Iera

Ok, mi piace molto la dissertazione filosofica e cognitiva, e per questo leggo assiduamente tutti i post di Germani e di Fagan, ma forse prima di parlare della possibilità di neuromimesi (ossia creare strutture simili a quelle cerebrali per emularle) dovreste conoscere il lavoro che IBM sta portando avanti da diversi anni (siamo alla release 4) con il TrueNorth Neurosynaptic System, che è un processore neuromorfico per il quale sono stati usati componenti “nuovi”, ossia non le solite porte logiche o gate array con cui sono fatti i processori tradizionali, ma dei dispositivi a semiconduttori dotati della capacità di interconnettere nodi di calcolo/memoria (non c’è distinzione come nei chip “tradizionali”) mediante vere e proprie “sinapsi”, esattamente come un cervello. La release 4 del sistema supera il milione di nodi, e ora la scalabilità è solo un problema tecnologico. Avere questi dispositivi pone anche il problema di programmarli, o meglio, metterli in condizioni di apprendere, trattandosi di reti neurali. Ciò richiede stratificazioni logiche, più o meno come quelle dei linguaggi di programmazione, solo che i microprogrammi in questo caso non sono sequenze di istruzioni deterministiche, ma descrizioni dei modi di funzionamento della rete neurale. Anche Intel sta lavorando, da qualche anno, a un chip neuromorfico basato su una nuova categoria di semiconduttori (Loihi versione 2, anche questo ha circa un milione di nodi per chip, ed è stata già annunciata la v3). Tutto ciò significa esattamente “andar dentro” al funzionamento logico di un “cervello emulato”, anche se – per ora – in modo primitivo. Comincerà a essere un po’ meno primitivo fra poco tempo, visti gli sviluppi che sta avendo neuralink e altri progetti simili. Per interfacciarsi con i percorsi neurali biologici bisognerà anche decodificarne la logica di funzionamento, cosa che si sta già progettando di fare non più secondo la logica della “scatola nera” di una volta, ma secondo la “scatola trasparente”: l’immissione nel tessuto cerebrale di alcuni milioni / miliardi di nanomacchine, indirizzabili tramite una codifica trasmessa a mezzo risonanza magnetica codificata, ognuna delle quali si lega elettrochimicamente ad un assone e ne comunica all’esterno lo stato. E’ come se facesse una misurazione dei potenziali elettrochimici cellula per cellula, sinapsi per sinapsi. E’ come un MDS (sistema di sviluppo utilizzato per fare il debug del microcodice dei microprocessori) collegato direttamente al cervello che consentirà di capire il significato puntuale di ogni segnale elettrochimico con cui il cervello funziona. L’obiettivo finale è anche di creare nanomacchine indirizzabili in grado di alterare lo stato degli assoni.
Una ulteriore direzione di sviluppo è quella della realizzazione di porte logiche in biomateriali su nanoscala, ossia porte logiche elettrochimiche che possano essere inserite direttamente “in vivo” e collegate alle fibre nervose, mantenendo però l’architettura “tradizionale” delle macchine sequenziali programmabili.

Pierluigi Fagan

Cristiano Iera Grazie per le informazioni. Citavo appunto questa linea di ricerca su computer organici e molecolari in una discussione più sotto. Credo, tra l’altro, sia la strada più rilevante per il futuro, un futuro cibernetico di umanità (non tutta, ovvio) potenziata. Che poi era l’intento strategico originario espresso nel Rapporto Converging Technologies for Improving Human Performance NANOTECHNOLOGY, BIOTECHNOLOGY, INFORMATION TECHNOLOGY AND COGNITIVE SCIENCE del 2002, promosso da National Science Foundation e Dipartimento al commercio USA.

Vincenzo Guida

Tra i tanti metodi matematici che si utilizzano nel campo dell’inteligenza arteficiale, le reti neurali artificiali sono senz’altro quello la cui ispirazione deriva dalla neurobiologia. Una rete neurale artificiale e’ costituita da un network topologico in cui different input vengono trasformati in un set di ouput tramite una funzione di trasferimento non lineare. Essa e’ stata concepita come emulazione del sistema neuronale biologico. I ricercatori di AI si domandano quotidianamente come addestrare questa rete in maniera efficiente e prendono a prestito idee che derivano dalla neurobiologia o almeno da quello che capiamo della neurobiologia. Dire che i matematici che lavorano sulla AI non si ispirano alla biologia e’ ingeneroso. Esiste pero’ una piu’ sottile considerazione da fare. Le reti neurali sono solo una branca della AI ed una branca che funziona molto bene per i problemi di apprendimento supervisionato. L’apprendimento supervisionato si occupa di problemi come distinguere l’immagine di un cane da quella di un gatto, ad esempio. Esistono pero’ problemi in cui il compito di apprendimento non e’ predefinito, ma si chiede all’AI di ricercare pattern nei dati, di formulare raccomdazioni su un problem anon predefinito, di catalogare, di distinguere… sono i cosiddetti problemi di apprendimento non supervisionato. Gli esperti di AI hanno svilupato algortmi per questo tipo di problemi, ma non sono ispirati alla biologia, la grande frattura tra neurobiologia e AI comicia li’ secondo me.

Pierluigi Fagan

Vincenzo Guida Giusto distinguo, concordo. Leggendo anche qualcosa di A.I., da tempo, mi pare si sottovalutino cose come la plasticità della materia cerebrale, la creatività del connettoma, gli influssi chimici corporei, la stessa ambientazione corporea, la sensibilità. Ma è un discorso complicato e poi la mia, ammetto, è una posizione un po’ prevenuta verso la riduzione del tutto mentale ad informazione. Tuttavia, anche si concentrassero solo su certi funzionamenti del cerebro-mentale, sono e sempre più saranno senz’altro in grado di sviluppare cose mirabolanti. Le reti neurali artificiali, come per altro tutto questo discorso anche versante bio, sono centrali nell’esplorazione del concetto di complessità.

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LA CAOSIFICAZIONE DEGLI AMERICANI, di Pierluigi Fagan

In un doppio post recente sulla crisi della civiltà occidentale, ponevo come un sottosistema a sé le società anglosassoni, gli Stati Uniti d’America, la Gran Bretagna ed altre tre minori. Riguardo gli USA, c’è da segnare come, finita la presidenza Trump, le notizie date qui su quel mondo sono semplicemente sparite. Sulla Gran Bretagna, talvolta, qualche europeista prova piacere a raccontare i significativi malesseri britannici addebitandoli alla Brexit, ma niente di più. Infine, col nuovo governo, siamo diventati “amici preferiti” tanto dell’uno che dell’altro. Nel caso americano ne va anche della coerenza di allineamento geopolitico con attualità nel conflitto ucraino, posizione super-partes nello schieramento politico italiano che per altro, secondo scarni sondaggi, non rifletterebbe per niente il sentimento maggioritario del Paese. Quindi sugli USA, dal punto di vista interno, non c’è niente da dire?

Nel 2022, una storica americana specializzata in conflitto civile (fondazione storica degli States), ha fatto clamore, sostenendo che in base alla letteratura di analisi storica generale, si potevano sintetizzare alcuni punti di crisi che potevano far prevedere l’imminente rischio di scoppio di una “stasis”. Secondo B.F. Walter, gli Stati Uniti sono oggi dei perfetti candidati a piombare nella guerra civile. È stata seguita da altri autori e molta eco mediatica, sia americana che britannica, hanno amplificato il tema ponendolo al centro del dibattito pubblico.

In un recente articolo di L. Caracciolo sulla Stampa, lo studioso usa questa espressione “Oggi l’America non si piace più. Come può affascinare gli altri?”. Buon annusatore dello spirito del tempo, Caracciolo si è convertito già dall’editoriale sull’ultimo numero di Limes ora in edicola, alla verità dell’epocale transizione dei poteri nel mondo, segnalando come gli Stati Uniti abbiano perso l’aurea e con essa il soft power.

Ribadisce George Friedman sulla stessa rivista, nel titolo della sua analisi “Gli Stati Uniti sono prossimi a un collasso interno”, sorbole! L’elenco di Friedman cita “rivendicazioni sociali al picco di intensità, questioni morali, religiose, culturali”, poi ci sono i fallimenti bancari, le revisioni strategiche verso la globalizzazione, il grande punto interrogativo cinese, ombre scure sui Big Five dell’on-line (che per altro licenziano a manetta) e le oscure sorti progressive dell’A.I., la Nasa che pare non sappia più come fare una tuta da astronauta, figuriamoci mandarlo sulla Luna; permangono attriti sui flussi migratori e sempre forti sulla convivenza razziale. C’è anche una profonda crisi interstatale/federale che arriva fino al ruolo del Congresso e della Corte Suprema. “Mai nella storia, vi è stato un tale livello di rabbia e disprezzo reciproco tra gli americani”, è la nota inquietante di Friedman. Se ne danno davvero di santa ragione su questo e su quello a livelli veramente pre-isterici, quando non si sparano e fanno e parlano di cose in modi davvero bizzarri (Dio, aborto, transessuali che risulterebbero solo lo 0,5% della popolazione, tradizionalismo e progressismo, pedofilia, complotti surreali et varia).

Questa agitazione, che più d’uno ha interesse a radicalizzare, trova il suo inferno su Internet ed i social. Quanto ai social, è il formato stesso dell’interazione anonima, con scritto privo di corredo facciale e comportamentale, costretto in spazi più da battuta che da discorso argomentato (woke! cristofascista!), la clausura nelle piccole comunità dei comuni pensanti che si eccitano a vicenda, a dar benzina a braci già ardenti. Radicalizzazione ci mette del tempo a costruirsi e non si smonta in tempi brevi, deposita rancori, astio, odio viscerale. Alla fine, non è più una questione di argomenti ma di irrigidimenti.

Sebbene sia una nazione di 330 milioni di persone (con, si stima, 400 mio di armi private, molte di livello militare) e pure con una composizione assai varia, tende a spaccarsi semplicemente in due ed il formato “noi contro loro”, alimenta il suo stesso radicalizzarsi semplificando. La semplificazione, del resto, è un tratto caratteristico della mentalità americana empirico-pragmatica ovvero sovrastimante il fare al posto -o priva- del pensare.

L’aspettativa di vita in America è in caduta libera da circa un decennio: è arrivata a 76,1 anni (da noi è da cinque a dieci anni di più). Grandi balzi in avanti tanto della mortalità infantile che di quella generale: diffusione armi ormai fuori controllo (in America oltre 200 persone al giorno vengono ferite da armi da fuoco, 120 vengono uccise. Di queste 120, 11 sono bambini e adolescenti), tasso di omicidi tra adolescenti +40% in due anni, overdosi ed abuso farmaci, incidenti auto. Nelle scuole, a molti bambini è imposto un corso di comportamento nel caso qualcuno entrasse in classe sparando con un mitra. E meno male che sono pro-life!

Al 10° posto per teorica ricchezza pro-capite in realtà gli USA sono 120° per uguaglianza di reddito (WB 2020), dopo l’Iran ma prima del Congo (RD). L’ascensore sociale è rotto da almeno trenta anni, ammesso prima funzionasse davvero. Americani poveri, in contee povere, in stati del Sud, muoiono fino a venti anni prima degli altri. Gli afroamericani cinque anni -in media- prima dei bianchi. Col solo 4,5% della popolazione mondiale hanno il 25% della popolazione carceraria, spaventoso il grafico di incremento negli ultimi trenta anni. La media europea è di 106 incarcerati su 100.000 abitanti, in US è 626, sei volte tanto che è primato mondiale. Fatte le debite proporzioni tra morti per overdose e popolazione totale, per ogni morto in Italia ce ne sono 50 in USA. Sebbene abbiano meno del 5% di popolazione mondiale spendono il 40% del totale mondo in spesa militare (a cui aggiungere le armi interne). Se ci si annoia coi libri di storia, basta guardare nell’immaginario la produzione cinematografico-televisiva per capire quanto attragga culturalmente la violenza, da quelle parti. La violenza è la cura dei contrasti sociali, atteggiamento pre-civile.

Avendo a norma sociale il libero perseguimento della felicità versione successo economico-sociale su base competitiva delle qualità individuali nel far soldi, non avendo idea di come il gioco sia truccato, mancando tradizione di pensiero e di analisi di tipo europeo (ad esempio per classi), questa massa di reietti, che spesso vivono in condizioni subumane, ovviamente arrabbiati quando non rintontiti da tv-alcol-farmaci-droghe, vengono reclutati dalle varie élite per sostenere o combattere ora questo, ora quel diritto civile. Il che alimenta questa tempesta di odio reciproco a livello di “valori”, che siano della ragione o della tradizione, ma mai economico-sociali.

I “bianchi” sono oggi il 58% ma nel 1940 erano l’83% ed ancora nel 1990 il 75%, il trend è chiaro. Già si sa che perderanno la maggioranza assoluta nel 2044, tra due decenni. Peggio per la quota WASP dentro il cluster “bianchi”, con età media più alta, in piena sindrome Fort Apache.

Un sondaggio 2022 dava a 40% tra i dem e 52% tra i rep, favorevoli a separare stati rossi e blu in una sorta di secessione ideologica e atti politico-giudici locali, nonché la pratica tradizionale del -gerrymandering-, una sorta di sartoria dei collegi elettorali per predeterminare la vittoria di certi candidati nelle forme della rappresentanza che non è mai proporzionale, sembra esser andata in questa direzione negli ultimi anni. Alcuni rep, da un po’, propagandano l’idea di alzare l’età del voto per evitare che i più giovani portino voti ai dem. Questa idea di divorzio territorial-ideologico è inedita e dà il senso della profondità della frattura sociale. Lo screditamento reciproco dei rappresentanti locali e federali dei due partiti è all’apice.

Del resto, il crollo di fiducia è molto ampio: chiesa, polizia, giornalisti, intellettuali, accademia e scuola stessa ed ovviamente i politici che spesso in realtà sono cercatori di posizione sociale disposti a tutto. La guerriglia condotta sulla legittimità dei voti, potrebbe adombrare una ipotesi ventilata sul “voto contingente” dove in mancanza di un chiaro pronunciamento (ovvero contestato), ad ogni stato viene attribuito un voto, essendo la maggioranza degli stati (che hanno però minor popolazione) repubblicani, ecco qui realizzata l’intenzione che sempre più spesso esce da certe bocche “Noi siamo una Repubblica, non una democrazia”, il che -per altro- è una limpida verità.

È del resto certificato da studi di Princeton e Northwest sui contenuti delle leggi deliberate dal Congresso, già di dieci anni fa, che gli Stati Uniti sono una oligarchia e non una democrazia. È questa oligarchia che ha interesse ad incendiare il sottostante, lì dove il popolo si scanna per questioni di diritti civili, razza, prevalenza sessuale e non per diritti sociali, qualità della vita, ridistribuzione dei redditi e potere connesso.

Ci sono presupposti per verificare questa profezia di una ipotetica guerra civile, profezia che dato il grande rilievo media dato in America rischia di diventare del tipo “… che si auto-avvera”? Ci sono parecchie ragioni per dubitarne, sempre che s’immagini barricate e vasti disordini per strada accompagnati da terrorismo interno. Tuttavia, per quanto l’analisi dovrebbe esser più profonda di quanto permetta un post, questa analisi specifica sulla crisi interna la società americana certifica che è il cuore della civiltà occidentale ad esser in crisi profonda.

Per questo agli europei si consiglierebbe di allentare i legami trans-atlantici, gli americani sono destinati ad una continuata contrazione di potenza mondiale mentre all’interno danno sempre più di matto su tutto tranne che sul continuo aumento delle diseguaglianze, malattia mortale per ogni società.

Parecchia della fenomenologia perversa qui brevemente descritta, ha già contagiato le nostre società. Dal globalismo-neoliberale alla lagna unidimensionale sui diritti civili e non sociali che eccita l risposta tradizionalista, l’intero immaginario che percola dalle serie tv e dal cinema, l’intero Internet e la logica dei social, ora dell’A.I. che discende da un preciso milieu psico-culturale comportamentista (cioè finalizzato al controllo del comportamento e della cognizione, altro che “intelligenza”), la ripresa europea ed italiana nelle produzione e commercio di armi, la distruzione democratica già programmata dai primi anni ’70, la demagogia, l’ignoranza aggressiva, il drastico scadimento qualitativo delle élite, la scomparsa della funzione intellettuale, il semplicismo, l’infantile entusiasmo tecnologico, una irrazionale fede sul ruolo della tecnica, le epidemie di solitudine sociale e depressione, la farmaco-dipendenza, la plastificazione corporea e la manipolazione neurale. La crisi del centro anglosassone del sistema occidentale irradia da tempo tutta l’area di civiltà, anche dove l’antropologia culturale, sociale e storica, sarebbe ben diversa.

Si consiglierebbe di cominciare a programmare un divorzio, una biforcazione dei destini, una rifondazione dell’essere occidentali che chiuda la parentesi anglosassone. Viaggiare i tempi complessi con questa gente alla guida potrebbe esser molto pericoloso.

https://pierluigifagan.wordpress.com/2023/05/28/la-caosificazione-degli-americani/

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UNA CIVILTA’ IN CRISI (2/2)_di Pierluigi Fagan

UNA CIVILTA’ IN CRISI (2/2). Le società animali e quelle umane più di altre, andrebbero intese come veicoli adattivi. Gli individui creano e si adattano alla società che aiuta ad adattarsi al mondo. Una civiltà è un meta-sistema, meno definito di quanto sia una società propriamente detta ma col vantaggio della massa. L’unità metodologica qui è la società, la società si adatta e partecipa della civiltà la quale aiuta ad adattarsi al mondo.
Lo stato di crisi precedentemente illustrato (precedente post, link sottostante) percorre tutti i livelli che vanno dalla civiltà alle società componenti, singole nazioni o gruppi di esse più omogenei, da queste alla loro composizione interna per strati, ceti, classi, funzioni, fino ai singoli individui. In una crisi adattiva, ognuno di questi soggetti, singoli o collettivi, si trova nella difficile situazione di esser, al contempo, “contro e con” qualcun altro.
Si può guadare con simpatia l’odierna emersione di nuove potenze interne altre sfere di civiltà, se non altro perché questo può muovere la struttura della nostra civiltà, aprire a possibili cambiamenti. Ma tali cambiamenti dovrebbero vederci pronti a farci carico della ridefinizione della nostra civiltà, non certo aspirare ingenuamente ad esser cambiati da altre civiltà. Ogni civiltà è aliena all’altra. Le civiltà possono e dovrebbero dialogare e scambiarsi idee, tratti e caratteri, ma rimangono soggetti con fini, scopi e modi integralmente diversi e di fondo, reciprocamente competitivi.
Così, la crisi della nostra civiltà ci riguarda integralmente tutti sebbene ognuno di noi abbia porzioni di distinguo e dissenso con la sua forma attuale. Ci riguarda come società che dovrebbe perseguire il proprio interesse nazionale ma “contro e con” altre società similari, il che vale anche per la dialettica tra ceti, classi e funzioni interne alla singola società, fino al livello individuale e nelle aspettative tra interessi teorici e pratici, financo dentro noi stessi.
Lo stato di crisi ontologica della civiltà occidentale e di ogni sua componente interna è certo la crisi dei suoi modi, strutture e dei suoi usuali processi di organizzazione, ma è anche la crisi del proprio mentale. Per gli umani, il mentale, è stata la principale e per altro molto potente arma adattativa. L’umano mostra una peculiarità cerebro-mentale che frappone tra intenzione ed azione uno spazio, in quello spazio c’è la simulazione degli effetti di ogni possibile azione, il pensiero. Il pensiero è una azione off line, una ipotesi di azione non ancora agita in attesa di diventare atto, soggetta a strategia, simulazione e valutazione. Tramite questa novità biologico-funzionale, abbiamo perso ogni tratto adattivo animale non più necessario (pelo, artigli, canini e potenti mascelle, agilità e muscoli etc), diventando al contempo uno degli animali più morfologicamente fragili a livello individuale quanto operativamente il più potente a livello collettivo o comunque sicuramente il più adattivo.
A questa dotazione mentale generale diamo il nome di “immagine di mondo”, ne sono dotate le civiltà, le società a gruppi o singolarmente prese, gli strati (ceti, classi e funzioni interne), gli individui. Oltre che nella scomoda situazione dell’esser al contempo “contro e con”, noi oggi ci troviamo con un mentale disallineato ai tempi. Il nostro mentale distilla i cinque secoli del moderno, anche se alcune strutture di pensiero che hanno funzione profonda, architettonica e fondazionale, risalgono a secoli e millenni addietro (greco-romani, cristianesimo). A seconda di quanta epocalità vogliamo riconoscere al passaggio storico nel quale siamo capitati, verificheremo anche la più o meno profonda inadeguatezza di ampie parti del nostro mentale. Siamo in una epoca nuova con una mentalità vecchia.
Quello che preoccupa più di ogni altra cosa di questa fase storica è proprio la mancanza di coraggio mentale. In Occidente, i complessi ideologici vanno irrigidendosi in tristi scolastiche, non si nota alcuna primavera del pensiero, in nessun campo che non sia attuativo-strumentale (tecnica). L’assenza di creatività del nostro pensiero è pari all’impressione di inoltrata anzianità delle nostre società alla fine di più di un ciclo storico.
La mentalità occidentale ha due problemi principali. Il primo è di forma. Una civiltà e viepiù la sua crisi adattiva, è un problema eminentemente complesso ovvero dotato di molte parti, molte interrelazioni tra queste parti, processi non lineari ovvero non-meccanici, un sistema posto in un contesto turbolento. Che si usino discipline scientifiche o storico-sociali o pensiero riflessivo, nel moderno abbiamo sviluppato singoli tagli, singoli sguardi, singole metodologie disciplinari. Ancorché proficuo spezzettare oggetti o fenomeni per ridurne la dimensione alle nostre limitate facoltà mentali, tutto ciò non torna mai alla visione completa, non arriva mai al “com-prendere”, al prendere assieme. L’intero in rapporto al suo contesto ci sfugge sistematicamente e con esso la facoltà di poterlo maneggiare.
Il secondo problema è dato dal fatto che ognuna di queste discipline è ingombra di teorie, per lo più locali, ma non solo. Il paesaggio teorico è una intricata foresta di legami e rimandi tessuti nel tempo storico proprio, periodi storici in cui la nostra civiltà si trovava in un punto ben diverso della sua curva adattiva ed altrettanto il contesto-mondo. In molte discipline cruciali per la comprensione allargata vige un paradigma meccanico-atemporale che governa l’indagine ed il pensiero su cose che però sono storico-biologiche. Sono quattro secoli che la nostra foga di fare ha portato a tipo ideale macchine idrauliche, fontane, orologi, il modello sistemico del primo moderno. Poi è stata la volta della macchina a vapore, oggi il computer. Ma niente del nostro essere umani, bio-sociali e mentali, ha a che fare con queste infondate analogie, è proprio la logica di comprensione che è disallineata. Infine, questo paesaggio teorico ha una sua propria consistenza interna che, nel tempo, si è allontanata dalla natura del proprio oggetto producendo una ingombrante selva di problemi fittizi e mal posti, stratificati in quadri polemici alimentati dalla competizione ideologica ed accademica, sempre più alla deriva di realtà.
Quello che manca per muoversi dentro lo stato di crisi in cerca dell’uscita non è un altro modello di società col suo immancabile lungo elenco di “vorrei che così fosse” qualora ci venisse concesso il ruolo di “legislatore del mondo”, ma un metodo per pensarla, discuterla e condividerla, tentarla, farla evolvere assieme ad altri.
In effetti il problema millenario del potere sociale è semplice. Di volta in volta, ristretti gruppi segnati da qualche specialità sociale (anagrafica, di genere, militare, religiosa, etnica, politica, oggi economica o forse più finanziaria), pur competendo tra loro per la quota di potere effettivo, sono stati strettamente solidali nella difesa del principio strutturale per cui Pochi dominano i Molti prendendosi la gran parte dei vantaggi adattivi del vivere in forma associata. Quando si è vissuto fasi di relativa abbondanza i Pochi hanno condiviso qualche briciola, quando si sono vissute fasi restrittive i Pochi hanno semplicemente scaricato tutta la contrazione sui Molti. Ai Molti questo principio pratico primo del potere sfugge, discutono di questa o quella miglior forma di società ed immagine di mondo come fosse loro permesso di decidere di questo o di quella versione quando il problema è proprio come rispondere alla domanda fondamentale “chi decide?”. Non “cosa” decidere, questo dovrebbe venire dopo, prima si deve porre il soggetto, il “chi?” ed il modo, il “come?”.
Quella che ci sembra essere una imprescindibile transizione adattativa, ha il duplice carattere del mentale e del reale, ma per costruire il secondo va trovato e condiviso il modo politico nel primo.
Quanto al mentale, la nuova era storica ci chiede di conoscere gli interi, il “penoso elenco di severe problematiche” cui abbiamo accennato (1/2), richiede conoscenze geo-storiche, culturali, ambientali, economiche, sociali, politiche, intrecciate tra loro, a valle di una nuova definizione di umano che non sarà più l’animale che fa, ma l’animale che pensa prima di fare. C’è da sviluppare un nuovo corso della conoscenza parallelo a quello sin qui svolto, un corso integrato, sistemico-olistico, che possa dare anche nuove condizioni di possibilità al pensiero per superare i pantani forestali di intrecci teorici non più utili poiché limitati e non più corrispondenti alla realtà. Un certo ritorno “ritorno alla realtà” s’impone date le caratteristiche del passaggio storico.
Quanto al reale sociale, è evidente che le società della civiltà occidentale, quantomeno quelle che non ne sono state il centro propulsore ovvero quelle anglosassoni, non possono più esser ordinate dal fatto economico. S’impone un ordinamento politico strutturato da una teoria forte della democrazia. Le civiltà, sino ad oggi, sono stati oggetti che abbiamo considerato dopo che si erano formate e sviluppate, nessuno le ha progettate ex-post. Se, come pare necessario, ci troviamo nella necessità di modificare le nostre forme di vita associata nel profondo e nel loro intreccio multidimensionale, non possiamo non presupporre una partecipazione ampia e costante di una ben vasta massa critica di associati, è la società intera che deve auto-trasformarsi.
Il processo di adattamento ad un mondo così inedito, mutato e mutante nel profondo, oltretutto con tempi accelerati, a livello di società-civiltà, sembra ci porti a dover diluire il potere sociale a quante più sue componenti di modo che il sistema di cui facciamo parte mostri agilità e prontezza coordinata al cambiamento deciso dalla massa critica. Il cambiamento dei fondamenti impone il ritorno ai fondamentali del nostro pensiero politico, all’eterna battaglia tra il potere dei Pochi e quello dei Molti. Nel mondo dei viventi, i sistemi complessi più adattivi sono autorganizzati. La forma politica del principio di autorganizzazione è la democrazia reale. Ci manca una teoria forte della democrazia.
Questo, a mio avviso, il più urgente compito per un pensiero che abbia a traguardo l’azione trasformativa ed adattativa.

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UNA CIVILTA’ IN CRISI (1/2)_di Pierluigi Fagan

UNA CIVILTA’ IN CRISI (1/2). Chiariamo prima il punto di vista del nostro discorso. Il nostro punto di vista è storico, osserviamo l’oggetto civiltà, quella occidentale nello specifico, dal punto di vista del corso storico. L’argomento è vasto e complesso e soffrirà delle riduzione ad un post.
Questa civiltà che si fa nascere coi Greci duemilasettecento anni fa, è stata per più dell’ottanta-per-cento del suo tempo, un sistema per lo più locale ed interno. Per il resto, dal XVI secolo in poi, nel periodo che chiamiamo moderno, il sistema ha avuto un big bang inflattivo che si è esteso a livello planetario, non già cooptando al suo interno spazio, popoli e natura, ma sottomettendoli o sfruttandoli. Va precisato che a noi qui non interessa proferire alcun giudizio morale, ci interessa solo l’analisi funzionale. In questi cinque secoli, la civiltà occidentale si è sovralimentata potendo alimentare il suo piccolo interno con un relativo dominio su un molto più grande esterno, ha potuto contare cioè su vaste e ricche condizioni di possibilità.
All’interno di questo frame temporale detto moderno, di cinque secoli, la civiltà occidentale è cambiata nel profondo. A livello di composizione, ha visto una migrazione interna del suo punto centrale che dal Mediterraneo greco e poi romano, è passato prima alla costa europea nordoccidentale, poi ha saltato la Manica ambientandosi in Inghilterra (poi Gran Bretagna, poi Regno Unito), poi ha saltato l’Atlantico ambientandosi nel Nord America. Si potrebbe anche dire che provenendo da una zona che per sua natura geografica è iperconnessa (Europa, Asia, Medio Oriente, Nord Africa), si sia progressivamente isolata prima continentalmente, poi insularmente, poi finendo addirittura in una terra al riparo di due vasti oceani. L’isolamento geografico è però valso la facoltà di dominare lo spazio circostante senza rischiare troppo una controreazione come si è sempre verificato nelle dinamiche espansive degli imperi-civiltà terrestri.
A livello di bilancio energetico (qui in senso termodinamico in senso allargato), una regione del mondo ha progressivamente dominato gran parte del mondo, ha enormemente dilatato il suo spazio vitale.
Tali condizioni hanno permesso alla originaria parte europea della civiltà, di frazionarsi in piccoli stati. Europa ha una media di territorio/popolazione per Stato molto al di sotto della media mondiale. In Europa c’è un numero di stati all’incirca pari a quelli dell’intera Asia o Africa stante che il suo spazio è quattro o tre volte più piccolo. Per altro, tale comparazione non è neanche del tutto corretta poiché sono stati proprio gli imperi europei a frazionare per propri interessi imperial-coloniali sia lo spazio asiatico che africano che chissà quali altre dinamiche avrebbero avuto se lasciati liberi di esplorare il proprio spazio di possibilità. Questa strana partizione localista europea ha dato segni di evidente squilibrio sistemico per ben due volte nel secolo scorso, accelerando il processo di migrazione del centro di civiltà nell’isola britannica e poi nell’isola continentale nordamericana.
Questi “Stati” ognuno con un suo popolo detto “nazione”, si sono sempre più ordinati con un sistema doppio di tipo economico-politico. Sul piano economico, gli occidentali hanno elaborato un sistema sovralimentato per materie ed energie per lo più prese dall’esterno. A tale sovralimentazione materiale, hanno affiancato altre due sovralimentazioni immateriali. La prima fatta da denaro creato dal nulla che anticipa il valore che poi si pretende venga restituito (estinguendo il debito dell’anticipazione) rilasciando una eccedenza detta profitto. Tale profitto si è accumulato o reinvestito per alimentare nuovi cicli. La seconda fatta dall’enorme sviluppo di conoscenze, saperi e pratiche tecniche e scientifiche. Materie, energie, denaro e conoscenze sono finite dentro una macchina produttiva-trasformativa. Questa macchina, attraverso il lavoro umano, è diventata il cuore ordinativo di queste società, ogni produttore è anche consumatore. Dalla macchina sono usciti due flussi, uno dei prodotti o servizi venduti al mercato per ottenere la restituzione del capitale iniziale più il profitto, l’altro di rifiuti o di lavorazione o di consumo.
Sul piano politico, l’ordinamento è stato creare un sistema originale nelle forme ma non poi così tanto nella sostanza che abbiamo chiamato, impropriamente, democrazia o in vena di sprezzo per la logica linguistica (ossimori): democrazia di mercato. La sostanza è quella solita di ogni civiltà da cinquemila anni ovvero il fatto che una parte minore (Pochi), domina e governa con alterne fortune una parte maggiore (i Molti). L’originalità, che più che democratica va detta repubblicana, è stata che i Molti hanno avuto (per altro solo da qualche decennio di questi cinque secoli), la facoltà di esprimere una qualche gradimento o meno per il tipo di interpreti del formato che non è stato mai messo in discussione.
La “crisi” nella quale è entrata la civiltà occidentale, è data dalla più o meno improvvisa restrizione di tutte queste condizioni di possibilità contemporaneamente. Per questo la si chiama “crisi sistemica”. In un sistema, lo stato di crisi comunque generato è sempre la crisi di tutte le sue parti e relative interrelazioni.
L’assetto per il quale questo sistema minore di occidentali ha potuto dominare un ben più ampio spazio per sovralimentarsi, oggi non si dà più e sempre meno si darà nell’immediato futuro. C’è una logica storico-demo-fisico-culturale sotto questa nuova impossibilità, non è argomento oggetto di volontarismo o discussione, è un fatto ineliminabile. Restringendosi sempre più lo spazio delle possibilità esterno, si va screpolando la tenuta interna del sistema.
Nei fatti, il centro americano-anglosassone ha una sua logica e dinamica tendenzialmente divergente dallo spazio europeo. A sua volta, questa Europa che ha una precaria ontologia geografica e geostorica, risulta un sistema debolissimo, anziano, iperfrazionato, viziato con una strana convinzione post-storica che ha pensato che il nuovo ordine fosse appaltabile ad una pura dinamica (mercato) in luogo di una statica (stato poi più o meno dinamico). Una sorta di ontologia dei flussi tutta forma e niente sostanza. Quella antica sindrome del pensiero occidentale per la quale queste genti pensano che poiché una cosa può esser pensata questo la rende esistente (nota come sindrome dei Cento talleri) e funzionante nel concreto.
La parte economica del suo ordinamento ha perso l’esclusività essendosi oggi replicata in tutto il mondo. Inoltre, a differenza di questo “resto del mondo”, l’Occidente ha già prodotto tutto ciò che gli serviva e da tempo continua a produrre cose che non servono più a niente se non a tenere in stentata vita il sistema. Infine, l’Occidente continua ad avere molti bisogni che però non evade perché non sono trasformabili in merci e prestazioni.
Ma in più, qui si verifica che il grande big bang iniziato a metà XIX secolo come cascate di invenzioni generative (vapore, meccanica, fisica, chimica, sanitaria, elettronica), nella seconda metà del Novecento ha prodotto solo il campo ICT che oggi si prova a declinare anche nel bio. Tant’è che s’è data per persa la produzione materiale rifugiandosi in uno stanco sogno immateriale di tipo finanziario che ha fatto perdere al cuore della macchina produttiva la sua funzione ordinativa sociale (lavoro, redditi). Alcuni pensano ciò stato un errore anche perché la nozione di errore comporta la reversibilità. Purtroppo, non c’è alcuna reversibilità, si poteva e doveva gestire il problema diversamente (globalizzazione scellerata), non c’è dubbio, ma il fondo della dinamica di perdita dell’impeto produttivo tradizionale era ed è irreversibile.
Sebbene gli stessi occidentali si ritengano “materialisti” forse non è a tutti chiaro quanto “vale” l’ICT o il NBIC (nano-bio-info-cognitivo) rispetto al tradizionale produttivo propriamente materiale.
La parte politica è diventata il sottosistema che ha concentrato in sé tutte queste dinamiche restrittive tentando di assorbirle senza gestirle. Ne è conseguito il disfacimento della forma presuntamente democratica in favore di un repubblicanesimo privatizzato ovvero la perdita di ogni nozione propria di res pubblica.
La breve analisi ci porta in dote questo penoso elenco di severe problematiche: a) rapporti tra Occidente e Mondo; b) rapporti interni ad Occidente (sfera anglosassone e continentale); c) inconsistenza degli Stati-nazione europei e della forma sistemica che gli europei hanno pensato di darsi in questi ultimi sessanta anni; d) fine ciclo storico di vita dell’economia moderna per il solo Occidente; e) tragedia delle forme politiche interne gli stati occidentali.
Tutte le problematiche convergono infine nella società in cui e di cui tutti viviamo. (1/2)

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PROGETTARE IL FUTURO, di Pierluigi Fagan

PROGETTARE IL FUTURO. Secondo i risultati di molte ricerche neuro-cognitive, la nostra mente si è evoluta per far previsioni. Noi agiremmo come la zip di una cerniera lampo chiudendo con una intenzione e poi un’azione, un ben più ampio ventaglio di possibili pre-visti ovvero visti in anticipo dalla nostra mente.
A livello storico-sociale, oracoli, sibille, auguri, indovini e pizie, profeti, divinatori, l’intera cultura classica cinese che ha fondamento nelle otto posizioni dei trigrammi di due elementi che deriverebbero dalla stessa origine della loro scrittura che annotava gli esiti della scapulomanzia, rune vichinghe. pensiero magico correlativo, numerologia, hanno svolto la funzione previsionale di gruppo nell’antichità. Nel medioevo ci pensava Dio e quindi dedicarsi al futuro era magia, quindi peccato.
Utopie, distopie, retropie, ucronie hanno accompagnato questa pulsione immaginativa nella prima modernità.
Dai primi del Novecento s’è sviluppata la fantascienza.
Verso la fine della IIWW, un tedesco (O. K. Flechtheim) prima inventa il concetto di “futurologia”, poi vi scrive sopra un trattato che darà il via a questa nuova disciplina, ignota ai più. La disciplina ha numerose cattedre universitarie, tra cui una a Trento (Social foresight).
Le previsioni sul futuro vengono fatte da tutte le grandi multinazionali (industriali, commerciali, finanziarie, bancarie) dalla maggior parte dei governi soprattutto delle grandi e medie potenze, dagli istituti statistici, da un ambiente misto che culmina nel World Economic Forum (Global Risk Report). Ma intorno al WEF c’è un vero e proprio ambiente previsionale fatto dal H. Hoover Reasearch Comittee on Social Trends, dalla Rand Corporation, la Society for General System Research, vari “club” come il Club of Rome e tutti i think tank di Washington e società di consulenza (Accenture), ma anche su temi specifici come la previsione scientifica ambientale dallo stesso IPCC. I futurologi si raccolgono intorno all’ Institute for the Future, alla World Futures Studies Federation (in ambito Unesco), al The Millenium Project che ogni anno, da venti anni, produce rapporti aggiornati.
Ma il tema del “futuro” non è presente nell’immagine di mondo generale, non è argomento di dibattito democratico. Coloro che amano provare il brivido di ripetere i luoghi comuni son sempre pronti a dirti che “del futur non v’è certezza”, non è un argomento scientifico (?), coltivare utopie porta al totalitarismo, previsioni preoccupate sono solo sbuffi dell’umana paranoia tendente al catastrofismo derivante da un conservatorismo di fondo.
Strano allora che tante e valenti istituzioni studino il futuro e ci facciano sopra progetti o strategie con, al centro, la nozione di “rischio”. Dev’essere per questa coltivata ignoranza che alcuni chiamano queste strategie “complotti” finendo così nella categoria inventata a suo tempo dalla CIA per delegittimare ogni lettura “altra” dei fatti pubblici. Il fatto è che le previsioni sono spesso sbagliate se a tempi lunghi ed a grana fine (a tempi medi e grana grossa molto meno) e tuttavia è sui binari stesi da queste previsioni che viaggiano i treni delle strategie. E, a certi livelli, è dalle strategie che provengano intenzioni e poi azioni. Quindi, a livello di opinioni pubbliche gregarie si vive nell’istantismo, a livello di élite si fanno analisi, piani e programmi. Forse è anche per questo che le prime rimangono sottomesse alle seconde, abitano i futuri convinti siano spontanei e non sanno che sono previsti, entro certi limiti, costruiti, se non nel dettaglio, nei limiti del possibile. Questo “possibile” potenziato dalla tecno-scienza, si allarga ogni giorno di più.
E veniamo così al 2002, venti anni fa. Quell’anno, la maggiore istituzione scientifica pubblica americana, la National Science Foundation, assieme al Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti, commissionano un voluminoso rapporto di cerca 400 pagine ad una cinquantina di leader tecno-scientifici, di fatto o di pensiero. Il tema è la “convergenza” ovvero la sinergica messa a sistema di quattro famiglie di sviluppo tecno-scientifico: le Nanotecnologie, le Biotecnologie, l’Information Technology, la Cognitive science, NBIC è l’acronimo. Da allora, tale rapporto è la base delle strategie di sviluppo dell’intero comparto tecno-scientifico che ha padrini nel complesso militare-industriale-culturale-congressuale americano.
Il sistema parte dalla Teoria dell’informazione, la Cibernetica, lo studio delle mente e della società. Riducendo il funzionamento cerebrale a computazione, ridotta la computazione ad informazione e questa a bit, equiparando il neurone al chip, la società concreta viene affiancata da una società virtuale, più ordinata, prevedibile e controllabile. Il fulcro è la mente umana indagata con gli sviluppi delle scienze cognitive. Queste, si muovono nello spazio delle due principali teorie di psicologia americane: il behaviorismo ed il cognitivismo, entrambe cognitivo-comportamentali (con pesi diversi). Il tutto considerando che il mentale è incorporato quindi c’è un cervello ed un corpo, entrambi ingegnerizzabili, richiedenti prodotti e servizi per aumentare le performance tramite manipolazione neurochimica e genetica. In modalità replicazione tutto ciò alimenta lo sviluppo della robotica. Le nanotecnologie permetteranno di operare dentro menti già ammorbidite ed i corpi, per costruire il cittadino virtuale della società virtuale. Bit-atomi-geni-neuroni sono i mattoncini Lego per costruire il futuro. Stendendo, intrecciando e sviluppando reti di reti tra off ed on line, la distinzione tra virtuale e reale tenderà a scomparire, i due mondi “convergeranno” sempre più.
Da tutto ciò ne avrà beneficio primo la docilità mentale e l’ordine sociale, beneficio politico per degenerare ulteriormente la già devastata democrazia. Poi ci saranno benefici militari (DARPA a cui dobbiamo Internet e GPS-RS) ed ovviamente industriali, commerciali e viepiù finanziari visto che tutto è, nei fatti, il NASDAQ. Vari tipi di operatori culturali ed informativi si uniranno alla strategia di costruzione del futuro, avendone vantaggi nel loro presente (carriere, potere, soldi, polluzioni d’ego). Parte del Congresso tramuterà in leggi ed investimenti concreti la strategia. Ci sono anche benefici geopolitici che da tempo portano avanti quella “cattura europea” che, sommandosi all’ultimo anni di conflitto ucro-russo, dota ora il sistema americano di una comoda periferia frazionata. Presenza e peso europeo nel progetto NBIC, nonché su Internet (che è ICT) è dal nanogramma alla massa di Planck, quasi-nulla.
I software culturali come chatGPT e vari altri (immagini, suoni, video) di cui abbiamo parlato nell’ultimo post, sono una tappa del processo. Ennesima fonte di dati sugli users i quali vanno felici a dare gratuitamente loro informazioni per provare il brivido di consultare la nuova Pizia info-digitale o farle le pulci. La sottovalutazione delle prime release di questi software fa parte del loro lancio di marketing. I software culturali, alla lunga, aiuteranno a dare forma alla mentalità già massaggiata dai media offline e dallo Spirito del tempo officiato dai tecno-entusiasti. In più legheranno con un filo in più al rapporto simbiotico col dispositivo. In seguito, il dispositivo o parti delle sue funzionalità verranno incorporati, direttamente o indirettamente.
Il tutto ovviamente vanta benefici quali il potenziamento, la performance, una medicina 2.0 (ovviamente per chi se la potrà permettere, un incentivo in più per competere per una posizione sociale che dia possibilità), il sentirsi on time, l’essere “fighi”, la comodità, l’esibizionismo egoico, la giocosità alleviante la fatica di esistere, il calmare l’ansia del dover pensare con la propria testa, la stessa “fatica dell’apprendimento”, nonché quella terribile di dover decidere da sé che fare e come farlo. Togliendo a monte la fatica di pensare ed instradando i giudizi nei meccanismi di stimolo-risposta attivati dalla neurochimica, tutto diventerà più semplice e conseguente. Il migliore dei mondi tra quelli possibili. Un “Nuovo Rinascimento” è lo slogan della sua strategia di comunicazione.
Il post voleva solo condividere una messa a quadro generale del fenomeno, secondo la quale possiamo trarre queste -provvisorie- conclusioni: 1) tutto ciò ci sembra sbilanciato tra l’indubbia rilevanza e la scarsa notorietà dell’argomento; 2) tutto ciò attiene alla conoscenza, per il ristretto ambito di chi ci lavorerà, all’informazione per quanto a coloro che utilizzeranno tutto ciò o parti di tutto ciò; 3) interesse di chi sviluppa questi processi è creare una società dell’informazione, alla società in senso generale converrebbe più sviluppare una società della conoscenza, ma non sembra questo argomento sia sul tavolo della pubblica discussione, né esperta, né di massa; 4) le opinioni pubbliche non solo non discutono del futuro, ma sono anche convinte non si possa e debba; quindi non discutono neanche i piani sul futuro che fanno le varie istituzioni che pur a questo si dedicano; 5) chi non farà piani sul futuro si troverà a viverlo come presente progettato da altri; 6) l’uomo-società risultante da questi processi è un progetto americano, non occidentale, né “umano” in senso generale. Ora ha anche uno sviluppo in Cina; 7) l’intero sviluppo ha ambizioni di creare reti tra individui in simulazione del sociale, tra individui e cose, entrare nel biologico collegando il corporeo all’incorporeo, dare al mentale rappresentazioni (razional-emotive) della realtà voluta, tenere i fili ultimi nelle mani di Pochi, che poi sono quelli che hanno i fini ultimi. Ai Molti è chiesto solo mettere “like” o far di tutto per ottenerli.
Già eravamo in postdemocrazia, ora siamo in terre incognite.
NOTA: Il post evita volutamente alcuni concetti come post-umano, transumanesimo, tecnologie emergenti, rischio esistenziale etc. A noi interessava rimanere concettualmente scarni con fuoco “politico”. In più, dubitiamo dello stesso vocabolario usato per discutere il fenomeno. Dubitiamo si debbano spendere 530 pagine (Bostrom, Oxford) per parlare di una AI che distruggerà l’umanità per fare graffette. Colonizzano anche lo spazio critico.

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A.I. – ADATTAMENTO INTENZIONALE, di Pierluigi Fagan

A.I. – ADATTAMENTO INTENZIONALE. Nel nostro condominio sociale, infuria il dibattito su un argomento che a livello strada ha il Garante della privacy, al primo piano ha chatGPT ed altri software “culturali” ed al secondo l’Artificial Intelligence (A.I.). Questo argomento avrebbe al terzo piano il problema della relazione tra intelligenza umana e le performance dei software algoritmici, ma nessuno lo frequenta. Un ottimo motivo per occuparcene.
Le tecnologie sono strumenti. Spesso riteniamo di poterli usare a buoni fini, ma può capitare che a volte ci strumentalizzino. La storia dell’Apprendista stregone, venne pensata nel III secolo da un pensatore greco, Luciano di Samosata. Ripresa da Goethe e successivamente musicata da Dukas, ebbe poi notorietà mondiale come una delle storie di Fantasia di Disney. L’apprendista è una figura immatura, sa degli strumenti, avrebbe una gran voglia di usarli, ma non li controlla. Finisce così con l’essere prevaricato da strumenti che non domina, finisce con l’esser dominato.
Un altro racconto, più allegro, è nel libro “Il più grande uomo scimmia del Pleistocene” (Adelphi) di Roy Lewis. Nel profondo paleolitico, un tizio inventa il fuoco. Intorno a lui si forma un coro preoccupato che vaticina le peggiori catastrofi conseguenti quell’invenzione. L’Autore mima l’eterno dibattito tra progressisti e conservatori anche se la struttura del racconto è tutto dalla parte dei progressisti. Non essendoci più pluralismo ideologico politico festeggiato a suo tempo con il liberatorio “fine delle ideologie”, oggi i più sono infilati nella partizione progressisti – conservatori, che sono due complessi non meno ideologici basati su attitudini dello Spirito.
Come forse saprete, un think tank di tecnologi, il Future of Life Institute, ha emanato una preoccupata lettera in cui si propone di auto-imporsi una moratoria nella ricerca di sviluppo di chatGPT ed affini, per riflettere sui possibili impatti economici, sociali e culturali (quindi politici), di questi software. Immediatamente, nel dibattito mediatico americano con irradiazioni a tutto l’occidente, il FoLI è diventato il bastione del conservatorismo o addirittura il bastione dell’ultradestra hi-tech, secondo Wired. Ne consegue per partizione logica che lo sviluppo del software e tecnologie affini sarebbero di “sinistra”. La torsione concettuale è che i progressisti hanno a loro tempo festeggiato la fine delle ideologie (di sinistra, nel senso che aveva il termine alla sua nascita ovvero 1789), occupandone lo spazio concettuale per cui tutti coloro che gli si oppongono sono di destra. La partizione destra-sinistra non esiste nella cultura politica americana ed anglosassone (salvo qualche raro caso della storia del Labour britannico), esiste la partizione conservatori-progressisti che è poi l’antica partizione originata dalla Gloriosa Rivoluzione inglese. Poiché siamo oggi in pieno dominio egemonico della cultura americana ed anglosassone, ecco che qui si traduce la partizione con le nostre categorie politiche che però hanno tutt’altra storia. Da cui una certa, voluta, confusione.
Va infine specificato che il FoLI non è affatto un bastione ultraconservatore che si occupa delle opinioni sulle nuove tecnologie bensì una auto-fondata associazione di scienziati e professionisti del campo con facoltà riflessive ed una apprezzabile sensibilità etico-culturale. Il suo animatore, Max Tegmark, è un fisico-cosmologo-tecnologo professore al M.I.T. impegnato oltreché nel suo lavoro di ricerca specifica ed in FoLI, in un think tank sulle Questioni fondamentali della fisica cosmologica ed in un altro movimento filosofico che mira a promuovere azioni di condotta di altruismo efficace in campo sociale, politico ed esistenziale. Come questo gruppo di tecno-riflessivi “coscienziosi” (tra cui Hawking fintanto che era in vita), sia ora ritenuto un bastione dell’ultradestra hi-tech si spiega solo per via degli interessi economici, finanziari, politici e geopolitici, nonché egemonico-culturali sottostanti al quadro politico americano.
Ma torniamo al filo precedente con tre considerazioni brevi (due di più, una di meno).
La prima è che questo dibattito sembra tutto interno agli Stati Uniti d’America ed in parte Gran Bretagna, qui in Europa, viepiù in Italia, siamo del tutto sprovvisti di ruolo nel campo di queste tecnologie e di Internet più in generale. Usiamo passivamente tutto ciò, ma non avendolo fatto non sappiano la sua verità (Vico). Al massimo, abbiamo qualche filosofo biopolitico o anti-cibernetico (se ne occupò a suo tempo Heidegger, poi Gunther Anders) o predittore di catastrofi naturali o dello Spirito che qui non manca mai (ad esempio Eric Sadin). In termini del dibattito sulle “Le due culture” scientifica ed umanistica (Snow ’59, Marsilio), in ambito anglosassone domina la prima che ignora la seconda, nel continente spesso l’esatto contrario, in Italia più che altrove. A questi due emisferi culturali manca il corpo calloso e quindi la metafora cerebro-mentale è sbagliata.
La seconda è che coloro che si pongono fattivamente i problemi inerenti all’argomento, sono in genere gente del campo. Da una parte ciò rassicurerebbe sulla competenza ed attinenza del discorso critico che a volte rappresenta una sorta di conflitto di interessi al contrario ovvero laddove uno “sputa nel piatto in cui mangia”. Dall’altra, il modo con cui queste mentalità affrontano argomenti così vasti, spessi e problematici ancorché proiettati sul futuro che è una dimensione assai problematica da trattare, non sembra avere gli apporti più idonei di pensiero conseguente. Per dire, Hawking che pure prima abbiamo citato come problematico su questo tema, si distinse per una tirata antifilosofica in cui sosteneva che la filosofia non serviva più a niente da tempo e bisognava lasciare il pensiero agli scienziati. Hawking faceva filosofia della conoscenza, ma non era in grado neanche di accorgersene.
La terza, che è quella che più ci interessava sottolineare, è che il campo dibattimentale è monopolizzato dal tema della intelligenza non umana e nessuno si occupa dello stato dell’intelligenza umana. Tema non da post che dovrebbe iniziare con l’indagine su cosa intendiamo per “intelligenza”. Ma visto che siamo in un post, semplifichiamo.
La nostra tesi è nota. Abbiamo ragione di sostenere con evidenza quanti-qualitativa che il mondo è radicalmente cambiato (e continua a cambiare e promette di continuare a cambiare sensibilmente almeno per i prossimi trenta anni). Ciò pone una serie di problemi adattivi, individuali, sociali, politici, economici, culturali e quant’altro. Adattamento si intende in due modi: a) cambiare il mondo attorno a sé; b) cambiare il sé in accordo al mondo. La prima istanza è impossibile senza la seconda, la potremmo definire la XII Tesi su Feuerbach poiché lo stesso Marx produsse una filosofia per cambiare il mondo che tende, di sua natura, a conservare l’ordine precedente.
Così, passati i tempi in cui la politica si estrinsecava nella promozione dello studio e della cultura per tutti, nella ricchezza dei pensieri accompagnati da atteggiamenti critici e riflessivi, tempi di libri, riviste, dibattiti, partiti, sindacati, convivi in cui addirittura i metalmeccanici scioperavano per ottenere 150 ore da dedicare alla propria coltivazione culturale, ora siamo finiti appiattiti nella totale passività. All’uomo ad una dimensione (produci-consuma-crepa) abbiamo aggiunto una nuova dimensione “fai finta di partecipare al pensiero su ciò che accade discutendo di ciò che decideremo tu debba discutere secondo le partizioni che decideremo essere idonee”.
Il ribellismo naturale è sapientemente incanalato nell’orgogliosa ignoranza di chi disprezza ogni studio su argomenti che si pensano addirittura inventati per dominarci. Non si distingue l’esistenza del problema dalla critica delle soluzioni avanzate dal sistema dominante producendone di diverse, si nega proprio l’esistenza del problema, anche perché non in grado di far diversamente.
Così si realizza la partizione voluta. La tecnica è “non vi avvicinate all’argomento, vi basti sapere che questa tesi è macchiata da ideologie regressive” ampiamente usata nel dibattito pubblico per orientare gente che ogni giorno è sottoposta a questioni di cui non sa nulla, sulle quali sente di dover pender posizione. La tecnica offre un comodo ponte che salta la natura del problema in sé per sé offrendo approdo sicuro nello schierarsi “dalla parte giusta”. Dall’altra si risponde “questo argomento è promosso dagli interessi delle élite e va rifiutato prima ancora di verificarne i contorni e contenuti” ovvero “la parte sbagliata in realtà è quella giusta”. Che poi è il modo migliore per far andare avanti le cose col loro moto inerziale, salvo qualche brusio ininfluente.
Studiare? Cosa? Come? Quando? Perché? Geopolitica, ambiente e clima, demografia e migrazioni, economia produttiva e finanziaria, storia e geografia e molto altro, ogni settimana cambia l’argomento ma tanto sono sempre tutte variazioni dello schema “conservatori vs progressisti” che ormai è un apriori, un ponte cha salta la natura complessa dell’argomento portandoci in salvo, cioè “dalla parte giusta”.
L’adattamento intenzionale sarebbe quell’assetto in cui prendiamo possesso sia del cosa e come conosciamo, sia del come e del cosa vorremmo fare delle nostre società in questo nuovo tipo di mondo. È la relazione fondamentale che lega conoscenza e democrazia. Ma ciò non sembra interessare più nessuno. Meglio avere nuove tecnologie culturali che pensano per noi, scrivono per noi, giudicano per noi, fanno arte per noi, arriveremo a dibattere su chatGPT copia-incollando tesi scritte da chatGPT.
Tanto meno discutiamo dell’intelligenza naturale e sociale, tanto più progredirà il nostro passivo adattamento all’artificiale.

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IL GIOCO NON VALE LA CANDELA, di Pierluigi Fagan

 Post interessante. Il problema da valutare è, però, il peso e il valore che danno i russi alle candele necessarie a sostenere il gioco. I russi sono coscienti della posta in palio sin dall’inizio delle ostilità; gli anglosassoni se ne stanno rendendo conto in corso d’opera e tornare indietro comporterebbe un costo enorme. Tentare di paralizzare, del resto, con una azione penale una leadership nel pieno del suo consenso interno non appare particolarmente saggio. Giuseppe Germinario
IL GIOCO NON VALE LA CANDELA. Espressione idiomatica che risale al Medioevo quando per organizzare una partita a carte i giocatori dovevano mettere assieme una cifra per pagare le candele necessarie a permettere il gioco notturno. Alla fine della partita, qualcuno poteva così dire di non aver guadagnato il necessario per neanche pareggiare il costo iniziale delle candele.
Uno dei primi giorni, se ben ricordo il terzo dopo l’inizio delle ostilità in Ucraina, una portavoce influente della Difesa americana disse che la Russia avrebbe “pagato un prezzo” per l’incauta decisione. Tradotto, la Russia avrebbe sì forse vinto sul piano pratico ma il costo di questa piccola vittoria si sarebbe rivelato più oneroso del vantaggio ottenuto con la forza. L’espressione “bisogna fargli pagare un prezzo” venne usata più e più volte da Hillary Clinton quando era Segretario di Stato, è un concetto centrale del grande gioco geopolitico che oppone gli USA a vari nemici, un “classico”.
Tutto ciò ci ricorda un fatto che si è voluto apertamente nascondere a noi comuni mortali che viviamo nel mondo delle rappresentazioni a non della realtà. Come ogni analista razionale sa dall’inizio, l’Ucraina ha un terzo della popolazione della Russia, forse anche meno. Alla lunga, visto che il conflitto è di tipo tradizionale ovvero regolato dalla regola dei “boots on the ground” ovvero del numero di uomini che si mettono in campo, l’Ucraina perderà quello che i russi decideranno di esser in grado di prendersi. Nessun ha mai pensato di poter invertire questa semplice equazione basilare. Da sempre, s’è trattato di far pagare un prezzo ai russi per questa prepotenza di modo da farli alzare dal tavolo sospirando che “il gioco non valeva la candela”. Il confitto in Ucraina è solo una puntata di un lungo e più ampio conflitto che gli Stati Uniti si apprestano a portare avanti nei prossimi anni, forse decenni.
Da ottobre, sul campo, non si sono verificati apprezzabili cambiamenti del fronte. Se ne dovrebbe trarre la considerazione che la questione è in stallo ed il verificato stallo dovrebbe portare a trattare il finale di partita. Infatti, i cinesi hanno proprio ora calato sul piatto i dodici punti della loro piattaforma che non è, né può essere, una piattaforma per la pace. È una piattaforma per iniziare un processo di trattativa che porti alla pace, una trattativa su come iniziare una trattativa, un regolamento del gioco, non il gioco in sé.
Molte cose non sappiamo. Ad esempio sappiamo che per diverse volte nei tempi recenti, Zelensky ha dovuto far fuori vari tipi di vertice militare dopo aver da tempo eliminato ogni dissenso politico, sociale e culturale interno. È facile immaginare che un congruo numero di ucraini, pensando al dopo, si domandi il senso di questa operazione in cui loro pagano per far alzare il costo della candela per i russi, sapendo che tanto alla fine avranno perso territorio oltreché uomini e sostanze.
Il costo del dopoguerra per l’Ucraina è inimmaginabile e stante lo stato delle finanze occidentali è dubbio verrà appianato dagli alleati. Per questo uno dei dodici punti dei cinesi e la ventilata telefonata di Xi a Zelensky, verteranno sul punto “chi mette i soldi per il “dopo”?”. Da tempo i cinesi investivano in Ucraina prima della guerra, essendo oggi gli unici ad avere soldi da mettere sul piatto per il dopo, Xi farà presente il costo della sua candela suggerendo a Zelensky di valutare bene che tipo di gioco fare. Da cui l’evidente nervosismo americano verso l’iniziativa diplomatica del cinese. Stante che nel 2024 si vota in America per le presidenziali e diciamo dalla seconda metà di questo anno, quanto gli americani spendono e spandono per l’Ucraina diventerà tema di battaglia elettorale. Toccherebbe quindi sbrigarsi perché la finestra di opportunità per gli americani tende a chiudersi questa estate e poiché è improbabile la famosa controffensiva primaverile ucraina per ridurre lo svantaggio, il tempo di gioco si restringe.
Stante questo abbozzo di quadro, ecco l’iniziativa della Corte Penale Internazionale. Sicuramente Putin ma poi sarà la volta dell’intera squadra di potere in Russia, verranno messi fuori gioco per il dopo. Il dopo prevede che USA-NATO, Ucraina e Russia dovranno trovare un accordo di pace, ma l’attuale dirigenza russa deve esser messa fuori gioco, questo è parte del prezzo che dovrà pagare. Per buona parte dell’anno di conflitto si sono sentite analisi che prospettavano la possibilità di far crollare il potere russo dal di dentro. Ovviamente erano solo narrazioni, chi maneggia l’argomento sapeva benissimo che la guerra avrebbe prodotto esattamente l’effetto inverso. Ma l’idea che il prezzo previsto dagli americani sarebbe stato la perdita del potere non per spinta interna, ma esterna, era un fondamento. Poiché siamo in totale assenza anche della benché minima possibilità di sapere cosa accade in Russia dietro le quinte visto che tra i primi atti di conflitto c’è stato il ritiro di ogni giornalista ed analista occidentale da Mosca e dato che tutto ciò è stranoto a Putin ed i suoi circostanti, chissà cosa stanno preparando i russi per il “dopo”.
Nel 2024, tra l’altro, si vota anche per le presidenziali russe. A quanto ne sapevo prima della guerra, Putin aveva espresso più volte l’idea di farsi da parte. Probabilmente qualche acciacco di salute ce l’ha davvero (da cui lo spunto propagandistico usato dagli americani i primi mesi), sta lì da diciotto anni ma in realtà anche di più considerato il condominio con Medvedev, pare fosse preso da una divorante passione per gli studi storici (si ricorderà l’ora e passa di discorso televisivo un giorno prima l’inizio del conflitto) nonché desideroso di godersi gli ultimi anni coi suoi affetti. Il toto-sostituto ha impazzato sulle riviste di studio di relazioni internazionali americane per lungo tempo, prima dell’inizio del conflitto, Shoigu era dato favorito al booking e Shoigu sarà il prossimo obiettivo della Corte Penale.
All’inizio del conflitto pensavo che Putin avesse previsto che gli effetti della sua decisione di invasione gli sarebbero costati alla fine l’ostracismo, ma poiché aveva egli stesso previsto il finale ritiro aveva anche pensato che tanto valesse far di necessità virtù ed uscire alla fine dalla cronaca per entrare nella storia. Putin avrà pensato che fosse bello leggere la storia ma scriverla era anche meglio.
Oggi sappiamo che l’operazione “alza il prezzo della candela” avrà la spinta dell’uranio impoverito. E’ ovvio che lì dove verranno sparati i proiettili all’uranio impoverito non si potrà vivere più per lungo tempo. Quindi, sì prendetevi questo lembo di Ucraina, ma poi che ci fate? Sempre che i russi non rendano pan per focaccia alzando il livello dello scontro. Essendo gli americani su un altro continente cosa importa loro? Anzi, più malefatte compiono i russi più alto sarà il prezzo della candela, poco importa se il nuovo livello è stato inaugurato dagli inglesi, la macchina narrativa cancellerà la realtà sovrascrivendo la narrazione come fa da un anno esatto.
Del resto, qui da noi, siamo in un sistema in cui l’annuncio dei nuovi proiettili ecologici che riciclano le scorie atomiche lanciandole sulla terra altrui è stato dato da una signora (?) che è stata nominata nove anni fa Baronessa Goldie, di Bishopton nella contea del Renfrewshire e come tale è diventata “pari “della Camera dei Lord a vita. I Lord (ce ne cono temporali ed anche spirituali) sono pari tra loro perché nell’insieme sono dispari con il resto del popolo. Una nobile aristocratica non eletta democraticamente parlamentare a vita e tuona a difesa della democrazia contro l’orrida autocrazia, se lo leggessi su un libro di storia mi verrebbe da sorridere amaramente.
Ma tanto chi si accorge più del fatto che siamo finiti in una superlativa performance del teatro dell’assurdo? Bello leggere le pièce di Jarry, Beckett, Pinter, Ionesco, Genet, meno starci dentro.
[Nella foto la baronessa Annabel MacNicoll Goldie sottosegretario alla Difesa britannica. Però, che belle certe tradizioni, gli inglesi danno potere ai baroni dal 1215 e poi vengono a dirci che sono democratici e liberali, che grande popolo]

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PACE MULTIPOLARE, di Pierluigi Fagan

Dopo quaranta anni di frizioni e conflitti per procura, Iran ed Arabia Saudita firmano un accordo per aprire una nuova stagione di rispettose e reciproche relazioni, si riapriranno le rispettive sedi diplomatiche, si firmerà un nuovo accordo di sicurezza, dalla pulsione di prevalenza si passerà all’equilibrio di convivenza. Difficile sottovalutare l’evento, è l’intero Middle East, inferno permanente di guerre tragiche, che passa ad una modalità potenzialmente pacifica.
L’accordo è stato firmato, non a caso, a Beijing ed è stato sicuramente benedetto dalla Russia, ma farà piacere anche all’India e non dispiacerà anche a Turchia ed Egitto. Pare piaccia addirittura a gli Houthi yemeniti ed in Libano, molto meno ad Israele. Va però aggiunto che sono almeno tre anni che si svolgono appartati colloqui diretti tra i due attori regionali, mediati anche da Iraq ed Oman, iniziativa condotta per altro parallelamente al cauto riavvicinamento del Qatar, che ha più che buone relazioni con l’Iran, all’Arabia Saudita. Da quelle parti le questioni sono sempre molto complicate, ci sarebbe da scrivere per ore raccontando chi è contro chi e perché, ma dopo decenni sembra che questa trama conflittuale possa transitare ad un nuovo esito. Come mai?
Sostanzialmente per tre ragioni. La prima è che, com’è ormai finalmente accettato in gran parte del discorso pubblico, s’è capito che il mondo avrà ordini molteplici, non c’è altro modo di ordinare un insieme così naturalmente disordinato e complesso. L’Iran è da tempo interno all’asse russo-indo-cinese che, pur con le dovute differenze interne, concorda sull’idea di un futuro di scambi e rispetto delle reciproche sovranità. L’Arabia Saudita, sta transitando da un allineamento esclusivo all’asse americo-occidentale ad una forma di molteplici relazioni con i BRICS, il mondo asiatico, Russia con cui ha anche comuni interessi di politica dei prezzi energetici, la stessa rissosa banda arabo-mediorientale. Molti poli, molte relazioni, nuovo sistema-mondo.
La seconda è che negli ultimi anni, dall’inizio della presidenza Biden, gli americani hanno sostanzialmente abbandonato il Medio Oriente non ritenendolo più un fronte primario della propria strategia geopolitica. Avendo raggiunto l’autonomia energetica e puntando alla sostituzioni delle fonti energetiche fossili, consci di quanto costi occuparsi di un quadrante così rissoso e complicato e soprattutto riorientata la bussola strategica contro Russia e Cina (quindi rapporti con l’Europa e l’Asia), hanno deciso di togliersi di mezzo. Non c’è dubbio che, in questi quattro decenni, la naturale complessità dell’area sia stata sistematicamente eccitata dagli americani per portare le contraddizioni al conflitto aperto.
La terza è che la fine del conflitto in Siria ha mostrato a tutti gli attori dell’area dell’inutilità del conflitto stesso. Dieci anni di guerra, quasi 600.000 morti, quasi 3 milioni di feriti, 12.000.000 sfollati, enorme distruzione materiale, costi enormi, risultato sul campo praticamente nullo. Ma tale esito, ha probabilmente colpito più di tutti proprio l’Arabia Saudita.
L’AS è in una lunga transizione di potere tra le vecchie e nuove generazioni degli al Saud. I “giovani” pensano il presente in funzione del futuro ed il futuro dell’AS è problematico, sia perché una buona parte del mondo sta andando verso energie non fossili, sia soprattutto perché pare che le riserve saudite hanno davanti ancora poco tempo di capienza. Inoltre, i sauditi hanno più petrolio che gas, la forma peggiore di energia fossile in termini d’impatto. Il nuovo vertice saudita, sta cercando di attrarre investimenti per fare un salto tecnologico che apra ad un nuovo posizionamento, strategia difficile ma forse l’unica possibile per quella che è una “scatola di sabbia” con una piccola popolazione viziata da decenni di abbondante rendita petrolifera. Nel 2018, i sauditi avevano annunciato la volontà di costruire 16 impianti per il nucleare, impossibile farlo con stato di frizione con l’Iran. Qui, come altrove, il nucleare serve a risparmiare petrolio o gas da poter vendere all’estero.
Questo riorientamento saudita sta facendo di colpo scomparire un fenomeno che pochi anni fa ha distrutto interni boschi per ricavarne la carta su cui scrivere puntute e plumbee analisi di sociologia politica: il terrorismo. Scomparso in Europa, sospeso in Asia, ancora presente in Africa, il terrorismo versione ISIS ed al Qaida, è stato un chiaro strumento geopolitico della vecchia strategia saudito-emiratina.
L’intera questione mostra con chiarezza com’è un mondo in cui gli americani manipolano le contraddizioni locali (che si sono) a proprio vantaggio ed un mondo che libero di auto-organizzarsi nella composizione degli interessi dei diversi attori locali alla fine trova una quadra regredendo il conflitto a competizione, l’aggressione all’equilibrio di reciprocità, il disordine fisso all’ordine variabile.
Così oggi la notizia di questo accordo che non è esagerato definire storico va di spalla sulla stampa occidentale, anche per lasciare spazio alle nuove puntate della serie “noi contro il resto del mondo” animate dalla gloriosa democrazia ucraina.
Ma tanto le opinioni pubbliche occidentali sono fatte di pesci rossi intrappolati nella bolla di vetro, pesci rossi che, come si sa, non hanno memoria e non riescono a guardarsi dall’esterno. È stata la stagione delle Fallaci e dei tribalismi sciiti contro sunniti, dagli Assad, dei feroci saladini tagliateste islamisti e dei dolci curdi, dello scontro di civiltà, una bella sceneggiatura, anche con interessanti squarci storico-culturali, andata. Ora c’è la serie “democrazie vs autocrazie” di cui aspettiamo il scoppiettante finale da Terza guerra mondiale, francamente un plot narrativo che pare poco consistente, stiracchiato, poco palpitate nonostante il profluvio di energia mediatica. Mi sa che questa volta tentare di riempire il vuoto strutturale col pieno narrativo non avrà molto futuro.
Già, il “futuro”. Ma tanto qui in Europa stiamo diventando tutti molto vecchi, “futuro” qui da noi evoca solo una grande scatola di frassino. Quindi “pace e futuro” non fa notizia, meglio occuparsi dei morti di Bakhmut. Ad una certa età la lettura che tira di più sono i necrologi.
[Per chi fosse interessato, un condensato del quarantennale conflitto a variabile intensità tra sauditi ed iraniani di MEE, testata di think tank qatariota che tra Iran ed AS ha posizione quasi-terza]
Iran and Saudi Arabia: Over four decades of tension

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TORNANDO ALL’ORIGINE DELLE DISEGUAGLIANZE, di Pierluigi Fagan

Andando dritti alla domanda: “perché le società umane ad un certo punto della storia sono diventate socialmente gerarchiche ovvero diseguali?”, dopo decenni di scavi e miglioramento delle tecniche per trarne informazioni e conoscenze, abbiamo oggi la possibilità di rispondere meglio che in passato. Nel suo recente “Un frammento alla volta” il Mulino (2013) l’archeologa M. Frangipane, ci riporta fatti e principali interpretazioni di tutti gli scavi effettuati nell’arco che va dalla Mezzaluna fertile all’Egitto in questi ultimi decenni. È l’occasione per verificare molti nostri assunti teorici con le concrete prove della vita di quei tempi.
Da un certo punto in poi l’orizzontalità sociale si rompe e cominciano processi che porteranno alle società gerarchiche e stratificate, lo Stato (regni, imperi), le guerre. L’inizio del tempo di questa rottura di orizzontalità sociale è all’interno di quella nota come “cultura Ubaid”, lungo all’incirca millecinquecento anni, tra 5000 e 3500 a.C., ma il se il fenomeno sembra sortire all’improvviso in realtà sono di medio-lungo periodo i processi che lo compongono. Siamo nella Mesopotamia centro-meridionale, da qui i processi di stratificazione sociale passeranno alla Mesopotamia centro-settentrionale, il Levante, l’Anatolia e l’Egitto, sebbene in tempi e forme diverse, dinamiche e cause seconde diverse. La cultura Ubaid dove si nota l’inizio di processi di diseguaglianza sociale è precedente l’avvento della prima città (Uruk) e dello Stato.
A seconda che lo studioso che analizza questa storia provenga da studi economici o sociali o antropologici o urbanistici o culturali o da ultimo eco-climatici, troverà negli oggetti della sua disciplina la causa prima del fenomeno. Ma cause rivenute in questi campi specifici di studio, a ben vedere, risultano sempre tutte cause seconde e tra l’altro correlate le une alle altre in maniera sistemica. La causa prima invece, risulta essere quello che la stessa archeologa cita a pagina 95: “gestire una complessità crescente”. Da dove viene e come si compose questa “complessità crescente”? E perché ritenerla causa prima?
Come accennato, dobbiamo partire dal considerare le società umane come dei sistemi dinamici ambientati in vari contesti dinamici anch’essi e pensabili a loro volta come sistemi. Nei sistemi, non si verifica mai che una parte o componente o funzione sia la causa unica della natura dinamica e per altro non è neanche vero che tali sistemi possano esser letti al netto delle relazioni che hanno con altri sistemi e con il contesto. La grande difficoltà a condividere spiegazioni sistemiche è che le altre sono semplici, una causa (classicamente “l’agricoltura”) un effetto (la diseguaglianza). Le spiegazioni sistemiche debbono invece descrivere più variabili e loro interrelazioni non lineari. Le società umane, come ogni forma “sociale” del vivente (vale nell’animale ma anche nel vegetale), vanno pensante come sistemi adattivi. Gli individui si rifugiano nei sistemi poiché questi esprimono potenzialità e capacità adattative maggiori della somma delle parti. Nei più casi, conviene quindi rifugiarsi in un sistema se si vuole vincere la sfida perenne del vivente che è l’adattamento al contesto.
Nel caso in questione, abbiamo fenomeni di lunga durata (nell’ordine delle migliaia di anni) che aumentano la complessità interna alle società in risposta all’aumento di complessità esterna di contesto, fino a che la precedente facoltà sociale di autorganizzazione si trasforma in un sistema che delega ad un suo centro la facoltà organizzatrice. L’inizio dei processi di diseguaglianza sociale nelle società umane avvenne con questa riduzione della complessità decisionale, delegando a pochi la funzione di decidere per tutti. Non si verificò alcuna imposizione o violenza iniziale in questo processo, fu un processo delegato spontaneamente per ragioni di mera funzionalità. Questo esito non era obbligato, semplicemente fu il più semplice che si poteva adottare e venne inizialmente adottato ignorando del tutto le catene delle conseguenze e la sua, ancor oggi, difficile reversibilità.
I citati processi di lunga durata di questo scenario ad incremento di complessità riguardano composizione e struttura delle singole società, nonché fatti di contesto. Quanto alle singole società, queste incrementano la loro dimensione, c’è un fondo di constante incremento demografico dovuto alle migliori condizioni ambientali. Le società si stanzializzano progressivamente e cominciano ad affiancare prodotto agricolo (orticultura, silvicultura) inizialmente dalla cura del selvatico poi dalla domesticazione, alla caccia e raccolta che permane l’attività principale di reperimento della sussistenza. Abbiamo prove locali di agricoltura attiva di seimila anni precedenti l’inizio dei processi di stratificazione sociale, quelle indirette risalgono addirittura a più di diecimila anni prima. Lo sviluppo agricolo sarà seguito da quello dell’allevamento. Società più massive e stanziali chiamano a nuove attività produttive necessarie ed a segmentare le singole attività in crescenti divisioni specializzate del lavoro, accompagnate da sviluppo tecno-strumentale, nella sussistenza come nell’artigianato.
Per esser più chiari rispetto alle diffuse convinzioni sia stata l’agricoltura da sola a generare i processi di stratificazione sociale, va ricordato che abbiamo intere civiltà come quella della valle dell’Indo che pur avendo agricoltura ed allevamento non mostra segni pronunciati di stratificazione sociale ed altresì sappiamo che le società dei primi indoeuropei erano pienamente e pronunciatamene gerarchiche pur non ricorrendo per niente all’attività agricola.
Quanto al contesto naturale, i fatti nuovi sono le eccezionali condizioni eco-climatiche portate dall’Olocene (da circa 10.000 a.C.). La grande disponibilità d’acqua dolce alimenta la crescita di tutti i sistemi dei viventi, vegetali e animali, che portano all’incremento demografico di fondo, prima di quello agricolo. Quanto al contesto umano, aumenta la densità territoriale. Questa forma “culture” cioè areali in cui diverse società collegate informalmente, condividono modi di vivere, produzioni tecno-strumentali, sistemi di idee e forse credenze, prodotti e persone. Quando si amplierà l’attività agricola, sorgeranno nuovi problemi di spazio e convivenza.
I due ambiti interagiscono tra loro. L’aumento e la sicurezza alimentare non sono dati solo dalla ricchezza naturale spinta dal clima o dallo sviluppo tecnico e neanche solo dal ricorso all’agricoltura prima ed allevamento poi, con conseguenti tecniche e modalità di stoccaggio, ma anche da queste reti di scambio. La complessità sociale trainata dall’incremento demografico non diversifica solo le società all’interno, ma anche le società di un certo areale tra loro. Già tutto questo aumenta la complessità da gestire.
Ad un certo punto su questi processi di aumento di complessità si abbatte un fenomeno. Tali società sviluppatesi perché sempre più adatte ed apparentemente resilienti, diventano però sempre più dipendenti dal contesto. Quando cambiamenti climatici repentini in favore di climi più secchi ridurranno in poco tempo il prodotto di caccia e raccolta nonché quello agricolo (8,2 kyloyear event, a cavallo del 6000 a.C.), la complessità da gestire aumenterà ancora. Più o meno improvvisamente, società con richieste standard di un certo livello, fissate territorialmente e non più mobili (ad eccezione dei cacciatori-allevatori), si trovano a dover gestire risultati di produzione (naturale e domestica) inferiori. Cresce quindi la dipendenza di queste società dall’agricoltura, quindi dall’acqua dolce dei fiumi, Tigri ed Eufrate in Mesopotamia, Nilo in Egitto. Di conseguenza cresce di molto anche la necessaria organizzazione sociale per gestire tutto ciò.
Correlati ai primi accenni di stratificazione sociale, compaiono i primi templi. Questi assumono una posizione urbanisticamente centrale nell’abitato, mostrano funzioni non solo di culto ma anche di riunione collettiva e di ridistribuzione di prodotto agricolo, poi stoccaggio, poi addirittura mostrano produzione artigiana centralizzata. Come funzionò esattamente l’organizzazione sociale in questo primo stadio della complessità urbana in realtà non lo sappiamo. Può darsi che in alcuni casi la produzione alimentare rimase libera o in capo alle famiglie e solo una piccola parte fosse portata al centro per esser ridistribuita a coloro che non producevano direttamente. Si può anche ipotizzare uno status diverso tra famiglie storiche di quella società e quelle affluenti dall’intorno. Può darsi che i magazzini dei templi funzionassero anche da banca con “depositi” personali. Vediamo comparire sistemi di cretulae, sigilli, grandi contenitori che fanno pensare alla crescita di una complessità gestionale e amministrativa da cui proverrà poi la scrittura e la prima matematica. Vediamo grandi numeri di ciotole usate nella ridistribuzione ma a chi ed in qual misura non lo sappiamo. Non sappiamo quanto fosse formalizzato il possesso esclusivo della terra, come si formassero i sistemi di lavoro di bene comune rispetto l’irrigazione sempre più necessaria, quando la terra divenne proprietà delle divinità di cui il sacerdote era l’amministratore delegato.
Ma sembra mostrarsi il fatto che questo dover passare per un centro equilibratore la nuova complessità sociale, una sorta di modello “hub&spoke”, scelse come centro medio la funzione religiosa. La prima cosa che venne formalizzata in queste società crescenti fu la messa in comune dell’immagine di mondo e la credenza condivisa. Qui c’è lo snodo principale del processo che porterà a livelli crescenti di complessità sociale interna e quindi di stratificazione sociale che poi divenne di potere e diseguaglianza economica.
Nel tempo, il sistema centrale crebbe una sua burocrazia funzionale, il sacerdote “primus inter pares” divenne il primo re. In un secondo tempo, lo spostamento della funzione di comando dal religioso al laico-politico avvenne prima forse con sistemi di convivenza binari poi con una piena presa di potere laico che usò quello sacerdotale come supporto. I re stessi divennero rappresentanti del dio, delega la cui legittimità però era certificata dagli stessi sacerdoti che ottenevano dal potere politico i benefici di rango. Dopo, diventeranno i re-guerrieri. Era la natura stessa dei processi di crescita e volume delle funzioni amministrative e burocratiche a spostare il potere dal sacro al profano. Ma se dal punto di vista funzionale ormai dovevano essere i laici a comporre i centri di comando, rimase fondamentale la legittimità del loro potere garantita dai sacerdoti. Frangipane segnala che proprio nelle prime città anatoliche (Arslantepe, circa 3500 a.C.) dove sembra mancare questo radicamento sociale e nell’immagine di mondo, i poteri, nati e rimasti laici, per quanto addirittura in possesso delle prime armi, mostrano fragilità e incapacità di tenere compatta la società.
La questione centrale del problema ovvero “gestire una complessità crescente” poneva in primis il problema di chi doveva decidere come gestire questa complessità crescente. Era in queste società che ormai mostravano una certa massa e che si trovarono in condizioni di contesto problematiche che si pose inizialmente in problema. Erano ragioni logistiche quelle che impedivano alle società di continuare a funzionare per auto-organizzazione com’era lungamente avvenuto lungo tutto il Paleolitico, Mesolitico e parte dello stesso Neolitico. L’addensamento progressivo del potere di decidere sul tutto e per tutti fu una riduzione di complessità, più aumentò la complessità esterna e interna più si operò questa riduzione di complessità dell’intenzionalità sociale. L’attribuzione della facoltà organizzativa al centro fu un processo di delega progressiva spontanea inizialmente, solo in un secondo tempo questo centro se ne approfittò stante che l’aumento di complessità rese l’assetto irreversibile.
La nostra attuale fase storica, in termini di incremento di complessità, è solo seconda ai tempi che abbiamo descritto. Speriamo che questa regola dell’accentrare sempre più potere in mano dei Pochi non diventi legge. Leggo sempre con diletto i vari dipinti di società ideali secondo questo o quello, ritengo però queste discussioni, a volte, secondarie. Forse dovremmo prima chiarirci come cambiare società gerarchiche tali da cinque-seimila anni. “Come” significa: con quale modello politico (non economico, quello viene necessariamente dopo) e con quali facoltà di farlo funzionare.
[M. Frangipane è la più illustre archeologa italiana, responsabile da decenni degli scavi di Arslantepe in Turchia, membro di accademie tedesche ed americane. Dirige la più importante rivista italiana del campo che s’intitola, non a caso “Origini”]

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