FLY ME TO THE MOON, di Pierluigi Fagan

FLY ME TO THE MOON. I motivi dell’assalto spaziale che ha nella Luna il suo più immediato obiettivo (è appena partita una missione russa) sono, come sempre, molteplici, non ci si avventura mai in cose complesse per un solo motivo. Il pacchetto è che il tendere a… qualcosa del genere, traina al contempo sviluppo scientifico, tecnico, economico, geopolitico, strategico in senso più ampio.
Le ricadute dello sviluppo tecno-scientifico nel cimentarsi in cose del genere sono enormi. L’incedere è buttarsi nell’ignoto sapendo che si incontreranno problemi e nel risolverli si scopriranno nuove cose o nuovi modi di fare cose. Le ricadute sono molto più ampie del solo spazio, saranno terrestri ed umane in senso più ampio e arriveranno ai corsi economici, finanziari, militari, conoscitivi allo stadio che la conoscenza avrà domani. Il modo migliore di affrontare il futuro non è solo prevederlo, ma anche costruirlo.
Il risvolto economico è indiretto per via delle ricadute citate, ma anche diretto per l’estrazione mineraria ed energetica, ad esempio l’elio-3 (raro sulla Terra, abbondante sulla Luna). Estrazione minerale lunare diretta ma anche utilizzo di una base Luna per lo sfruttamento degli asteroidi. In termini di finitezza delle risorse, i minerali sono gli elementi che stanno più vicini alla rarità sulla Terra, il che annuncia conflitti e impennata dei prezzi, urge aprire nuove miniere.
C’è anche un aspetto economico-finanziario di modello. Europa, Giappone, India, Russia, Cina e chiunque altro, agiscono con enti statali (o comunitari). Gli Stati Uniti, invece, aprono la strada con lo Stato, ma subito a ruota segue il privato il che aumenta l’impatto di massa e diffonde i benefici al loro sistema economico in modo più largo e più in fretta. La favoletta del “più mercato meno Stato” è un osso lanciato ai cani economici mossi da menti semplificate figlie di qualche idealismo d’antan (in genere europei) che ci si avventano rabbiosi, il pragmatico sistema americano è invece perfettamente organico e coordinato tra i due aspetti.
L’aspetto geopolitico è evidente. Sebbene qui sulla Terra ci si avvii ad una partizione molteplice di entità piccole-medie-grandi detto “nuovo sistema multipolare”, tanta varietà tende a diminuire quando si tratta di puntare ad imprese così impegnative sul piano tecno-scientifico ed economico. Lo spazio è ambiente per potenze, non ci si va con tre sgangherate caravelle alla “che dio me la mandi buona e che la fortuna ci assista”.
India e Brasile, ad esempio, pur stando nei BRICS ed altre istituzioni di ispirazione neo-multipolare, in questa prospezione spaziale stanno anche con il gruppo capeggiato dagli USA, al momento. Ma non escluderei che queste potenze seconde non NATO-G7, possano poi fare qualcosa anche coi russi o i cinesi, in futuro. Gli EAU già oggi stanno un po’ di qua ed un po’ di là. Il principio del multipolare è il multi-allineamento ed è la speranza insista in questo nuovo modello. Avere una “rete” di interessi di ognuno con qualcun altro è l’unico modo di stabilizzare -pur dando dinamica- l’ordine mondiale, evitando quelle “esclusive” che finiscono con il cedere sovranità e riformare due blocchi.
Riformare due blocchi e quindi semplificare riducendo la molteplicità complessa alla logica di potenza è infatti il tentativo strategico americano, il come gli americani pensano di gestire il problema multipolare. In questo senso, lo “spazio” è utilissimo. Va infine aggiunto che, fino ad oggi, la Cina ha operato con grande riservatezza ed un po’ per conto suo.
Infine, l’aspetto strategico più ampio riguarda il rapporto tra umanità-Terra e spazio in generale, cioè il “futuro”. Tra decenni e secoli, non v’è dubbio che la nostra “sfera” di umanizzazione si allargherà allo spazio almeno del sistema solare. Non sappiamo dire se, quando e come riguarderà la presenza umana diretta, ci sono al momento profondi problemi irrisolti e di cui non si parla per non disturbare le grandi narrazioni futurologhe che poi servono a sostenere i molto terrestri corsi azionari di Musk, Bezos & Co, puro advertising.
Ci sono gravi problemi a vivere in assenza di gravità per lungo tempo e ci sono più ancora problemi con le protezioni dalle radiazioni, solari e viepiù cosmiche, là fuori è un ambientaccio. Le stazioni spaziali attuali stanno entro il campo magnetico terrestre, appena metti il nasino fuori (per più di una settimana, diciamo) son problemi seri. La soluzione a questi problemi passa in primis attraverso la possibilità di costruire navi spaziali fuori dalla Terra cioè con meno o assenza di gravità, qui da noi c’è un problema di massa e spinta per eludere la gravità che il problema delle protezioni non farebbe altro che aggravare. Ma vale anche per le dimensioni generali delle navi e composizione dell’equipaggio per viaggi più lunghi di quelli verso la Luna.
Tuttavia, al di là delle poesie sull’uomo che mette piede qui e lì, sonde automatiche governate da sempre più evoluta A.I. risolverebbero molti problemi con molte positive ricadute secondo quanto prima espresso. Ecco allora che la “base Luna” potrebbe esser un nodo essenziale, in sé e come avamposto. Chi scrive pensa che il futuro sarà di missioni automatizzate viepiù queste sapranno, com’è facile prevedere, mimare la performance umane molto più costose, rischiose, dalla logistica -al momento- impossibile. Un singolo astronauta morto per radiazioni fermerebbe i programmi spaziali per anni se non decenni e la stretta utilità dell’umano, in queste cose, tende al nulla.
Al momento, c’è una legislazione internazionale e livello ONU che regola alcune cose. Ma è di qualche decennio fa e quando venne firmata si era lungi dallo stato attuale delle prospettive e complessità di progetto. Gli USA, ad esempio, stanno già prevedendo di aggirare alcune norme poiché affideranno certe operazioni ai privati e quando sono state firmate quelle convenzioni, il “privato” non era previsto. Si potrebbe facilmente mettersi intorno ad un tavolo ed aggiornare le carte, ma lo si sarebbe potuto fare anche per il problema dei rapporti NATO-Russia via Ucraina e non solo. Non lo si è fatto perché non lo si voleva fare, c’è il momento Congresso di Vienna e c’è il momento Far West che agli USA piace molto, per tradizione. Lo chiamano “libertà” e da quelle parti il concetto è sacro. Comunque, è tradizione storica che il momento Congresso di Vienna vanga sempre dopo l’esito del momento Far West.
Guerre, conflitte, scaramucce, sgarbi, nello spazio, trappole, provocazioni, non avranno testimoni e saranno del tutto manipolabili, quindi: “à la guerre comme à al guerre” e “chi mena per prima mena due volte”. Chi scrive pensa che le missioni Apollo ci siano state; tuttavia, a titolo d’esempio di ciò che si potrà fare in termini di informazioni spaziali future è ben reso dalla recente validazione del fatto che gli americani sulla Luna ci sono stati davvero da parte della sonda indiana. Terzi che testimoniano che tu sei l’invaso e non l’invasore avranno un prezzo, magari gli darai qualcosa su un altro tavolo, sarà una bella partite neanche sotto il tavolo, sopra le nostre teste dove l’occhio e l’orecchio non “istituzionalizzato” non arriva.
Così, i cinesi, previdenti, se ne sono andati sì sulla Luna ma dalla parte opposta a quella in cui vanno tutti gli altri, la faccia nascosta alla Terra che non è affatto “dark (side of the moon)” essendo illuminata la metà del tempo esattamente come l’altra. Tra l’altro lì potrebbero esserci anche più minerali e quasi in superficie. Si sono così potuti impegnare a risolvere anche loro un problema auto-procurato ovvero come mandare e ricevere segnali Terra-Luna e viceversa, rimbalzando il segnale tra più di un satellite. Tecnologia utile, soprattutto quando si attaccheranno gli asteroidi. Da segnalare che già oggi articoli americani paventano l’invasione cinese dei “loro” spazi, “loro” in che senso non è chiarito. Altresì, problemi “lassù” potrebbero muovere a soluzioni “quaggiù”.
Oggi, il censimento della corsa lunare segna americani, russi e cinesi, i primi ci mandarono anche umani, tutti e tre ci sono atterrati. Poi c’è l’India che proverà per la seconda volta ad atterrare a giorni. Europei e coreani, in proprio ed a traino degli americani. Giapponesi, israeliani ed EAU. Questi altri per ora vanno in orbita, fanno fly-by o ci si schiantano.
Insomma, a tema “futuro” questa variabile diventerà ordinativa, non in forma unica ma assieme alle altre. Pochi anni fa si discuteva con alcune anime semplici del problema della “sovranità”. Che problema c’è, basta stampare moneta, un po’ più di autarchia, alziamo i confini et voilà, dicevano. A parte che già questo non è affatto semplice e si può anche dubitare funzionerebbe, le nostre idee vanno sempre messe in contesto, la complessità è nel come componiamo il contesto.
Fra trenta anni, al problema demografico-anagrafico, migratorio, ambientale-ecologico, climatico, militare, tecnologico, scientifico, culturale, sociale, economico, finanziario e politico si aggiungerà anche questa dimensione. Adattarsi a questo contesto sarebbe tema di grande ed urgente dibattito, ma non essendo qui in Italia in grado di farlo, facciamoci una cantatina … alla fine Sinatra era pur sempre mezzo italiano.

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IL FASTIDIO PER IL PENSIERO RIFLESSIVO, di Pierluigi Fagan

IL FASTIDIO PER IL PENSIERO RIFLESSIVO. Il termine “ideologia” nasce in Francia nella prima parte dell’Ottocento ad opera di alcuni filosofi materialisti che intendevano sviluppare una conoscenza (logos) su come nasce, si compone e funziona il sistema di pensiero (idee). Cercavano cioè di pensare al come pensiamo. Non a cosa pensiamo, il “cosa” viene dopo, prima c’è il come.
Vennero chiamati “ideologues” e su loro si abbatté l’ira di Napoleone: “È alla ideologia, a questa tenebrosa metafisica che ricercando con sottigliezza le cause originarie, vuole su tali basi fondare la legislazione dei popoli in luogo di adattare le leggi alla conoscenza del cuore dell’uomo e alle lezioni della storia, che vanno attribuiti tutti i mali che ha provato la nostra bella Francia” (1812). Insomma, a Napoleone questa ricerca su come pensiamo e quindi poi agiamo non piaceva, bisognava agire e basta, naturalmente come piaceva a lui.
Da Vilfredo Pareto a Francis Fukuyama via Popper, il pensiero liberale ha da sempre mostrato vivo fastidio per le ideologie e ne ha celebrato la fine eccitandosi per il crollo dell’ideologia marxista al passaggio tra anni ’80 e ’90. Finalmente, non c’erano più ideologie, era rimasta solo la loro. In effetti, già Destutt de Tracy, l’animatore degli “ideologues” francesi, aveva segnalato come la morale utilitaristica e la conseguente politica liberalistica non avessero nulla di oggettivo e naturale e fosse appunto una “ideologia”. Ma i liberali sono così, irriflessivi, se c’è più di un sistema di pensiero oltre al loro danno condanne di “ideologia!” a qualsiasi altra forma del pensare, quando rimane solo il loro sono felici, le ideologie sono morte, la natura oggettiva delle cose ha trionfato.
Arriviamo così ad un articolo de Il Foglio che è un giornale di ideologia liberale. Qui, un giornalista con le idee chiare e distinte titola contro il “dogma” della complessità. Poi declina l’occhiello con “La complessità è diventata ideologia, rifugio d’intelligenze vanitose, benintenzionati smarriti e professori cialtroni”. Sta recensendo il saggio di una giovane filosofa francese, Sophie Chassat, “contro questo mito culturale odierno”, il mito della complessità. Wow!
Dopo aver segnalato che il saggio della francese è “favoloso”, continua con abuso di aggettivi squalificativi. Quello della “complessità” è “un mito” che porta ad esser “inebetiti dal caos”, “in bilico tra solennità e supercazzola”, “un rifugio dell’ignoranza”. Chiude alla grande con: “Il suo è un invito a ritrovare il senso del “cruciale”. Il mondo è complesso? A maggior ragione è necessario scegliere: modelli -di vita, di valori, di produzione-. Sapendo che decidere è inevitabilmente semplificare. […] L’alternativa, è vivere complessati.”. Bella la chiusura, maschia, decisa, pragmatica.
Viene così curiosità di andarsi a leggere questa intemerata della francese contro la complessità. Ma poiché di questi confusi tempi capire chi emette il discorso è la prima cosa da fare per capire come pensa chi poi ci dice cosa pensa, scopriamo che il suo piccolo saggio contro il pensiero della complessità è ospitato dal sito di un think tank “liberale, progressista, europeista” che ovviamente sono verità di natura, non ideologie.
Wikipedia, di questi signori, riferisce che: “Per quanto riguarda l’economia, la Fondazione auspica, […] una riduzione della tassazione, un rilancio delle privatizzazioni, una riduzione della spesa sanitaria e la non sostituzione un funzionario su due. Secondo la Fondazione, [… ] “lo Stato non ha lo scopo di ridurre le disuguaglianze” e dovrebbe “rinunciare ad alcune aree di competenza” a vantaggio del settore privato”.
Agatha Christie, grande Maestra della logica abduttiva, diceva che due indizi sono una coincidenza per cui che il giornale liberale si esalti per un articolo sul sito di un think tank ultraliberale è, appunto, solo una coincidenza, al momento. Andiamo allora alle tesi.
Le tesi della francese sono varie e non riassumibili in un articolo breve. In parte sono quelle del virgolettato riportato da Il Foglio, impresa privata liberale che prende circa 1 milione di euro l’anno (2021) di sovvenzioni statali altrimenti sparirebbe dal mondo del visibile. Qualcuno l’ha chiamato, “il reddito di giornalanza”, utilissimo per tenere in piedi i megafoni contro il reddito di cittadinanza la cui negatività è lampante, non è certo un giudizio ideologico.
In pratica, la filosofa imputa al pensiero della complessità, il farla sempre più difficile del necessario, tanto da portare ad un tedioso smarrimento inattivo, irresponsabile, troppo intellettualizzato, paralizzante. Essendo filosofa conosce i trucchi del mestiere (Retorica, Aristotele) ad esempio la cattiva categorizzazione, quella della “complessità” per lei è una “ideologia” e sappiamo che ideologia è male, la Verità è il Bene, quale poi sia la Verità non conviene domandarselo.
Segnalo solo che nel riferire dell’archeologia dei concetti, su “ideologia” passa da Destutt de Tracy a Marx, dimenticandosi di Napoleone che diceva del pensiero del filosofo “ideologue” le stesse cose che lei imputa oggi al pensiero complesso. Ce l’ha anche con l’approccio complesso al problema climatico e guarda un po’, anche con l’IPCC e la COP27, ma non perché è negazionista sul fatto che c’è un problema, ma perché si perde troppo tempo a non fare le poche, chiare cose che andrebbero fatte, le cose “oggettive”. La Signora poi ha fatto di necessità virtù e visto che di sola filosofia non si campa, ha messo su una società di consulenza su “filosofia e branding”, marketing, comunicazione. Tra i suoi clienti Total. Immagino che lavorando con Total abbia appreso le giuste cose da fare sul problema climatico, cose semplici vivaddio!
Leggetevelo l’articolo, è davvero fantastico, sarebbe puro piacere rintuzzare argomento per argomento notando gli slittamenti logici e di inferenza, cioè in sostanza la voluminosa confusione che l’adepta delle idee “chiare e distinte” fa a proposito della cultura della complessità. Ma qui non abbiamo lo spazio sufficiente. Le conclusioni sono chiare, siamo in una epoca speciale: “Le crisi che stiamo affrontando oggi ci impongono quindi di stabilire delle priorità, di scegliere le giuste battaglie, di porci obiettivi chiari e, per farlo, di porci le giuste domande. Cosa è in definitiva essenziale? Cosa conta davvero? Quali sono i nostri bisogni primari? In quale direzione vogliamo andare?” Ecco le giuste domande! Sicura?
Vado per grandi sintesi, semplifico. Nel lungo Paleolitico, ci svegliavamo la mattina e ci domandavamo “oggi che si mangia?”, ci davamo da fare e più o meno davamo la risposta concreta agendo. Nel tardo Neolitico, quando arrivammo a vivere in 40.000 ad Uruk, non potevano farlo più perché non avremmo trovato da mangiare per così tanti coi vecchi metodi. Cominciammo così a prevedere i bisogni, coltivando ed allevando fonti di cibo. Ne nacque la civiltà e le società che i sociologi di ogni ordine, grado ed ideologia chiamano “società complesse”. Società complesse in un mondo ancora sostanzialmente abbastanza semplice in cui potevi sfruttare la natura a piacimento e massacrare i vicini fastidiosi che magari avevano fatto un colpo di stato locale e non ti volevano vendere più l’uranio per le tue centrali nucleari che, quelle sì, risolvono bene il problema climatico. Oggi non solo le società sono sempre più complesse, lo è diventato anche il mondo! Siamo 8 miliardi con 200 Stati e la natura non ci dà cinque Terre per vivere tutti come gli americani e gli europei e gli americani e gli europei non vogliono certo abbassare il loro tenore di vita per diventare compatibili. Anche perché la colpa di questo disequilibrio non è certo loro ma di quegli umani di seconda fascia che sono gli asiatici, gli africani ed i sudamericani che vogliono stare meglio facendo saltare il banco. Da cui numerosi problemi sul piano economico, finanziario, logistico, migratorio, culturale, sociale, politico ed in definitiva geopolitico.
Insomma, prima agivamo, poi prevedevamo ed agivamo di conseguenza, oggi dovremmo agire prevedendo non solo i nostri voleri e soddisfazione di questi bisogni ma i controeffetti di questo agire rispetto al mondo naturale abitato da 8, prossimi 10 miliardi di gente come noi, ora anche con le bombe atomiche e la tecnologia prima nostra esclusiva. Ciò porta a domandarci quali dovrebbero adattivamente essere le forme del nostro pensare stante che certo alla fine dobbiamo agire. Questa è la domanda giusta che la filosofa-consulente aziendale non ha fatto e non vuole che si faccia, lei come il think tank che ne ospita la requisitoria, pubblicizzata qui dal giornale ultra-liberale. Farsi questa domanda è ideologia!
Il pensiero moderno da Galileo e Descartes ad oggi ha avuto quattro secoli di sviluppo. Il pensiero della complessità è giovane, ha solo settanta anni (anche meno) è ancora in formazione, ampliamento, delucidazione. Il pensiero della complessità, tecnicamente parlando, è una onto-gnoseologia ma non vi impressionate sul termine oscuro, si tratta di pensare a come pensiamo per poi agire, il fine del pensiero umano è sempre agire, è definito tale da tre milioni di anni di evoluzione dell’umano, nessuno contesta questo. Noi non siamo l’Homo faber come continua a ripetere la signora e non pochi altri attardati al XIX secolo, secolo di potenti ideologie (liberali-marxiste etc.), siamo l’Homo cognitivus, che pensa prima di fare. Oggi è adattivamente l’epoca in cui dobbiamo pensare bene prima di agire e questo pensar bene non è pensare questo o quello, questo o quello verranno pensati e promossi dai loro portatori, come sempre è accaduto e sempre accadrà.
Pensare bene è pensare prevedendo nei limiti del possibile, gli effetti del nostro agire scelto dopo aver ben analizzato i fatti, i bisogni, le forme della vita associata ed il contesto. Per far questo, secondo il pensiero della complessità, aiuta l’inquadrare le cose, oggetti, fenomeni, come sistemi. Non perché ci piace, ma perché letteralmente “tutto” è descrivibile come tale, non ci sono eccezioni se non per entità metafisiche come le singolarità o Dio. Ogni oggetto del nostro pensare è scomponibile in parti che hanno interrelazioni tra loro, a volte non lineari, ogni sistema ha interrelazioni con altri sistemi e tutti stanno in un contesto su cui hanno influenza e da cui sono influiti e tutto ha una durata, sta nel tempo, in un certo tempo che è storia. Così per la cascata di portati gnoseologici che vanno dai feedback alle emergenze, dalla multi-inter-trans-disciplinarietà alla logica abduttiva e parecchio altro ancora da sistematizzare, almeno un po’ meglio di quanto non sia ad oggi possibile.
Per questo Morin ha chiamato il suo magnum opus Il Metodo (cito Morin ma non è detto aderisca sempre ed in toto al suo pensiero, come per altro non mi capita di far con qualsiasi altro pensatore da Aristotele a Kant a Marx, ho ambizioni di pensatore in proprio), per indicare che il luogo nativo del pensiero complesso non è l’ideologia ma il come le costruiamo, le giustifichiamo, le rendiamo utili a dirigere l’azione che rimane il fine di ogni pensiero umano che non sia dedicato -appunto- a pensare a come pensiamo che ne è la propedeutica.
Nel primo commento una piccola bio della simpatica filosofa, un piccolo quadretto de “Il mondo di Sofia”, dal quale si evince l’allineamento ideologico tra Il Foglio, il think tank, la signora in questione. Agatha Christie avrebbe abduttivamente detto che sì due indizi fanno una coincidenza, ma tre fanno una prova. La prova che tra questi scadenti ideologi liberali ed il pensiero della complessità c’è conflitto sul come pensiamo o forse solo, raccogliendo l’invito a semplificare, sul “se” pensiamo prima di agire. Domande che non vanno fatte.
Complessità. Critica di un’ideologia contemporanea

Il paradigma della complessità ha ormai invaso tutti i nostri discorsi e le nostre rappresentazioni della realtà. Nessuna situazione può sfuggire a questo presupposto: “è complessa”. Ma non c’è nulla di neutro in questo filtro applicato al mondo. Altera la nostra capacità di comprendere, prendere decisioni e agire, così come erode il nostro senso di responsabilità.

Questo articolo esplora le ramificazioni semantiche, i presupposti teorici e le conseguenze pratiche del modello del “pensiero complesso”, promosso in particolare dal sociologo Edgar Morin, come ideologia contemporanea.

Per uscire dall’impasse in cui questo nuovo pensiero unico ci sta intrappolando, vengono esplorate altre strade, tra cui quella che prevede la riscoperta del senso del “cruciale”.

Sophie Chassat,

filosofa, socia fondatrice di Wemean, dirigente d’azienda, membro del consiglio di sorveglianza della Fondation pour l’innovation politique.

Introduzione

https://www.fondapol.org/etude/complexite-critique-dune-ideologie-contemporaine/?fbclid=IwAR1V-cVzcxCmRYFnW5LH3vXsrb2ApQrzRF5y_YFbS2nf0HYq_9U6zNLvTdI#chap-1

Note
1. Edgar Morin, La Complexité humaine, Flammarion, 1994.
2. Il libro di Edgar Morin Introduction à la pensée complexe, pubblicato nel 1990 e riedito da Seuil nel 2005, espone i principi fondamentali del pensiero complesso.
3. Si veda “La ‘post-vérité’, nouvelle grille de lecture du politique”, Letemps.ch, 18 novembre 2016.+.
4. “Nel 1972, il meteorologo Edward Lorenz tenne una conferenza all’American Association for the Advancement of Science intitolata “Predictability: Does the Flap of a Butterfly’s Wings in Brazil Set off a Tornado in Texas?”. “Prevedibilità: il battito d’ali di una farfalla in Brasile può scatenare un tornado in Texas?
5. Edgar Morin, La Méthode, Éditions du Seuil; i sei volumi de La Méthode sono stati pubblicati tra il 1977 e il 2006.
“Come tutti gli esseri viventi, le idee hanno sempre bisogno di essere rigenerate, ri-generate, per conservare la loro interezza e la loro vitalità1”. Edgar Morin ha ragione. Per mezzo secolo ha esortato le nostre società occidentali ad aprire gli occhi sulla complessità del mondo e ha visto questa idea diffondersi così efficacemente che il suo paradigma del “pensiero complesso “2 ha ormai preso il sopravvento su tutto.

La semantica che usiamo ogni giorno lo testimonia: nulla è diventato “sistemico”, “ibrido”, “globale”, “liquido” o addirittura “gassoso”, sia nel campo della politica che in quello dell’economia, della scienza o dei media, che tengono lo specchio dell’opinione pubblica. Ovunque si guardi, il mondo della volatilità, dell’incertezza, della complessità e dell’ambiguità (VUCA) è diventato il nostro orizzonte ultimo e definitivo.

Da idea fertile che ha permesso alle società umane di progredire nella comprensione di se stesse e del mondo circostante, la complessità si è gradualmente trasformata in ideologia. Ormai indiscutibile e indiscusso, il dogma della complessità è diventato il presupposto di tutti i nostri pensieri e azioni.

Se è stato utile per riflettere sul XX secolo – e in particolare per contrastare ideologie riduttive e distruttive – non è più lo strumento concettuale di cui abbiamo bisogno per agire nel XXI secolo. Questo perché, applicato a qualsiasi situazione, il dogma della complessità riduce la nostra comprensione, il nostro potenziale di azione e il nostro senso di responsabilità.

Innanzitutto, riduce la nostra comprensione, e quindi la nostra capacità decisionale, perché impone una rappresentazione barocca del mondo in cui tutto è ingarbugliato, incerto e intrinsecamente contraddittorio. Relegando la ricerca della verità a un approccio mutilante alla realtà, incoraggia il relativismo e accentua le carenze dell’era della post-verità3.

C’è poi la perdita dell’azione, perché quando tutto è complesso, come evitare il panico e la paralisi? Da dove cominciamo se, appena muoviamo un dito, possiamo scatenare una catastrofe all’altro capo del mondo, per “effetto farfalla “4? Il nostro disordine climatico è in parte dovuto a questa rappresentazione del problema.

“È complesso” diventa rapidamente una scusa per l’inazione. Se da un lato lo stato attuale del mondo ci chiede di impegnarci più che mai, dall’altro stiamo assistendo a un fenomeno di grande disimpegno, percepibile sia in ambito civile che aziendale. Il dogma della complessità, che si riferisce agli effetti sistemici, sta togliendo responsabilità agli individui: il mondo è così complesso, tutto è così sistemico, che “che senso ha” agire?

Tutti questi effetti perversi e deleteri sono in contrasto con lo spirito umanista del “metodo” originale di Edgar Morin 5. Oggi la complessità non è più un concetto liberatorio. È diventato un concetto inibitorio che deve essere superato.

Dobbiamo quindi mostrare i limiti del pensiero complesso e ricordarci le virtù della semplicità, persino della semplificazione. Ma il ritorno alla semplicità non può essere l’ultima parola nel nostro rapporto con il mondo contemporaneo. Stiamo entrando nell’era del “cruciale”, perché siamo a un “bivio”: abbiamo sfide da affrontare, battaglie da combattere, decisioni da prendere. È arrivato il momento di decidere.

I
Parte
Complessità: un’ideologia senza nome

https://www.fondapol.org/etude/complexite-critique-dune-ideologie-contemporaine/?fbclid=IwAR1V-cVzcxCmRYFnW5LH3vXsrb2ApQrzRF5y_YFbS2nf0HYq_9U6zNLvTdI#chap-1
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Preso in prestito dal latino complexus (che significa ciò che è tessuto insieme), participio passato del verbo complectere (assemblare, abbracciare), il termine “complesso” caratterizza un tessuto fatto di elementi diversi e interconnessi.

Ma il tessuto ha finito per diventare una ragnatela, catturando tutti i nostri discorsi e le nostre pratiche – i nostri complessi, per usare la parola che è diventata un sostantivo in psicologia – fino a diventare l’unico orizzonte. La complessità, infatti, è ormai un luogo comune, il presupposto della maggior parte delle nostre rappresentazioni del mondo, o peggio: un dogma, un principio indiscusso e indiscutibile. Sostenuta da tutta una serie di nozioni che fanno sistema e si alimentano da sole per sostenere una visione del mondo proliferante, come un pensiero unico (l’ultima goccia per una dottrina della complessità), l’idea è diventata un’ideologia che non dice il suo nome.

1
L’inflazione semantica della complessità

Note
6. Alain Pérez, “Bienvenue dans un monde complexe”, Les Echos, 28 novembre 2002.
7. Éric Bertin, Olivier Gandrillon, Guillaume Beslon, Sebastian Grauwin, Pablo Jensen, Nicolas Schabanel, “Les complexités: point de vue d’un institut des systèmes complexes”, in Hermès, La Revue, 2011/2 (n° 60). La teorizzazione della complessità deve molto all’ambito militare, un’origine tutt’altro che neutrale. Rappresentare il mondo come un campo di battaglia è una rappresentazione possibile, ma – diciamolo – non insignificante.
8. Daniel Durand, La systémique, Que sais-je? 1979-2021.
9. Ferdinand de Saussure, 1931 (citato da Durand), ibid.
10. Pauline Verge, “Une étudiante obtient 18 à son mémoire sur ” la méta-complexité chez Emmanuel Macron ” “, Le Figaro Étudiant, 16 gennaio 2019.+.
11. Muriel Jasor, “Toujours plus de rencontres pour phosphorer entre leaders sur des sujets complexes”, Les Échos, 24 novembre 2022 +.
12. Mickaël Réault, “Devenir une entreprise vivante pour faire face à la complexité et l’incertitude”, Forbes.fr, 8 gennaio 2021.
13. IBM Global CEO Study, “Leveraging complexity”, 2010. Questo studio è la quarta pubblicazione della serie biennale “IBM Global CEO Study” condotta dall’IBM Institute for Business Value e da IBM Strategy & Change.+.
14. “Ad esempio, maggiore è la volatilità, più velocemente un sistema cambia e più complesso e imprevedibile può diventare rapidamente, e quindi… ambiguo. E viceversa, o il contrario”. (Benjamin Chaminade, “VUCA, Management de la Complexité”, benjaminchaminade.com, 1 febbraio 2021).
15. Nassim Taleb, Il cigno nero: The Power of the Unpredictable, Les Belles Lettres, 2012.
16. Si veda ad esempio Julia Posca, William Mansour, “Qu’est-ce que le racisme systémique?”, IRIS, 4 giugno 2020; Ariane Nicolas, “Racisme systémique : mais de quel ” système ” parle-t-on?”, Philosophie Magazine, 16 aprile 2021; Fabrice Dhume, “Du racisme institutionnel à la discrimination systémique. Reformuler l’approche critique”, Migrations Société, 2016/1 (n. 163), p. 33-46.+
17. Si veda ad esempio Camille Zimmermann, “Petit précis de culture du viol (et autres évidences troubles)”, Nouvel Obs, 22 dicembre 2017; Véronique Nahoum-Grappe, “Culture contemporaine du viol”, Communications, 2019/1 (n. 104); cfr. Jérôme Blanchet-Gravel, “L’invention de la culture du viol”, Causeur, 18 gennaio 2018.+
18. “Risque systémique”, La Finance pour tous, 27 novembre 2019.
19. Vedi sotto, Parte III, 3: “Le complexe à la source du désarroi climatique?”.
20. Dal “sostegno multiforme” per affrontare la “crisi multiforme” del mondo, della democrazia, dell’ospedale, del Sahel, ecc. alla “governance multiattoriale” nella sfera pubblica e privata, passando per le “valutazioni multi-fonte” e il riconoscimento delle “multi-potenzialità” nel mondo professionale.
21. Gabrielle Halpern, Tous centaures! Éloge de l’hybridation, Le Pommier, 2020.
22. Robert Maggiori, “Zygmunt Bauman, il avait vu la ‘société liquide’”, Libération, 11 gennaio 2017.+
23. Solenn de Royer, “Emmanuel Macron, président “liquide” au cœur d’une campagne fantôme”, Le Monde, 8 marzo 2022.+ 24.
“Benvenuti in un mondo complesso “6

La causa è chiara. Con la globalizzazione del mondo, la moltiplicazione esponenziale dei flussi di persone, merci e informazioni sotto l’effetto combinato della globalizzazione degli scambi economici e dell’accelerazione tecnologica, l’internazionalizzazione dello spazio politico, la responsabilizzazione dell’individuo rispetto alla collettività e la consapevolezza ambientale, le nostre società contemporanee sono entrate nell’era della “complessità”.

Promosso a partire dagli anni ’70 con l’affermarsi delle scienze della complessità negli Stati Uniti e poi in Europa, questo concetto deve molto alla teoria dei sistemi che si stava sviluppando da due decenni. Con l’avvento dei computer, oltreoceano nacquero discipline come la ricerca operativa, la teoria dei giochi e la cibernetica (la scienza della macchina sviluppata da Norbert Wiener), frutto di una nuova collaborazione tra fisici, matematici e ingegneri che, utilizzando la modellazione al computer, cercavano di ottimizzare l’efficacia delle operazioni militari7. La loro ricerca ha prodotto un nuovo strumento concettuale, in grado di aiutare a risolvere problemi complessi in una grande varietà di campi: dalla creazione di strumenti di guida per il fuoco aereo alla comprensione del funzionamento del cervello umano, dalla gestione di grandi organizzazioni industriali – i famosi “complessi industriali” – alla produzione dei primi computer su larga scala8. La nozione strutturalista di “sistema”, aggiornata dal biologo Ludwig von Bertalanffy, è arrivata a designare “un insieme organizzato, costituito da elementi interdipendenti che possono essere definiti in relazione gli uni agli altri solo in funzione della loro collocazione in questo insieme “9 e che, nelle parole di Edgar Morin, sono “reciprocamente interrelati”. Con Edgar Morin, la sociologia utilizza questo strumento per comprendere la società come un intreccio di sistemi multipli (sociali, culturali, economici, politici, ecc.).

Interazione, globalità, organizzazione e complessità diventano così i quattro concetti fondamentali di una nozione tentacolare che dalla visione meccanicistica dell’ingegneria e della fisica si sta gradualmente estendendo al mondo biologico e sociale.

Dallo sciame di storni agli alti e bassi della quotazione in borsa, dalle dipendenze umane alla vita di una cellula, dall’insorgere di un terremoto alla formazione di un ingorgo stradale, l’obiettivo è ora quello di studiare, all’interno del tessuto del mondo fenomenico, questi insiemi organizzati che sono “più della somma delle loro parti” e in cui le informazioni vengono costantemente scambiate, favorendo l’emergere di effetti che non erano prevedibili a priori. Gli organismi viventi, le società umane, le organizzazioni politiche ed economiche sono tutti “sistemi complessi” che sono diventati il fulcro della scienza contemporanea.

Inevitabilmente, più si moltiplicano gli elementi costitutivi e le interazioni di questi sistemi, più complessa appare la realtà di cui fanno parte. Da questo punto di vista, il nostro mondo non poteva che diventare più complesso man mano che diventava più connesso e, soprattutto, man mano che progredivamo nella sua comprensione, avendo più parametri da prendere in considerazione – e più informazioni a cui accedere – per capirlo sempre meglio. Il pregiudizio è inevitabile: più conosciamo il mondo, più sembra difficile da abbracciare. La complessità è il nostro orizzonte, ma si allontana sempre di più quando ci avviciniamo ad essa.

Il vocabolario del complesso ha quindi invaso la nostra retorica quotidiana per esprimere il nostro rapporto con questa realtà aumentata, per non dire satura di informazioni e connessioni. Questa inflazione semantica ha finito per svuotare il concetto del suo significato originario.

Il campo della politica è particolarmente colpito, situato all’incrocio tra geografia e cultura, economia e demografia, collettivo e individuale, universale e particolare, globale e locale, in un momento in cui le società diventano sempre più plurali e la struttura dello Stato-nazione è minacciata. Non c’è discorso politico che non deplori la complessità delle relazioni tra i livelli comunale, intercomunale, dipartimentale, regionale, nazionale, europeo e internazionale, la crescente complessità dell’azione diplomatica, le missioni dei nostri eserciti in tempi di guerra ibrida, la lotta al cambiamento climatico, le sfide di una politica sanitaria pubblica, la riforma delle pensioni, la gestione delle conseguenze di “#metoo”, per non parlare della complessità dell’amministrazione francese. Applicato a tutti i temi, il discorso di Emmanuel Macron ai prefetti del 15 settembre 2022 è caratteristico di questa invasione della complessità nel discorso politico contemporaneo: dal “tema delle politiche pubbliche per l’infanzia, che è così complesso perché spesso è stato diviso […] …] tra le autorità giudiziarie, i dipartimenti, le amministrazioni”, il Presidente francese passa a “queste grandi transizioni digitali, demografiche e climatiche” che “sono così complesse e così intrecciate che ci impongono di riunire attorno a un tavolo attori che finora hanno parlato separatamente”, Ha poi parlato di “un modello che accumula una serie di complessità e protezioni che pongono la Francia molto indietro rispetto ai suoi vicini”, prima di affrontare “la complessità” dei casi nelle mani dei tribunali, “la complessità amministrativa che abbiamo”, e infine il sistema sanitario “che è diventato troppo ingombrante e complesso per elaborare risposte standardizzate a livello nazionale”. Non sorprende che nel 2019 una studentessa dell’Università Paris Descartes abbia dedicato la sua tesi di laurea in semiologia e comunicazione a “La méta-complexité chez Emmanuel Macron: une forme de vie partagée entre la complexité, la dualité et la neutralité “10 (La metacomplessità in Emmanuel Macron: una forma di vita divisa tra complessità, dualità e neutralità).

Si pensi anche all’appetito con cui il mondo imprenditoriale ha moltiplicato negli ultimi anni “gli incontri per i leader per un brainstorming su questioni complesse”, rispondendo a “un bisogno crescente, in un mondo turbolento e imprevedibile come il nostro, di cogliere l’opportunità di riflettere insieme sui temi di attualità più spinosi “11 . Oppure l’interesse mostrato dalle aziende per la “gestione della complessità”, che è l’unico modo per sopravvivere e svilupparsi nel bel mezzo di un XXI secolo “ricco di sfide e segnato da una crescente incertezza”, un mondo “impegnato in un movimento complesso e in perenne accelerazione “12 .

Nel mondo degli affari, la complessità è diventata l’assioma di tutti i discorsi, che si tratti di innovazione, risorse umane, metodi organizzativi o dell’azienda stessa. Uno studio dell’IBM Institute for Business Value e dell’IBM Strategy & Change13 , che afferma di basarsi su interviste a più di 1.500 manager in tutto il mondo, riflette chiaramente questa vampirizzazione del mondo economico da parte del pensiero complesso. È ormai assodato che ci stiamo evolvendo in “un sistema globale di sistemi” (Samuel J. Palmisano, Presidente e CEO di IBM Corporation), che i leader devono ora affrontare “un mondo [non] lineare” (Julian Segal, Presidente e CEO di Caltex Australia Limited) e che la complessità è “un catalizzatore e un acceleratore dell’innovazione” (Juan Ramon Alaix, Presidente di Pfizer Animal Health).

Infine, la complessità è diventata mainstream, il termine è ormai utilizzato da tutti per riferirsi potenzialmente a qualsiasi argomento. Il discorso dei media ne è un chiaro riflesso. Così, quando alcuni minacciano, durante uno sciopero nel settore energetico, che “se i datori di lavoro non daranno soddisfazione, l’inverno sarà molto complesso”, altri evocano il “complesso smistamento dei bagagli” all’aeroporto di Roissy, altri ancora “un complesso dibattito” alla corte d’assise “sul movente di una donna accusata di omicidio coniugale”, un incendio “fuori dall’ordinario per la sua velocità, scala e complessità”, quando non si tratta della “complessità della formazione del PSG”. Le grandi notizie non vengono tralasciate: dopo la pandemia di Covid-19, l’invasione russa dell’Ucraina ha fornito ai media abbastanza “elementi di complessità” da alimentare le notizie senza sosta: Tra questi, la “complessità di ciò che accade nella testa di Vladimir Putin”, la “complessa costruzione dell’identità ucraina”, i negoziati “più complessi che mai” sotto la minaccia di una terza guerra mondiale nucleare, la “complessità del fenomeno della disinformazione” e una crisi energetica che sta provocando uno “shock di portata e complessità senza precedenti”. Non si tratta di negare le difficoltà che dobbiamo affrontare in queste situazioni, ma di mettere in discussione l’uso costante del vocabolario della complessità per descriverle. Insistendo sulla complessità di un evento, dimentichiamo la brutale semplicità dei rapporti di forza e il posto di questi eventi nella lunga storia dell’umanità: le invasioni del passato erano meno complesse di quelle di oggi?

Le parole della complessità in rete

In un mondo in cui la complessità è diventata non solo un luogo comune, ma l’unico modo di rappresentare i fenomeni, tutta una serie di parole si riferiscono ad essa, chiamandosi per nome e diventando alla fine intercambiabili – il che può anche essere visto come un sintomo della nostra crescente pigrizia intellettuale, che ci porta a esprimerci sempre più in parole chiave e nuvole di parole.

Il solo acronimo VUCA è un sistema. Introdotto dalle forze armate statunitensi negli anni ’90 per descrivere il mondo post-sovietico, dove il multilateralismo aveva sostituito la binarietà della Guerra Fredda, VUCA è diventato, a partire dagli anni 2000, un termine pronto per le organizzazioni che cercavano di descrivere il “nuovo ambiente” in cui dovevano operare. Un ambiente descritto dalla “volatilità” dei mercati, dei dati e dei comportamenti dei clienti, sotto l’effetto combinato della globalizzazione dell’economia, della sofisticazione tecnologica e dei rischi geopolitici o climatici; dall'”incertezza” legata a questa volatilità multiforme e all’asimmetria di informazioni che si sta sviluppando tra gli attori in un contesto di forte concorrenza; dalla “complessità” dei mercati, dei dati e dei comportamenti dei clienti, sotto l’effetto combinato della globalizzazione dell’economia, della sofisticazione tecnologica e dei rischi geopolitici o climatici; dall'”incertezza” legata a questa volatilità multiforme e all’asimmetria di informazioni che si sta sviluppando tra gli attori in un contesto di forte concorrenza; dalla “complessità”, derivante dalla proliferazione di leggi e norme, fonti di informazione e stakeholder che devono essere presi in considerazione; e infine dall'”ambiguità”, dovuta all’accumulo di informazioni contraddittorie e alla confusione di ruoli e responsabilità in organizzazioni sempre più interfunzionali. La rete semantica del VUCA ha invaso soprattutto le aziende.

Nel nuovo mondo VUCA, i concetti sono interconnessi e interdipendenti: “se cambia un elemento, cambiano anche tutti gli altri “14 . Dopo la crisi finanziaria del 2008, lo shock della Brexit nel 2016 e prima dell’invasione dell’Ucraina, la pandemia Covid-19 ha rafforzato i fan di questo acronimo che è diventato una bussola (ma che bussola è quando non c’è più un polo stabile?) in un mondo circondato dall’imprevedibile. Dal VUCA è facile passare alla metafora del “cigno nero”, coniata dal saggista Nassim Taleb15 per indicare un evento catastrofico quasi statisticamente impossibile, ma che si verifica lo stesso. Un “cigno nero” ha tre caratteristiche: non era previsto, le sue conseguenze sono importanti ed è possibile spiegare perché si è verificato dopo l’evento. L’ascesa di Internet, gli attentati dell’11 settembre 2001 e la crisi economica del 2008 sono stati i grandi “cigni neri” dell’era moderna, prima che arrivasse Covid-19 a spodestarli.

Poco lontano, l’aggettivo “sistemico” viene usato per descrivere una realtà che non può essere compresa senza inserirla in un sistema globale: tutto è collegato, nulla può essere pensato in modo isolato. Dire “è sistemico” per trasmettere l’idea che non possiamo semplicemente afferrare qualcosa perché tutto è collegato ben oltre quello che immaginiamo, è diventato un tic linguistico. La cultura di un’organizzazione? “È sistemica”. Il cambiamento climatico? “È sistemico”. Discriminazione e razzismo? “È sistemico “16. Cultura dello stupro? “È sistemica “17. Il conflitto russo-ucraino? “È sistemico”. Il termine “rischio sistemico” viene utilizzato anche per indicare il “rischio che un particolare evento provochi una reazione a catena” con notevoli effetti negativi sul sistema nel suo complesso, portando potenzialmente a una crisi generale del suo funzionamento18. Questo rischio, che è insito nel sistema bancario e finanziario “a causa delle interrelazioni” che esistono tra le varie istituzioni e i mercati di questo settore, viene prontamente evocato anche di fronte alla “minaccia cibernetica” e al “pericolo climatico”, e ora all’inflazione, che “alimenta il rischio di una crisi sistemica dell’economia”. Alcuni prevedono addirittura che questa “nuova fase della crisi del capitalismo” sarà “totale e multidimensionale”, portando a una “crisi di civiltà”. Senza parlare della Cina, ufficialmente indicata dagli Stati Uniti e dall’Europa come “rivale sistemico”. In realtà, il prestito dalla “teoria generale dei sistemi” di von Bertalanffy è molto più ampio: l'”approccio sistemico” (e i suoi satelliti semantici come la “causalità circolare”, il “loop di amplificazione” e la “riflessione sistemica”) è diventato un totem in molti campi, dalla psicologia, che sta incorporando sempre più spesso i “terapeuti dei sistemi”, alle politiche pubbliche, che trovano in questo approccio un aiuto per “comprendere la complessità della loro valutazione”.

“Sistemico” chiama “olistico” (dal greco holos, che significa il tutto): molto popolare nelle scienze umane e in alcuni consulenti, l'”approccio olistico”, che consiste nel prendere in considerazione “tutto”, è favorito anche per affrontare le questioni ambientali19.

Un altro concetto centrale del pensiero complesso è la “rete”, con la sua serie di nodi interconnessi da percorsi di comunicazione e la sua capacità di interconnettersi con altre reti o di contenere sottoreti, e tutte le potenziali interazioni che ne derivano. I composti del prefisso “multi-” non sono mai lontani20 , così come quelli del prefisso “co-” (dal latino cum: “con”, “insieme”), che è emerso come un faro di speranza in questo mondo di complessità dove l’individuo può cavarsela solo attraverso la collaborazione, la cooperazione, la co-creazione, il codesign, le coalizioni e l’intelligenza collettiva.

“Trasversale” è un’altra parola per indicare la complessità, che tocca la sua dimensione “interdisciplinare”, con l’insegnamento trasversale e i team interdisciplinari nelle aziende. Dopo la crisi sanitaria, tuttavia, “trasversale” è stato detronizzato da “ibrido” – ciò che è misto, contraddittorio, eterogeneo – che è diventato il concetto centrale del “mondo prossimo”: un mondo in cui siamo tutti “centauri “21 , e in cui la flessibilità è diventata la virtù essenziale. Poiché abbiamo deciso che l’ultima parola della realtà è la complessità, possiamo minare le fondamenta su cui sono state costruite le nostre pratiche, culture e organizzazioni. Insensibilmente, ci immergiamo nella “società liquida” teorizzata negli anni Novanta da Zygmunt Bauman per caratterizzare la modernità, dove “le situazioni in cui le persone si trovano e agiscono cambiano prima ancora che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in procedure e abitudini “22 . Dopo l’era solida dei produttori, l’era liquida dei consumatori ha reso la vita stessa più fluida, trasformandola in una vita frenetica, incerta, “mutevole e caleidoscopica”. Dopo la “società ibrida”, era naturale che la società diventasse “liquida”, prima che il mondo politico e mediatico si impadronisse del concetto nel 2022 per deplorare la spoliticizzazione del dibattito in Francia attraverso “Emmanuel Macron, il presidente ‘liquido’ al centro di una campagna elettorale fantasma “23 . Jean-Luc Mélenchon non ha esitato a compiere questo passo, definendo il suo movimento come La France Insoumise (LFI). Secondo il leader di LFI, il suo partito è un movimento “né verticale né orizzontale” ma “gassoso”, con punti che “si collegano trasversalmente” e la sperimentazione di “nuove forme organizzative”.

Infine, “gassoso” è inseparabile dal pensiero complesso reinterpretato dai teorici del management, che nell’arte della pianificazione distinguono, ad esempio, tra attività “solide” (ripetitive e non sorprendenti), attività “liquide” (note e integrabili in una pianificazione flessibile) e attività “gassose” (imprevedibili e quindi non pianificabili). Ciò non sorprende, dato che la parola “gas”, che si riferisce allo stato fisico della materia in cui le molecole sono poco legate e animate da movimenti disordinati, è un termine coniato dalla parola greca e poi latina per caos.

2
Dal metodo all’ideologia

Note
24. Edgar Morin, La Méthode, op. cit.
25. Ibidem, vol. 6, Etica.
26. Si veda la definizione del CNRTL; si veda anche Louis Althusser, Pour Marx, 1965: “Un’ideologia è un sistema (con una sua logica e un suo rigore) di rappresentazioni (immagini, miti, idee o concetti, a seconda dei casi) dotato di un’esistenza e di un ruolo storico all’interno di una determinata società”.
27. Si veda l’articolo di Wikipedia “Ideologia”; si veda anche la lettera di Friedrich Engels a F. Mehring, del 14 luglio 1893: “L’ideologia è un processo che il cosiddetto pensatore compie senza dubbio consapevolmente, ma con una falsa coscienza. Le vere forze motrici che lo mettono in moto gli restano sconosciute, altrimenti non sarebbe un processo ideologico “+.
28. Louis Althusser, op. cit. L’ideologia come sistema di rappresentazioni si distingue dalla scienza per il fatto che la sua funzione pratico-sociale prevale sulla sua funzione teorica (o di conoscenza) “+.
29. Il “nuovo paradigma” della complessità si basa quindi su una regola fondamentale: “Distinguere senza disgiungere e associare senza identificare o ridurre” (Edgar Morin, Introduzione…, op. cit.).+.
30. Carl Mennicke, assistente sociale tedesco, citato nel Philosophisches Wörterbuch di Heinrich Schmidt e Justus Streller, 1951.
31. Si veda più avanti, Parte II, 2, lo sviluppo sulla complessificazione delle norme.
32. Definizione del termine “ideologia” da parte del CNRTL.
33. Edgar Morin, La Complexité humaine, Flammarion, 1994.
34. Espressione del filosofo Étienne Balibar: un “significante pratico” designa un involucro verbale privo di contenuto (senza significato corrispondente) che è molto pratico utilizzare quando si parla per non dire nulla.
35. Réda Benkirane, La complexité, vertiges et promesses, Le Pommier, 2002.
Le deviazioni del “metodo Morin

Quando negli anni ’70 Edgar Morin iniziò a promuovere il “pensiero complesso” in Francia, fu soprattutto per la frammentazione delle conoscenze scientifiche e per la necessità di collegare diversi livelli di analisi e discipline per affrontare in modo più efficace i problemi umani contemporanei. Per il filosofo e sociologo, la nozione di complessità aveva una funzione strategica: doveva “scuotere” una certa “pigrizia mentale”.

Si trattava innanzitutto di una questione di “metodo” (titolo dato da Morin all’opera in più volumi che dedicò all’argomento24 ): l’obiettivo era quello di sostituire l’approccio mirato, analitico, quantitativo e assoluto della scienza moderna con una comprensione globale, olistica, qualitativa ed evolutiva, facendo tesoro degli insegnamenti dell’approccio quantistico, tenendo conto del posto dell’osservatore nell’osservazione e integrando l’incertezza, l’irrazionale e la contraddizione. In questo modo, Morin ha cercato di riabilitare una cultura scientifica umanista, aperta a un approccio interdisciplinare, contro un certo dogmatismo scientista che aveva chiuso gli occhi sulla “multidimensionalità” e sull’irriducibilità degli esseri e delle cose alla pura razionalità.

Ma l’approccio complesso che egli ha contribuito a diffondere ha finito per confondere il mezzo con il fine: a forza di brandire questo pensiero demistificante come un modo per decompartimentare e arricchire la conoscenza del mondo, il pensiero complesso è diventato l’unica porta d’accesso ad esso. Non si tratta di negare l’esistenza dei sistemi complessi, ma di mettere in discussione la tendenza a farne il filtro sistematico di interpretazione della realtà, l’alfa e l’omega del nostro rapporto con il mondo. Ma è proprio questo che è successo: la complessità è diventata l’unica lente attraverso cui guardare tutto ciò che ci circonda.

Il problema è che la complessità, da strumento critico e idea fertile, è diventata un’ideologia, un sistema di credenze condivise che non viene più messo in discussione, che ha le caratteristiche di una falsa scienza e che funge da autorità legittimante per un certo tipo di potere.

Un sistema di pensiero con le tre caratteristiche dell’ideologia

Secondo le parole di Edgar Morin, ogni pensiero deve essere capace di autocritica25. Ma se dobbiamo offrire una critica al “pensiero complesso”, il concetto che ci viene in mente per primo è quello di “ideologia”.

L’ideologia è infatti un sistema di rappresentazioni “specifico di un’epoca, di una società “26 . Si tratta quindi di un insieme di credenze storicamente situato, che diventa dominante nel momento in cui è diffuso e onnipresente, “ma generalmente invisibile alla persona che lo condivide, per il fatto stesso che questa ideologia costituisce la base del modo di vedere il mondo “27 . L’inflazione semantica della complessità nella nostra retorica contemporanea e il modo in cui è diventata un presupposto – e quindi un impensato – del nostro pensiero, la collocano chiaramente in questa categoria.

Coniato da Destutt de Tracy nel 1796 per proporre una scienza delle idee, il termine ideologia perse rapidamente il suo significato originario quando Marx lo utilizzò nel XIX secolo per denunciare un sistema di credenze contrario alla scienza28. Edgar Morin può presentare il suo “paradigma della complessità” come una “scienza nuova”, ma ciò che abbiamo qui è più simile a una “pseudoscienza”, nel senso dato ad essa dall’epistemologo Karl Popper: una conoscenza derivata da un approccio speculativo piuttosto che da un approccio scientifico, che deve basarsi su teorie che possono essere confutate: questo è il criterio di “falsificabilità” della scienza. Secondo questo criterio, deve essere possibile immaginare esperimenti o dispositivi che possano mettere in discussione una teoria. Con le “pseudoscienze”, questo è impossibile perché ogni contraddizione è incorporata nel sistema. Per Popper, la psicoanalisi freudiana e il marxismo sono entrambe false scienze, poiché ogni obiezione alla prima deriva dalla “resistenza dell’inconscio” (dato che l’inconscio non può mai essere dimostrato come falso) e alla seconda dall'”interesse di classe” (poiché ogni attacco è situato e quindi parziale). Con il suo “principio dialogico”, che “permette di mantenere la dualità all’interno dell’unità” associando “due termini che sono allo stesso tempo complementari e antagonisti” (come ordine e disordine) “senza cercare di cancellare le contraddizioni “29 , il sistema complesso è inconfutabile: incorpora tutte le obiezioni che gli si possono muovere e ne esce rafforzato. Se si oppone all’idea di semplicità, può sostenere che la complessità include la semplicità perché abbraccia tutto. Il sistema di pensiero è diventato sistematico.

Infine, nella critica marxista, l’ideologia assume il significato di una mistificazione voluta dalla classe dominante per garantire la conservazione del potere, promuovendo più o meno consapevolmente false credenze: è “l’espressione intellettuale storicamente determinata di una situazione di interessi “30 . In altre parole, è uno strumento per legittimare un ordine sociale esistente. Nel caso dell’ideologia della complessità, potrebbe trattarsi di mantenere il monopolio sulla direzione dell’azione (o dell’inazione) collettiva, limitando l’autonomia individuale. Certo, nessuno lo vuole veramente, ma possiamo solo osservare che le soluzioni di “complessificazione” che rispondono all’osservazione di situazioni cosiddette “complesse” finiscono per confiscare la possibilità di qualsiasi iniziativa individuale a favore di una forma di potere tecnico ed esperto anonimo31. Mentre doveva essere una leva di movimento e di apertura, il pensiero complesso che è diventato il nostro unico orizzonte appare così come l’emanazione di un vecchio mondo che non vuole cambiare e cerca scuse per mantenere lo status quo.

Le falle del sistema

In un’accezione più comune, l’ideologia è una “teoria vaga e nebulosa, basata su idee vuote e astratte, senza alcun rapporto con i fatti reali “32 . Alcune delle falle del sistema di Edgar Morin mostrano le stesse falle del pensiero che è importante individuare per non farsi ingannare dall’illusione del dogma. A forza di accogliere la “vaghezza, l’incertezza, l’ambiguità” e la “contraddizione”, in contrapposizione alla “semplificazione del pensiero”, che doveva essere “superiore in rigore” fino a diventare “rigido e quindi inferiore “33 , il pensiero complesso si nutre in definitiva di confusione e di scorciatoie. Si può quindi sottolineare la sua pretesa di abbracciare tutti gli aspetti della realtà e della conoscenza, di farne una griglia di lettura applicabile a tutto. Ma, come dice il proverbio, chi abbraccia troppo poco abbraccia troppo. A forza di invocare tutti i punti di vista, di gettare ponti tra fenomeni di ordine molto diverso, per non dire sproporzionato, di voler essere utile tanto alla matematica, alla termodinamica, alla biologia e all’informatica quanto all’ecologia, alla sociologia, all’economia, al management e alla politica, il pensiero complesso porta alla dispersione, alla confusione e all’approssimazione di tutto.

Che cosa diciamo esattamente quando descriviamo una situazione come “complessa”? Non è forse un “significante pratico “34 che ci permette di dare un nome alla nostra incomprensione e impotenza? Michel Serres ha descritto la complessità come un “falso concetto filosofico “35 , così vasto e onnicomprensivo che i suoi contorni diventano sfocati e mal definiti.

Il fallimento delle “scienze della complessità” nell’affermarsi come nuova disciplina
“Sebbene l’influenza culturale della complessità sia innegabile, la generalizzazione di un idioma o di un insieme di metafore come “sistemi adattivi complessi”, “reti”, “margine del caos”, “punto di ribaltamento”, “emergenza”, ecc. non implica che ci troviamo di fronte a un campo scientifico in senso bourdieusiano. Ricordiamo che se “la funzione centrale dell’istituzionalizzazione della comunità disciplinare consiste nel preservare la permanenza dell’attività disciplinare attraverso la riproduzione del suo potenziale”, allora le Scienze della complessità non possono essere considerate una disciplina. Gruppi dedicati allo studio dei sistemi complessi sono molto comuni nelle facoltà di fisica e matematica di tutto il mondo – un po’ meno nelle scienze della vita e nelle scienze cognitive. Ma sono pochissimi gli istituti e i corsi di laurea, le scuole estive, i master e i dottorati che rientrano esplicitamente e principalmente in questa etichetta”.

Estratto da Fabrizio Li Vigni, Histoire et sociologie des sciences de la complexité, Éditions matériologiques, 2022.

Note
36. Jean Zin, “La complexité et son idéologie”, 1 maggio 2003: “Sebbene esistano delle analogie tra organismi e organizzazioni, le società umane non possono essere identificate con un corpo biologico”.
37. Edgar Morin, relazione presentata al Congresso internazionale “Quale università per domani? Verso un’evoluzione transdisciplinare dell’Università” (Locarno, Svizzera, 30 aprile – 2 maggio 1997); testo pubblicato in Motivation, n. 24, 1997.
Molto si potrebbe dire anche sul modo in cui i promotori della complessità hanno sistematizzato la sistemica, estendendo la visione meccanicistica della cibernetica al mondo vivente e poi al mondo sociale. Non c’è nulla di neutro in questo sviluppo. La “teoria generale dei sistemi”, formulata da von Bertalanffy, che vedeva sistemi nella maggior parte degli oggetti della fisica, dell’astronomia, della biologia e della sociologia (atomi, molecole, cellule, organismi, società, stelle, ecc. ), ha aperto la porta a numerose confusioni tra ciò che, nei sistemi cosiddetti “complessi”, rientra nella matematica (incompletezza, sequenze casuali), nella fisica e nella comprensione del caos (sensibilità alle condizioni iniziali, frattali, probabilità, salti quantici, ecc.), nella biologia e riguarda gli organismi (anelli di regolazione, reazioni condizionate, scambi di informazioni), e infine nella complessità umana (che “non deve essere ridotta al biologismo “36).

Promosso da Edgar Morin, il “principio ologrammatico” è ad esempio fuorviante, in quanto suggerisce che ogni parte contenga l’intero mondo e che vi siano corrispondenze tra tutti i piani della realtà: “[…] in un sistema, in un mondo complesso, non solo una parte si trova nel tutto (ad esempio, noi esseri umani siamo nel cosmo), ma il tutto si trova nella parte. Non solo l’individuo è all’interno di una società, ma la società è dentro di lui, poiché fin dalla nascita gli ha inculcato lingua, cultura, divieti e norme; ma ha anche dentro di sé le particelle che si sono formate all’origine del nostro universo, gli atomi di carbonio che si sono formati nei soli precedenti al nostro, le macromolecole che si sono formate prima che nascesse la vita. Abbiamo in noi i regni minerale, vegetale e animale, i vertebrati, i mammiferi, ecc.37 In realtà, tutto sarebbe come un ologramma in cui ogni punto dell’immagine comprende l’intera immagine. Tuttavia, mentre si può sostenere che ogni parte contiene tutte le informazioni nel caso delle cellule del corpo che condividono lo stesso DNA (il che rende teoricamente possibile ricostruire un corpo a partire da una qualsiasi delle sue cellule, come si cerca di fare con la clonazione), gli individui che compongono una popolazione non condividono le stesse informazioni o la stessa capacità di sfruttarle. Mettere insieme discipline diverse (biologia e sociologia, per esempio) è eticamente problematico. E questo non è l’unico effetto perverso dell’ideologia della complessità.

II
Parte
Gli effetti perversi dell’ideologia della complessità

https://www.fondapol.org/etude/complexite-critique-dune-ideologie-contemporaine/?fbclid=IwAR1V-cVzcxCmRYFnW5LH3vXsrb2ApQrzRF5y_YFbS2nf0HYq_9U6zNLvTdI#chap-2
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Pretendendo di non toglierci nulla, la complessità eretta a sistema finisce paradossalmente per sminuire tutto, a partire da noi stessi. Forse non è altro che una rappresentazione del mondo, ma precludendo il nostro rapporto con la realtà, ci blocca in convinzioni limitanti che influenzano le nostre decisioni, le nostre azioni e il nostro senso di responsabilità. Alla fine, la complessità ci dà così tanti complessi che la comoda formula “è complesso” diventa la giustificazione di molti dei nostri errori contemporanei.

1
La complessità, il rifugio dell’ignoranza

Note
38. Edgar Morin, Introduzione…, op. cit.
39. Ibidem.
40 Edgar Morin, La complexité humaine, op. cit.
41. Edgar Morin, Introduzione…, op. cit.
42. Ibidem: “Viviamo sotto l’impero dei principi di disgiunzione, riduzione e astrazione, che insieme costituiscono quello che io chiamo il “paradigma della semplificazione”. Cartesio ha formulato questo paradigma, maestro dell’Occidente, disgiungendo il soggetto pensante (ego cogitans) e la cosa estesa (res extensa), cioè la filosofia e la scienza, e ponendo come principio di verità le idee “chiare e distinte”, cioè il pensiero disgiuntivo stesso.
43. Edgar Morin, La Méthode, op. cit.
44. Per tutto il pensiero filosofico classico del XVII secolo, si trattava di sostituire le idee “oscure e confuse” con idee “chiare e distinte”: una duplice sfida di verità e libertà per la mente umana.
45. “Tutti gli uomini desiderano naturalmente conoscere”: è la prima frase della Metafisica di Aristotele.
46. Così David Hume, che metteva in dubbio l’esistenza oggettiva della causalità, ne fa tuttavia una tendenza innata dell’immaginazione: non possiamo non dedurre legami causali tra impressioni che si susseguono in modo congiunto e costante. Creare nessi causali è un “bisogno” naturale della mente umana.+
47. Edgar Morin, Introduzione…, op. cit.
48. Frédéric Dupin, “Descartes et la morale de la certitude”, Le Philosophoire, 2009/2 (n. 32).
49. Alain Berthoz, La Simplexité, Odile Jacob, 2009.
Un vettore di caos mentale

Il pensiero complesso che avrebbe dovuto arricchire la nostra visione del mondo sta finendo per portare a una perdita di comprensione, imponendo una rappresentazione barocca della realtà in cui tutto è interconnesso e ingarbugliato: dove non solo la parte è nel tutto come il tutto nella parte, ma “il tutto è sia più che meno della somma delle sue parti “38 , secondo il “principio ologrammatico”; dove le cause di un evento sono indeterminabili e soggette agli effetti di retroazione delle loro stesse conseguenze, secondo il “principio di causalità circolare”; dove “non esiste più un’alternativa inesorabile tra entità antinomiche” e dove si può dire qualsiasi cosa e il suo contrario senza dover prendere una decisione, secondo il “principio dialogico”; dove nulla può essere spiegato o qualificato in ultima analisi, secondo il “principio di irriducibilità “39 . In questo caos mentale, in questo “pensiero a loop” come lo descrive lo stesso Edgar Morin40 , in questo abisso nell’abisso indefinito, alla fine non si riesce a sentire granché.

Inevitabilmente, quindi, il complesso diventa complicato, con grande disappunto dei teorici e degli operatori della complessità che insistono nel distinguere i due termini sulla base di una differenza di natura e non solo di grado. La complessità sarebbe quindi la caratteristica essenziale di una realtà irriducibile alla semplificazione, mentre il complicato sarebbe dell’ordine dei nodi del cervello. Ma dissociando sistematicamente le due nozioni, dimentichiamo di interrogare il complesso. È come se fosse assolto in anticipo da ogni male. La complessità è un presupposto totemico: è impossibile da criticare. Eppure ci sembra che complichi molte cose…

La rinuncia alle “idee chiare e distinte

Come scrive lo stesso Edgar Morin, senza le operazioni di distinzione compiute dall’intelligenza, “la complessità si presenta con le caratteristiche inquietanti del disordine, dell’inestricabilità, del disordine, dell’ambiguità e dell’incertezza “41 . A forza di denunciare la naturale tendenza della comprensione umana a scomporre, analizzare, selezionare e classificare per comprendere meglio il mondo e acquisire i mezzi per influenzarlo, a forza di demonizzare “il paradigma della semplificazione “42 come un approccio “mutilante” alla realtà e persino “la specifica barbarie della nostra civiltà “43 , l’ideologia della complessità ha propagato tra i nostri contemporanei la sfiducia nel semplice, nel chiaro e nell’inequivocabile. Fino al punto di lasciarci disorientati.

Basti pensare alla violenza degli attacchi dei sostenitori del pensiero complesso contro Aristotele e la sua logica, e contro Cartesio e il suo metodo analitico, i “colpevoli” artefici della tradizione razionalista su cui è stata costruita la scienza occidentale. Edgar Morin può anche ripetere che bisogna “distinguere e collegare”, ma la chiarezza che scaccia “l’oscuro e il confuso “44 è diventata sospetta. Favorire le “idee chiare e distinte”, facendone una garanzia di verità, è diventato un crimine di lèse-réalité. Perché l’ex-plication (l’esatto contrario del pensiero complesso – explicare significa dispiegare, togliere le pieghe, rendere chiaro) è una mutilazione inflitta alla realtà, un’intollerabile operazione di riduzione. La vaghezza, l’approssimazione, la contraddizione e l’interpretazione sono preferibili al rischio di un punto fermo.

Ossessionati dalla disgiunzione di Cartesio tra mente e corpo, che descrivono come una “dicotomia schizofrenica”, i pensatori della complessità non danno più credito al metodo dell’inventore della filosofia e della scienza moderne: privilegiando la distinzione concettuale e l’elaborazione del pensiero a partire da idee chiare e distinte, il metodo di Cartesio ha probabilmente ancora molto da offrirci. Ma il pensiero complesso non la vede così. Al contrario, ha stilato un’intera lista di divieti: divieto di analisi (ridurre il complesso al semplice); divieto di verità (definita come oggettiva e assoluta); divieto di causalità lineare (attribuire una causa a un effetto); divieto di universale (e di universalismo); divieto di gerarchia di opinioni e valori (perché ora tutto è uguale).

Ad esempio, al principio esplicativo della causalità lineare (che lega una causa a un effetto), dobbiamo ora preferire sistematicamente il “principio di ricorsione” (detto anche “causalità circolare”, “retroazione” o feed-back): poiché l’effetto agisce anche sulla causa, ogni causa è anche una conseguenza, il che rende impossibile definire con precisione il ruolo di A su B o di B su A. Il risultato è l'”equifinalità”: più cause possono produrre lo stesso effetto, rendendo impossibile sapere quali effetti derivano da quali cause. È come se la causalità classica fosse diventata stravagante, dato che i sistemi complessi, con le loro causalità circolari e i fenomeni ricorsivi e ingarbugliati che li rendono ampiamente instabili, imprevedibili e quindi difficilmente controllabili, hanno preso il sopravvento sulla nostra rappresentazione del mondo come un’irruzione e un nesso di crisi permanenti. Ma a forza di sottolineare l’impossibilità pratica della minima determinazione, non stiamo forse mantenendo la pericolosa illusione di un mondo senza possibili spiegazioni? Ma comprendere45 e collegare un effetto a una causa46 sono tendenze innate della mente umana. Opporsi a queste tendenze rende il nostro pensiero fuori controllo e genera confusione.

Ma è proprio questo il risultato che il paradigma della complessità pretende di ottenere. Non si tratta più di soddisfare il nostro desiderio di capire o di assegnare. Poiché “il pensiero complesso aspira a una conoscenza multidimensionale”, sa fin dall’inizio “che una conoscenza completa è impossibile” e che l’incertezza sarà sempre la sua sorte47. Ma non è forse salutare tenere presente che “la certezza va conquistata da chi vuole capire, [che] non è ciò che abbiamo, ma ciò che desideriamo, non ciò che siamo, ma ciò che dobbiamo essere”? Esiste quindi una “morale della certezza “48 che è pericoloso dimenticare.

Il terreno di coltura e la legittimazione delle “post-verità”.

L’ideologia della complessità finisce per incoraggiare lo scetticismo, l’equivalenza delle opinioni e il relativismo epistemologico, culturale e morale – tutti i difetti dell’era della “post-verità” che ha contribuito a creare. In un mondo complesso, tutto finisce per essere uguale: certezza e incertezza, conoscenza e opinione, razionale e irrazionale. L’assiologia (l’idea che esista un discorso o una razionalità dei valori) non è più rilevante e nemmeno le gerarchie tra di essi. Di conseguenza, l’individuo contemporaneo è “come Teseo smarrito in un labirinto, senza il filo di Arianna che lo aiuti a ritrovare la strada”: “può allora tornare alle antiche credenze e cadere nell’oscurantismo49 “.

2
La complessità, un pretesto per l’inazione

Note
50. Secondo il “principio di irriducibilità”, ibidem.
51. Il concetto di “effetto farfalla” deriva dalla ricerca meteorologica, in particolare dal lavoro di Edward Lorenz, che “si rese conto che per condizioni iniziali quasi identiche, le previsioni del computer sul tempo (temperatura, ecc.) divergevano notevolmente” (John Gribbin, Chaos, Complexity and the Emergence of Life, Flammarion, 2010). Questa immagine è entrata nel discorso popolare suggerendo che il nulla può creare il tutto. Ma quale nulla? Per quale tutto? Non lo sappiamo. Quindi è meglio non muoversi affatto.+
52. Fabien de Geuser, Michel Fiol, “Le contrôle de gestion entre une dérangeante complexité et une indispensable simplification”, Normes et Mondialisation, maggio 2004.
53. “Naturalmente prenderemo una decisione quando avremo preso in considerazione tutti i 5.243 fattori”. Didascalia di una vignetta che illustra un articolo sul fenomeno della “paralisi da analisi”.
54. Si veda, ad esempio, la “Proposta di risoluzione per rendere la responsabilità sociale e ambientale un asset delle imprese” presentata dai senatori il 3 gennaio 2023, che si basa sulla constatazione di uno “shock di complessità” legato ai nuovi standard di rendicontazione della direttiva europea CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive).
55. Catherine Thibierge et alii, La Densification normative. Découverte d’un processus, Mare & Martin, 2014; si veda anche Sophie Chassat, Norme et Jugement, Institut Messine, 2014.
56. Ibid.
57. David Lisnard, Frédéric Masquelier, De la transition écologique à l’écologie administrée, une dérive politique, Fondation pour l’innovation politique, maggio 2023.
58. Si veda il rapporto informativo dell’Assemblea Nazionale su “l’applicazione pratica delle leggi” (21 luglio 2020): “In un contesto sempre più standardizzato, in cui le fonti del diritto si moltiplicano, così come i settori soggetti a regolamentazione, diversi fattori possono portare a problemi di applicazione pratica fin dalla fase di progettazione. Ad esempio, la complessità della legislazione può ostacolarne l’attuazione, favorendo applicazioni lontane dalle intenzioni del legislatore o causando problemi di incompatibilità con altre norme. Per gli enti locali più piccoli è particolarmente difficile gestire “+”.
59. Discorso del Presidente Georges Pompidou al Consiglio di Stato, citato da Gaspard Koenig e Nicolas Gardères in Simplifions-nous la vie, Éditions de l’Observatoire, 2021.
Un ostacolo all’azione

Rifugio dell’ignoranza, l’ideologia della complessità è anche un pretesto per l’inazione e il disimpegno. Perché quando tutto è complesso, come evitare la paralisi, il senso di impotenza e il rifiuto di accettare le conseguenze delle nostre azioni?

In questo mondo “liquido”, non c’è più nulla di stabile o di solido su cui poggiare. Come possiamo decidere, quando siamo invitati a “sospendere il giudizio, a non pronunciare un verdetto definitivo “50 – in breve, a non prendere una decisione, perché sarebbe un peccato disfare un “tessuto” così bello? E perché mai dovremmo voler agire se questo sfugge al nostro controllo e potrebbe finire per “ritorcersi contro di noi”? “È qui che entra in gioco la nozione di ecologia dell’azione. Non appena un individuo intraprende un’azione, qualunque essa sia, inizia a sfuggire alle sue intenzioni. Questa azione entra in un mondo di interazioni e alla fine è l’ambiente che se ne appropria in un modo che può diventare contrario all’intenzione iniziale. Spesso l’azione si ritorce contro di noi”, scrive Edgar Morin. Come possiamo quindi superare la paura di agire, quando sappiamo che in un sistema complesso un evento insignificante può portare a una grande catastrofe, come la favola del battito d’ali di una farfalla che, in Brasile, può generare un uragano dall’altra parte del mondo51? Come possiamo osare alzare un dito se, appena tiriamo un filo dal tessuto della realtà, l’intera bobina rischia di aggrovigliarsi ancora di più? Come possiamo assumerci una responsabilità se, in nome della causalità circolare e degli effetti dell’imprevedibilità, invochiamo la complessità incomprimibile della realtà? La complessità agisce come un nuovo “argomento pigro”. Si tratta di un attacco al pensiero stoico, che pone l’idea di un determinismo assoluto: se tutto è scritto in anticipo, non c’è bisogno di fare nulla. Paradossalmente, lo stesso argomento può essere fatto contro l’incertezza complessa: se tutto può accadere secondo giochi di ricorsione sconosciuti, non fare nulla o fare qualcosa è equivalente. Quindi tanto vale non fare nulla.

Più apprezziamo la complessità di una situazione, più siamo propensi a scegliere lo status quo. Sfuggendo all’obbligo di prendere una decisione rimandandola, complichiamo ulteriormente l’analisi cercando ulteriori informazioni, nuovi consigli o la ricerca di un consenso assoluto, che alla fine rende l’analisi inutilizzabile52. Nel mondo anglosassone esiste un’espressione che coglie perfettamente questa situazione: “analysis paralysis”. In altre parole, la paralisi che deriva dall’eccesso di analisi. Quando si hanno troppi dati da prendere in considerazione o troppe possibili opzioni da considerare, diventa più difficile fare delle scelte. “Certo che prenderemo una decisione, una volta considerati i 5.243 fattori “53. Immaginando una qualsiasi situazione come complessa, cioè che comporta un gran numero di parametri da prendere in considerazione e da collegare tra loro, aumentiamo le probabilità di non arrivare in fondo.

“A che serve?” diventa rapidamente il ritornello del fatalismo imperante di fronte alla presunta vanità o incoscienza di qualsiasi tentativo di azione. È complesso” si rivela la risposta ideale per evitare di rispondere alle domande (la “langue de bois”), per evitare di prendere decisioni (l’astensione elettorale), per evitare di osare (il trionfo del principio di precauzione), per evitare di proiettarsi (arrendersi al breve termine perché è impossibile prevedere), per evitare di impegnarsi (atteggiamento attendista, smobilitazione), per evitare di assumersi responsabilità (il costante ricorso a competenze esterne o la constatazione che le proprie azioni sono “equifinalità”): tutto è uguale, quindi non importa quello che faccio). E non sarà la deliziosa (ma preoccupante) ultima frase dell’Introduzione al pensiero complesso di Edgar Morin a rassicurarci: “Aiutati, il pensiero complesso ti aiuterà”. Questo aiuto provvidenziale arriverà solo come ultima risorsa.

La complessità come tentazione permanente

Di fronte a questo vuoto abissale, la tentazione di aggiungere complessità in continuazione è grande. La complessità è tanto più dannosa per l’azione perché, quando porta ad agire, spesso è per rendere la situazione ancora più complessa. I problemi complessi richiedono soluzioni complesse. Le risposte alla complessità sono spesso “shock da complessità” ancora più grandi. Le formule utilizzate dalla stampa ne sono la testimonianza: “La complessità dell’assegno energetico è individuata”; “La ritenuta alla fonte: uno shock di complessità”; “Il sistema delle quote non deve aumentare la complessità amministrativa dell’assunzione di lavoratori stranieri”; “La riforma delle pensioni apre un’era di cinquant’anni di incertezza e complessità”; “I contorni della riforma rimangono molto vaghi. L’unica cosa certa è che si preannuncia un’impresa di una complessità senza precedenti”.

Questa è la logica stessa della “densificazione normativa “55 , che risponde a una situazione complessa aumentando la complessità delle norme. Questo fenomeno di densificazione normativa è stato descritto molto bene dalla studiosa di diritto Catherine Thibierge, che ne attribuisce diversi indicatori. In primo luogo, l’aumento quantitativo del numero di norme: c’è “proliferazione”, “accumulazione”, “inflazione”, “movimento esponenziale”. In secondo luogo, la moltiplicazione delle fonti di norme, e quindi la coabitazione di norme che possono talvolta contraddirsi. Questa è “l’idea di complessificazione: la sovrapposizione, la sedimentazione di norme, il groviglio normativo, la compressione delle norme”, il “restringimento delle maglie normative”. E il campo della normatività si sta estendendo a tutti i settori e a sempre più aspetti della vita quotidiana56.

Moltiplicando norme complesse per rispondere a problemi complessi, finiamo non solo per sovraccaricare la vita di procedure e formalità che fanno perdere tempo ed energia a tutti, ma anche per privare individui e organizzazioni del loro buon senso e della loro capacità di azione. Intrappolate nella trappola della burocrazia, le aziende annegano in innumerevoli indicatori, relazioni e comitati direttivi. Di fronte alle complesse procedure per l’ottenimento dei fondi europei, i nostri sindaci sono stremati dalle incombenze amministrative57. Secondo David Lisnard, sindaco di Cannes e presidente dell’Association des maires de France (AMF), con differenze di complessità a seconda delle culture nazionali, i compiti amministrativi rappresentano il 3,7% dell’orario di lavoro in Germania e il 7% in Francia, ovvero l’equivalente di un punto del PIL. Affetti dalla “patologia della legge”, i nostri parlamentari stanno perdendo il discernimento nel loro lavoro legislativo, producendo testi sempre più incomprensibili a causa della loro stesura frettolosa in risposta all’attualità – e sempre più inapplicabili58. “Per quanto riguarda il cittadino che la legge dovrebbe proteggere e aiutare, spesso è con qualche ragione che afferma di non riuscire più a capirla o ad applicarla59″. La crescente complessità della legislazione incoraggia gli individui e le organizzazioni a rivolgersi all’iper-esperienza per ottenere una guida. È qui che si chiude il circolo vizioso: l’esperto di complessità finisce per fare delle materie un proprio appannaggio in nome della loro tecnicità, confiscando il dibattito e la titolarità democratica”. La consapevolezza della complessità, che dovrebbe impedirci di agire alla cieca, finisce per espropriarci delle nostre stesse capacità.

La “crescente complessità” degli standard di rendicontazione “extra-finanziaria” per le imprese di fronte alla “complessità” delle sfide ambientali e sociali
A livello europeo, la CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive) imporrà a un numero sempre maggiore di aziende di produrre rapporti ESG (Environment – Social – Governance) estremamente densi e dettagliati entro il 2025. Se da un lato non possiamo che lodare l’integrazione della sostenibilità nel concetto di performance aziendale, dall’altro il sistema di reporting previsto lascia perplessi: sono previsti centinaia di criteri, molti dei quali altamente tecnici. Le aziende dovranno lasciar fare agli esperti. Il corollario della complessità normativa è spesso la confisca del significato.

3
La complessità è la fonte del disordine climatico?

Note
60. Questo è il titolo dato, ad esempio, al primo capitolo, terza parte, I, del Rapporto OPECST n. 224 (2001-2002) di Marcel Deneux, presentato il 13 febbraio 2002, “La portata del cambiamento climatico, le sue cause e il suo possibile impatto sulla geografia della Francia nel 2005, 2050 e 2100 (Volume 1)”. Nella sua introduzione, l’autore commenta: “Le prime due parti di questo rapporto hanno cercato di mostrare la complessità del fenomeno del cambiamento climatico. È emerso che il clima è un fenomeno globale variabile, complesso, contrastante, scarsamente compreso e al di fuori del controllo dell’uomo “+.
61. “Cambiamenti climatici”, savoirs.ens.fr, 22 ottobre 2018.
62. “La complessità del sistema climatico”, corso online su Kartable.fr.
63. Laurent Clerc, “La consapevolezza del rischio climatico e la sua dimensione sistemica”, in Annales des Mines – Responsabilité et environnement, 2021/2 (n. 102).
64. Federico Turegano, Global Head of Natural Resources and Infrastructure, in wholesale. banking.societegenerale.com, 1 giugno 2021.
65. Discorso di Frédérique Vidal, ministro dell’Istruzione superiore, della ricerca e dell’innovazione, all’Assemblea nazionale francese il 21 settembre 2020: “La complessità della questione climatica impone di riunire tutte le discipline in un approccio olistico, e gli strumenti e i metodi delle scienze umane e sociali in particolare si rivelano indispensabili “+.
66. GoodPlanet Mag, “Le climatologue Hervé Le Treut : ” étant donné la complexité du défi de civilisation que représente la réduction des émissions de gaz à effet de serre, aucune discipline ne peut se prévaloir du monopole des solutions”, 14 settembre 2022.
67. Sophie Cayuela, “Preservare o distruggere la natura? La grande complessità della compensazione del carbone”, Natura Sciences, 12 novembre 2021.
68. EEA, “Understanding and acting on the complexity of climate change”, Europa.eu, 17 ottobre 2018.
69. Robin Rouger, Banque J. Safra Sarasin, “La complexité de l’investissement climatique”, Allnews, 19 marzo 2020.
70. Hervé Le Treut, “GIEC: des solutions plus complexes que jamais”, Les Échos, 8 aprile 2022.
71. Guillaume Simonet, “L’adaptation, un concept systémique pour mieux panser les changements
climatici”, Note de recherche Norois 6252, OpenEdition Journals, 2017.
72. Joël Cossardeaux, “Les messages de plus en plus brouillés du GIEC”, Les Échos, 14 ottobre 2015: “L’azione globale sui cambiamenti climatici è gravemente ostacolata perché i pareri dell’organo scientifico dell’IPCC, che è un punto di riferimento nel settore, sono così difficili da comprendere che è necessario almeno un dottorato di ricerca per afferrare le sue raccomandazioni”, sostiene Ralf Barkemeyer, docente-ricercatore presso KEDGE BS, che ha guidato lo studio. […] I risultati mostrano che le informazioni sintetiche dell’IPCC hanno perso leggibilità nel tempo”. Si tratta di un problema serio, dato che “questi documenti fungono da bussola per i governi, che hanno bisogno di stime scientifiche affidabili prima di prendere posizione nel dibattito globale sul clima, soprattutto sotto forma di impegni a ridurre le emissioni di gas serra”. In risposta a queste critiche, l’IPCC si è riorganizzato e ha affidato alla climatologa francese Valérie Masson-Delmotte il compito di comunicare in modo più comprensibile.+.
73. Armond Cohen, Lee Beck, “La complessità del mondo sarà in mostra alla COP27; la leadership climatica deve essere all’altezza della situazione”, Clean Air Task Force, 26 ottobre 2022.
Nebbia climatica

La retorica contemporanea ha talmente inglobato la questione climatica nel presupposto della complessità che non sappiamo più come affrontare il problema in altro modo. Nel nostro discorso, “la complessità del cambiamento climatico” è un dato di fatto60 . È addirittura la caratteristica di un problema “senza precedenti nella sua complessità e talvolta difficile da prevedere “61 , basato su quel “complesso insieme dinamico” che è il sistema climatico62. Esperti e decisori chiedono quindi di “prendere coscienza del rischio climatico e della sua dimensione sistemica “63 , e di “abbracciare la complessità ora, per il bene del clima “64 . Ma queste sono spesso pie speranze, perché riflettono un modo di pensare che gira in tondo.

Il nostro disordine climatico è in parte dovuto a questo approccio ossessivamente “sistemico” o “olistico” al problema, a questo presupposto che il problema climatico è così complesso che non sappiamo più come affrontarlo e che il minimo tentativo di risolverlo pone altri problemi ancora più gravi. La comprensione finale di un sistema complesso rimanda l’iniziativa, nella consapevolezza che questa comprensione finale non avverrà mai, poiché la minima variazione di una variabile porta a un cambiamento completo del sistema, e quindi alla necessità di ricominciare lo sforzo di comprensione da zero. Dal lato dell’azione, sapere che toccando una variabile si rischia di mandare in tilt l’intero sistema, ci spinge a procrastinare all’infinito. Come possiamo decidere e agire di fronte a questo pozzo senza fondo? Analisi della paralisi.

La sfida climatica, specchio della nostra impotenza contemporanea

Con il pretesto che la lotta al cambiamento climatico coinvolge molti sistemi complessi come l’agricoltura, l’energia, l’acqua, i trasporti, le abitazioni, l’economia e la biosfera, intreccia dimensioni scientifiche, politiche ed etiche e richiede un’azione a molti livelli (da quello aziendale a quello politico, collettivo e individuale, globale e locale, a lungo termine e a breve termine) adottando “un approccio olistico “65 , e poiché nessuno ha il monopolio della soluzione66 , tutti finiscono per passarsi il quid e pretendere che l’altro agisca per primo, o che compensi la propria mancanza di conoscenza prima di agire.

Tra la “grande complessità della compensazione delle emissioni di carbonio “67 , che sta dando origine a dibattiti che dividono governi e associazioni per la conservazione della natura, la traduzione dell'”obiettivo globale” di ridurre le emissioni in “misure concrete”, che richiede “la comprensione di un sistema complesso “68 , “la complessità degli investimenti climatici “69 e le “soluzioni più complesse che mai” proposte dall’IPCC70 , non siamo mai molto avanti nel sapere a quali azioni dare priorità. E rendere l’adattamento “un concetto sistemico per affrontare meglio i cambiamenti climatici” non ci porterà più avanti in questa direzione71. Potrebbero poi entrare in gioco tutti gli effetti perversi che derivano dall’intraprendere la minima azione o dal rispondere rendendo le cose ancora più complesse.

L’immagine del “rompicapo” ha quindi invaso la nostra retorica climatica e i nostri schemi di pensiero, bloccando sul nascere qualsiasi dibattito pubblico sull’argomento, come dimostra la sua evidente assenza dalla campagna presidenziale del 2022 in Francia. La comunicazione dell’IPCC negli ultimi trent’anni non ha certo aiutato, se dobbiamo credere ai docenti e ai ricercatori europei che si lamentano del fatto che le “sintesi per i responsabili politici” tratte dai suoi voluminosi rapporti sono “sempre più incomprensibili “72 . E nemmeno il “ritorno della storia”, come testimoniano gli osservatori della COP27, che si è svolta “nel contesto di una policrisi globale, con la complessità del mondo e una nuova serie di linee di frattura geopolitiche “73 .

Se a questo si aggiunge l’inflazione della paura e della retorica apocalittica, è facile capire come la forza di volontà finisca per essere disarmata e la rassegnazione si unisca alla rabbia distruttiva.

III
Parte
Le virtù della semplicità, la necessità del “cruciale”.

https://www.fondapol.org/etude/complexite-critique-dune-ideologie-contemporaine/?fbclid=IwAR1V-cVzcxCmRYFnW5LH3vXsrb2ApQrzRF5y_YFbS2nf0HYq_9U6zNLvTdI#chap-3
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E se, di fronte agli effetti deleteri di un pensiero complesso che si è trasformato in pensiero unico, prescrivessimo una dieta di semplicità, o addirittura qualche scossa di semplificazione? A meno che non ci serva un nuovo concetto – il “cruciale” – per pensare e agire efficacemente nel XXI secolo. In ogni caso, dobbiamo uscire dalla routine del tutto complesso.

1
Imparare a vedere il semplice

Note
74. John Gribbin, op. cit.
75. Ibidem.
76. Ibidem.
77. Ibidem.
78. Ibidem: “La scoperta di Murray che non solo le macchie del leopardo, ma anche quelle della giraffa, le strisce della zebra e persino l’assenza di marcature sul manto di un topo o sulla pelle di un elefante sono il risultato di un processo molto semplice. Si tratta infatti di stimolatori e inibitori chimici che si diffondono sulla superficie dell’embrione in un momento chiave del suo sviluppo “+.
79. Charles Sanders Peirce, La logica della scienza, 1879.
Il semplice dietro il complesso

Invece di parlare dell’inestricabilità del “tessuto” del mondo, ricordiamo che ci sono regole semplici alla base della sua composizione: il complesso non è la fine della storia.

Come sottolinea lo scienziato britannico John Gribbin nel suo illuminante libro sulle teorie scientifiche della complessità, un sistema complesso non è mai veramente “qualcosa di più di un sistema formato da diversi componenti semplici che interagiscono tra loro “74 . Quello che i fisici chiamano caos è l’emergere di fenomeni complessi da elementi semplici (una pentola di acqua bollente). E quando il sistema è costituito da elementi complessi, è perfettamente in grado di produrre comportamenti semplici (come il corpo che, per compiere il semplice gesto di alzare il braccio, attiva tutta una serie di meccanismi complessi come la rete neurale).

La “complessità” emerge perché “un sistema è sensibile alle sue condizioni iniziali e ha un effetto retroattivo “75 . Stabiliti questi principi, dobbiamo continuare a tornare all’idea che “il caos e la complessità sono governati da leggi semplici – fondamentalmente, quelle che Isaac Newton ha scoperto più di 300 anni fa”. “Lungi dal mettere in discussione quattro secoli di scienza, come alcuni vorrebbero far credere, i recenti progressi dimostrano al contrario che le semplici leggi del nostro patrimonio scientifico permettono di far luce (ma non di prevedere) il comportamento a priori inspiegabile del tempo, dei mercati azionari, dei terremoti o persino delle popolazioni”, insiste John Gribbin76. Il verificarsi del caos è quindi tanto più “organizzato e deterministico: ogni fase segue la precedente in una catena ininterrotta governata dal principio di causa ed effetto, e quindi, in linea di principio, sempre prevedibile “77 . La causalità circolare, quindi, non esclude affatto le logiche esplicative che si basano sulla causalità lineare. Allo stesso modo, è la combinazione di casualità e di una regola semplice che dà origine, per semplice iterazione, a strutture negli esseri viventi complesse come le felci o le macchie di leopardo, come ha dimostrato James Murray sulla base del lavoro di Turing78.

Complessità”: il nome dato al semplice che non (ri)conosciamo

La “complessità” non è forse, il più delle volte, il nome che diamo a fenomeni di cui non riusciamo a identificare le semplici leggi di organizzazione? Henri Bergson ha mosso una critica simile all’idea di “disordine”: il disordine è un ordine che non ci aspettiamo, un ordine che non vediamo perché non lo stiamo cercando o stiamo cercando un altro ordine. Se il mondo ci sembra così complesso, non è forse soprattutto per la nostra incapacità di individuare la semplicità che lo organizza, o per la nostra tendenza a imporgli un modello di semplicità che non è quello giusto? Il trionfo del paradigma della complessità si spiega quindi con il periodo di mutazione, di interregno, che è il nostro: lasciandoci alle spalle un certo ordine del mondo, non abbiamo ancora individuato il nuovo ordine che sta alla base della nostra epoca. Chiamiamo questa confusione “complessità”. Questo non dice nulla del mondo, ma piuttosto del nostro caos mentale.

Il filosofo americano Charles S. Peirce ha sottolineato che la complessità “percepita” è spesso solo complessità “proiettata”: “Un errore di questo tipo, che si verifica frequentemente, consiste nel considerare l’effetto stesso dell’oscurità del nostro pensiero come una proprietà dell’oggetto a cui stiamo pensando. Invece di rendersi conto che questa oscurità è soggettiva, si immagina di considerare una qualità essenzialmente misteriosa dell’oggetto. [Finché questo equivoco persiste, è un ostacolo insormontabile alla chiarezza del pensiero”.79

2
Elogio della semplificazione

Note
80. Edgar Morin, La complexité humaine, op. cit. Il pensiero semplificatore confonde il semplificato con il semplice. Il semplificato è il prodotto della disgiunzione, della riduzione e dell’estrazione. Ma non è il semplice. La semplificazione produce il semplificato e crede di aver trovato il semplice “+.
Le virtù del semplificato

Ma andiamo oltre. A differenza di Edgar Morin, che attacca il “pensiero semplificatore” e distingue tra semplice e semplificato80 , assumiamo che anche quest’ultimo abbia un valore. Così come abbiamo suggerito che il complesso e il complicato non sono diversi in natura, assumiamo che la semplicità porti alla semplificazione e che anche la semplificazione abbia le sue virtù.

La semplificazione è essenziale nella scienza, ad esempio. Come ricorda John Gribbin, fin dai tempi di Galileo e Newton, “la scienza ha fatto i suoi più grandi progressi scomponendo sistemi complessi in elementi semplici per studiarne il comportamento – anche se questo significa semplificare ulteriormente le cose, inizialmente”, grazie ai suoi indispensabili modelli. Questa ricerca di semplificazione ha dato all’umanità conoscenze e capacità di azione sempre più emancipanti. È questo desiderio di non lasciare che la complessità abbia l’ultima parola che ha portato gli scienziati di tutte le epoche a cercare di progredire nella comprensione e nella padronanza del mondo – e a provare gioia nel farlo.

La scienza, l’arte di scomporre i sistemi complessi in elementi semplici
Galileo inventò e Newton perfezionò il metodo scientifico, “basato sull’incontro tra la teoria (il modello) da un lato e l’esperimento e l’osservazione dall’altro” (quest’ultima permette di apportare le necessarie correzioni ai modelli matematici, che descrivono il comportamento di oggetti “ideali”, per tenere conto delle imperfezioni della realtà). “Prendiamo la fisica dell’atomo: considerare gli atomi come sistemi solari in miniatura, con elettroni che orbitano attorno a un nucleo centrale, può sembrare ridicolmente semplicistico. Sappiamo che gli atomi sono più complicati. Tuttavia, questo modello molto semplice, proposto da Niels Bohr negli anni Venti, è perfettamente in grado di prevedere l’esatta lunghezza d’onda delle righe osservate negli spettri di diversi elementi. È quindi un buon modello, anche se sappiamo che gli atomi non sono proprio così (…) Certo, per tenere conto di aspetti più complicati del comportamento degli atomi, dobbiamo aggiungere alcuni dettagli al modello di Bohr; ma questo non lo scredita affatto!

Estratto da John Gribbin, Chaos, complexity and the emergence of life, Flammarion, 2010.

Note
81. Il romanzo deve la sua ascesa nel XIX secolo proprio alla sua capacità di descrivere “esseri singolari nei loro contesti e nel loro tempo”, come sottolinea Edgar Morin (ibidem).
82. Henri Bergson, Le Rire, 1900.
83. Gaspard Koenig e Nicolas Gardères, op. cit.
84. Potremmo pensare all’espressione “l’arte del bracconaggio” coniata da Michel de Certeau in L’Invention du quotidien, per designare un uso sovversivo delle norme, un uso che non si fa ingannare e non si lascia ingannare: “Il bracconaggio, il tendere una trappola nella norma, è in effetti un modo di voltare le spalle alla norma che ci fa essere. La vita quotidiana si inventa nei diversivi che la gente comune produce quando, per realizzarli, volta necessariamente le spalle alle norme “+.
85. Brice Couturier, “L’éco-modernisme: prôner la technologie au service de l’environnement”, Radio France, 18 ottobre 2019.
La semplificazione è fondamentale anche per chi intende agire nel cuore della realtà. Henri Bergson ci ricorda che l’intelligenza pratica (quella che comanda l’azione) ha bisogno di semplificare, di categorizzare, senza la quale sarebbe impossibile garantire la nostra sopravvivenza. L’homo faber non può lasciarsi distrarre troppo dal singolare, dalla molteplicità del diverso, dall’intuizione del flusso, che sono i soggetti privilegiati di filosofi e artisti. Per quanto fertile possa essere per questi ultimi la complessità del mondo81 , essa è altrettanto deleteria nel campo dell’azione. Per vivere, dobbiamo agire e quindi semplificare costantemente. Per tagliare la realtà, per definire categorie, per nominare le cose con termini generici, per apporre etichette alle cose in modo da non doverci pensare all’infinito. “Vivere è agire. Vivere è accettare dagli oggetti solo le impressioni utili e rispondere ad esse con reazioni appropriate. […] I miei sensi e la mia coscienza mi danno quindi solo una semplificazione pratica della realtà”, dice Henri Bergson82. I dogmatici della complessità possono aborrire la “disgiunzione” e la “riduzione”, ma non possiamo vivere senza.

Alcuni shock salutari della semplificazione

Per ritrovare la gioia di capire e di agire, sarebbe utile concedersi qualche salutare “shock da semplificazione”. Se “è complesso”, a maggior ragione bisogna semplificare.

Prima di tutto, dobbiamo semplificare le norme, per porre fine alla densificazione delle norme. Il filosofo Gaspard Koenig lo ha promosso con il suo movimento “Simple”, lanciato in concomitanza con la campagna presidenziale del 2022. Già Montaigne aveva questa ambizione: “Le leggi più desiderabili sono le più rare, le più semplici e le più generali”. Ed è anche ciò che la Rivoluzione francese ha realizzato con Portalis, incaricato da Bonaparte di redigere un Codice Civile comprensibile a tutti. “Il suo obiettivo era chiaro: “semplificare tutto”. I suoi principi erano luminosi: “Le leggi sono fatte per le persone, non le persone per le leggi”. Il suo atteggiamento era moderato: “Abbiamo evitato la pericolosa ambizione di cercare di regolare e prevedere tutto”. È tempo di tornare a questo metodo, comprendendo che “meno leggi” significa “più diritti, libertà e giustizia” per i cittadini83.

Senza dubbio non riusciremo ad annullare completamente la tendenza a rendere più complesse le norme, tendenza di cui siamo tutti più o meno complici, tanto da proteggerci da rischi che non siamo più disposti a correre, individualmente e collettivamente. Ci vorrebbe un profondo cambiamento culturale per farci abbandonare questa logica di asservimento. Ma siamo ancora in tempo per denunciarle, per resistere quotidianamente84 e per continuare a pensare ad altri modelli più desiderabili: anche nel terreno più ostile, i semi possono sempre fiorire.

Questo principio di semplificazione gioverebbe anche al nostro approccio alla sfida climatica. Se la descriviamo solo in termini di “complessità”, con il pretesto dell’interconnessione generale di questioni e sistemi, perdiamo il nostro pragmatismo. Ecco perché gli “ecomodernisti”, una corrente di pensiero che si considera una terza via “realistica” tra i sostenitori della decrescita e gli scettici del clima, sostengono la necessità di “affrontare i problemi ambientali uno per uno “85 , per trovare le soluzioni più efficaci per ciascuno di essi. Si tratta del cosiddetto “disaccoppiamento”: separare i problemi per agire in modo più efficace, dimostrando che, lungi dall’essere inesorabilmente interconnesse, alcune dimensioni possono essere affrontate indipendentemente l’una dall’altra. Per affrontarle e andare avanti.

Contrariamente alla doxa attuale, che affronta il problema del clima solo da un punto di vista “olistico” e “sistemico”, l’obiettivo è quello di svelare le infinite connessioni tra i fenomeni per affrontare il problema in modo concreto e con un approccio unilaterale ma assertivo: spezzare il legame tra prosperità economica (generazione di reddito, crescita economica) e consumo di risorse e di energia (con i suoi impatti ambientali negativi e le emissioni di gas serra), puntando sull’aumento dell’efficienza delle risorse naturali attraverso l’uso delle tecnologie più produttive, piuttosto che attraverso tecniche premoderne. Questo perché le tecnologie più moderne dovrebbero consentire di risparmiare risorse massimizzandone gli effetti, preservando così vaste aree del pianeta di cui non avremmo più bisogno per la nostra sussistenza. Oltre al fatto che questo approccio non è né di crollo né di contrizione, è ancora più interessante considerare che aiuta a rimobilitarsi offrendo una chiara tabella di marcia per il futuro. Una volta sciolta la matassa, possiamo immaginare di essere finalmente in grado di tirare di nuovo i fili.

3
Riscoprire il senso del cruciale

Oggi si tratta di fare le scelte giuste. E abbiamo bisogno di prendere decisioni per andare avanti. Quindi mantenere le cose semplici potrebbe non essere più sufficiente. È arrivato il momento di concentrarsi sul “cruciale”.

Siamo a un bivio: dobbiamo fare delle scelte sui nostri modelli (di vita, di valori e di produzione) in questo momento di grandi cambiamenti. Cruciale è proprio “ciò che si trova a un bivio” (dal latino crucis, la “croce”) e, per estensione, ciò che è “importante perché decisivo”. Ed è proprio questo che caratterizza il nostro tempo: un momento critico in cui le scelte e le non scelte che faremo nel prossimo futuro avranno conseguenze decisive per il futuro dell’umanità.

Al bivio, dobbiamo scegliere la nostra strada e, in parte, restarci, per uscire dalla giungla oscura in cui ci troviamo – proprio come i viaggiatori smarriti di Cartesio si districano nella foresta “camminando il più dritto possibile verso la stessa parte”. Perché agire è sempre decidere. E decidere significa prendere una decisione, come la spada di Alessandro che taglia il nodo gordiano (una rete complessa) che nessuno era riuscito a sciogliere con le dita. Significa scegliere tra le possibilità. Significa rinunciare, inevitabilmente semplificare. Significa rifiutare di mantenere la complessità così com’è. Un certo numero di cose non può più tollerare il nostro procrastinare con la scusa che “è complesso”. Cruciale” è quel punto nello spazio e nel tempo in cui è necessario prendere una decisione.

Le crisi che stiamo affrontando oggi ci impongono di stabilire delle priorità, di scegliere le battaglie giuste, di fissare obiettivi chiari e di porci le domande giuste. Che cosa è essenziale, in fin dei conti? Cosa conta davvero? Quali sono i nostri bisogni più importanti? Dove vogliamo andare? L’importante è non perdere di vista i nostri obiettivi, per non annegare. Imparare a estrarre le informazioni rilevanti dalla marea di informazioni che arrivano continuamente. Non lasciarsi disperdere da ogni tipo di ingiunzione. Concentrarsi sull’essenziale. Sapere che la complessità è un certo modo di rappresentare il mondo, ma non la sua realtà ultima. Riscoprire il senso della concretezza. Abbiamo più che mai bisogno di panettieri che facciano il pane.

Per raggiungere questo obiettivo, potremmo aver bisogno di inventare “esperimenti cruciali” che ci aiutino a determinare, nel mezzo del bivio in cui ci troviamo, quale strada prendere piuttosto che un’altra. Nella scienza, un esperimento cruciale (instantia crucis o experimentum crucis) è un esperimento che, di fronte a diverse ipotesi in grado di spiegare lo stesso fenomeno, ne scredita una e mantiene l’altra, al contrario, come migliore. Francis Bacon definì l’instancia crucis nel suo Novum Organum (1620). L’osservazione e il calcolo della distanza tra il pianeta Marte e la Terra, così come l’esperimento del pendolo di Foucault, sono due esempi che hanno contribuito a distinguere il geocentrismo dall’eliocentrismo. Applicata alle nostre sfide contemporanee, questa nozione ci inviterebbe a immaginare modi che ci permettano di scegliere certe strade (etiche, politiche, economiche, estetiche) piuttosto che altre. In breve, a fare del tessuto del mondo un abito su misura per il nostro tempo. In ogni caso, uscire dalla favola di una realtà inestricabile. Demistificare la complessità.

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POCO DI NUOVO SUL FRONTE ORIENTALE, di Pierluigi Fagan

POCO DI NUOVO SUL FRONTE ORIENTALE. Nei primi giorni del conflitto russo-ucraino, poco meno di un anno e mezzo fa, scrivemmo il nostro punto di vista sulla questione delle intenzioni americane. Ritenevamo che il conflitto ruotasse intorno a queste poiché erano gli americani ad aver progressivamente influito sui già precari equilibri interni della disgraziata Ucraina, già a partire da Euromaidan nel 2013.
Avevano continuato con una lenta ed inesorabile penetrazione costante in termini di consiglieri militari e finanziari, think tank e varie propaggini tentacolari che arrivarono a prendere il coniglio scappato dal cilindro Zelensky, a suo tempo eletto su onda populista stanca di corruzione, malaffare e continua tensione con la Russia sgradita ai più di quel Paese, quantomeno i residenti della parte centro-orientale, trasformandolo in Capitan Ucraina. Ma non c’era solo questo. C’era una più ampia strategia di pressione sul confine orientale e caucasico russo e c’erano stati diversi segnali di ritiro da trattati internazionali sui missili a medio raggio ed altro relativamente il bilanciamento atomico. Già a dicembre e poi a gennaio del ‘22, i russi richiesero perentoriamente un tavolo di confronto a Ginevra per chiarirsi su questo che rappresentava la più minacciosa rottura degli equilibri tra le due potenze atomiche planetarie dalla fine della IIWW (a cui s’era aggiunto un fallito tentativo di rivoluzione colorata in Kazakistan a gennaio), equilibrio che aveva retto anche lungo tutta la Guerra fredda. i russi non ricevettero risposta e ne trassero le conseguenze a fine febbraio.
Tutto ciò è stranoto a qualsiasi analista non sia arruolato negli effettivi della propaganda atlantista, inclusi i pochi “realisti” americani che ogni tanto ed invano vengono da qualcuno postati per mostrare ai propri contatti che c’è ancora qualcuno col barlume della ragione. Il fatto è che la politica internazionale o geopolitica (non sono la stessa cosa per quanto si occupino della stessa cosa) è un campo di studi come un altro, con le sue convenzioni, le sue scuole, i suoi metodi, la sua storia, una vasta e complicata serie di informazioni che i più non conoscono affatto. I più, sono stati convocati davanti ai fatti del febbraio ’22 come se il mondo iniziasse quel giorno e si riducesse a quello che i media occidentali (che ovviamente sono strumenti del conflitto com’è ovvio che sia) mostravano e non mostravano, dicevano e non dicevano, secondo logiche di primo livello (dicotomie semplificanti) condite da toni strappa-emozioni di rabbia e indignazione a cui era impossibile resistere.
In quei primi giorni, scrivemmo più volte quale fosse, secondo il nostro punto di vista, la razionale della strategia americana. Gli Stati Uniti d’America erano e sono in una curva di potenza calante e con loro l’intero mondo occidentale. Basta prendere le percentuali di valore del Pil o degli indici demografici, piuttosto che la cartina delle influenze ed egemonie di vario livello su i 200 e passa Stati del mondo del 1950 (allora erano poco più di 60), quelle di oggi, le proiezioni al 2050 e tracciare le curve. I numeri certo non dicono tutto, infatti ci sono studiosi che si occupano di queste cose apposta, perché oltre alle quantità c’è da conoscere vasti e complessi discorsi sulle qualità (tecnologiche, culturali, prossimità geografiche, stabilità sociale etc.) per fare una diagnosi. La diagnosi è inequivoca, ovunque il nostro cuore batta emotivamente, gli USA dovranno fare i conti con una contrazione di potenza. Si tratta solo di definire meglio la quantità (e qualità) ed i tempi.
Stante questa situazione è ormai noto che: 1) l’ordine (approssimativo e dinamico) planetario transita da un sistema rigido con a capo gli USA e area occidentale da una parte e un gruppo di pochi ma cattivi ragazzi dall’altra con una vasta platea di prede per occasionali egemonie ad un ordine più complesso in cui compaiono un gran numero di soggetti di diverso peso ed interesse, il c.d. ordine multipolare che secondo alcuni (in genere, americani) non è per niente ordinato in quanto fluttua.
Per capire questo ordine fluttuante non c’è miglior soggetto da indagare che l’India. L’India ha da un po’ proclamato il proprio stile di relazione internazionale ovvero il multi-allineamento che poi è, in pratica, il rifiuto stesso del concetto di “allineamento”. Se uno punta a diventare un “polo” va da sé che non è allineato che a sé stesso. Gli indiani sono BRICS ed anche SCO ed AIIB ma flirtano anche con il tentativo americano di fare una NATO dell’indo-pacifico (flirtare non comporta fare sesso), non vogliono la nuova moneta BRICS ma promuovere la propria rupia, comprano armi russe tanto quanto americane, comprano energia dai russi ed aprono a nuove joint venture tecnologiche con Washington, sono buoni amici dell’Iran e penetrano silenziosamente in Africa. L’anno scorso hanno aumentato il trading commerciale con gli USA che ora supera di poco quello con la Cina, mentre UAE-SA sommati (il 3° e 4° Paese per volumi di commercio) superano gli uni e gli altri. Oggi l’India è la 5a potenza economica, tra due anni sarà 4a, intanto si dilettano in viaggi sulla Luna, Chandrayaan-3 è partita l’11 luglio ed andrà in cerca di acqua ghiacciata nel sud lunare. Gli indiani stanno cercando di diventare un polo autonomo e fanno in più piccolo quello che già da tempo fanno più in grande i cinesi. Così per molti altri soggetti a vari livelli (esclusi i paesi europei invano stimolati da Macron con la sua “autonomia strategica”, che voleva pure farsi invitare al vertice BRICS di agosto);
2) dal punto di vista americano, i soggetti più temibili di questo riassetto mondiale sono la Cina per ragioni demo-economiche e la Russia per ragioni geo-militari;
3) normalmente, uno stratega consiglierebbe a gli USA di dividere i due competitor come pensava di fare Trump, l’area neo-con che detiene le leve della strategia dell’attuale presidenza Biden, invece, pensa che prima bisogna depotenziare la Russia rendendola un rottame di basse pretese, per poi dedicarsi alla Cina;
4) parallelamente e fondamentale, l’accorpamento stretto in termini di egemonia semi-imperiale di tutte le schegge occidentali, quella già orbitanti a livello naturale (la Fratellanza Anglosassone CAN-AUS-NZ-UK) e quella da mettere in ordine ovvero l’Europa e gli alleati pacifici orientali come il Giappone ed altri (Sud Corea, Filippine ed in maniera più ambigua anche altri da contendere alla Cina).
Ecco quindi chiaro cosa muoveva gli americani verso il confine russo: a) provocare l’invasione dell’Ucraina (a cui i russi non potevano sottarsi anche volendo come per altro lo stesso Putin ha tentato di fare negli ultimi anni sebbene spinto da parti interne che poi sono le stesse che oggi l’accusano di combattere con la mano legata dietro la schiena mentre altri non vogliono proprio il conflitto con l’Occidente in quanto si dedicano all’economia -soprattutto personale- e non alla geopolitica);
b) obbligare l’Europa a recidere ogni legame (energetico, commerciale, turistico e financo culturale) con la Russia, usando l’Europa dell’est contro quella dell’ovest;
c) rilanciare NATO e spesa militare europea (tanto all’inizio ne saranno loro i diretti beneficiari visto che gli europei non hanno una industria militare di livello e comunque diffidano gli uni degli altri per atavici motivi);
d) portarsi a casa nuove pedine utili per il prossimo e strategico conflitto dell’Artico (Svezia e Finlandia);
e) stabilire su questo quadrante i due paradigmi imaginari (cioè che valgono a livello di “valori” nelle immagini di mondo) della loro nuova strategia globale: democrazie vs autocrazie, ordine basato sulle regole (decise a loro, controllate da loro, sanzionate da loro e vale anche per la riformulazione della globalizzazione ex-WTO).
Verso la Russia nello specifico, il loro obiettivo è la consunzione ovvero coinvolgerla in un conflitto in Ucraina lungo, oneroso, sfibrante, generatore di contraddizioni interne. L’unico conflitto operato dagli USA nel dopoguerra vinto “senza se e senza ma” è stato la Guerra fredda che si basava proprio su questa strategia di lungo periodo.
Ne scrivemmo un anno e mezzo fa, non vediamo ragioni per modificare l’analisi.
L’attualità recente ci ha portato al vertice NATO di Vilnius. È incredibile quanto irriflessivo sia il discorso pubblico. Zelensky si è dispiaciuto per non esser stato ammesso nella NATO? Ma solo un giornalista di cappa e spada che scrive per i pesci rossi irriflessivi della sua bolla poteva credere realistico che l’Ucraina in guerra accedesse ad una alleanza basata sull’articolo V°. L’Ucraina, dice Biden, entrerà quando sarà finita la guerra che è, dal punto di vista russo, l’ottimo motivo per non farla finire mai che è poi proprio quello che vogliono gli americani. Forse poi un giorno finirà e del trattato di pace, ovviamente, farà parte la promessa di non accorparla nell’Alleanza atlantica, ma siamo lontani da quel giorno perché l’interesse americano è farla durare il più a lungo possibile quella guerra. Ora danno missili sempre più a lunga gittata (prima esclusi con sdegno per non “provocare escalation”), poi le bombe a grappolo (che sono un ottimo strumento per congelare i confini provvisori poiché, in pratica, i territori limitrofi diventano minati, quelli nell’Ucraina russa e quelli dell’Ucraina ucraina visto che ovviamente Shoygu ha annunciato la reciprocità). Al di là della guerra delle parole sui media e sui social, nei fatti, i confini provvisori della contesa sono quelli e non si spostano decisivamente da mesi.
Poiché gli americani gestiscono i valori, hanno deciso che anche la Turchia è democratica, per aver l’assenso all’entrata NATO della Svezia. Si sono giocati qualche areoplanino e la promessa che avrebbero messo una buona parola per far entrare Ankara in UE tanto è quasi roba loro (dal punto di vista geostrategico). Così ora gli europei dovranno prendersi in carico l’Ucraina e poi la Turchia. Erdogan che scemo non è ha detto “sì-sì” tanto poi il parlamento che deve ratificare il benestare è in vacanza fino ad ottobre, quindi si vedrà. Il “difensore dell’islam” che fa alleanza con gente che brucia il Corano in piazza è il segno che in questo campo non ci sono valori, ci sono solo interessi. I “valori” ci sono solo per le opinioni pubbliche, i tifosi, come nel calciomercato.
Il congelamento del conflitto tempo necessario per le elezioni americane è attivamente contrattato dietro le quinte. Probabilmente anche su richiesta europea che in effetti sta terminando le armi da inviare al fronte. Tra l’altro, i sondaggi registrano una certa stanchezza delle opinioni pubbliche vero l’omino in tuta verde e l’intera questione che comincia a puzzare di fregatura organizzata. Ma forse, anche per una preoccupazione che s’affaccia all’orizzonte cui ha dato voce un simpatico articolo dell’Economist. Che succede se poi a novembre anno prossimo vince Trump? Trump ha annunciato che con lui presidente un secondo dopo il conflitto cesserebbe, che fare? Aspettare …
In mezzo poi si dovrebbero esser le elezioni russe, ucraine (che, punta avanzata del fronte democratico non le farà, tanto la Costituzione è sospesa da un anno e mezzo e va tutto bene, il “popolo” è con Zelensky e guai a chi obietta), quelle europee in cui s’annunciano nuovi equilibri; quindi, mettere tutto in PAUSE conviene a tutti.
Dopo aver inizialmente aderito allo sdegno occidentale verso la Russia, ora gli svizzeri sono tornati alla finestra riscoprendosi neutrali, non forniscono armi agli ucraini, hanno ripreso ad ospitare capitali russi. Come diceva il poeta “Sanno più cose gli svizzeri di quante ne sogni la tua filosofia, Orazio…”.

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TERMODINAMICA DEL CONFLITTO, di Pierluigi Fagan

TERMODINAMICA DEL CONFLITTO. Come sappiamo, la “guerra fredda” fu appunto un lungo conflitto tenuto a bassa temperatura. La metafora prende il fatto che a basse temperature le molecole si muovono di meno e fanno meno attrito.
La guerra fredda rimane, nell’esperienza al conflitto americana, un prototipo del fatto che se sei di molto più forte nel senso che hai più risorse, prima o poi il tuo avversario perde la corsa a starti appresso. Memore della lezione, Putin ha fino ad oggi fatto una guerra a bassa intensità, motivo per il quale Prigozhin ed affiliati, dissentono vibratamente.
In fondo, conviene anche a Zelensky, perché tiene alta la tensione e quindi la richiesta di mezzi e fondi per supportare la sua resistenza ma anche il potere del suo inner circle. Oddio, a lui forse non dispiacerebbe neanche il darsele una volta per tutte di santa ragione, ma essendoci da una parte uno con quasi seimila testate nucleari e dall’altra un altro più o meno pari, la bassa intensità conviene a tutti.
Da un po’ e sempre più intensamente negli ultimi giorni, gli ucraini ci tengono a far sapere che loro, il ventilato “conflitto congelato” di cui molti parlano, non lo accetteranno mai. C’è chi pensa che la missione vaticana, ma è questo anche forse l’interesse di tutto quel resto del mondo che non partecipa alla tenzone e ne rimane disturbato per il disordine economico che provoca, abbia questo fine, trattare l’inizio di una trattativa.
Una trattativa finta, ovviamente, sul campo, dal punto di vista strategico, non esistono affatto condizioni per nessun tipo di pace e tra l’altro, manca anche la volontà almeno dei principali attori. Zelensky può alla fine far pace con l’idea di lasciare la Crimea, ma per tutto il resto neanche volesse potrebbe giustificare morte e distruzione per poi accettare di perdere altro. Putin uguale, a questo punto, neanche gli dessero Crimea ed il referendum in Donbass. Gli USA dovrebbero rinunciare a tutto il loro piano strategico lungamente preparato e nel quale, in fondo, le cose vanno come debbono andare. Forse una per quanto brutta pace piacerebbe oltre che al resto del mondo, all’Europa, ma tanto Europa è solo un’espressione geografica (per altro vaga). Comunque, non sono loro gli attori principali.
Tuttavia, il conflitto congelato, una trattativa probabilmente turca, in cui diplomatici gommosi vano avanti mesi a vedersi senza fare un passo avanti o forse lo possono fare ma solo se subito dopo ne fanno uno indietro per rendere la questione più interessante e giustificata, a questo punto potrebbe interessare anche russi ed americani.
Certo, agli americani è noto che il conflitto congelato dà respiro al nemico ed interrompe la pressione strategica necessaria e farlo prima o poi capitolare, tuttavia l’anno prossimo vanno ad elezioni. I repubblicani possono usare (fintamente tanto poi al Congresso se c’è da dare altri dollari al complesso militare industriale non sono certo loro a ritirare la manina) la guerra in Ucraina ed i suoi costi come leva propagandistica, soprattutto se Trump sopravvive alla tempesta giudiziaria. Ai russi, certo conviene in sé perché appunto dà respiro, ma dopo l’intemerata di Prigozhin anche di più poiché lì si debbono fare non pochi aggiustamenti interni, altrimenti non si dura molto.
Può darsi che le recenti molteplici dichiarazioni ucraine contro questa ipotesi abbiano a traguardo solo l’iniziativa vaticana che dietro potrebbe avere i multipolari ed anche i russi (magari anche gli europei che però pregano in silenzio impossibilitati a farsi soggetto attivo e dichiarato visto che hanno devoluto l’intera strategia geopolitica a Washington). Ma potrebbe anche darsi che qualcosa si possa muovere anche in Europa e soprattutto a Washington e non solo per la prospettiva elezioni.
Qui, va presa sul serio la faccenda dello spavento atomico per la rivolta poi afflosciatasi. Forse a Washington non dispiacerebbe dar respiro a Putin che a marzo prossimo, in teoria, dovrebbe andare ad elezioni, candidandosi o meno è da vedere, sempre che non le rimandi. Tanto la strategia guerra fredda vale su i tempi lunghi e dargli una piccola e parziale sospensiva non ne altera il disegno e comunque meglio lui di chissà chi. Come si dice in questi casi: meglio uno spavento senza fine che una fine spaventosa.
Naturalmente, se ne parlerebbe per iniziare dopo l’estate, prima gli ucraini debbono provare a mostrare e mostrarsi di essere in grado di riprendersi qualcosa sul campo. Anche a Zelensky serve poiché anche lui avrà i suoi Prigozhin ed i discorsi fatti in precedenza sulla fisica dl potere valgono anche lì, sebbene nessuno qui è autorizzato ad ipotizzare che anche loro abbiamo bande con interessi diversi. Magari se non vanno oltre qualche metro com’è probabile, anche loro si convincono a prendersi una pausa.
Comunque, tenete conto che anche l’Ucraina, in teoria, avrebbe le presidenziali l’anno prossimo, proprio a marzo, come i russi. Un motivo in più per sospendere la tenzone e ricevere un nuovo mandato lungo e pieno? A marzo scorso anche Prigozhin aveva annunciato di volersi candidare (a quelle ucraine, non russe! Il tipo ha mille risorse).
A metà luglio poi tutti a Vilnius, ad un concerto NATO che potrebbe trovare un vocabolario a tale scopo inventato per dire che Kiev va sotto protezione ufficiale e firmata senza entrare ufficialmente. Per cosa? Per inviare truppe d’appoggio visto che quelle ucraine vanno ad esaurimento? Difficile, oltretutto darebbe a Putin il destro per dimostrare internamente quanto effettivamente la NATO minacci la Russia. O per rassicurare Zelensky per il dopo tregua che potrebbe poi estendersi all’infinito? Magari l’anno prossimo gli ucraini trovano più interessante occuparsi di adesione all’UE e pioggia di miliardi ricostruttivi?
E dopo le presidenziali americane di novembre 2024? Ci saranno state quelle ucraine? Quelle russe? Biden o chi intorno a lui visto che abbiamo capito che lui non sembra molto in sé, saranno ancora lì con la stessa strategia neocon?
Vedremo … come al solito. A volte si scrive solo per ragionare e scambiarsi informazioni e punti di vista.

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NON È UN MONDO PER IDEALISTI, di Pierluigi Fagan

Nel libro recensito nel post precedente, l’Autore Jacques Ellul sosteneva che qualsiasi società di massa moderna, a prescindere il regime politico, ha bisogno di propaganda (noi oggi la chiamiamo anche narrativa) per ottenere consenso e legittimità. Poiché sia la massa che la più colta opinione pubblica, nulla sa dei principali argomenti di cui si compone l’amministrazione e direzione di uno Stato, ecco il bisogno di dar loro non solo i fatti ma anche i giudizi, le opinioni accluse, a pacchetto. Di tutti i capitoli di cui è fatta la politica di uno Stato, il più alieno dalla mentalità non specializzata diceva esser la politica estera.
Il motivo per cui questo argomento è particolarmente alieno a tutti i cittadini governati sono tre. Il primo è che in genere, qualcosa si sa del proprio stato e nazione, ma praticamente nulla degli altri, vicini e lontani. Il secondo è che la mutevolezza delle opinioni pubbliche non permetterebbe lo sviluppo di alcuna strategia, almeno nei paesi seri. Tant’è che qui da noi è normale aderire alla Via della Seta, promettere porti e sedi per le compagnie di telecomunicazioni ai cinesi, poi cambia il governo e via dalla Via della Seta, dentro amicizia con Taiwan, porti e tlc solo agli occidentali. Magari tra quattro anni si rifà il contrario. Il terzo motivo è il più importante, l’argomento politica estera è nel dominio del realismo e della ragion di stato, ragione del tutto amorale. Le opinioni pubbliche invece sono morali o almeno coltivano questa auto-rappresentazione, hanno orrore della mancanza di buoni sentimenti che accompagna una normale politica estera che di suo è letteralmente “al di là del bene e del male”.
Forse qualcuno ricorderà che Putin, poco prima dell’inizio della guerra all’Ucraina, spese più di un’ora in televisione a reti unificate per spiegare ai cittadini varie cose tra cui che l’Ucraina non è un vero Paese, che in fondo è Russia per quanto nelle mani di traditori e malfattori, che gli stessi ucraini, fratelli del popolo russo se non russi occasionalmente in altra amministrazione, andavano liberati dal giogo di quei traditori malfattori. Si poteva definire questa la sua narrativa per giustificare la guerra al suo popolo. Un popolo in tutt’altre faccende affaccendato e come ogni altro popolo europeo, più dedito alla normale vita quotidiana, sogni, speranze, piccoli affari etc. . In particolare, i giovani che soprattutto nelle città, di nulla differiscono dai nostri, Internet, musica, sport, primi approcci sessuali e quant’altro. Sicuramente non facilmente inquadrabili militarmente e spinti con convinzione a combattere (ovvero rischiare la vita) contro quelli che percepivano come omologhi, tra l’altro dello stesso ceppo. Tant’è che Putin ha usato Wagner e ceceni, soprattutto nei combattimenti di città (notoriamente costosi in termini di vite umane) ed assai poco l’esercito propriamente detto.
I motivi dell’invasione dell’Ucraina erano strettamente geopolitici, Putin non aveva scelta per molti versi, ma ne abbiamo già discusso più di un anno fa e tanto ognuno poi usa le sue lenti per interpretare gli eventi. Tenevo solo a precisare che i motivi solidi dell’atto non erano e non sono comunicabili per varie ragioni, anche perché non verrebbero assolutamente compresi. Vale per l’una come per l’altra parte. La ragione geopolitica è semplicemente spaventosa per chi nutre convinzioni idealistiche.
Sul campo, già i ceceni a Mariupol, ma poi i Wagner con più forza a Bakhmut, avevano lamentato di non aver ricevuto sufficiente supporto dall’esercito regolare. La cosa funziona così, queste truppe professionali fanno il lavoro più sporco e rischioso della guerra in prima linea, lo sanno, lo accettano, vengono pagati bene per questo. Tuttavia, logica vuole che l’esposizione al rischio sia ben precisa ovvero che prima o poi, dopo aver sfondato o fatto il lavoro grosso, arrivi l’esercito e relativa logistica a consolidare la situazione velocemente. Pare così non sia andata e più di una volta.
Prigozhin di recente, e sempre a toni più alti, se la prende con Shoigu, Ministro della Difesa, il vero vice-Putin della faccenda. Faccio notare che Shoigu, ben prima della guerra, era dato come il più probabile successore di Putin che aveva promesso di non ricandidarsi alle prossime elezioni, anche per motivi di salute oltre altri più complessi da citare in breve. Putin pochi giorni fa dichiara di esser molto deluso da certi “generali da salotto”. I russi non fanno guerre sul campo da un po’, almeno su terra, ed è quindi vero che hanno molti quadri non proprio temprati alla bisogna. Ma la dichiarazione è da leggere come tentativo di far finta di dar sponda a Prigozhin ed i malumori dal fronte. Anche se dall’inizio del conflitto i russi hanno cambiato più e più volte generali chiave sul campo, oltre quelli morti, Putin non si è mai sognato di mettere in discussione Shoigu in quanto sa benissimo che il problema non è lui che anzi è il suo più fedele collaboratore.
Si consideri anche come il potere russo, contrariamente a quanto favoleggiato dai propagandisti occidentali, è tutt’altro che monolitico e quindi c’è più di una banda che vedrebbe con favore la dimissione di Shoigu per riaprire i giochi della successione. L’attuale rivolta di Prigozhin-Wagner sembra proprio pubblicamente rivolta contro Shoigu, per forzare la mano a Putin che non è messo in discussione, almeno ufficialmente. E’ chiaro che conta su qualche appoggio a Mosca.
Quanto alla poca partecipazione delle truppe regolari e quindi la responsabilità diretta del ministro (ovvero poi direttamente di Putin) si possono solo fare illazioni. Forse Putin immagina una guerra molto lunga e si riserva la riserva. Forse Putin sa quanto in fondo questa guerra sia impopolare laddove da film proiettato in televisione diventasse sempre più sangue e bare dei propri figli oltre un certo numero e con figli di cittadini e non contadini siberiani. Forse ci sono questioni a noi non note sulla necessità di presidiare i tanti vasti confini della federazione e le truppe scelte scarseggiano. Tant’è che oltre a mercenari e poco altro, fino ad oggi se l’è cavata più con droni e missili, neanche troppa aviazione e dopo le prime problematiche uscite, neanche la Marina e soprattutto gente del Donbass, la più motivata. O forse c’è tutto ciò e pure altro. Sta il fatto che il lamento di Prigozhin ora è diventata rabbia agita. Senz’altro ci sono obiettivi di faide interne il potere a Mosca e quindi accanto a Wagner c’è anche qualcun altro.
Del resto, se guardiamo la faccenda dal punto di vista di Prigozhin, deve esser arrivato al limite. Per quanto pagati, anche i mercenari hanno un limite al sacrificio supremo e quando questo sembra senza ragione o governato da una ragione eccessivamente cinica, difficile tenere gente del genere allineati e coperti, con le buone ormai non più da tempo, ma a questo punto neanche con le cattive. Quindi, forse, non aveva scelta.
In più, è anche possibile abbia annusato aria da “conflitto congelato”, un accontentiamoci che dava come prospettiva un suo certo ridimensionamento e conseguente regolamento di conti per le intemperanze più volte manifestate anche pubblicamente. Nell’ultima settimana Z. ha ammesso il fallimento della sua controffensiva, gli americani si sono mostrati “sorpresi e preoccupati” come se apprendessero le notizie dalla CNN (ricordo che fra un anno in USA si vota e Biden non ha interesse ad andare ad elezioni con impegni pressanti di guerra sul groppone), Putin ha ritirato fuori dichiarazioni da “be’ forse è il caso di vedere seriamente come sbrogliare questa matassa”.
Ora, fare previsioni presupporrebbe sapere cose che io non so oltreché una improvvida fiducia nella linearità di questo tipo di faccende. Immagino che decisivo sarà vedere nelle prossime ore cosa guadagna Wagner e se, quando, dove e come, i suoi alleati in alto proveranno ad uscire allo scoperto accendendo qualche altro fuoco, se ne hanno facoltà. Altresì, occorrerà vedere se e quanto gli americani e gli europei vorranno o sapranno tenere a freno gli ucraini che tenteranno di approfittarsene alla grande. Questa improvvida mossa potrebbe far diventare la questione Wagner una questione nazionale seria mobilitando anche i più renitenti in favore di Putin? Forse, dipende dallo stato interno dei russi che non conosciamo. Infine, se Putin non schiaccia i Wagner spazzandoli via in fretta, dovremo dedurne che lo stato interno alla linea di potere che dal Cremlino va nell’esercito in campo e nelle caserme è davvero fragilissima, con conseguenze gravi non solo per la guerra in corso ma più in generale per il suo stesso potere e relativo disequilibrio dell’area. Il sacrificio di Shoigu a Prigozhin mi sembrerebbe strano, ma dipende molto dallo stato interno gli equilibri del vertice di potere, Putin ne uscirebbe comunque molto male. Intanto si muovono i ceceni che invece sono stati accontentati a loro tempo in termini di potere e riconoscimento, diversamente dai Wagner.
Vediamo.

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PROPAGANDA, di Pierluigi Fagan

PROPAGANDA. Questo libro è stato scritto nel 1962, quindi privo di fenomeni come Internet ed i social, la globalizzazione, le televisioni private, i network tv on line, le emissioni satellitari e quelle via cavo, la mobilità cellulare, la segmentazione psicografica statistica ed i Big Data. Tuttavia, rimane opera di riferimento per lo studio del fenomeno dato ancora in molte facoltà (assieme a Bernays, Lasswell, Dobb dando in privato sempre una sbirciatina a Goebbels, rude ma efficace). Prima considerazione da fare è come molti pensatori, in Europa ma spesso anche negli Stati Uniti, negli anni ’60 avessero idee ben chiare sui profili fondamentali della società che è ancora la nostra società, peggiorata in alcuni tratti. Più che trarne il giudizio di “attualità” ci sarebbe da domandarci perché oggi riscopriamo mille ed una volta l’acqua calda, già riscaldata per bene sessanta anni fa. È chiaro che un problema che hanno le idee e gli impianti mentali critici e quindi non dominanti, è la loro dispersione nel tempo, non si accumulano, non fanno massa.
L’Autore è un inclassificabile francese. Storico del diritto, teologo protestante, critico della società della tecnica avvicinato a Gunther Anders, con tendenze anarco-libertarie, marxologo non marxista, anticipò i temi della decrescita. Qui, Jacques Ellul è in veste di sociologo, forse la sua specialità più completa e nitida.
Dato l’argomento e la recente attualità, ci sta bene iniziare dicendo che “c’è un propagandista ed un propagandato”. Il primo è spesso un funzionario di sistema che deve massaggiare psicologicamente gli individui-massa affinché siano conformi al sistema. Vale per le dittature quanto per le democrazie o pseudo tali. Secondi Ellul, la propaganda (che coincide con la divulgazione di una precisa immagine di uomo e mondo che dia ragione e senso) è una necessità delle società moderno-tecniche sotto qualsiasi regime politico. Alte le conoscenze del propagandista di psicologia sociale, individuale, del profondo, di sociologia, di mitologia, delle forme religiose così che, dall’alto del suo potere cognitivo, disprezza il propagandato per quanto l’abbia ben studiato o forse proprio per questo.
Coinvolge il razionale e l’irrazionale, il pubblico ed il privato, il conscio e l’inconscio, nonché tutti i media possibili ed immaginabili, questi sempre di proprietà o dello Stato o di capitalisti, come in Occidente. Meglio un solo media o comunque pochi ed accordati.
Nella società “liberali”, la libertà è ridotta ad avere due schieramenti che si odiano reciprocamente e sono impossibilitati al dialogo reciproco, da qui la mortificazione della pallida pretesa al pluralismo democratico a vantaggio di un bipolarismo di fatto. Tanto poi due poli pendono al centro e quindi la struttura di potere governa comunque. Questo cristallizza le immagini di mondo partendo da un poderoso lavoro di semplificazione di cui il propagandato è grato.
Quanta ansia per l’impreparazione e la paura derivata dalla continua torrenziale cascata di notizie incomprensibili, inquietanti ed ansiogene! Poiché i poteri richiedono comunque legittimità data dal popolo e poiché non si vede come gente che lavora otto ore al giorno più i trasferimenti e le cure personali possa sapere vagamente qualcosa di economia, finanza, tecnologia, geopolitica, cultura, politica, società, futuro, ambiente, ecco parole d’ordine, mantra, cori preconfezionati, slogan, testimonial, esperti, frammenti di razionalità lubrificati con ampie dosi di emotività nei cervelli deboli, distratti, immemori, dipendenti, scossi e resi incerti dall’ignoranza evidente affamata di Verità e cose buone da pensare.
Oggi, avendo sempre più problemi complessi e globali, la propaganda diventa vieppiù esasperatamente puntinista (attenzione ce la “n”), scintille di attenzione de-correlate, caleidoscopi impressionistici. L’ efficacia della propaganda ha precondizione nella sua vastità avvolgente, continuità, invisibile coerenza, ripetitività, per perversi versi, utilità nel dar ragione e senso a ciò che non ce l’ha. Più senso meno dissenso.
Conoscenza e sfruttamento scientifico dei meccanismi di contagio e sincronia delle masse, del fatto che come diceva Durkheim “il gruppo pensa ed agisce in modi del tutto differenti da come penserebbero ed agirebbero i suoi individui componenti se isolati”, l’odierno isolamento reciproco tra persone che non si trasmettono informazione e conoscenza reciprocamente (non dibattono) ma suggono dati ed interpretazioni da una fonte unica, pubblico che si fa una opinione o meglio acquisisce quella somministrata dato che non ha tempo e strumenti per farsene una propria, creano la situazione perfetta. La propaganda, come la pubblicità, non inventa quasi nulla, pesca tra pregiudizi, stereotipi, categorizzazioni, modelli, tradizioni, conformismi, miti profondi (c’è una primigenia fame del mito soprattutto da parte maschile), che già esistono (la Nazione, il lavoro, l’Eroe, la felicità, la libertà).
Un mito eterno è quello del Big Man che si adora mentre ti manipola e ti fotte, ne è appena morto uno che ha ricodificato i codici socioculturali, etici, morali, politici nostrani in un tripudio di convinti applausi dei suoi adoranti propagandati. Mi ero messo a fare l’elenco degli orfani addolorati al suo funerale, da Boldi a Razzi, una fotografia sociologica del livello dell’immaginario nazionale degli ultimi tre decenni, poi ho lasciato perdere, tanto di questi tempi è inutile. Se l’imbecille fosse in grado di rendersi conto di esserlo non lo sarebbe.
La tassonomia di Ellul è elaborata. C’è propaganda politica e sociologica, verticale ed orizzontale, di agitazione ed integrazione (modello partito di lotta ma poi di governo che cambia radicalmente argomenti e tono di voce. Tipo “contro i poteri forti” poi abbracci Elon Musk), razionale ed irrazionale. In Occidente tende a dar adattamento ad una insensata società individualistica di massa previa distruzione o indebolimento di ogni struttura intermedia. Gli accenni al prototipo americano del suo tempo danno l’idea di una vera e propria “radiazione sociale”, sono le forme, i modi, i simboli stessi della nostra società circostante a comunicare prima ancora che qualcuno li ordini in discorso.
Un altro sociologo più recente, George Ritzer (2005) ha avuto dieci edizioni in inglese fino a due anni fa, con un libro sulla forma McDonald di molte strutture sociali: efficienza, calcolabilità, prevedibilità, uniformità in un universo di McUniversità, McMedia, McBambini e da ultimo una McCoscienza di sé. Tutto ciò irradia la sua forma con coerenza direttamente dalla società, il discorso propagandistico diventa solo un accompagno. Il bisogno di semplificare i discorsi fa pari con quello di semplificare la società. I suoi effetti non sono superficiali e transitori, formano il mentale prima che per contenuti per forme, ad esempio dicotomizzare tutto (bene-male, giusto-sbagliato), giudicare ancor prima di analizzare, ordinare il pensiero nei sentieri già tracciati (che tanto si sa già dove vanno a finire), ossessionarsi nevroticamente al presente così che le cause sfuggono, non domandarsi mai “perché”? ovviamente cercando di superare le risposte da favolistica scadente.
Ultimamente, spingere compulsivamente bottoni su un parallelepipedo piatto da tenere davanti gli occhi. L’ efficacia della propaganda ha precondizione nella sua vastità avvolgente, continuità, invisibile coerenza, ripetitività.
L’altra sera mi sono imbattuto in una serata Rampini sulla 7, tema gli Stati Uniti d’America (di cui le bretelle del nostro riproducevano colori e forme della bandiera) ne seguirà una sulla Cina. Secondo Rampini che rivendicava con orgoglio la sua nuova cittadinanza americana, gli Stati Uniti sono fortissimi, inarrivabili e vincenti in tutti i principali items di potenza (armi, dollaro, Pil, tecnologia, demografia) e tali rimarranno, per nostra fortuna, ancora a lungo. L’unico problema è che ultimamente sembrano esser poco convinti di sé stessi (mannaggia!). Il titolo della puntata era “A cosa serve l’America’”, lui è americano, in pratica era una televendita travestita da info-approfondimento.
Aggiungo solo un ulteriore scorcio su tale Nathalie Tocci, una esperta convocata a spiegarci bene le cose. La signora che sembra dirigere un think tank di politica internazionale italiano salvo scoprire sul loro sito che ricevono quasi il 50% dei fondi da “enti e fondazioni estere” (senza vergogna), quando parlava degli Stati Uniti tendeva ad alzare le punte interne delle sopracciglia e quindi abbassare quelle esterne, come se stesse parlando partecipata del povero Cappuccetto Rosso in preda a mille insidie del mondo-bosco. Quando parlava di Russia e Cina faceva il contrario, abbassava le punte interne ed alzava quelle esterne come stesse parlando del lupo cattivo che si appresta a far la festa alla povera nonnina. Del resto, era sera tarda e le favole della buonanotte hanno il loro pubblico. Ho provato nostalgia per Luttwak.
Siamo alla regressione infantile delle opinioni pubbliche, il che fa il paio con un altro concetto di sociologia contemporanea, la “gamification”, ovvero mettere meccanismi di gioco in ambienti non giocosi come Internet, social, sistemi di apprendimento o di business, sollecitando partecipazione attiva e “spontanea”. Il recente scadimento qualitativo dei propagandisti fa il paio con quello dei propagandati e più in generale dà lo Spirito del tempo.
Termino in positività, che fare, quali antidoti, come superare questa condizione di servitù psico-intellettuale volontaria, propedeutica alla servitù volontaria di partecipare al termitaio sociale al ritmo dei tamburi suonati per noi dai propagandisti del sistema? Il tempo. Dal lavoro sulle cose al lavoro su sé stessi, ricavandone tempo da dedicare all’autoformazione della propria mentalità, una mentalità formata ha distanza critica dalla propaganda, rompe la magia, l’incanto, diventa immune, la guarda dall’alto in basso rompendo la servitù volontaria. Ma tra più tradizione, più lavoro, più ordine, più giustizia, più libertà, più innovazione, più sicurezza, più opportunità, le propagande politiche sembrano unanimi nell’evitare di promettere l’unico -più- che vi è necessario per decidere da voi, giudicare da voi, agire col pieno senso del voi: più tempo.
Meno lavoro, più tempo, meno propaganda. Questa è l’ultima, irrealizzabile, utopia.

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DELLE VERIFICHE EX POST, di Pierluigi Fagan

DELLE VERIFICHE EX POST. Avevamo lasciato tre possibili esiti interpretativi di ciò che è successo in Russia l’altro giorno, la vittoria (parziale) di Prigozhin, di Putin, una specie di pareggio. La nostra tesi principale tendeva però ad illuminare una componente che in questo teatro a tre (Prigozhin, Putin, Shoygu) mancava, la quarta gamba senza la quale il tavolo traballava. S’invitava cioè a guardare chi a Mosca poteva aver dato sponda a Prigozhin e senza il quale non si capisce quello che altrimenti sembra, autenticamente, un “pezzo da matto” di uno che matto non è.
Ho visto e sentito molte interpretazioni. È incredibile come la passione narrativa si libri senza peso sopra la realtà. Pensare che un manipolo di centurioni possa fare un colpo di Stato partendo da mille chilometri da Mosca, di una cosa come la Federazione russa, finanziati dall’Occidente o di testa propria, manca dei minimi requisiti di realismo. Inviterei tutti a provare a scrivere la sceneggiatura estesa di questa storia, capire in quanti si arriva a Mosca, con quante perdite, con quanto tempo usato dal nemico per prepararsi, dopo che si fa, chi occupa i ministeri, le televisioni, le agenzie di stampa, la banca centrale, le sedi dei servizi che ovviamente stanno lì buoni-buoni ad aspettare tremanti l’arrivo dei terribili Wagner, con Putin al sicuro in un bunker siberiano che mantiene tutte le linee di comando ed i codici nucleari. È che ai più comprendere la realtà non interessa affatto, interessa solo commentare la versione che occidentali e russi hanno interesse a proporre come suo sostituto.
Alcuni sono arrivati addirittura a credere che Prigozhin abbia preso i soldi dagli occidentali e li abbia parcheggiati in un furgone sotto il suo ufficio a Mosca. I conti offshore che sono lì apposta per queste cose, no, ci vogliono le mazzette di dollaroni fruscianti che viaggiano da Kiev a Mosca. Un mondo di matti.
Veniamo al discorso di ieri di Putin. Putin ha parlato di “patrioti manipolati nell’oscurità”, secondo la traduzione google della timeline in diretta di Ria Novosti che seguivo iersera. Prigozhin è quella “oscurità”? Non sembra, che fosse il capo di Wagner e quali fossero i suoi intendimenti era palese. “Tutti i militari ed i servizi sono rimasti fedeli al Paese” ha specificato visto che forse qualcuno ha nutrito dubbi. “Tutti i tentativi di creare disordine interno falliranno”, quindi ce ne sono stati o ce ne sono o ce ne potrebbero esser altri? Segue riunione con procuratore generale, il capo di stato maggiore, il ministro dell’Interno, il ministro della Difesa, il direttore dell’Fsb, il capo della Guardia nazionale, quello del Fso ( che può condurre operazioni di sorveglianza senza mandato, eseguire arresti e dare ordini ad altre agenzie dello Stato su base stimata di 50.000 effettivi) e il capo del comitato investigativo, ha detto Dmitry Peskov citato da Ria Novosti, tutti per capire cosa fare del solo Prigozhin e due tre generali suoi accoliti?
Prigozhin che intanto aveva ridimensionato il pezzo da matto a intemperanza occasionale dopo aver proclamato l’inizio di una “guerra civile”, sostenendo tesi di inutilità della guerra con piglio pari ad un portavoce NATO di origine ucraina. Era lo stesso Prigozhin che per mesi aveva contestato a Shoigu lo scarso impegno e decisione nello spianare gli ucraini?
Quelle dichiarazioni urlate in mondovisione che decostruivano tutta la propaganda del Cremlino di questi mesi, all’inizio della marcia su Mosca, che fine avevano? Erano dichiarazioni di uno che sta recitando la commedia dell’astuto “russian job”, d’accordo con Putin per dar copertura al trasferimento Wagner in Bielorussia, dicendo quello che in Russia nessuno può dire, come altri astuti interpreti del fronte filo-russo (che poi in realtà è una idea nata dagli ucraini ed amplificata ieri da Parsi su Libero) sostengono con sorriso di chi la sa lunga? Non quadra.
Dicono che i famigliari di Prigozhin fossero in mano Fsb da un secondo dopo l’inizio del film, probabile. Sembra credibile Putin sapesse dell’azione ed abbia lasciato mano libera per vedere chi a Mosca si faceva vivo in appoggio, appoggio senza il quale Prigozhin certo non avrebbe intrapreso l’azione poiché scemo non è, almeno non tanto quanto quelli che pensano possibili queste cose. Appoggio che è stato stroncato sul nascere o si auto-ritirato annusando presto l’aria di trappola lasciando l’intemerato da solo sulla via della sua fine.
Noi avevamo un corrispondente RAI a Mosca, lì da più di tredici anni, Marc Innaro, l’abbiamo ritirato da Mosca quando è arrivato l’ordine americano di ritirare tutti i corrispondenti, tranne BBC che rimane lì a sfornare versioni ed interpretazioni adeguate. Perché Innaro era lì da così lungo tempo e così altri prima di lui? Perché come accadeva ai tempi dei cremlinologi (che oggi su Repubblica chiamano criminologi dato che le nuove generazioni non conoscono la storia ed il lapsus freudiano è sempre dietro la lingua) o come capita coi vaticanisti o gli scrutatori degli Arcana imperii cinesi dei think tank americani, quegli ambienti sono difficili da penetrare e quindi ci vuole un lungo lavoro di contatto ben attento agli equilibri tra ciò che vieni e sapere e ciò che puoi dire, per fare il tuo mestiere. A volte non ti dicono neanche niente di diretto, ma puoi osservare gesti, assenze, segnali da decrittare, se conosci la lingua oscura delle geometrie di quel potere. Ma Innaro è stato subito accusato di essere filo-Putin e quindi adesso mandiamo a Mosca stagisti che si chiudono in albergo e ti dicono da lì quello che le agenzie battono da qui.
Non gliene frega niente a nessuno di sapere come stanno le cose davvero, da una parte debbono tenere in piedi la favola di Ivan il Terribile che tutto controlla e decide, dall’altra gli piace credere che sia vero e fanno il tifo per lui. È una vera filosofia della storia quella del Grande Uomo, ridurre cose complesse al semplice, un intero popolo cresciuto a Bach, Goethe, Hegel e Marx, si fa irretire da un pittore fallito per giunta austriaco, che problema c’è, è il totalitarismo baby!
La questione non è chiusa. Oggi Lukashenka ci farà sapere la versione ufficiale (quindi falsa) del perché ospita i Wagner, dopo il primo luglio vedremo quanti Wagner andranno in Bielorussia e quanti rientreranno nei ranghi. Col tempo vedremo anche cosa ne sarà dei Wagner africani e siriani. Voci inverificabili come ogni altra di questa faccenda, avevano detto due giorni fa che nel giro di telefonate di Putin agli alleati in cerca di non si sa cosa, più di una repubblica centroasiatica aveva declinato l’invito a dare una mano, forse ad ospitare loro i Wagner? I Wagner bielorussi continueranno a gestire il proprio network necessario alla geopolitica di Mosca da Minsk e dintorni e visto che ci sono terranno pure preoccupati gli ucraini? Siamo sicuri che Shoigu starà ancora lì tra tre mesi? Peskov aveva detto tempo fa che Putin avrebbe fatto sapere il prossimo novembre se si ricandiderà alle elezioni in teoria a marzo dell’anno prossimo. Manterrà l’impegno? Ci saranno elezioni davvero o data la “guerra” verranno post-poste? Dipenderà da come si metteranno le cose nella guerra sul campo?
L’importante è che la bolla di attenzione dei pesci rossi che si allarmano delle cose e vi prestano attenzione angosciata per un quarto d’ora si sia sgonfiata. Si può tornare alla Santanchè o alla polemica del giorno su cui litigare sui social. Putin è indebolito! Gridano da una parte. Putin è eterno! Rispondono dall’altra. Meglio non intromettersi, non c’è niente che provochi più rabbia di chi ti viene a sgonfiare il gioco con quella roba orribilmente complicata che è la realtà.

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Commedia in più atti, di Roberto buffagni – L’INQUIETANTE AZIONE A DISTANZA, di Pierluigi Fagan

Tiro a indovinare sul fantastico episodio comico-carnevalesco appena conclusosi in Russia.
Prigozhin, un ibrido russo tra capitan Fracassa e Pulcinella degno della penna di Gogol’, si gonfia come un ranocchio per l’importante ruolo svolto dalla Wagner (che lui non dirige ma rappresenta e possiede) nella guerra in Ucraina. Inizia una faida in pubblico, con toni da pescivendola ubriaca, contro Shoigu e Gerasimov, accusandoli di tutto e di più. I due bersagli non rispondono pubblicamente per non dargli importanza, ma avviano la procedura per togliergli il pulpito da cui gridare a vanvera: integrazione della Wagner nell’esercito regolare.
Al dunque-ultimatum, Prigozhin rifiuta, e avvia un’azione dimostrativa. Non ha intenzione di fare un colpo di Stato, vuole solo fare un’escalation nella trattativa, persuaso che se muove i suoi soldati, il presidente Putin, costretto a scegliere tra gli eroi di Bakhmut e i corrotti e antipatici Shoigu e Gerasimov, sceglierà gli eroi popolari. Più o meno, come quando in una serrata trattativa uno tira fuori la pistola e non te la punta addosso, ma la posa sul tavolo e ti sorride.
Alla gran parte dei militari della Wagner Prigozhin racconta balle, NON dice che cosa ha intenzione di fare. Lo dice solo ai fedelissimi, quelli che probabilmente si sono intascati larghi bonus dai traffici in cui Prigozhin è maestro da sempre. Questi ultimi sono poi i 5.000 circa che sono partiti per Mosca.
Irrompe la realtà: l’adulto nella stanza, il presidente Putin, emette un comunicato inequivocabile: questa è insurrezione armata contro lo Stato in tempo di guerra, insomma è tradimento, guai a voi.
Travolto dalla dinamica che ha innescato, Prigozhin continua la sua farsesca azione sovversiva, ed emette comunicazioni sempre più assurde e contraddittorie. Le personalità che nei mesi precedenti lo avevano o incoraggiato o lasciato fare per loro ragioni (rivalità assortite nella classe dirigente russa), spariscono come nebbia al sole.
Prigozhin si accorge di essere rimasto solo come un cane in chiesa. Putin, dimostrandosi un grande statista e un uomo di raro equilibrio psicologico, gli fornisce una via d’uscita per evitare lo spargimento di sangue tra commilitoni in guerra, nonostante che ciò danneggi seriamente, almeno nel breve periodo, la sua immagine (chi comanda in Russia? Putin ha la situazione sotto controllo?).
Non credo che Prigozhin abbia concordato la sua azione con servizi segreti stranieri. È probabile che i servizi d’informazione stranieri abbiano avuto sentore delle sue intenzioni, e lo abbiano incoraggiato INDIRETTAMENTE. Il colpo di Stato aveva probabilità zero di riuscire: solo un pazzo tenta un colpo di Stato in un paese che sta VINCENDO una guerra. Era però ovviamente utile ai nemici della Russia il danno politico all’immagine internazionale della Russia che l’azione inconsulta di Prigozhin avrebbe provocato, e utile la distrazione dal fallimento catastrofico dell’offensiva ucraina.
La vicenda si è chiusa al meglio. Il danno politico è serio ma non irreparabile. L’ aspettativa di vita di Prigozhin non è migliorata. Il danno politico subito dalla Russia e dal suo presidente è serio ma non irreparabile. Nel prossimo futuro assisteremo a un giro di vite legale, che aumenterà i poteri di controllo dell’esecutivo, e a una serie di “spostamenti laterali” di personalità politiche e militari che non hanno fatto quel che dovevano fare. I nostalgici dell’URSS e dello zarismo avranno diverse soddisfazioni.
Sintesi: con la Russia non ci si annoia MAI.
Invito a leggere anche la bella analisi di Pierluigi Fagan, che ho appena letto e condiviso sulla mia pagina. Il “colpo di Stato” tra molte virgolette si Prigozhin è stata una cosa semiseria, e qui la racconto sorridendo; ma cose più serie avvengono all’interno della classe dirigente russa, dove è in gioco la successione al presidente Putin. Pierluigi le mette in luce da par suo.
L’INQUIETANTE AZIONE A DISTANZA. [O Wagner ed il Crepuscolo degli dei] Quando Newton osservò precisi movimenti nella rotazione dei pianeti intorno al Sole, dedusse una legge, la legge di gravità. Questa si basava su una “forza” ovvero qualcosa che attirava i pianeti tra loro evitando partissero per la tangente come in una giostra impazzita. Pur apprezzando con grande riconoscimento l’individuazione della sua legge, molti rimasero perplessi su questa “forza” misteriosa e definirono la cosa come una “inquietante azione a distanza”. Puzzava di metafisica più che di fisica.
Un paio di secoli dopo, Einstein, spiegò la faccenda in altro modo. Le masse curvano lo spazio come una biglia di ferro farebbe su un telo teso (lo spazio, anche se la metafora è in 2d e lo spazio è in 3D, anzi in 4d ma lasciamo da parte il tempo). I pianeti ruotano intorno al Sole e per la sola energia cinetica effettivamente schizzerebbero via per la tangente, ma, essendo lo spazio curvato dalla massa del Sole, sono altresì risucchiati verso di lui. La faccenda quindi è in equilibrio, i pianeti non schizzano via, non precipitano verso il Sole e noi siamo qui a poterne parlare.
La storiella ci serve per segnalare come la nostra ricerca delle cause, sia condizionata dall’inquadratura. Se non metti lo spazio o non consideri lo spazio una cosa, non puoi che dedurre una “forza” misteriosa che agisce a distanza, se metti lo spazio e lo consideri una cosa, c’è la sua curvatura e tutto torna nei meandri della semplice fisica.
Così, se non consideri lo stato del potere in Russia, stato che va ben oltre Putin a dispetto delle stupidaggini propagate dalla narrativa che doveva supportare la storiella “autocrazie monolitiche” vs “democrazie pluraliste”, quello di Prigozhin è un atto mosso da inquietanti forze di azioni a distanza (Americane? Britanniche? Ucraine? Etc.). Ne consegue che Prigozhin, essendo mercenario, avrà preso i soldi (ma già ne aveva un bel po’) per produrre chissà quale risultato poi. Arrivare a Mosca con le sue truppe scelte? Cioè assaltare il centro di una potenza multi atomica con almeno 800.000 affettivi regolari al centro di una rete di alleanze internazionali, con i vantati 25.000 spartani (sicuri? ma chi li ha contati?)? Diventare Zar? Diventare ministro al posto di Shoigu? Mostrare le debolezze di Putin per poi ripiegare a Minsk dove fra qualche mese berrà il famoso brodino al polonio stirando le zampe ma con un sacco di soldi sotto il materasso? È evidente che molta gente abbia l’immaginario condizionato dai fumetti e da Netflix e piuttosto che avventurarsi a scrivere di politica farebbe meglio a concentrarsi su Zerocalcare e fare “critica culturale” che almeno è più innocua.
Se consideri lo stato del potere in Russia, può darsi la faccenda diventi un po’ più complicata ma più realistica. Partiamo dal “potere di Putin”. Ma davvero qualcuno pensa che un uomo solo abbia il potere di soggiogare un primo livello che domina un secondo, che domina un terzo e via giù fino alla massa? O forse c’è una costruzione in equilibrio di forze di cui la stella centrale è l’equilibratore, equilibratore per altro necessario al funzionamento di tutto il sistema di cui le parti sono appunti parti?
Putin annuncia che non si presenterà alle prossime elezioni del 2024 e lo fa mesi e mesi prima del 24 febbraio dell’anno scorso. I motivi sono vari ma tutti solidi, tutti gli analisti di ogni parte del mondo sapevano questo, non era in discussione. Si capisce che normalmente i più si occupano dei casi propri e non stanno certo lì a seguire le questioni di politica interna russa. E si capisce che i più come non pensano al passato che ignorano non pensano neanche al futuro e quindi non notano che manca un anno alle elezioni presidenziali russe, sempre che si tengano? Chissà, magari a qualcuno a Mosca premeva render noto a Putin che quelle elezioni si dovranno tenere, guerra o non guerra, perché i pretendenti al trono (le parti) sono lì in fervida attesa per giocarsi la partita; quindi, la partita si dovrà giocare o salta tutto il gioco.
Prigozhin ha agito senz’altro per suoi personali motivi di sopravvivenza pratica, ma nessun analista ha mai pensato fosse un pazzerellone, gli si attribuiscono lucida razionalità e ben sviluppato senso strategico che in genere comporta anche una notevole furbizia. Non si può escludere che abbia mandato e ricevuto segnali a qualcuno nell’altro schieramento (Britannici? Ucraini?). Ma propri perché lucido e razionale, non potete pensare che un tipo così si metta a marciare su Mosca per diventare Zar o ministro della Difesa, magari pagato dalla CIA, senza scadere nel format Netflix, irrealistico, favolistico, inconsistente. Forse così ragionano i commentatori sulla 7, pagati per fare intrattenimento, non certo Prigozhin. Senza la fisica del potere vale qualsiasi storiella. E’ proprio per non mostrare la fisica pluralista del potere in Russia che i commentatori televisivi inventano storielle (Putin è pazzo, Putin vuol essere Zar, Putin ha il cancro, Putin è malvagio, Putin è un Hitler che ce l’ha fatta) che inducono ad inventare contro-storielle.
Ma se mettete Prigozhin dentro la dinamica della successione al potere russo la cosa prende più senso, forse la fisica del potere ci può aiutare Lì ci sono nazionalisti puri e duri, ma poi da vedere se di ultradestra o sinistra, neoconservatori ortodossi, slavofili, asiatisti multipolaristi, filo-tedeschi in gramaglie, oligarchi (gente che sta perdendo vagonate di soldi, in molti casi), politici filo occidentali ma non tanto per ragioni politiche bensì per volgari ragioni di college per i figli e ville di lusso in posti caldi ed eleganti che piacciono a tutti, più che dacia vista Caspio direi, militari (importanti in Russia, ma con molteplici idee e sfumatura), gente con semplice volontà di potenza esuberante (ce ne è in politica ovunque nel mondo), ma poi anche quelli che pensano che i russi siano gli europei orientali e non certo gli asiatici occidentali, che si disgustano all’idea di stringere la mano di un pakistano o un tagiko delle steppe ed in fondo disprezzano anche un piccolo cinese giallo e incomprensibile, nonché i liberali “perché non diventiamo come gli europei veri?”, più quelli che vorrebbero la Russia così o la Russia colì e chi più ne ha più ne metta, inclusi quelli che provengono da più di 200 etnie e vorrebbero più posti al sole di quelli di San Pietroburgo, i boiardi di Stato (tra cui Gazprom che pare Putin abbia autorizzato poco tempo fa a farsi una sua forza armata modello Wagner), poi quelli che in Ucraina vorrebbero più guerra tra cui Prigozhin fino all’altro ieri o niente guerra come Prigozhin ieri, se mettete tutto queto allora forse il pezzo da matto di Prigozhin che non è un cuoco ma uno che ha fatto i soldi son la ristorazione tanto quanto c’è chi li ha fatti con le palazzine e le televisioni, porta a pensare che c’è un pezzo di storia che né conosciamo, né possiamo conoscere visto che qui nessuno ha interesse ad indagare e loro sono comunque ben contenti di celare.
Prigozhin e Putin o Shoigu, dato per successore certo da tutti gli analisti occidentali ben prima dell’inizio della guerra in Ucraina, sono i pianeti del sistema visibile. Ma per capire forse ciò che sta succedendo in Russia conviene allargare l’inquadratura e se non c’è un Einstein a spigarci la geometria non euclidea dello spazio politico russo, dobbiamo portare pazienza e dire “non so”. Ma almeno so di non sapere, che è già un bel passo avanti, di questi tempi.
In fondo, il “potere” in Russia funziona esattamente come da qualsiasi altra parte nel mondo, cambia solo il format con cui si esprime la sua fisica.
Può darsi Prigozhin e chi con lui abbia perso, magari ieri Fsb s’è presentata a casa di qualcuno e non certo col sorriso, non lo sappiamo e chissà se mai lo sapremo. L’hanno mollato e Luka (su mandato di Putin) ha fatto veramente da intermediario per salvare Wagner che è una struttura importante per la geopolitica russa (vedi Africa). O forse Prigozhin e chi con lui ha vinto e Putin, nei prossimi giorni, settimane, mesi, mostrerà che la gara alla successione si terrà (chissà, magari nei giorni scorsi al Cremlino girava la voce che non si poteva andare ad elezioni stando in guerra), nulla è deciso (da lui) e lui si limiterà a fare da arbitro ed equilibratore del gioco che è poi il bene comune di tutte le parti in competizione. O forse ha pareggiato, Putin ha preso qualche impegno ma chissà poi se lo manterrà; tuttavia, prima di mettersi davvero e sparare conveniva a tutti passare ad altra metrica e riportare tutto sotto il velo di Maya che “il mondo ci guarda” tra cui gli alleati, ieri comprensibilmente nervosi, inclusi quelli gialli. Troppa competizione può rompere il trono per cui si compete, a chi conviene? Pare neanche a Washington convenga trovarsi con un punto interrogativo in cima a 1500 testate nucleari operative.
Ansia da “ma come è andata davvero?”? Contenetela, è cattiva consigliera della cognizione. Un consiglio? Non andate troppo vicino alle notizie, per lo più sono false o distorte, altre decisive, mancano.
Quindi, si vedrà. Dispiace, ma anche su Netflix quando sembra che si stia arrivando al finale della serie, ti rimandano ad una nuova stagione. I processi politici e la storia uguale.

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AUTUNNI e PRIMAVERE, di Pierluigi Fagan

AUTUNNI e PRIMAVERE. Queste stagionalità sono usate, in varie culture, come metafore dei cicli vitali. Negli autunni la vita appassisce e si prepara al letargo, si riduce; nelle primavere rinasce, fiorisce. Vi sono primavere ed autunni della vita personale, della vita naturale, della vita sociale e del corso storico, della vita del pensiero.
La teoria di Darwin è conosciuta come teoria dell’evoluzione, ma Darwin non usò mai il termine “evoluzione” nella prima edizione dell’Origine (1859), come Marx non usò quasi mai il termine “capitalismo”. In entrambi i casi, interpreti successivi hanno coniato i concetti appiccicati poi come etichette alla loro teoria generale. Dobbiamo dedurre che questi pensatori non avessero capacità concettuale di sintesi o dobbiamo ipotizzare che le sintesi in seguito apposte fossero pertinenti e precise solo fino ad un certo punto?
Quanto a Darwin si tratta sicuramente del secondo caso. In realtà, Darwin voleva solo rispondere ad una domanda ben precisa: da dove provengono le nuove specie? Del resto, questo intento è ciò che fa il titolo della sua opera principale. Posta la domanda, Darwin risponde: le nuove specie vengono fuori da un complesso processo naturale. Risposta oggi per noi scontata, ma non lo era affatto ai suoi tempi. Ai suoi tempi (seconda metà del XIX secolo), l’immagine di mondo era strutturata sulla vigenza di verità dell’Antico testamento. Ma lasciamo da parte questa ricostruzione storica e continuiamo il discorso principale.
Qual è il processo naturale ipotizzato da Darwin per spiegare le fasi primaverili della vita ovvero quando si produce il molteplice plurale? L’inglese, del tutto ignaro esistesse il DNA ed i geni, la pensava così: in natura si produce continuamente varietà, le varietà vengono selezionate dalla natura stessa in base al loro essere adatte al contesto (ecologie naturali, vegetali ed animali, e clima), tali varietà più adatte si riproducono e diventano lo standard di una data epoca e di un certo luogo. Quando cambia il contesto, varietà prima adatte possono diventare non più adatte, nuove ne prendono il posto. Il processo è sempre dinamico, cambia sempre perché cambia sempre il contesto naturale.
In effetti, noi e la natura siamo su una palla per lo più di terra che gira intorno ad una stella. Ad essa ci avviciniamo e da essa ci allontaniamo, l’asse terrestre vacilla su sé stesso. Il tutto ha effetti sull’atmosfera e da qui il motore del cambiamento costante delle condizioni naturali; quindi, della vita che nel contesto si ambienta. Pensando a quanto si sono dannati l’anima a cercare il famoso “motore della storia” certi pensatori, vien da sorridere. Perché cercare un motore quasi che la situazione originaria sia una statica, quando la situazione del contesto in cui ambientiamo la vita è dinamico di sua natura? È un tipico caso, non certo l’unico, di disallineamento tra mondo ed immagine di mondo.
È un caso “tipico” nella cultura occidentale. In Cina, ad esempio, la più antica scrittura sapienziale (ovvero la più antica scrittura punto ovvero il più antico complesso di pensieri anticamente in forma orale), s’intitolava “Libro dei Mutamenti”. Pare che gli antichi cinesi avessero ben chiaro che il Tutto muta di continuo e cercarono di trovare buoni consigli per aiutarsi a capire in anticipo come mutasse per poi consigliare il da farsi. Altresì, la loro più antica scrittura storica, più o meno coeva dalla prima scrittura storica occidentale che avemmo con Erodoto, si chiamava “Annali delle Primavere ed Autunni”.
Se la vita è ambientata su un tapis roulant o se preferite un fiume o un vento o qualcosa che corre sempre e chissà dove va, ne consegue in via logica il problema dell’adattamento. Non vi vestite e non mangiate e non vivete in autunno come in primavera, no?
A differenza di Darwin, noi oggi sappiamo da dove viene questa incessante produzione di varietà vitale. Di recente, s’è trovato che sarebbero esistite delle molecole-stampo che riproducono le molecole tipo in certi processi chimici pre-biotici. Siamo cioè ancora nella chimica inorganica. Ad un certo punto, poco dopo che s’era formata la Terra, iniziano anche i processi organici e la riproduzione, pensiamo, venne guidata da molecole RNA e solo dopo un bel po’ da altre più complesse dette DNA. Sta il fatto che questo processo di copia+incolla non è sempre del tutto preciso, fa errori. È perché fa “errori” che vengono fuori le novità.
Curioso noi si chiami “errore” il meccanismo da cui dipende l’esistenza di tutta la vita. Del resto, il linguaggio riflette l’immagine di mondo, la nostra è gravata dall’ingegnerismo moderno ottocentesco ed è certo che in ingegneria un errore produce catastrofe. Peccato che tra vita ed ingegneria si sia in dominii del tutto diversi, come tra intelligenze naturali ed artificiali.
Ad ogni modo, l’elemento fondante l’esistenza della vita è la varietà, produzione incessante di varietà e novità, per l’ovvio motivo che se l’esistenza è ambientata in un flusso costante di cambiamento, ciò che va bene (è adatto) oggi, potrebbe non esserlo domani. Così, l’esistenza degli uomini, individuale e sociale, sembra una eterna corsa in perenne ritardo in cui noi cerchiamo una qualche forma di ordine che fermi il tempo, spazzata poi via dallo scorre del tempo che cambia il contesto in cui noi cerchiamo di fissare un ordine.
Darwin, come ogni pensatore, è da ambientare nella mentalità della sua epoca o geo-epoca poiché le caratteristiche storiche variano a seconda del tempo e della geografia. Trovò quindi idoneo chiamare il meccanismo che sceglie le varietà adatte “selezione naturale”. Immerso nella cultura anglosassone che dalla concezione della vita “solitary, poor, nasty, brutish and short” di Hobbes (Leviatano) passa al catastrofismo malthusiano (Malthus era centrale nella cultura della famiglia Darwin), corso che poi arriva alla definizione cardine di economia del barone L.C. Robbins, un economista inglese marginalista “L’economia è la scienza che studia la condotta umana nel momento in cui, data una graduatoria di obiettivi, si devono operare delle scelte su mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi.”, la cultura di questo popolo è ossessionata da scarsità, lotta per la sopravvivenza ed il predominio.
Segue documentario su National Geographic in cui qualche bestia divora e dilania un’altra bestia in maniera orripilante. In alternativa, qualche CEO di successo che ti spiega beffardo e compiaciuto del suo amaro realismo disincantato, ma anche un po’ sadico che o mangi o sei mangiato e quindi intanto corri, poi si vedrà. Poi magari l’intera vita si è sviluppata per simbiosi (la vita terrestre viene da cellule e le cellule si sono formate per aggregazione cooperativa di cose prima aliene le une alle altre), l’intero regno vegetale e dei funghi non si divora reciprocamente, molti animali sono vegetariani, molti altri sono sociali e si danno mutuo appoggio; tuttavia, non è questa l’immagine di mondo che piace agli anglosassoni. Se la vita fosse come la immaginano gli anglosassoni si sarebbe estinta da tempo.
In effetti, il concetto di selezione naturale, severo giudice che ne salva uno su un milione a seconda di quanto è cattivo, feroce ed egoista, andrebbe annegato nel più ampio concetto di vaglio adattivo ovvero va tutto più o meno bene secondo varietà (poi certo, ci sono qualità e qualità di pura esistenza ed assieme alla cooperazione c’è anche la competizione), salvo quelli che proprio non sono adatti o sfortunati (poiché certe volte è puramente questione di sfortuna, caso e contingenza visto la natura non l’ha creata un ingegnere).
Quindi, il senso della vita, non la mia o la tua, la vita come processo, è la varietà perché cosa è adatto oggi non è detto lo sia domani e del domani non v’è certezza, come diceva il poeta della giovinezza. La qualcosa vale anche per le società, i modi sociali, i modi economici, i sistemi di pensiero, le idee. Nelle fasi autunnali questa varietà si riduce, gli ordini si sclerotizzano, le immagini di mondo si fanno pensiero unico, dogmatico e prepotente, la varietà è bandita, ci si deve uniformare alla Verità che è -sempre- Una, la mente appassisce. Nelle fasi primaverili la varietà esplode, la diversità fiorisce, gli ordini diventano plastici alla ricerca di nuovi assetti, le immagini di mondo diventano “Cento scuole”, il giardino del pensiero diventa fertile e dinamico, così le idee, i pensatori di idee, le forme di vita associata, le verità tornano al loro statuto naturale che è relativo, relativo alla condizione, alla situazione, all’inquadratura, al luogo, al tempo, a ciò che funziona meglio in quel contesto che non è più quello di ieri e non è ancora quello di domani.
Dopodiché, in questa variata ecologia delle verità, a noi portatori di pensiero, rimane il gioco della discussione, del confronto, del dibattito, della dialettica, della verifica tra fatti e teorie, del cercar di convincerti del mio mentre tu provi a convincermi del tuo, del grande scontro-incontro tra immagini di mondo. Così è sempre stato e speriamo così sempre sarà.
Oggi, qui in Occidente, siamo nella fase autunnale (anche Braudel usò la metafora a proposito delle fasi finanziarie del capitalismo), ma prima o poi speriamo torni la primavera e come diceva il cinese “…che cento fiori fioriscano, che cento scuole di pensiero gareggino”. Ovvero: in tempi che cambiano profondamente e velocemente, pluralizza o perisci.

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CONTRO E CON, di Pierluigi Fagan

CONTRO E CON. In un libro sulla strategia di uno storico americano di Yale, ho trovato una citazione interessante di F. S. Fitzgerald. In un racconto dell’Età del jazz, lo scrittore definiva l’intelligenza come “La capacità di tenere due idee opposte in mente nello stesso tempo ed insieme di conservare la capacità di funzionare”.
Personalmente non avrei definito questa situazione come marcatore dell’intelligenza (termine semplice ed unico dentro il quale c’è una cosa molteplice di complessa definizione), tuttavia lo spunto di pensare quadri ampi come composti anche da cose che riteniamo opposte, senza farsi paralizzare dagli allarmi su queste che definiamo “contraddizioni”, lo trovo interessante.
In Logica e Psicologia cognitiva, ampia ricerca ha ribadito come i nostri apparati mentali siano per forza di cose riduttivi della complessità del reale. Banalmente, ma inevitabilmente, si tratta sempre di far entrare tanto (mondo) in poco (mente). È un semplice principio di economia cognitiva. Quanto alla “mente collettiva”, certamente più menti in sistema danno più varietà di una singola mente; tuttavia, una mente è operativamente sovrana nel pensiero mentre un gruppo di menti non lo sono, non sono cioè un unico cervello(corpo) con tutte le sue operatività disponibili. Ad esempio, il principio di coerenza ideologica può esser allentato dentro una singola mente, più difficilmente in un consesso di menti.
Principio di non contraddizione (o A o non A) e di bivalenza (vero o falso), ci impongono scelte binarie, prive di sfumature, incertezze, compresenze. Tra i criteri di funzionamento del mentale, troviamo una sorta di principio di semplicità, assunto in logica ed epistemologia già dai tempi di Occam col suo rasoio, come criterio di inferenza alla miglior spiegazione possibile. Il principio è a sua volta bivalente. Vero è che quando si mettono troppe variabili accessorie per sostenere una tesi, è speso sintomo di non aver compreso bene la questione e di voler difendere la nostra interpretazione a tutti i costi inventando punti di supporto. Ma è vero anche che ci sono questioni che non si presentano semplificabili se non violentandole per farle sembrare più semplici di quanto non siano.
Altresì, il criterio di conservatività, dice che si preferiscono le spiegazioni che ci costringono a modificare i minor numero possibile delle nostre credenze, soprattutto tra quelle consolidate. Acquisendo una certa immagine di mondo, ad esempio, sarà più probabile noi si violenti i fatti per renderli coerenti con l’impianto, piuttosto che andare a modificare l’impianto (Letto di Procuste). Per altro, sono pochissimi coloro in grado di mettere mano all’impianto, noi le immagini di mondo, per lo più, le acquisiamo non le creiamo. Ci sono momenti storici, si pensi al Rinascimento come transizione tra medioevo e moderno, in cui questi criteri possono andare in reciproco urto. La teoria copernicana era certo occamiana rispetto a quella tolemaica, tuttavia era tellurica per l’impianto idm. Se la preferivate andavate in urto al criterio di conservatività, se sceglievate la tolemaica andavate in urto al criterio di semplicità. Il caso citato è sintomatico in fasi storiche di transizione poiché quello che cambia nelle transizioni è, al contempo, il mondo e ciò si riflette nella sua immagine.
Gli studi sulla razionalità limitata (Simon) hanno ben individuato che per limiti di tempo mentale, spazio mentale, attentività, limitatezza delle informazioni, difficoltà a calcolare le catene delle conseguenze di uno o più linee di pensiero intrecciate tra loro, l’apparato mentale deve operare in maniera sotto-determinata rispetto a molti fenomeni che prende in esame.
La dissonanza cognitiva (Festinger), è poi quella tendenza che abbiamo nella mente a rendere a forza coerenti cose che non lo sono poiché ci sono veri e propri meccanismi neurali, frutto del processo evo-adattativo, che ci danno uno stato mentale disagiato quando appunto si formano dissonanze. Non è che sentendo dei fruscii nel profondo della boscaglia potevamo permetterci un sereno dibattito interno sulle cause (coniglio ovvero mangio o tigre dai denti a sciabola ovvero sono mangiato) per decidere il da farsi, dovevamo deliberare presto una reazione coerente con le impressioni ed il principio di sopravvivenza.
Quanto citato all’inizio di Fitzgerald diceva, appunto, non solo la difficoltà a contemplare due cose opposte allo stesso tempo, ma mantenere spazio mentale per continuare a funzionare senza farsi paralizzare dalla dissonanza che chiama con urgenza l’appianamento della contraddizione.
Infine, molti di questi meccanismi così come sono presenti nella nostra singola mente, sono presenti nelle altre menti e quindi nel sistema mentale collettivo. Il “sistema mentale collettivo” come forme e contenuti ovvero l’immagine di mondo condivisa da quel specifico gruppo o come “spirito del tempo” della propria società in una data epoca. A dire che se pure ad uno venisse in mente di forzarne o indebolirne la vigenza, si metterebbe fuori il collettivo pensante con gravi effetti di solitudine mentale, quindi sociale. Ci sono studi precisi in psicologia sociale che dimostrano quanto neuralmente sia dolorosa la solitudine. Non a caso l’ostracismo è stata probabilmente la più antica pena sociale imposta dal gruppo al singolo (mi riferisco al Paleolitico), tanto quanto imitazione e spirito gruppale (spesso gregario) o senso di appartenenza, sono stati selezionati perché adattativi. Adattativi perché spingono a stare in gruppo e nella contesa sociale, come nella sfida adattiva al contesto, si sa che “l’unione fa la forza”.
Si tenga conto che il principio di non contraddizione, non dice cosa compone la diade, dice solo che logico-linguisticamente non possiamo dire la cosa è il suo esatto contrario. Tant’è che si usano lettere simboliche per enunciarlo: A, B, terzo non dato. È l’immagine di mondo, quella individuale in accordo a quella collettiva o sociale a porre al posto di A, B, terzo non dato, i contenuti specifici.
Così, il principio di bivalenza (o è vero o è falso) non specifica cosa è vero e cosa è falso. Anche quando lo anneghiamo dentro ad esempio le logiche fuzzy che danno criteri di verità a scala 100 (da 0 totalmente falso a 1 totalmente vero per cui 0,50 è metà vero e metà falso), è poi l’immagine di mondo a riempire il meccanismo di contenuti e giudizi.
Se mi limito a prender in esame il fatto che nella guerra in Ucraina c’è un aggredito ed un aggressore, che sia logica bivalente o fuzzy, è indiscutibile vero che i russi sono gli aggressori e gli ucraini gli aggrediti. Se però al fatto metto le cause come si fa in ogni processo (altrimenti molto processi neanche andrebbero a giudizio se ci limitassimo al fatto finale, si deve conoscere la “storia” del fatto), allora il principio di bivalenza è troppo stretto con la sua pretesa di verità semplice e in logica fuzzy avrò il mio bel da fare per calcolare tutte le influenze causali che hanno portato all’atto. Non solo avrò il mio bel da fare perché ci sono molte variabili, ma poiché per lo più vige la razionalità limitata, mancanza di tempo e spazio cognitivo e soprattutto spaventosa mancanza di informazioni (geopolitiche, geostoriche, militari) presso le opinioni pubbliche, ma anche perché quelle che si presumono “informate” spingeranno a farla più facile del dovuto. È proprio per non operare mentalmente in tale modo che qualcuno ha letteralmente imposto a coloro che si esprimono pubblicamente di ribadire ogni volta che ci si deve fermare all’evidenza del semplice fatto finale poiché questa riduzione semplificante ha la forza di mobilitare il giudizio emotivo che chiude l’accesso al ragionamento.
Così, volevo solo dar seguito all’utilizzo dell’espressione “contro e con” in alcuni post recenti oltre al fatto che, in talune fasi storiche ad esempio quelle di transizione, si consiglierebbe di non allarmarsi troppo se in alcuni casi ci troviamo d’accordo ora con questo, ora con quello che pure tendiamo a ritenere antitetici. Valutando ad esempio il giudizio politico, assai spesso ci si può trovare abbastanza vicini alla politica estera di X pur essendo del tutto contrari alla sua politica interna o viceversa. Vale anche per i sistemi ideologici, le immagini di mondo, le credenze fondamentali. Si può esser critici sulla scienza o forse più sullo scientismo para-religioso e non per questo diventare antiscientifici di principio o al contrario antifilosofici (finendo così con l’essere filosofici).
L’importante, come diceva un vecchio pensatore, sarebbe avere il coraggio (e la capacità, in genere sotto-coltivata) di servirsi della nostra propria intelligenza, di pensare con la propria testa, di pensare anche a come pensiamo prima di farci sempre travolgere dalla foga di dire la qualsiasi su qualsivoglia. Direi anzi che pensare di esser contro e con, al contempo, rispetto certi pensieri o pensatori, in certe farsi storiche come la nostra, è necessario per dare al pensiero la possibilità di adeguare l’intelletto alle cose, senza negare le cose per difendere l’intelletto, senza paura di avventurarsi in percorsi sperimentali che ci rendono un po’ più soli ed incerti, senza la cocciuta convinzione che il nostro intelletto è il migliore tra quelli possibili, senza accusare di tradimento chi pur condivide una buona parte di idm, ma non tutta.
Le transizioni sono periodi di torsioni cognitive che andrebbero accettate con la dovuta forza e coraggio mentale. Altrimenti la difesa di certi presupposti diventa dogmatica, la sindrome che annuncia la prossima fine della vita di molti pensieri, pensati e pensatori.

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